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Autore: Sandra Prensky    29/06/2016    2 recensioni
ATTENZIONE: Non è una traduzione del libro "Black Widow: Forever Red". Avendolo letto, mi sembrava che ci fosse troppo poca attenzione su Natasha, e allora ho deciso di riscriverlo con tutta un'altra trama.
Natalia Alianovna Romanova, Natasha Romanoff, Vedova Nera. Molti sono i nomi con cui è conosciuta, molte sono le storie che girano su di lei. La verità, però, è una questione di circostanze. Solo Natasha sa cosa sia successo veramente nel suo passato ed è ciò da cui sta cercando di scappare da anni. Quando sembra finalmente essersi lasciata alle spalle tutto, ecco che scopre che la Stanza Rossa, il luogo dove l'hanno trasformata in una vera e propria macchina da guerra, esiste ancora. Solo lei, l'unica Vedova Nera traditrice rimasta in vita, può impedire che gli abomini che ha visto da bambina accadano di nuovo. Per farlo, però, dovrà immergersi nuovamente nel passato che ha tanto faticato a tenere a fondo, e sarà ancora più doloroso di una volta: tutta la vita che si è costruita allo SHIELD, tutte le persone a cui tiene sono bersagli. Natasha si ritroverà di nuovo a dover salvare il mondo, affrontando vecchi e nuovi nemici e soprattutto se stessa.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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VIII.

 

And the most terrifying question of all

may be just how much horror

the human mind can stand

and still maintain a wakeful,

staring, unrelenting sanity.

(Stephen King)

 

Russia, 1939

 

Natalia si svegliò di scatto mettendosi a sedere sul letto, lanciando un gemito dovuto allo strattone che aveva dato alle manette che ancora la obbligavano a indossare e che la tenevano legata alla testiera del letto. Cercò di regolarizzare il respiro mentre si massaggiava il polso dolorante. Aveva la fronte imperlata di sudore e i brividi le scendevano su tutta la schiena. Erano ormai diverse settimane che era tormentata dagli incubi, ma non come quelli che non l’avevano lasciata dormire nei quasi quattro anni dopo aver ucciso le sue compagne. No, questi erano diversi... Compariva sempre una donna dai capelli rossi, che ormai Natalia era quasi convinta essere sua madre. Ogni notte la vedeva sempre più nitidamente, per tanto aspettava quasi con ansia le notti, attendeva con ansia l’arrivo degli incubi. La vedeva ogni notte in una stanza piena di libri, vestita di bianco, che si girava verso di lei e le sorrideva, un sorriso bellissimo, e ogni notte Natalia provava ad avvicinarsi per vederla più da vicino, per abbracciarla, ma appena arrivava a pochi passi da lei il vestito bianco si colorava di macchie rosse, il sorriso si contorceva in una smorfia di dolore e la bambina si sentiva portare via da un’ombra, mentre l’urlo di sua madre si diffondeva tutto intorno. Solo a quel punto si svegliava, le guance rigate dalle lacrime. Consapevole che non sarebbe più riuscita a dormire, si lasciò cadere sul duro materasso. Era arrivata così vicina quella notte, era quasi riuscita a vederla bene. Si girò nel letto, solo per trovarsi faccia a faccia con la sua vicina di branda, la ragazza bionda che era riuscita a sconfiggerla e che solo qualche mese dopo l’incontro aveva scoperto chiamarsi Oksana. La stava fissando con il solito sorriso falso e all’apparenza innocente, da brava ragazza, ma in realtà canzonatorio. Assunse una finta aria dispiaciuta.

-Di nuovo gli incubi, piccola Natashen’ka?

Natalia alzò gli occhi al cielo.

-Niente di peggio che vedere la tua faccia come prima cosa al mattino. E il mio nome è Natalia.

La bionda ridacchiò, per niente turbata.

-Povera Natashen’ka, ti manca la mamma?

Natalia si irrigidì. Come faceva a saperlo? Aveva forse urlato nel sonno? Decise di batterla sul suo stesso campo.

-Più o meno quanto a te manca il tuo papochka.-Vide il sorriso dell’altra tentennare e contrarsi. -Se vuoi giocare a questo gioco con me, sii almeno sicura di non piangere tutta la notte sui tuoi incubi e soprattutto non assumere che gli altri siano troppo stupidi per accorgersene, Oksanochka.- Pronunciò il nomignolo con voce più marcata, segnando così la propria vittoria. L’altra le rivolse un sorriso mellifluo, ma non disse più niente e si coricò nuovamente nella sua branda, girandosi dall’altra parte. Approssimando un sorrisetto per la vittoria, rimase a fissare il soffitto, pensando a cosa l’aspettava quella giornata. Non sapeva che giorno fosse, non era loro compito conoscere data e ora, ma si regolava secondo gli impegni. Quel giorno c’era l’allenamento, ma purtroppo non quello singolo. Sbuffò al pensiero di dover di nuovo passare del tempo con Oksana. Detestava ammetterlo, ma era l’unica con cui non avesse vittoria facile. Negli ultimi anni, era molto migliorata nel combattimento ed era ormai capace di battere tutte le ragazze ancora in vita, anche le più grandi, sfruttando la loro forza e la loro statura contro di loro. Aveva battuto anche le nuove, arrivate negli ultimi anni. Ormai erano in ventotto, e lei riusciva a sopraffarle tutte. Tutte, tranne Oksana. Lei era diversa, in qualche modo riusciva a prevedere le sue mosse. Natalia non l’avrebbe confessato ad alta voce nemmeno sotto tortura, ma i combattimenti con la bionda erano quelli che preferiva. Le dava del filo da torcere, e spesso aveva la meglio su di lei. Doveva davvero impegnarsi per batterla ed era stimolante. Sarebbe stato quasi divertente, se Oksana avesse messo a tacere quella voce svenevole con cui la canzonava. Anche se Natalia sapeva che faceva parte della tattica dell’avversaria per far perdere la calma allo sfidante, non riusciva proprio a sopportarlo. Non invidiava i suoi futuri target. Per tenere la mente impegnata in attesa dell’ora di svegliarsi, iniziò a ripetere mentalmente le battute di quel film in inglese che le facevano vedere per farle imparare la lingua, Biancaneve. Odiava quelle lezioni, usciva sempre dalla sala con una sensazione di malessere, eppure i superiori dicevano che era importante che lo guardassero fino a quando avessero imparato per bene il significato. Solo diversi anni dopo scoprì che ciò a cui si riferivano veramente erano le parole nascoste nei fotogrammi, il cui unico scopo era intaccare il loro cervello e impedire a loro di ribellarsi contro la Stanza Rossa.

Aveva ripetuto quasi tutte le battute del film quando finalmente aprirono la porta. Aspettò pazientemente che venissero a slegarla dal letto. Quando uscì dalla stanza però, avvertì qualcosa di strano. Si udiva un vociferare insolito proveniente da diverse porte. Natalia si girò verso Oksana, per controllare che non fosse solo una sua impressione, e dall’espressione della bionda capì che stava davvero succedendo qualcosa. Con il pretesto di aver lasciato cadere una forcina per capelli, rimase qualche passo più indietro nel tentativo di afferrare i discorsi di coloro che probabilmente erano i “pezzi grossi” della Stanza. Tutto quello che riuscì a capire, tuttavia, furono un paio di parole che assomigliavano in modo inquietante a “Guerra” e “Affrettare la fase due”. Si rialzò e si affrettò per raggiungere le altre in mensa. Terminata colazione, mentre si dirigevano verso la palestra, li raggiunse Ivan e li bloccò. Parlò un secondo sottovoce con la guardia che le stava scortando. Quest’ultimo annuì e se ne andò, Ivan invece fece cenno alle ragazze di seguirlo. Natalia era confusa e cercava continuamente di incrociare lo sguardo dell’uomo per chiedergli spiegazioni. Lui, tuttavia, sembrava evitare apposta gli occhi smeraldo della ragazzina. A quei tempi Natalia era perfettamente a conoscenza del rimorso, grazie ai fantasmi di quelle quattro ragazzine che si portava appresso, ma non aveva ancora imparato a leggerlo negli altri, altrimenti l’avrebbe riconosciuto in pochissimi secondi su Ivan. Scesero le scale e arrivarono in uno stanzino a lei fin troppo familiare: era quello in cui era rimasta ad aspettare il suo primo giorno alla Stanza Rossa, quello in cui era rimasta, impotente e spaventata, a guardare i medici prendere una ad una tutte le ragazze. Erano passati cinque anni, ma il ricordo era ancora vivido nella testa della ragazzina. E, a giudicare dagli sguardi delle sue compagne, lo era anche nelle loro.

-Perché siamo qui?- Chiese Oksana, tentando con fatica di nascondere la paura.

Ivan si girò verso di lei e sospirò. Aveva la faccia di una persona che non dormiva da diversi giorni. Era più pallido di come Natalia l’avesse visto all’ultimo allenamento, due settimane prima, e aveva delle borse gigantesche sotto gli occhi. Persino i suoi capelli, di solito lucenti e ben curati, erano sciatti e disordinati. Si passò una mano sul retro del collo, come a massaggiarselo.

-Voi non potete saperlo, ma una guerra sta per scoppiare in Europa, e la Russia e tutta l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche non si tireranno indietro. I miei superiori hanno deciso di accelerare il progetto Vedova Nera. Le più grandi di voi verranno messe in azione come agenti operativi molto presto, ma anche le più piccole passeranno al livello successivo dell’allenamento. Vi trovate in questa stanza ora, però, perché abbiamo riscontrato delle anomalie in voi. Non temete, siamo qui per sistemarle. -Aggiunse, appena notò che le ragazze si stavano già mettendo sulla difensiva. -Sarà veloce, nemmeno ve ne accorgerete.

-E se ci rifiutassimo?- Ribatté Oksana con aria di sfida. Nessuna di loro credeva all’ultima frase, conoscevano la Stanza Rossa troppo bene ormai. Niente era veloce e indolore.

Ivan si avvicinò a lei, un’aria minacciosa che non gli apparteneva e pertanto spaventò persino una ragazza spavalda come la bionda.

-Non è una richiesta.- Ringhiò l’uomo. La ragazzina, impallidita, non osò aggiungere altro. Ivan sembrò ricomporsi e riprese il solito aspetto autorevole ma mite.

-Beh, grazie per esserti offerta volontaria per andare prima.- Prese Oksana di forza e la trascinò fuori dalla stanza, mentre lei si dimenava, spaventata. Le altre ragazze fecero per affacciarsi, ma una guardia fece capolino e le spinse nuovamente all’interno. Natalia si raggomitolò in un angolo, improvvisamente catapultata indietro nel tempo alla prima notte passata lì. Aveva di nuovo paura, un’altra volta non sapeva cosa l’attendesse. Osservò le sue compagne trascinate una per una al di là della porta, verso l’ignoto. Proprio come cinque anni prima, si ritrovò a essere l’ultima. Sentiva ogni secondo scivolarle addosso con una lunghezza esasperante, prolungando la sua attesa e rendendola insopportabile. Quando vide la porta aprirsi, un brivido le scese lungo la schiena. Era spaventata, molto più di quanto desse a vedere. Ivan entrò, sempre evitando il suo sguardo, e la prese per il polso, senza fare troppa attenzione alla delicatezza. Natalia sapeva che divincolarsi era inutile, per cui lo seguì senza storie. D’altronde Ivan aveva promesso che non le avrebbe mai fatto del male, di lui poteva fidarsi. Di nessun altro lì dentro, ma di lui sì. La spinse senza troppi complimenti dentro una stanza dai vetri oscurati. Lei si girò a guardarlo, spaventata, in cerca di rassicurazione. Lui finalmente incrociò il suo sguardo e con l’espressione più stravolta che mai mimò con le labbra: “Mi dispiace.”. Natalia fece per chiedergli spiegazioni, ma la porta della stanza si chiuse di scatto e lei si sentì sollevare da ben tre paia di braccia. La stanza era buia e per quanto si sforzasse non riusciva a vedere i suoi assalitori. Provò a scalciare e a liberarsi, ma non colpì niente che non fosse l’aria e servì solo a far aumentare la presa di coloro che la stavano reggendo. Provò per una volta a urlare, sperando che Ivan la sentisse, ma tutto ciò che ottenne fu un pugno nello stomaco, che le mozzò il fiato in gola. Si sentì adagiare a forza su una sedia e vide tre uomini in camice affaccendarsi intorno a lei per legarle braccia e gambe con delle cinghie strette. Lei continuava a dimenarsi, ma non serviva a niente. Sentì la voce di un uomo chiedere:

-Quanto ricorda?

-A giudicare da quando dorme ricorda la madre, e sta diventando sempre più nitida.- Udì un’altra voce rispondergli

-Doppia dose.

Una figura scura si avvicinò a lei e le infilò un panno in bocca, in modo da farla tacere. Dopo qualche secondo, avvertì l’ago appuntito di una siringa infilarsi nel suo collo e non riuscì a trattenere un gemito di dolore. Sentiva gli angoli degli occhi iniziare a pizzicarle, le prime lacrime scendere roventi sulle sue guance. Aveva paura, le doleva dove le avevano tirato un pugno e dove le avevano iniettato qualche liquido. Sentiva il suono dei propri singhiozzi ovattato dal panno, lo avvertiva rimbombarle nel petto. Iniziò a sentirsi debole e d’un tratto le sembrò che il proprio corpo non le appartenesse più. Non rispondeva ai suoi comandi ed era diventato pesante, inutile. Natalia, fai bene a non fidarti di nessuno qua dentro. Ma puoi fidarti di me, non sono come loro. Non ti farò del male. Ripensò alle parole che Ivan le aveva detto quella sera di quasi quattro anni prima, e solo allora si rese conto appieno di quanto fosse falsa. Aveva creduto a quella bugia, nel suo disperato bisogno di certezze in quel posto, quando in realtà era stato Ivan a provocarle tutto quel dolore. Lui l’aveva ammessa al progetto Vedova Nera, lui le aveva fatto uccidere le sue compagne, lui le stava facendo questo. Aveva avuto anche il coraggio di dirle di fidarsi di lei mentre faceva fare agli altri il lavoro sporco al suo posto, lasciava che gli altri si macchiassero le mani mentre a capo di tutto c’era solo lui. E lei, come una scema, era cascata in pieno nella sua trappola. Sentì altre lacrime scivolare calde sul suo viso, questa volta di rabbia. Si odiò per essere stata così stupida, si odiò per aver creduto a un uomo che mentiva di professione, si odiò per aver avuto speranza in un luogo dove la speranza era la prima cosa che veniva loro sottratta. Sentì il vociare delle persone intorno a lei, ma non riusciva a capire cosa dicessero. Aveva tutti i sensi ottenebrati, le sembrava di essere in una bolla. Senza preavviso, uno schermo si accese nell’oscurità, proprio davanti a lei. Serrò le palpebre per un attimo, disturbata dalla luce, ma appena compié tale gesto arrivarono due uomini a fissarle un oggetto sulla testa. Sentì degli elettrodi venire collegati al suo capo e una parte di macchinario fissarsi sui suoi occhi in modo da tenerle le palpebre ben spalancate. Sullo schermo apparve un video. C’era una ballerina, che volteggiava leggiadra su un pavimento di legno. Un uomo, dietro allo schermo, iniziò a ripetere come una cantilena diverse frasi che lei non riusciva a cogliere, ma che sentiva comunque registrarsi in qualche modo nel proprio cervello. Il video continuò, si aggiunsero altre ballerine e un istruttore. Questo continuava a impartire ordini e dare consigli, contava i passi. Dopo qualche secondo Natalia si guardò intorno. Era libera dai macchinari e dalle cinghie. Indossava un tutù rosa, ed era nella stanza che fino a pochi attimi prima stava guardando sullo schermo. La osservò, non capendo cosa stesse succedendo. Udì l’istruttore richiamarla e ordinarle di andare alla sbarra. Lei eseguì senza fiatare, mettendosi in mezzo ad altre due ballerine. Alzò lo sguardo sullo specchio innanzi a sé e il suo cuore perse un battito. Il riflesso che stava guardando non era il suo. O meglio, lo era, ma appariva chiaramente più piccola, di almeno tre o quattro anni. Chiuse gli occhi e provò a pensare a qualcosa di recente, come il sogno che aveva fatto la notte prima. Si stupì nell’accorgersi che non riusciva più a ricordare niente, non su cosa e su chi fosse. Eppure sapeva perfettamente che solo quella mattina se lo ricordava benissimo, appena sveglia. Inorridì, capendo finalmente cosa stesse succedendo. Le stavano cambiando la memoria. Cercò di attaccarsi a tutto quello che poteva ricordare, dalla colazione di quella mattina ai vestiti che aveva indosso qualche minuto prima. Sentiva la sua testa sul punto di esplodere in un turbinare di ricordi e di frasi sconnesse. L’istruttore di danza la richiamò di nuovo e la fece andare a ballare in centro alla pista. Il suo corpo si mosse da solo e iniziò a piroettare. Il mondo intorno a lei girava, l’unica cosa che riusciva a scorgere era il proprio riflesso ogni volta che si girava verso lo specchio. Le ci volle appena un giro per accorgersi che stava crescendo di circa un anno nell’aspetto a ogni piroetta, stava ritornando pian piano alla propria età. Non capiva più niente, non riusciva a mettere a fuoco ciò che le stava accadendo. Le sembrava di essere in un incubo, le sembrava di essere sul punto di annegare senza però morire. Era bloccata in quell’apice di agonia, ma l’oblio non arrivava in suo soccorso. Decise di provare a pensare a delle cose facili, qualsiasi cosa.

 

Mi chiamo Natalia Romanova.

 

Almeno quello se lo ricordava. Provò a continuare.

 

Mi chiamo Natalia,

 

Sono una delle ventotto giovani ballerine al Bolshoi. Gli allenamenti sono duri, ma la gloria della cultura sovietica e il calore dei miei genitori compensa... compensa il... il...

 

No, questo è sbagliato.

 

Mi chiamo Natalia.

Sono una delle ventotto giovani Vedove Nere alla Stanza Rossa. Gli allenamenti sono duri, ma la gloria della supremazia sovietica e il ricordo del motivo della morte dei miei genitori compensa... compensa il... il...

 

Non so più distinguere cosa sia vero e cosa no.

 

 

   
 
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