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Autore: Spartaco    28/06/2016    0 recensioni
Qualcosa si mosse nell’ombra. “Hohoho” rise Jack, una risata abbondante come abbondante era il premio che si aspettava “Come sai che Jack è passato di qua?” aggiunse con la sua voce stridula. River ebbe solo il tempo di aprire la bocca per rispondere, ma venne preceduta da lui stesso: “perché sono tutti morti!”.
Con un gesto accese la sega e, ridendo, irruppe nella stanza successiva.

Un gruppo di ragazzi si butta in un'avventura ai confini del soprannaturale.
Imprigionati in una misteriosa casa dalla quale sembra impossibile uscire, si ritroveranno non solo a dover risolvere il mistero, ma anche a confrontarsi con se stessi e le proprie paure.
Riusciranno a sopravvivere alla notte e a trovare in loro il coraggio di cambiare?
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Episodio 5 – I’ve found something and I don’t know what to do

 

 

 

Erano pietrificati. I singhiozzi di un neonato provenivano chiaramente dalla porta che si era appena socchiusa alla loro destra. Non era il pianto di un bambino affamato o assonnato, ma di un bambino disperato che lottava per respirare tra le lacrime. Non avevano scelta: non avrebbero certo potuto tornare indietro dopo ciò che avevano visto nel corridoio precedente, dovevano per forza passare accanto a quella porta. Evan fece un passo avanti. Aveva solo due anni più di Jack e River, ma sentiva il dovere di essere protettivo nei loro confronti. Era terrorizzato, un turbinio di ricordi affollava la sua mente, ad ogni passo sentiva una voce che, dal passato, lo minacciava. Da un po’ di tempo a quella parte ogni suo passo si era fatto pesante, come si portasse sulle spalle una folla di persone disperate che gli urlava nelle orecchie, ogni singolo spirito che aveva incontrato in 8 lunghi anni di investigazioni. Sentiva la sua vita appesa ad un filo, ma il suo orgoglio gli impediva di ammetterlo. “Sono il pirata del paranormale e nessuno può toccarmi” ripeteva tra sé e sé come un mantra, la voce tremante.

Il corridoio era stretto, stranamente illuminato di una luce soffusa proveniente da lampade a forma di fiore, fissate al muro. Le pareti erano dipinte di una tonalità di marrone chiaro, c’erano quadri alle pareti e mobili di legno scuro ornati con centrini di pizzo: era maltenuta e l’intonaco si stava scrostando, ma quella era l’unica area del palazzo che non sembrasse disabitata. Poco più avanti, sul lato sinistro, si trovavano due finestre dagli infissi bianchi, come due occhi che si affacciavano su un cielo ormai deserto e di un nero quasi denso. Evan pensò che la soluzione migliore sarebbe stata attraversare il corridoio mantenendosi al centro: di certo voleva evitare che qualcosa – o qualcuno – saltasse fuori all’improvviso da dietro il vetro.

Durò una frazione di secondo. Mentre Evan pianificava in silenzio, Jack si stava avvicinando alla porta. Dubbioso ed intenerito aveva iniziato a chiamare piano: “piccolo? ..piccolo?” - “Allontanati da lì” gli intimò Evan, a metà tra un sussurro ed un urlo. Ma Jack si girò tranquillo verso di loro dicendo “C’è qualcosa là dentro, sembra un bagno..”. Gli bastò un altro singolo passo verso la stanza perché una mano putrefatta uscisse dal buio e richiudesse con violenza la porta che si era aperta poco prima. Il ragazzo per lo spavento si gettò all’indietro, urlando e cadendo rovinosamente. A terra, gli occhi sbarrati, si reggeva con il braccio destro mentre il sinistro era alzato a proteggersi il volto. River corse immediatamente da lui e gli si inginocchiò accanto preoccupata. “L’hai vista? L’hai vista??” “Sì Jack.. Stai bene?” rispose River aiutandolo ad alzarsi. Jack non rispose, ma sembrava rincuorato dal fatto che River gli stesse ancora stringendo il braccio. Evan, come al solito, li riportò alla realtà toccando loro le spalle, e fecero gli ultimi metri del corridoio quasi di corsa. Arrivati alla fine, Evan spalancò la porta: davanti a loro, una ripida rampa di scale scendeva nell’oscurità.

 

 

Ken e Kit erano confusi. Mark era lì un attimo prima, ed in una frazione di secondo sembrava sparito nel nulla. Dove poteva essere andato, così senza avvisare? Se fosse stato preso da qualcuno..ma non avevano sentito una parola, non un urlo. Erano fermi in quel corridoio debolmente illuminato, senza sapere cosa fare. Kit si guardò indietro. Non una porta si apriva sulle pareti di quel luogo, non esisteva alcun percorso alternativo che Mark avrebbe potuto prendere. Era un corridoio. Dritto.

 “Non sono un opportunista, sai’’ disse all’improvviso Ken, alle spalle di Kit “Ho avuto fortuna ma non vivo di rendita. Mi impegno ogni giorno a fare il mio lavoro anche se i risultati non sono niente di speciale. Scrivo i miei articoli..brevi e stupidi, per la verità. Ma quando cerco di fare qualcosa di più serio nessuno mi segue più e sono costretto a lasciare le cose a metà. I miei lettori non sono più di un centinaio. I grossi numeri me li hanno portati le collaborazioni...gli articoli con il suo nome insieme al mio. Quello che cercano è lui, non sono io. La gente che mi segue..io non la conosco e loro non conoscono me.” Erano soli, Ken si ergeva in tutta la sua altezza ad un paio di metri di distanza. Si sforzava di guardare Kit negli occhi, ma inevitabilmente il suo sguardo si abbassava, per l’imbarazzo forse. A Kit quella conversazione in quel preciso momento sembrava fuori luogo, ma intuì che Ken aveva bisogno di dire qualcosa, e lo lasciò proseguire. “Mark mi è capitato tra capo e collo. Avevo letto qualche suo lavoro e, cavolo, lui sì che aveva potenziale. La prima volta che lo incontrai e mi fermai a parlargli, con quel suo fare spaesato ci ha messo 10 minuti per realizzare che gli stavo parlando perché sapevo chi fosse. Penso che con la sua estrema semplicità sia quello che vorrei essere io. Per questo certe volte lo evito: io non lo sopporto..”

Ken era scosso, irriconoscibile, e non aveva mai parlato così tanto in vita sua probabilmente. Kit a questo punto si trovò nella condizione di cambiare idea o, per meglio dire, di non sapere più cosa pensare. Ken poteva essere un codardo, poteva aver approfittato della situazione o anche solo esserci rimasto incastrato dentro. “Poveraccio” pensò. Ma non solo non aveva avuto il coraggio di crearsi una sua personalità, ma nemmeno di ammettere i suoi veri sentimenti per Mark. E quello che è peggio è che Mark lo considerava una certezza, un amico, forse il suo unico amico in una città sconosciuta. E tutto questo si basava su fatti taciuti. Kit non poteva passarci sopra. Poteva anche avere una mentalità rigida, ma questo gli permetteva di sapere cosa fosse giusto e cosa sbagliato, e Ken stava sbagliando.

Tante persone guardavano a Mark per ricevere conforto in momenti difficili, e lui trovava sempre il tempo di rispondere alle lettere di tutti, ringraziandoli poi per il loro sostegno. Questo era quello che rendeva Mark così speciale agli occhi di tutti: “Io non sarei niente senza di te” diceva ai suoi lettori. Era dedito al suo lavoro, giorno e notte, e quando si ammalava –il che accadeva piuttosto spesso per la verità, era infatti di salute cagionevole- si scusava pubblicamente, perché sarebbe riuscito a scrivere un solo articolo giornaliero invece dei canonici due. La sua simpatia, la sua intelligenza, illuminavano le giornate di chi gli stava vicino. Possedeva qualcosa che attirava la gente a lui, qualcosa che Ken non possedeva. Ma nessuno dei due aveva alcuna colpa..

“..torniamo indietro. Deve essere qui da qualche parte.” disse Kit con decisione.

 

 

Le scale erano ripide, ogni gradino strettissimo, tanto da costringerli e scenderle in diagonale. River si reggeva alle spalle di Jack, che essendo un gradino più avanti fungeva da solida base per la discesa.

“Dove diavolo siamo??” sentirono esclamare Evan sconsolato, che era arrivato a destinazione qualche secondo prima di loro. Sceso l’ultimo scalino River si guardò intorno: sembrava un seminterrato. Le pareti erano in cemento grezzo, la stanza completamente vuota, fatta eccezione per un angolo della grande stanza, occupata da un cumulo di attrezzi impolverati e, lì accanto, sulla destra, l’ennesima porta. Evan si passò le mani tra i capelli. Non c’era un seminterrato quando erano entrati - chissà quanto tempo prima ormai. Ognuno di loro ricordava chiaramente di avere esplorato in lungo ed in largo il pianterreno, seguendo Wesley mentre cercava un luogo adatto e fissare le sue attrezzature. Non avevano trovato nessuna scala che conducesse ad un piano inferiore. Iniziavano ad essere stanchi, avevano camminato per ore probabilmente, e non avevano chiuso occhio. “Fermiamoci un attimo, devo pensare” disse Evan rassegnato, e si sedette a terra con un tonfo, a gambe incrociate, i gomiti puntati sulle ginocchia. Jack e River lo raggiunsero, appoggiandosi al muro gelido. Jack teneva la bocca serrata, assumendo un’espressione seria, quasi perplessa. I suoi occhi grandi persi nel vuoto, come a cercare di afferrare il filo di quella notte priva di senso. River si sedette accanto a lui, erano così vicini da sfiorarsi. Aveva bisogno di sentire che c’era qualcuno con lei, la loro presenza era la sua salvezza. C’era qualcuno su cui avrebbe potuto contare se fosse stata in difficoltà, qualcuno che non l’avrebbe lasciata indietro. Guardando gli occhi blu del ragazzo pensò a quanto fosse contenta che lui fosse lì. Sapeva che probabilmente affidarsi a Jack non era la migliore delle idee: era impulsivo, sprovveduto, eppure in qualche modo la sua presenza la rassicurava più del povero Evan, che di fatto li aveva portati fino a lì. River non riusciva a comprendere Evan fino in fondo: sembrava ostentare fiducia in se stesso, sembrava sapere cosa fare. Eppure a volte era certa di vedere in lui un sorriso tirato, come se dovesse difendersi da qualcosa, rifiutando di mostrare qualsiasi altra emozione che non fosse la sua forza. C’era qualcosa che Evan non aveva detto, ma qualsiasi cosa fosse per il momento sembrava riuscire a tenerlo sotto controllo.

Non era il momento di fare domande scomode, riportare alla luce i loro dubbi e le loro debolezze avrebbe potuto causare un danno irreparabile. Dovevano mantenere la calma.

 

Il sonno doveva aver preso il sopravvento perché si svegliarono tutti di soprassalto all’udire il fischio del vento notturno. “Che ore sono?” chiese Jack con un sobbalzo, ancora praticamente nel dormiveglia. Possibile che nessuno ci avesse pensato prima di allora? Quante ore di buio rimanevano ancora? Evan avvicinò il viso al suo orologio da polso finché la sua debole vista gli permise di scorgere le lancette. “Le..otto di mattina?” disse infine, a metà tra un’affermazione ed una domanda. Non era possibile. Era primavera inoltrata, come poteva essere ancora buio a quell’ora? Probabilmente qualsiasi cosa abitasse quel luogo aveva messo fuori uso qualsiasi strumento, anche il più semplice. Questa ultima scoperta risvegliò in loro un ulteriore senso di smarrimento profondo. Ci fu un attimo di silenzio, interrotto da un’esclamazione di sorpresa di Jack: si alzò un istante dopo, dirigendosi deciso verso gli oggetti abbandonati accumulati poco lontano.  “Questa me la prendo” disse Jack deciso, caricandosi sulle spalle una motosega. “E a che cosa ti servirebbe” disse Evan, appoggiando la testa al muro. “..non me ne frega un cazzo.” disse Jack dopo qualche secondo di riflessione. Poi si sistemò il cappello, aprì la porta con un calcio ed uscì dalla stanza senza dire parola.

 

I due ripercorsero il corridoio in senso opposto fino all’atrio precedente. Non avevano smesso un attimo di chiamare Mark, sottovoce, quasi non volessero disturbare chi abitava quelle stanze. “Così non funziona, non può funzionare” disse Kit “Questo posto è enorme, non possiamo tornare indietro ad oltranza. Ci metteremo un’eternità a ripassare da ogni sala”. Ken sapeva che Kit aveva ragione, ma non poteva accettarlo. Il senso di colpa lo divorava: dopo tutto quel tempo non aveva mai detto una parola sincera a Mark, che lo considerava un amico, un fratello, che gli voleva bene sinceramente. Mai una volta ciò che aveva pronunciato era stato uguale a ciò che aveva pensato. Non poteva abbandonarlo. Non ora. “Solo questo piano” disse infine Ken. Kit fece un cenno di assenso, e si diressero verso il corridoio precedente. Quando aprirono la porta ciò che si mostrò ai loro occhi fu raccapricciante. Avrebbero dovuto trovarsi ad un piano relativamente basso, certamente non all’ultimo, dato che erano proprio partiti da lì ore prima. Ed invece si trovarono in un sottotetto. O meglio, in una soffitta adibita a studio pittorico. Una fievole luce filtrava dalle finestre, e piccole particelle di polvere galleggiavano nell’aria. Poteva quasi sembrare un luogo pacifico, se non fosse stato per il contenuto della stanza. Le pareti erano ingombre di tele, la maggior parte incorniciate, altre appese semplicemente con delle puntine, storte e lacere. Erano senza alcun dubbio quelle stesse tele di cui Wes giorni prima aveva parlato, e che aveva mostrato loro: i grumi di colore rosso scuro erano in rilievo sulla tela scurita dal tempo, ed il pavimento era appiccicoso. Evidentemente quello sulle tele non era colore. Era indubbiamente sangue, carne, materia. I pezzi del puzzle si stavano lentamente incastrando. La pittrice che sembrava non riuscire ad avere figli, i testimoni che invece raccontarono di aver sentito dei pianti di bambino, ed il marito che all’improvviso impazzì. Il silenzio era assordante. La storia era lì davanti a loro ma nessuno dei due osava collegare le ultime tessere. Non entrarono nemmeno in quella stanza. Richiusero la porta ed indietreggiarono di qualche passo, il respiro pesante, nemmeno in grado di sbattere le palpebre. Quando finalmente furono abbastanza lontani si voltarono. Non osarono nemmeno correre, solo camminare a passo spedito verso il corridoio in cui si erano fermati poco prima ed arrivati nel punto esatto in cui Ken aveva confessato i suoi sentimenti, proseguirono verso il termine del corridoio. “..Mark” era tutto quello che Ken riusciva a pensare “..dove diavolo sei..ho bisogno di te..” ma non dissero una parola finché non aprirono la porta davanti a loro, pronti ad affrontare l’ennesimo passaggio scuro. Ed invece per la prima volta dopo ore non poterono fare a meno di spalancare la bocca per la sorpresa. “….Wes??”

 

 

Jack stava correndo a balzelloni giù per le scale, seguito da River ed Evan, che faticavano a stargli dietro. In lui scorreva una rinata energia, e chissà da dove veniva. “Jack aspetta!” lo chiamò River “dove stai andando?” “Giù!” rispose Jack aspettando finché non poté afferrarle la mano “andiamo!” disse, incrociando lo sguardo di Evan per un secondo. Lì Evan capì: Jack doveva aver intuito, in qualche modo, che stava perdendo le forze, e lo stava aiutando a prendersi una pausa. Sapeva che Evan si sentiva responsabile delle loro vite, e che allo stesso tempo c’era qualcosa che gli pesava enormemente. Gli stava dando tempo per occuparsi di quel qualcosa prendendo in mano la situazione. Quello che Jack non poteva sapere era che quell’ombra oscura che Evan si portava dietro non era nient’altro che le minacce ricevute nelle sue passate escursioni, il ricordo del suo cuore che smetteva di battere per qualche interminabile secondo, e che si faceva ad ogni passo, ad ogni rumore sempre più presente e terrificante. Scesero un’altra rampa di scale, pronti a proseguire il loro cammino nei meandri di quella casa, quando guardando al centro della stanza scorsero ciò che non speravano più di vedere: i computer di Wes.

 

 

Wes si alzò da terra e corse verso Evan, stringendolo a sé. “Hey amico” disse lui dandogli delle pacche sulla schiena ed a stento trattenendo le lacrime. Pensò che forse se la sarebbe cavata anche quella volta. River si diresse velocemente verso Kit, che si trovava in piedi accanto ai monitor, e si scambiarono un abbraccio caloroso, mentre Ken non riusciva a stare fermo e chiedeva con insistenza a tutti “avete visto Mark? Qualcuno ha visto Mark??!”, ma nessuno aveva avuto sue notizie.

Wes ascoltò attentamente i racconti dei due gruppi mentre, seduto a terra, medicava il braccio ferito di Evan. La storia iniziava a prendere corpo: la donna doveva aver avuto dei figli, come testimoniavano i pianti sentiti dai vicini - e, a questo punto, come sapeva bene anche Jack - ma doveva essere impazzita ed averli uccisi. Questa scoperta aveva condotto anche il marito alla pazzia, ma di cosa ne fosse stato della donna nessuno lo immaginava. I monitor di Wesley non trasmettevano nessuna immagine, ma lo schermo scuro era retroilluminato. Wes era riuscito a far funzionare anche il piccolo riflettore che aveva portato con sé e, sistemato poco lontano e puntato a dovere, la stanza era relativamente ben illuminata. Nessuno di loro sapeva che ora fosse, e niente sembrava quadrare: Kit e Ken ricordavano chiaramente come la luce entrasse dalle finestre della soffitta, mentre Evan, Jack e River non vedevano la luce del sole da quando erano entrati in quell’edificio per la prima volta. Ken e Kit avevano forse visto il ricordo di qualcuno che abitava in quella casa? L’orologio di Evan, l’unico disponibile, segnava ora le 13, ma fuori il cielo era buio come a notte fonda.

Tutti sapevano che la porta, la salvezza, si trovava al piano inferiore. Così vicina eppure.. quanto tempo ci avrebbero impiegato per arrivarci? L’edificio sembrava cambiare a suo piacimento, guidarli verso ciò che voleva vedessero. “Abbiamo vagato per ore..non siamo arrivati qui insieme per caso” realizzò River seguendo quel pensiero “ci hanno permesso di arrivare qui insieme. Vogliono qualcosa”. “E allora insieme andremo a cercare Mark” disse Wesley deciso, dispiegando sul pavimento la mappa dell’edificio che portava nella tasca dei pantaloni “ho bisogni di tutti, cerchiamo di trovare un pattern”

 

“è inutile, Wes.” disse Evan da un angolo dell’atrio “ogni volta che viene aperta, ogni porta dà su una stanza diversa”.

-EPISODIO 5-

FINE

 

 

 

------------------------Angolino!

E così eccoci al 'capitolo' 5!
Nei lontani giorni in cui ebbi modo di leggere questa fanfic ad un certo punto ci fu una specie di pausa tra due capitoli,
dovuta a varie problematiche personali, e non ricordo se si trattava del 4/5 o del 5/6, sembra come esserci una sorta
di raffreddamento, di cambiamento nel tono di scrittura ma può darsi che fosse solo una mia impressione.
Ad ogni modo, spero che qualcuno faccia davvero lo sforzo di scrivere qualcosa e ci dia un giudizio..! Vi fa davvero così schifo? .-.
O la considerate noiosa? Boh, ditelo!
Non sto 'pregando' per delle recensioni, solo che, non so, credo di aver scritto cose molto peggiori e di aver comunque ricevuto un parere!
Va beh, liberi..!
Alla prossima

 

 

 

  
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