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Autore: Emmastory    01/07/2016    2 recensioni
In vita tutti fanno qualcosa di cui si pentono in seguito, giusto? Non Raven. Sin dalla nascita, crede di vivere in una sorta di buia crisalide. I suoi genitori non sono più su questa vasta Terra, e alla scoperta della morte della madre, non reagisce, sviluppando una natura calma e tendente all'apatia. Ad ogni modo, una semplice passione, ovvero quella per l'occulto e la stregoneria, la renderà diversa. Praticandola inizialmente per tentare di comunicare con la madre ormai morta, non commette altro che uno stupido errore, e da quel momento in poi, la sua intera vita cambia per sempre. Così, fra sinistre apparizioni, lumi di candela, libri polverosi e rituali dimenticati, scoprirà, anche se lentamente, il significato di ognuno dei battiti del suo puro cuore.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Senza-cuore-n-anima-mod
 


Senza cuore né anima

Capitolo I

Crisalide

Tutti facciamo qualcosa di cui ci pentiamo, giusto? Non io. Tutto è iniziato nel giorno della mia nascita. Il mio ingresso nel mondo, la comunicazione della mia presenza, ma anche una sorta di presagio. Non ho mai conosciuto i miei veri genitori, e ad essere sincera, ho avuto ben tre case, in tutto diverse. Prima la strada e le vie della pericolosa giungla urbana, poi l’orfanotrofio, e infine l’umile dimora di una giovane coppia. Mi hanno adottato e preso con loro all’età di quindici anni, e non avevano figli oltre a me, eccezione fatta per la dolce e spensierata Chloe, una bimba bionda dagli occhi color nocciola, di sette anni più piccola di me. Il loro piccolo miracolo, o almeno così la definivano. Ogni giorno li sentivo parlare fra loro o con i vicini, ascoltandoli vantare l’esistenza di quella dolce creatura e mettendola in mostra come un aureo trofeo vinto in una qualunque gara o competizione sportiva. Patetico, assolutamente patetico. Come poteva una semplice bambina rendere così felice una coppia di genitori qualsiasi, essere la causa del loro incondizionato amore e della loro gioia? Non lo sapevo, e né mi importava saperlo. Penserete che sia orribile da parte mia affermarlo, e forse vi chiederete cosa ho fatto di tanto orrendo o sbagliato, bene, ve lo dirò subito. Era una giornata come tante altre, con il sole che splendeva illuminando il cielo prima che la luna prendesse prepotentemente il suo posto, e stavo andando a scuola. Chloe mi seguiva portando in spalla il suo zainetto, e non faceva altro che pormi domande, ma io non rispondevo. Di punto in bianco, una ragazza con indosso una divisa scolastica azzurra e una corta gonna di un colore leggermente più scuro iniziò a seguirci senza proferire parola, e notando la debolezza e l’ingenuità della povera Chloe, si avvicinò di soppiatto, rubandole lo zaino e rovesciandone in strada il contenuto. In quel momento, un quaderno dalla copertina rosa scivolò fuori, e alla vista di quell’oggetto, la bimba iniziò a strillare. “È mio!” gridava. “Ridammelo!” diceva,  pestando i piedi in terra e non accorgendosi di aver ormai iniziato a piangere. Le lacrime che versava furono poi la causa di un repentino cambiamento nel suo tono di voce, che divenne più acuto e fastidioso del solito. Ferma e inerme, aspettavo di vedere come la situazione avesse continuato ad evolvere, e di fronte al pianto di quella bambina, e all’insolenza della ragazza, non resistetti, e afferrandole un braccio, lo strinsi con quanta forza avessi. “Restituiscile il quaderno.” Dissi, in tono serio e perentorio. “Perché? Cosa credi di farmi?” chiese quell’insulsa indisponente, sfidandomi con la voce e liberandosi con uno strattone dalla mia presa. “Ho detto ridaglielo.” Continuai, guardandola fissamente negli occhi. I miei, neri e iniettati di sangue, la spaventarono fino a farla impallidire, tanto che obbedendomi, fuggì via come una bestiola impaurita. Quella sorta di lite ci aveva rallentate, ed entrambe eravamo ormai in ritardo. Per pura fortuna, le nostre rispettive scuole erano vicine, e dopo aver accompagnato Chloe in classe, ed essermi sorbita le stucchevoli parole di una delle sue insegnanti, sempre pronta a ringraziarmi per tale e insignificante gesto, andai subito a scuola. Ero in ritardo, ma la cosa non mi toccava. Ciò che importava era arrivarci e fingere che le lezioni mi interessassero. Una tattica che avevo brevettato e affinato, e che mi era valsa una condotta a dir poco impeccabile. Ciò che feci allora non fu nulla di deprecabile o eclatante, ma come nessuno all’infuori di me sapeva, la radice del mio comportamento era un’altra. Ero per qualche arcana ragione nata senza la capacità di provare emozioni, e da quel giorno, la rabbia, assieme ad altri sentimenti negativi come odio e indolenza, parve lentamente impossessarsi di me. Anche se lentamente, sapevo di stare cambiando, e sorridendo con fare malizioso, lontano da occhi indiscreti, lasciavo che accadesse, poiché sin dalla nascita, sapevo di chiamarmi Raven, e di vivere in una buia crisalide.
 
 
 
Capitolo II

La vera me

Una semplice settimana era appena passata, e desiderosa di risposte a domande che da anni mi dilaniavano l’anima, ne parlavo con quella che ora sapevo essere mia madre. “Chi erano i miei veri genitori?” avevo chiesto, guardando negli occhi la donna che mi aveva da poco accolto nella sua vita. Non avrei mai creduto di volerlo sapere, eppure era così. Dovevo, in un modo o nell’altro, conoscere e scoprire la loro vera identità. La mia domanda aveva inizialmente spiazzato quella povera donna, che con il viso in una maschera di dolore, balbettava. “Raven, io non… non so come dirtelo, ma tua madre… è volata in cielo, purtroppo.” Quella fu la sua risposta, che ascoltai senza proferire parola. Volata in cielo. Uno degli innumerevoli modi esistenti al mondo per dire che era morta, e che il suo corpo non si trovava più fra noi vivi. Non aveva parlato di mio padre, ma concedendomi del tempo per riflettere, potei disegnare, con la memoria e la mente, quella che un poliziotto definirebbe un identikit. Un uomo debole, stolto e completamente privo di spina dorsale. Incapace di mostrare affetto per la figlia a causa delle sue stesse paure, e per giunta incredibilmente arrendevole. Aveva sposato la forte donna che era mia madre, e sin da quel fatidico giorno, era caduto sotto il suo influsso. I sentimenti che provava per lei erano forti, e qualsiasi tentativo di ribellione ai suoi ordini veniva prontamente vanificato dai battiti del suo stesso cuore. Ad ogni modo, quello che ora scorreva non era che un giorno apparentemente normale nella vita dei miei nuovi genitori e della mia giovane sorellastra, ma non nella mia. Quei poveri individui non potevano saperlo, e quasi mi dispiaceva, ma quel giorno, nella mia mente, qualcosa era cambiato, scattando come una molla. Non avevo provato emozioni dopo quella notizia, ma una sorta di rabbia interna aveva cominciato a farmi ribollire il sangue. Non poteva essere morta, non davvero, e con il calare delle tenebre, l’avrei provato. Nella casa c’era una stanza in cui nessuno era mai entrato, e che io usavo come angolo di quiete e paradiso per leggere o trascorrere il mio tempo in solitudine. In breve, quella stanza era presto diventata mia, e conoscendo la mia natura tranquilla, nessuno veniva mai a disturbarmi. Ad ogni modo, capitava che Chloe, la piccola di casa, trasgredisse questa sorta di regola. “Cosa leggi?” chiedeva infinite volte, avvicinandosi e cercando di rubare con gli occhi qualche parola dai miei libri. “Non capiresti.” Rispondevo ogni volta, chiudendo quei pesanti tomi prima che le sue inesperte mani ne rovinassero le già vecchie e ingiallite pagine. Stringendosi nelle spalle, la bambina preferiva poi lasciarmi da sola, chiudendo la porta di quella camera e ritirandosi nella propria a giocare e divertirsi. Lentamente, la sera era ormai calata, e accendendo alcune candele, mi sedetti in terra a gambe incrociate. Ad un occhio poco attento, la mia sarebbe potuta sembrare meditazione, ma così non era. Sin da bambina, infatti, per qualche strana e ignota ragione, avevo sviluppato una quasi malsana ossessione per l’occulto, la stregoneria e tutto ciò che concerneva le arti magiche. Non recitavo formule né agitavo bacchette, certo, ma ne ero comunque affascinata. I libri che leggevo non trattavano che di tale argomento, e per pura sfortuna, nessuno, neppure la mia vera madre, riusciva a capirmi. Così, in quello stato di pace e distensione mentale. Riflettevo. Improvvisamente, un pensiero mi distrasse, rompendo il silenzio presente nelle mie giovani membra. Un ricordo, o meglio, una riflessione. Forse era questa la ragione della mia natura, e forse sempre quello il motivo per cui mi sentivo internamente vuota ma felice. I miei genitori mi avevano abbandonata. I ricordi riaffioravano lentamente facendosi spazio nella mia testa, e ora tutto aveva un senso. La loro era paura. Paura di una figlia come me, terrore per la ragazza che ora sono, e insicurezza su chi sarei potuta essere. Erano spaventati, tremanti come conigli di fronte alla bambina che quindici anni prima avevano dato alla luce, raccogliendo dall’albero della vita il frutto dell’amore che li univa. Finalmente, tutto mi appariva chiaro. Coloro che mi avevano offerto il dono e il privilegio di esistere non erano più su questa vasta Terra, ma io ero calma, felice e compiaciuta dall’essere la persona che ero. La vera Raven, la vera me.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo III

Repliche del passato

Il buio. Mi avvolgeva proteggendomi e rispettandomi, ed io ero ancora concentrata, se non completamente immersa nel rituale al quale avevo dato inizio con lo spuntare in cielo della luna e delle compagne stelle, ma d’improvviso, un rumore spezzò il silenzio, e un urlo che mi perforò i timpani, disturbando il mio udito. Quasi per istinto, mi voltai, e alla vista della mia matrigna, sobbalzai. Sfuggendo dai suoi sguardi, mi rifugiai nel buio. “Vattene!” ringhiai, con la voce corrotta dalla rabbia. “Sarai tu a venire con me.” Rispose a muso duro, afferrandomi un polso e trascinandomi con forza fuori dall’oscurità. Nello spazio di un momento, la porta della stanza si aprì di nuovo, ed io non vidi che la luce del sole filtrare attraverso le finestre dell’intera casa. Per nulla decisa ad arrendermi, urlavo con quanto fiato avessi in gola dimenandomi come una grossa e feroce bestia, ma invano. Trascinata in cucina, venni fatta sedere su una sedia, e appena un attimo più tardi, sentii un liquido denso attraversarmi il corpo e le vene. La mia matrigna stringeva in mano una siringa, e guardandomi con aria e occhio stanchi, sospirò, sollevata. “Ti odio.” Quella l’unica frase che avrei voluto formulare, ma che come tante altre mi morì in gola a causa del mio svenimento. Ero lì, svenuta e priva di conoscenza su una sedia, messa a tacere come un pericoloso paziente nel reparto di psichiatria in un ospedale. Ne ero sicura, e sapevo che era già successo. Allora non ero che una bambina, e dopo avermi sentito urlare in strada senza apparente motivo, e aver fallito nel tentativo di calmarmi rimediando escoriazioni e ferite, alcuni passanti avevano chiamato il pronto intervento, poi un’ambulanza. “Portatela via. È pericolosa.” Li avevo sentiti dire, poco prima di cadere preda di un profondo sonno e risvegliarmi in un letto d’ospedale. Lenzuola bianche, pareti spoglie, silenzio. Uno schema ricorrente nella monotonia della mia vita. Almeno fino al giorno della mia adozione. In orfanotrofio nessuno si era mai preso cura di me, ma la cosa non mi toccava. In fondo ero un’adolescente, e sapevo badare a me stessa senza alcun problema. Inesorabile, il tempo continuava a passare, e malgrado avessi sperato nell’accoglienza in una famiglia diversa da quella in cui sono nata, e che mi ha resa la ragazza che sono, ogni evento si ripete, e i giorni che ora vivo non sono che repliche del mio stesso passato.
   
 
 
 
 
Capitolo IV

Irriconoscenti

Per pura fortuna, oggi sono tornata a casa. La mia nuova famiglia continua a ignorarmi, e non potrei chiedere di meglio. La voglia e il desiderio di solitudine mi caratterizzano sin da bambina, e silenziosamente, siedo sul mio letto. Trovando scomoda quella posizione, decido di sdraiarmi. Due auricolari ben piantati nelle orecchie, e della buona musica mi confonde pensieri e idee. Seppur con estrema lentezza, i suoni giungono alle mie orecchie con sempre maggior fatica, ed io mi addormento. Nei miei sogni non vedo assolutamente nulla, poiché tutto è nero. Le ore diurne scorrono poi veloci, e risvegliandomi, scelgo di passare la serata a guardare prima le lucenti stelle, poi la distratta gente. Cammina veloce e senza salutarsi, troppo impegnata nei propri affari, sempre prettamente personali. Nei miei sogni non c’è colore, ma neanche nelle loro vite. Rimugino calma su questi pensieri, e qualcuno bussa alla mia porta. “È Chloe, che stringendo in mano un piccolo tubo di plastica, me lo porge con delicatezza. “Mamma dice che devi prendere queste.” Soffia, con voce dolce e quasi angelica.” “Grazie.” Biascico io, per poi guardarla allontanarsi e raggiungere il corridoio. Quello che mi ha appena consegnato, è il flacone delle mie medicine. Sin dal giorno della mia disavventura in ospedale, i medici me le hanno prescritte. “Una pillola di Nevrax al giorno e sarà un agnellino.” Avevano detto in farmacia. Io ero presente, ma non avevo proferito parola. Sapevo bene che protestare non mi sarebbe servito a nulla, e pur sopportando ogni parola che sentivo, sapevo anche che tutto in me andava bene. Non stavo male, e le pillole non mi servivano. Fingevo di prenderle dopo i pasti accompagnandole con della fredda acqua, per poi ritirarmi in bagno e sputarle come se nulla fosse. Una specie di trucco che usavo ormai da giorni, e che grazie al cielo funzionava. Per mia indole ero una ragazza taciturna, e il non lamentarmi dei miei problemi, deponeva spesso a mio favore. Ad ogni modo, i giorni passavano, e tutte le mattine andavo a scuola. Avrei potuto snocciolare mille motivi per odiarla, ma non lo avrei mai fatto. Con mia grande sorpresa, lo trovavo un posto relativamente tranquillo, unico luogo in cui i miei pensieri riguardo a me stessa e ai miei veri genitori non avevano modo di produrre eco nella mia testa fino a rendermi completamente sorda. Da ormai lungo tempo, trascorro i miei attimi di libertà pensando e parlando con me stessa, per poi giungere a ponderate conclusioni. I miei genitori adottivi non fanno che chiedersi la ragione della mia costante calma, poiché ai loro occhi, nulla sembra turbarmi. “Come ci riesci? Sicura di star bene?” chiedono ogni volta, tacendo nell’attesa di una mia risposta, che puntualmente risulta essere la stessa. “Sto solo bene.” Queste le tre parole che pronuncio al solo scopo di evitare tale e metaforico campo minato. Difatti, e nel caso in cui qualcuno diverso da chi si è mostrato gentile abbastanza da prendermi con sè dati i miei trascorsi da orfana me lo chiedesse, darei una risposta completamente diversa. Così non sembra, ma io non sto bene. Le persone mi disgustano totalmente, essendo sempre così attaccate alla vita terrena e ai beni materiali, sempre pronti a giudicare qualcuno per dei piccoli errori, e mai disposti a correggere i propri, così malvagi, privi di cuore e in una sola parola, profondamente e irrimediabilmente irriconoscenti verso la vita stessa. Le cose cambieranno, ed io ne sono certa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo V

Cavie da esperimento

Un nuovo giorno ha il suo lento e magnifico inizio nella mia cittadina. È mattina presto, e incredibilmente, Chloe è già pronta per la scuola. Strano a vedersi, ma stamattina non fa che tossire. Preoccupata e incuriosita da tale comportamento, la madre la guarda, e in quel preciso istante, qualcosa spunta da una delle tasche del suo vestito. Accorgendosene, la bimba cerca di nasconderlo. “Munchie, no!” strilla, riferendosi all’animaletto che non avrebbe voluto far scoprire alla madre. Un topolino bianco, e dagli occhi chiari, in tutto simile ad una cavia da laboratorio. Chloe frequentava le elementari, e nella sua classe, quel topo era una sorta di mascotte. Viveva in una gabbia tenuta nella loro aula, e nei fine settimana i compiti legati alla cura di quell’animaletto passavano nelle mani dei bambini. Anche se solo per due giorni, stavolta toccava a lei. Ad ogni modo, era ora di andare a scuola, e per pura sfortuna, il piccolo Munchie fu segregato nella sua gabbia. Ovvio era che Chloe volesse portarlo con sé, ma tale desiderio non fu mai realizzato. D’improvviso, un suono distrasse ognuno di noi. L’autobus era arrivato, ed era ormai ora di andare a scuola. Afferrando il mio zaino, vi salii senza dire una parola, e dopo essermi seduta, notai una ragazza. Per qualche strana ragione continuava a fissarmi, e nei suoi occhi non vedevo che odio. Non volendo avere guai di sorta, scelsi di ignorarla, e una volta arrivata a scuola, scoprii che condividevamo la stessa classe. La mia aula era piena di ragazze della mia stessa età. La presenza maschile era a dir poco esigua, e mentre le ore scolastiche si susseguivano veloci, quelle stesse ragazze non facevano che parlare fra di loro. Contrariamente a me, non erano certo serie, poiché troppo concentrate su frivolezze quali il trucco e le storie d’amore. Che sentimento privo di senso. Cuori che battono, frasi sdolcinate ed effusioni. Non ci credevo affatto. In classe quasi nessuno mi parlava, e mantenendo il silenzio, pensavo a me stessa. Il tempo scorreva senza sosta, e con fare furtivo, la ragazza incontrata sull’autobus continuava a guardarmi. La sua divisa azzurra e uguale alla mia riportò un ricordo alla mia mente un ricordo. Guardandola a mia volta, mi concentrai sui suoi occhi. Marroni come le foglie in autunno, mi riportarono indietro al giorno in cui a Chloe era stato rubato e rovinato il quaderno. Era stata lei, ed io non desideravo che vendetta. Non potevo esserne sicura, ma tutto lasciava presagire che avesse dei sospetti sulla mia persona. A quanto sembrava, il mio comportamento così freddo e distaccato le dava sui nervi. In altre parole sembrava odiarmi, e avrei davvero voluto farle sapere che la cosa era reciproca. La campanella dell’intervallo mi scosse i nervi, e seppur lentamente, un ragazzo mi si avvicinò. “Sei Raven, giusto?” chiese, per poi tacere nell’attesa di una mia risposta. “Sì, ma chi vuole saperlo?” dissi io, apparendo fredda come ghiaccio. “Nessuno oltre a me, a quanto sembra.” Continuò, sorridendo leggermente. “A proposito, mi chiamo Nathan.” Disse infine, per poi scivolare nel silenzio e allontanarsi dopo avermi salutato. Alcuni secondi svanirono quindi dalla mia vita, e non appena fui sola, approfittai della calma presente nell’aula per pensare. Ad essere sincera, mi sentivo davvero strana.  Cos’era quella sensazione che mi governava il petto e la bocca dello stomaco? Che il mio cuore stesse finalmente battendo per qualcosa o qualcuno? Sembrava incredibile, eppure era così. Ancora una volta stavo cambiando, e anche in questo caso, lasciavo che accadesse senza muovere foglia. Liberandomi in fretta da quel pensiero, scossi la testa. Dovevo tornare a concentrarmi. Ero figlia di mia madre, e non potevo certo lasciare che sentimenti come la gioia e l’amore mi colpissero. Provarli era umano, ma nonostante tutto, li ripudiavo. Concentrando il mio pensiero altrove, tornai ad analizzare il comportamento di quella ragazza. Avrei potuto parlarle e risolvere ogni cosa, ma riflettendo e concedendomi del tempo per pensare, capii di non essere quel tipo di persona. Spiegarlo era difficile, e in parole povere e comprensibili, ero per così dire, molto diretta. Con la fine delle lezioni tornai a casa. Entrandovi, vidi Chloe. Stando alle parole di nostra madre, era stata rimandata a casa con il permesso di una delle insegnanti per essersi sentita male, e guardandola, sorrisi leggermente. “Stai bene?” le chiesi, diventando improvvisamente morbida come burro. “Sì.” Si limitò a rispondere, regalandomi un sorriso. Lasciandola andare a giocare, mi sedetti sul divano di casa. Ingannavo il tempo guardando il piccolo Munchie zampettare nella sua gabbia squittendo flebilmente. Avvicinandomi, notai che sul tavolo giaceva anche il flacone contenente le mie pillole. Alla mia vista, il topo parve spaventarsi, iniziando quindi a squittire con insistenza sempre maggiore. Con lo scorrere del tempo, quel suono iniziò a darmi sui nervi, e dando ascolto al mio lato oscuro, presi in mano una delle mie pillole. Lentamente aprii la gabbia di quello schifoso topo, e avendo cura di non destare sospetti, la nascosi nella ciotola contenente il suo cibo. Il mio piano avrebbe funzionato, e un giorno, in un futuro non troppo lontano, anche quell’odiosa ragazza sarebbe diventata la mia cavia di laboratorio.
 
 
 
 
 
 
Capitolo VI

Insospettabile

Malata, strana, violenta e pericolosa. Quattro parole che mi rappresentavano alla perfezione, e che i medici incaricati di visitarmi pronunciavano parlando con la donna che mi aveva adottato.  Faticavo non poco a considerarla mia madre, poiché il rapporto che ci legava era complicato, e quelle stesse parole, semplici e dure al tempo stesso, la colpivano ferendole il corpo e l’anima. Non riusciva a spiegarsi la ragione dei miei comportamenti. Da qualche giorno a questa parte lei e Chloe avevano scoperto il cadavere del topo di cui avrebbe dovuto prendersi cura, e inevitabilmente, una donna adulta come lei aveva creduto e pensato che l’animale fosse morto a causa della vecchiaia o di qualche malattia, e spiegarlo alla piccola Chloe era stato molto difficile. In fin dei conti aveva solo otto anni, e il concetto di morte era per bambini del suo calibro una sorta di campo minato. Un percorso difficile da intraprendere, e un amaro boccone da ingoiare. La bambina aveva pianto calde lacrime a riguardo, e stringendola in un delicato abbraccio, avevo provato a consolarla. Per pura fortuna, il mio espediente aveva funzionato, e notando lo spuntare di un sorriso sul suo volto, fui felice di essere stata in grado di aiutarla. Quella mattina andai a scuola come se nulla fosse accaduto, e con l’inizio dell’intervallo, andai subito alla ricerca di quella ragazza. Ad essere sincera, non avrei confuso quegli occhi con altri per nulla al mondo. Poco prima di lasciare l’aula, sentii alcune nostre compagne parlare fra di loro. Avvicinandomi al loro gruppo, ascoltai quella conversazione fingendo interesse in realtà non provato. Le loro parole mi scivolavano addosso come sapone fino al momento in cui un nome attirò la mia attenzione. Lydia. Un nome che avevo già sentito, e che avevo da poco scoperto appartenere alla ragazza colpevole di quello che ritenevo un crimine. Data la mia ormai conosciuta indolenza riguardo al mondo circostante, non volevo che onorare la mia missione. Semplicemente guardando le stelle e osservando la vita cittadina, avevo capito che le persone erano spesso irriconoscenti nei confronti della vita stessa, sentendosi per questo onnipotenti. Nel suo caso, Lydia credeva di poter ferire i sentimenti delle persone senza alcun ritegno, ma per sua sfortuna, si sbagliava di grosso. Ero indolente, insensibile e priva di sentimenti, ma la piccola Chloe e la mia nuova famiglia costituivano un’eccezione. Presto o tardi, quella ragazza avrebbe pagato lo scotto dei suoi stessi gesti. Andando a letto con il calare della buia notte, mi addormentai. Mi svegliai soltanto la mattina dopo, e fingendo nuovamente interesse per le lezioni, attesi l’intervallo per concentrarmi su Lydia e trovarla. Non lo credevo possibile, ma la mia vista sembrava spaventarla. Fuggiva e si nascondeva come una criminale in fuga dalla legge, pur sapendo che provarci non le sarebbe servito a nulla. La nostra scuola era enorme, ma questo non rappresentava per lei alcun vantaggio. In altri termini, per lei era finita. Seguendola, la costrinsi in un angolo del cortile, e guardandomi intorno, notai la presenza della mia sorellina. Come anche lei sapeva, le nostre scuole erano vicine, e per tale ragione, aveva preso l’abitudine di venirmi a trovare e giocare nel cortile fino al suono dell’ultima campanella della giornata. Notandola, Lydia le si avvicinò, e dopo averle fatto nuovamente cadere di mano il quaderno, scelse di tirarle i dorati capelli e tormentarla fino a farla piangere. Assistendo immobile a quella scena, sentii una giusta rabbia crescermi, dentro, e avvicinandomi, passai subito all’azione.  “Lasciala subito stare! Cos’ha fatto di male?” dissi, ponendole poi quella così semplice domanda. Mantenendo il silenzio, Lydia non rispose. In fondo non era che una bulla, perciò qualsiasi ragione avesse avuto per tormentare la povera Chloe si sarebbe rivelata priva di senso. Ad ogni modo, il suo silenzio mi apparve eloquente, e muovendo un ulteriore passo nella sua direzione, le strinsi con forza un polso. Lamentandosi per il dolore, cercava di liberarsi, ma io non demordevo. Stanca dei suoi continui lamenti, la lasciai andare, ma non era ancora finita. Ripagandola infatti con la stessa moneta, afferrai una ciocca dei suoi capelli, e tirandola, la sentii gridare. In quel momento, muoversi non le sarebbe servito, ma lei ci provò comunque, ottenendo come unico risultato quello di provare un dolore perfino peggiore. Soddisfatta, mollai la presa, e prendendo Chloe per mano, scelsi di allontanarmi. L’intervallo ebbe fine in quel preciso istante, e poco prima di tornare in aula, chiesi alla bambina di restare in cortile. “Non allontanarti, torno presto.” L’avvisai, per poi tornare in aula e prendere parte alle successive due ore di lezione. Le stesse volsero in fretta al termine, e una volta salita sul pullman per tornare a casa, non vidi Lydia. Evidentemente aveva troppa paura per mostrare il suo volto, e per qualche strana ragione, ne ero felice. Appena arrivata a casa, aiutai la mia matrigna ad apparecchiare, e dopo pranzo, seguii Chloe nella sua stanza. Aveva bisogno di aiuto con i compiti di matematica, e non sapendo a chi rivolgersi, aveva chiesto a me. Ad ogni modo, lì finì in pochissimo tempo. Data la mia natura, riuscivo a pensare in maniera perfettamente logica, ragion per cui aiutare una bambina con dei compiti a casa si era rivelato estremamene facile. Fissando il mio sguardo sulla porta della sua camera, stavo per uscirne, ma la sua stessa voce mi impedì di farlo. “Grazie.” Disse soltanto, per poi tacere e apparire ai miei occhi più enigmatica che mai. “Grazie di avermi salvata. Quella ragazza era davvero cattiva.” Continuò, chiarendosi solo in quel momento. “Fidati, ora non lo sarà più. Né con te né con nessuno.” Risposi, per poi darle le spalle e congedarmi da lei. Occupando tranquillamente il divano di casa, mi misi a leggere, e facendolo, lasciai che la mia mente vagasse libera. Prima o poi qualcuno avrebbe scoperto quanto era accaduto nel cortile della scuola e punito il colpevole, ma per pura fortuna nessuno mi aveva vista, e quello era solo uno dei motivi per cui io risultavo insospettabile.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo VII

Gesti e conseguenze

Era passato appena un giorno, ed io avevo scelto di non andare a scuola. Con l’arrivo del mattino, il telefono squillò. Tentai di rispondere, ma Chloe fu la prima a farlo. “È per te, mamma.” Disse, per poi tacere e passare il telefono alla madre. Muta e immobile, sedevo di fianco alla finestra, e dopo aver posto fine alla telefonata, la mia matrigna mi chiamò per nome. “Raven! Si può sapere cos’hai fatto?” tuonò, sperando che quella domanda trovasse una reale e convincente risposta. “Era il preside della tua scuola, e diceva di aver saputo di alcuni atti di bullismo. È per caso colpa tua?” continuò, per poi formulare quella domanda, che alle mie orecchie giunse come retorica. “L’ho fatto per Chloe. Quella ragazza la tormenta da giorni, ed io non la sopportavo. Doveva pagare!” risposi, quasi urlando e non curandomi del tono che utilizzai nel parlare. “Non azzardarti a…” balbettò lei, ancora irosa e collerica. “No, mamma. Non sta mentendo.” Disse la bambina, riprendendo la parola e intervenendo al solo scopo di difendermi. “Chloe Olivia Price, ne ho avuto abbastanza. Va subito in camera tua!” gridò, lei, punendo quella povera bimba e non volendo sentire ragioni di sorta. Rattristata e con le lacrime agli occhi, la piccola obbedì senza protestare, e attraversando il corridoio, sparì dalla mia vista. In quel preciso istante, guardai quella perfida donna negli occhi. L’odio presente nei miei era incalcolabile, e quella che aveva appena compiuto era la peggiore delle azioni, il più deprecabile dei gesti. Tutto questo non faceva che avvalorare la mia tesi, secondo la quale, gli uomini erano esseri orribili, facili all’ira ed estremamente irriconoscenti. Definirli odiosi era ben poca cosa, e nonostante avessi pensato che la piccola Chloe e la mia matrigna fossero un’eccezione, ora avevo cambiato idea. Chloe era l’unica ad aver creduto in me anche dopo aver scoperto e conosciuto il mio lato oscuro, ed io non potevo che esserle grata. Sfortuna volle che non avessi mai modo di dirglielo, poiché quella sera, scappai di casa. Non volendo attirare l’attenzione, mi assicurai di non lasciare tracce. Un desiderio che presto svanì dalla mia mente, venendo sostituito da uno completamente diverso. Poco prima di andare, scrissi una lettera. Conoscendomi, non credevo di poter mai arrivare a farlo, ma per qualche strana ragione stavo cambiando, e finalmente il mio cuore batteva. Ero quindi diventata capace di provare ogni tipo di emozione, dal dolore alla gioia, e finalmente, dopo un’indefinibile lasso di tempo passato a tentare di punire le persone per i loro gesti, avevo scelto di offrire loro una seconda possibilità nella vita, arrivando a credere che ogni singolo individuo potesse redimersi. Care mamma e Chloe, non sopporto più quello che mi sta accadendo. Le mie emozioni mi stanno controllando, e ora come ora, ho paura di ferire anche voi. Ho la colpa di ogni cosa, dal bullismo alla morte del povero Munchie. Chloe, piccola, sappi che non volevo, e che ti voglio e ti vorrò sempre bene. Sono una ragazza troppo complicata, e come sapete, ho bisogno di stare da sola. Le pillole non hanno né avrebbero mai avuto effetto, poiché non erano ciò di cui avevo bisogno. In ultimo non preoccupatevi, né venite a cercarmi. Io starò bene. Addio, e grazie, RAVEN. Firmai quella lettera scrivendo il mio nome con caratteri maiuscoli, perché quello era il modo che Chloe aveva di scriverlo sul suo amato quaderno, e ripiegandola per inserirla in una bianca busta, lasciai che un pensiero si annidasse nella mia mente. La mia matrigna. Scrivendo quella lettera, mi accorsi di aver iniziato a piangere, per un motivo tanto banale quanto semplice. Quella donna non era né sarebbe certo mai stata la mia vera madre, ma nonostante tutto mi aveva sempre voluto bene, e ognuno dei suoi gesti, dal primo all’ultimo, ne erano la concreta prova. In altri termini, avrei provato a maturare diventando una persona nuova e diversa, in nome della mia famiglia adottiva e delle conseguenze che i miei gesti avevano avuto fino a quel momento.
 
 
 
Capitolo VIII

Paura e terrore

Il buio continuava ad avvolgermi, ed io ero sola. Persa nei meandri della crudele giungla urbana, tremavo per il freddo, ma mostrandomi stoica, andavo avanti. Non riuscivo a vedere nulla, e mi orientavo solo grazie alla pallida luce dei lampioni in strada e ai numerosi suoni che sentivo. Gatti che miagolavano, macchine che passavano, e alcuni tuoni in lontananza. A quanto sembrava stava per piovere, ed io dovevo trovare un riparo. Il tempo scorreva, e improvvisamente mi ritrovai davanti a una casa. A prima vista appariva disabitata, e avvicinandomi, tentai di aprirne la porta. Per pura fortuna avevo con me uno zainetto, e tirando fuori la mia torcia elettrica, l’accesi. Improvvisamente, alcuni strani rumori mi fecero gelare il sangue nelle vene. Il pavimento in legno scricchiolava sinistramente, e un lampo illuminò a giorno la stanza. Spaventata, mi schermii il viso con un braccio, e cadendo in terra, mi sentii svenire. Ad essere sincera, non saprei dire per quanto tempo la mia incoscienza si protrasse, ma durante la stessa, una voce mai sentita prima produceva un’infinita eco nella mia mente. Mi chiamava per nome, e continuava a pronunciare frasi alquanto tetre. “Non puoi scappare, Raven. Sono tua madre, e sta tutto nel tuo sangue.” Questa la frase che si è ormai fossilizzata all’interno delle mie povere e giovani membra. Mi svegliai dopo alcune lunghe ore, e al mio risveglio, scoprii di non essere sola. Di fronte a me c’era un ragazzo, ed ero sicura di averlo già visto. “Nathan?” lo chiamai, dubbiosa. “Che cosa ci fai qui?” chiesi poi, tacendo in attesa di una risposta. “Cosa? Che ci fai tu qui?” rispose, rigirandomi la domanda e aiutandomi ad alzarmi da terra. “Scusa, pioveva, e credevo che qui non vivesse nessuno.” Confessai, chinando il capo in segno di vergogna. “Ora sai che non è così.” Rispose lui, guardandomi con fare tranquillo e regalandomi un debole ma convincente sorriso. “Vivi da solo?” indagai, curiosa. “No, i miei escono presto per lavoro, e mi credono letteralmente perfetto.” Mi disse, sorridendo nuovamente e continuando a guardarmi. Appariva concentrato, e qualcosa mi diceva che l’intera situazione si sarebbe presto ribaltata. “Come forse sai sono figlio unico, e i miei premono perché diventi indipendente. Che mi dici dei tuoi?” Concluse, ponendomi poi quella semplice domanda. “Sono stata adottata, e dopo una lite sono scappata di casa.” Risposi, parlando in tono calmo ma al contempo corrotta dalle mie stesse emozioni. “Brutta storia.” Commentò, per poi scivolare nel mutismo più completo. Lo stesso, si protrasse per alcuni sporadici secondi, allo scadere dei quali, lui riprese la parola. “Vedo che non parli molto.” Osservò, sperando di riuscire a sciogliere il nodo che in quella situazione mi attanagliava la gola. Mantenendo il silenzio, mi limitai ad annuire. Non volevo ammetterlo, ma avevo paura. Temevo di svenire ancora una volta, o cosa ancor peggiore, avere di nuovo quella sorta di esperienza. Alcuni semplici attimi sparirono dalla mia vita, e improvvisamente, di nuovo quella voce. “Non puoi scappare.” Ripeteva, riuscendo a farmi provare una costante e continua sensazione di angoscia mista a rabbia. “Lasciami stare!” gridai, sperando che quella voce svanisse dalla mia testa. Incredibilmente, quell’espediente parve funzionare, ma in quel preciso istante, Nathan tornò a guardarmi. “Raven, sicura di star bene?” chiese, con un filo di preoccupazione nella voce. “I- Io non… non lo so.” Biascicai, poco prima che le forze mi abbandonassero definitivamente ed io cadessi in terra con un tonfo. Il suono della voce di Nathan che chiamava il mio nome mi accompagnò nei miei ultimi momenti di coscienza, dopo i quali chiusi gli occhi per le ore a venire. Ero di nuovo svenuta, e ancora una volta, avevo paura. Sembrava incredibile, eppure ero convinta che tutto fosse in qualche modo collegato alla voce che  continuavo a sentire. L’unica cosa che sapevo al riguardo era che appartenesse a mia madre, e mentre mille altri misteri circondavano la mia intera vita, mi sentivo molto più umana, non provando che paura e terrore.
 
 
Capitolo IX

I segreti più nascosti

I minuti passavano lenti, e intrappolata in una sorta di dimensione onirica, non vedevo nulla. Tutto attorno a me era scuro e privo di colore, e per fortuna, quella voce aveva smesso di tormentarmi. Ora come ora, faccio il possibile per aprire gli occhi, e riuscendoci, mi scopro sdraiata in un letto che non è il mio. Stranita, mi guardo intorno. Non sono in ospedale. La testa mi gira, e duole come mai prima. “Nathan? Che… Che mi è successo?” chiesi, dopo attimi di silenzio con la voce e il corpo ancora tremanti. “Hai perso i sensi, e non sapevo cosa fare, ma mia madre è un dottore, e ti ha portato qui.” Rispose, riuscendo con quelle semplici parole a dissipare ogni mio dubbio. “Tieni, bevi questa.” Aggiunse poco dopo, afferrando da sopra alla sua scrivania una tazza di fragile porcellana. Seppur con una vena di riluttanza nei movimenti, l’afferrai, e bevendone il contenuto, fui felice di riacquistare le forze perse in precedenza. “Cos’era?” indagai poi, ancora confusa dai capogiri. “Soltanto una tisana.” Disse, per poi scivolare nel mutismo e guardarmi senza proferire parola. Silenziosa e muta come un pesce, provai ad alzarmi dal letto, ma venni fermata. “Aspetta. Devi riposare.” Mi consigliò Nathan, sorridendo debolmente e mostrando tutta la sua preoccupazione per me. “Non ne ho bisogno. Devo solo andarmene da qui.” Dissi in tono serio, ignorando le sue parole e provando nuovamente a mettermi in piedi. “Raven, stai delirando, devi sdraiarti e dormire, o peggiorerai.” Continuò, posandomi una mano sulla spalla nel tentativo di fermarmi. “Non è vero!” gridai, riuscendo finalmente ad alzarmi di scatto e mandando in frantumi la tazza dalla quale avevo bevuto. In quel preciso istante, la porta della camera si aprì. Era la madre di Nathan. La rabbia mi pervadeva, ma sapevo comunque di dover ritrovare la calma. Avvicinandosi, la donna si sedette sul letto, e toccandomi la fronte, controllò la mia temperatura corporea. “Raven, tesoro, non credi di dover riposare?” chiese, guardandomi con fare amorevole. “Ho già detto che sto bene, e a quanto vedo, qui sono di troppo disturbo, signora Hadfield.” Conclusi, per poi riprendere il mio zainetto da terra e uscire da quella casa sparendo dalla loro vista. L’indecisione era padrona dei loro animi, così come l’incredulità. In quel momento, avrei davvero voluto ringraziare Nathan e sua madre per l’aiuto e l’ospitalità, ma dopo quanto era accaduto, non volevo assolutamente che mi vedessero. Nessuno di loro poteva saperlo, ma ero fermamente convinta che la causa del mio malessere non fosse naturale. Quella cupa e sinistra voce albergava nella mia povera mente, privandomi del sonno e della ragione. Camminando, tremavo come una bestiola spaventata, e ad essere sincera, mi sentivo impotente. Ero certa che qualcosa di strano mi stesse accadendo, e volevo vederci chiaro. Il mio unico desiderio era quello di trovare la luce in fondo a quel metaforico tunnel, ma qualcosa mi bloccava. Avevo bisogno d’aiuto, e nonostante tutto non potevo ottenerlo. La strada da percorrere era quindi rimasta una sola. Dovevo, seppur nolente, rivelare a qualcuno di cui potessi fidarmi, i miei più nascosti segreti. Nathan sembrava essere il candidato perfetto, ma prima di farlo, avrei dovuto sconfiggere il mio nemico più grande, ovvero la paura delle imminenti conseguenze.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo X

Sensazione di fiducia

Mi era difficile crederlo, ma due anni erano già passati, volando via dalla mia vita come maestosi uccelli intenti a solcare i cieli alla ricerca di un caldo nido che permettesse loro di sfuggire ai rigori dell’inverno. Ne avevo ora diciassette, e da poco ero tornata a casa. La mia matrigna aveva trovato la lettera scritta prima della mia fuga, e sin da quel giorno, non aveva fatto altro che provare a telefonarmi al solo scopo di convincermi a tornare. Date le mie convinzioni e i miei trascorsi, non avrei voluto, ma grazie ad una buona dose di insistenza, c’era riuscita, ed io non avevo fatto altro che ripercorrere i miei passi. “Perché te n’eri andata?” aveva chiesto Chloe, con le lacrime agli occhi e la voce spezzata dalla tristezza. “Non lo so.” Non avevo fatto altro che rispondere ogni volta. Non contenta di quella risposta tanto misera, Chloe sapeva bene come prendermi, e una settimana dopo il mio ritorno, era riuscita a intrufolarsi nella mia stanza e spingermi a dire finalmente la verità. “Non dirlo a nessuno.” L’avevo avvertita, posandole delicatamente un dito sulle labbra. Alle mie parole, la piccola non aveva risposto, limitandosi ad annuire. “Sono riuscita a vedere la ma vera madre.” Le dissi poi quel giorno, in tono calmo e serio al tempo stesso. “Ma lei è morta.” Osservò lei, per poi tacere e guardarmi negli occhi con aria confusa. “Lo so bene, ma è tornata!” dissi, iniziando inconsapevolmente a tremare. Il mio corpo tremava incontrollabilmente, e mentre ogni singola cellula del mio corpo vacillava, mi decisi. “Riesco a vederla nei sogni, e mi parla.” Continuai, scivolando nel silenzio solo dopo la fine di quella frase. “Ricorda, non dirlo a nessuno.” Conclusi, riprendendo la parola e  avvertendola per una seconda volta. Mantenendo il silenzio, Chloe annuì con decisione, e lasciando la mia stanza, mi concesse il beneficio della solitudine. Non appena fui certa di essere sola e lontana da tutto e tutti, mi guardai allo specchio. Una giovane ragazza dagli dai capelli corvini e gli occhi neri come la pece, con un unico difetto. Una sorta di demone figlio del paranormale da cui sa di essere nata, e che sin dal giorno del suo abbandono cerca di sconfiggere. Il tempo scorre, ed io rimango ferma. Concentrando tutta la mia attenzione sui miei stessi occhi, lascio che la mia mente vaghi libera, riportando indietro mille ricordi. Di punto in bianco, una rivelazione. Allora ero una semplice bambina, ma ricordo ancora l’apparente dolcezza della mia vera madre dopo la mia nascita, nascosta a qualunque persona al di fuori della famiglia. Un viso dolce e angelico dietro al quale si nascondeva malvagità pura, che ora, secondo il suo pensiero e le sue tetre parole, si stava riversando nel mio sangue tramite le apparizioni che era solita fare nella mia mente, spaventandomi oltre ogni misura. La mia negatività e i miei sbalzi d’umore avevano ora un significato, così come le mie recenti perdite di coscienza. Mi ha messo al mondo, e mi conosce sin da quando sono nata, e ora, alla costante e continua ricerca di una vendetta mai compiuta, pone in me la sua fiducia e le sue speranze, progettando un piano che è sicura funzionerà. Sta cercando di indebolirmi per poi piegarmi al suo volere, ma io mi sento forte, e non lascerò che accada. Sono ora priva di armi, e pur non essendo  sicura di farcela, sono certa di una sola cosa. Coloro che amo non mi abbandoneranno mai, e quella che ora sento in fondo al cuore, rivolta alla piccola Chloe e al premuroso Nathan è una positiva sensazione di profonda fiducia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XI

L’unione fa la forza

È ormai pomeriggio inoltrato, e dopo aver trascorso l’intera mattinata nella mia stanza, a pensare e ricordare i miei trascorsi, ho deciso di andare a casa di Nathan e scusarmi con lui. In questo momento mia madre non mi controlla, e sono sicura di potermi esprimere senza essere manipolata da lei e dal suo malvagio spirito. In sella alla mia fedele bici, che mi portò a casa sua in un batter d’occhio, raggiunsi la sua casa prima del calare della notte. Salutando sua madre, chiesi di poter entrare, e impedendomi di rimanere ferma sull’uscio di casa, la donna mi lasciò pazientemente fare. Sorridendo in maniera debole ma convincente, chiesi di Nathan, e la risposta della madre arrivò veloce, chiara e precisa. “È nella sua stanza.” Mi disse, per poi iniziare a camminare nei corridoi di casa e guidarmi verso la camera del figlio. “C’è qualcuno che vuole vederti.” Gli disse poi la madre, aprendo lentamente la porta. “Raven! Alla fine sei venuta!” rispose, apparendo incredibilmente contento di vedermi. “Mi aspettavi?” chiesi, non appena sua madre ci lasciò soli andandosene e concentrandosi sulle faccende domestiche. “A dire il vero no, ma sapevo che saresti tornata.” Disse, guardandomi negli occhi e regalandomi un sorriso. “Sono venuta a scusarmi per ieri. Non volevo ferirti in quel modo.” Ammisi, sfuggendo dai suoi sguardi e fissando il mio sul pavimento della stanza. “Tranquilla, non hai ferito nessuno. La febbre a volte gioca brutti scherzi.” Continuò lui, in tono calmo. Alle sue parole, non risposi, ma l’ultima frase da lui pronunciata fece scattare qualcosa dentro di me. Lui e sua madre mi credevano vittima di una semplice influenza, ma per loro sfortuna la realtà era un’altra. “Non è stata colpa della febbre.” Sbottai con forza, sentendo il mio cuore aumentare il ritmo dei suoi battiti e la gola venire stretta in una letale morsa. “Che stai dicendo?” chiese, confuso e stranito dalle mie parole. “La verità, ma non possiamo parlarne qui.” Continuai, con gli occhi e il viso che bruciavano a causa della rabbia che provavo, ora mischiata a un’incredibile senso di dolore e tristezza. “Conosco il posto perfetto.” Disse poi, rompendo improvvisamente il silenzio creatosi fra di noi. Mantenendo il silenzio, mi limitai ad annuire, e spostando lo sguardo dal suo viso alla porta della stanza, provai ad aprirla. Ci riuscii senza alcun problema, lasciando tuttavia che fosse lui a guidarmi. “Vado dai ragazzi, non aspettarmi.” Disse alla madre, poco prima di aprire la porta di casa e uscirne con disinvoltura. “Vieni.” Mi pregò, afferrandomi un polso. Camminando al suo fianco, non facevo che guardarmi intorno, e fra un passo e l’altro, prestavo attenzione a qualunque cosa mi circondasse. Davanti ai miei occhi c’era solo l’asfalto, unito ad alcuni vicoli sporchi e stretti. Il tempo passava, e con il calare della sera, iniziai a notare che l’intera città brulicava di vita. Proprio come l’ultima volta in cui le avevo osservate, le persone continuava a ignorarsi a vicenda, troppo concentrate sulle proprie frenetiche vite per mostrare un sorriso o pronunciare una parola gentile. Ad ogni modo, Nathan ed io raggiungemmo in fretta il luogo che mi aveva descritto, definendolo una sorta di nascondiglio che divideva con i suoi amici e due strane ragazze. Al nostro arrivo, me li presentò caldamente. Il primo che conobbi fu Russell, con l’aria da duro, i capelli castani e un tatuaggio sul braccio. Poi ci fu Trevor, tranquillo ma facile all’ira, capelli neri e occhi castani. Fu quindi la volta di John, in tutto diverso dagli altri. Biondo e occhi verdi, ma un particolare attirò subito la mia attenzione. Contrariamente agli altri, capaci di muoversi e camminare, lui non poteva. Stando alla descrizione che Nathan mi fece di lui, era diventato paraplegico a seguito di un’incidente avuto anni prima, ma che nonostante tutto, cercava sempre di vivere la sua vita per quella che era. Piena e frenetica, come l’aveva sempre desiderata. Le persone come lui erano davvero poche, e conoscerlo mi riempiva di gioia. Ammiravo il suo stoicismo e la voglia che aveva di continuare ad esistere facendosi valere, e parlandogli, avevo scoperto che i suoi genitori lo amavano sin dal giorno della sua nascita. Era figlio unico, e nonostante l’amore che i suoi riversavano su di lui, credeva di essere un enorme peso. Voleva vivere, ma non a spese di qualcun altro. Un pensiero lodevole, ma una storia difficile. Poi Lydia, ragazza da me già conosciuta e profondamente odiata, e ultima, ma non per importanza, Claire. Bionda anche lei, ma con una sorta di tratto distintivo. Due iridi azzurre come il profondo mare, e dei comportamenti capaci di farmi ribollire il sangue nelle vene. Avvicinandomi, avevo sorriso stringendole la mano, ma a iniziare da quel momento, l’avevo guardata negli occhi, notandovi una luce alquanto tetra. Sapevo bene di dover focalizzare su di lei gran parte della mia attenzione, ma volendo osservare il lato positivo della cosa, mi calmai quasi istantaneamente. Per mia semplice fortuna, ora non ero sola, e nel mio nuovo gruppo di amici, mi sentivo al sicuro. Forse era un adagio come tanti altri, o forse verità, ma stando ad una popolare frase da me sentita infinite volte, l’unione fa la forza.    
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XII

Il coraggio di esprimermi

I miei giorni continuavano a susseguirsi, e come se nulla fosse mai accaduto, ero tornata a scuola. Nathan ed io frequentavamo la stessa classe, e stando alle sue parole, i suoi amici ne occupavano altre, disseminate per l’intero Istituto. I minuti scorrevano lenti, e con essi le ore, delle quali non mi interessai minimamente. Un qualsiasi insegnante non l’avrebbe mai capito né scoperto, poiché da ormai qualche anno, avevo messo a punto un metodo a dir poco infallibile. Mostrare qualche sorriso, scrivere appunti e annuire con decisione. Questa era l’unico modo di sopravvivere alla noia durante giornate così bollenti. La primavera stava arrivando, e il sole, più caldo che mai, bruciava mostrando la potenza dei suoi raggi. Quella che ora scorreva era una lunga ora di storia. Come ogni giorno, ignoravo le parole degli insegnanti fingendo interesse realmente non provato, e leggendo, anche durante le lezioni, i miei tanto amati libri, i cui argomenti vertevano spesso sul soprannaturale. Incredibili, spaventose e colme di mistero, erano le storie di demoni, maghi e streghe impresse su quelle ormai vecchie e ingiallite pagine. Al suono dell’intervallo, non mossi un singolo muscolo, scoprendomi troppo concentrata su un capitolo del mio libro. Con mia grande sorpresa, scoprii che narrava la storia di una ragazza della mia stessa età, maltrattata dalla sua famiglia e dedita, proprio come me, alle arti magiche. Complicati erano i rituali che eseguiva, ma al contempo simili ai miei. Molti contemplavano l’uso di candele e odoroso incenso, e altrettanti la presenza del buio. Capitava che i miei compagni di classe provassero a sbirciare quanto scritto in quelle pagine, e pur riuscendoci, non avevano mai il coraggio di andare avanti, poiché troppo spaventati dalle dettagliate descrizioni della vastità del mondo magico e dei risultati ottenibili tramite la pratica dei rituali stessi, capaci di seminare il terrore nel cuore di qualunque persona non fosse simile a me. Fortuna volle che quello fosse il caso di Nathan, mio unico amico al di fuori dei componenti del suo piccolo gruppo, e sempre il fato decise di farci avvicinare. Con l’ultima campanella della giornata, arrivò per noi il momento di tornare a casa, e una volta arrivata, consumai con gusto il pranzo, per poi rintanarmi nella mia camera a studiare. Per qualche arcana ragione, non riuscivo a concentrarmi. Uno stridio ripetuto continuava a distrarmi, e alzandomi in piedi con l’intenzione di scoprirne la fonte, inciampai cadendo rovinosamente in terra. Rialzandomi, mi guardai intorno, scoprendo di essere caduta unicamente per colpa di uno stupido giocattolo. Per la precisione una delle bambole di Chloe, tutte ugualmente bionde e prive di qualsiasi espressione che non fosse la felicità, dato il perenne sorriso stampato sui loro volti in morbida plastica. Guardando quella bambola con odio, la raccolsi da terra, e lamentandomi per il dolore alle ginocchia, andai subito in cerca della mia sorellina. “Che ci faceva questa in camera mia?” le chiesi, per poi tacere nell’attesa di una risposta. “Mi dispiace, devo avercela dimenticata.” Rispose, tentando di giustificarsi. “Ti ho detto mille volte di non entrare in camera mia.” Continuai, avvisandola senza redarguirla. Le volevo troppo bene, e non avrei mai potuto farlo. Restituendole il giocattolo, lasciai che il mio sguardo cadesse sul suo letto. Le coperte erano perfettamente distese e prive di pieghe di sorta, ma qualcosa accanto al cuscino sembrava muoversi. Avvicinandomi, mossi lentamente la coperta, e fu allora che lo vidi. Un topo, o stando alle parole di Chloe, un criceto. Sua madre le aveva permesso di adottarlo qualche tempo dopo la morte di Munchie, e lei si era mostrata entusiasta, tanto da trovargli perfino un nome. L’aveva chiamato Eddie, e alla sua vista, sobbalzò. Accogliendolo fra le sue braccia, si domandò come fosse riuscito a uscire dalla gabbia, e aprendola, lo lasciò rientrare, per poi chiuderla ermeticamente. Sorridendo, osservò quel piccolo animale muoversi con velocità, squittendo come ognuno dei suoi simili. Imputavo a lui la colpa della mia distrazione dallo studio, e guardando la mia sorellina negli occhi, le parlai. “Tienilo in camera tua.” Le dissi, per poi aprire la porta e uscirne lasciandola da sola. Attraversando il corridoio, tornai nella mia stanza, e occupando la sedia di fronte alla mia scrivania, avvertii la vibrazione del mio cellulare. Il display segnalava l’arrivo di un messaggio, e aprendolo, lo lessi. “Vediamoci al rifugio.” Diceva, interrompendosi dopo appena tre parole. Inizialmente stranita, guardai meglio, e notando il nome del mittente, compresi ogni cosa. Nathan voleva incontrarmi, e probabilmente aveva anche qualcosa da dirmi. Subito dopo cena, mi incamminai, e una volta raggiunta la mia destinazione, venni distratta dal latrare di un cane. “Buono, Boss.” Disse Nathan, accorgendosi del mio arrivo e raggiungendomi in fretta. A quelle parole, il cane smise di abbaiare, scivolando nel silenzio e attendendo nuovi ordini. Camminando al fianco di Nathan, entrai in quello che era il rifugio da lui condiviso con gli amici. Una piccola casa abbandonata e rimessa a nuovo con forza e olio di gomito. Un’umile dimora della quale non mi lamentavo, completa del giardino ospitante il cane che mi aveva quasi attaccata. “Lui è Boss.” Disse, uscendo da quella casa e avvicinandosi di nuovo al cane, che alla sua vista mostrò felicità e affetto. “Che aspetti? È il classico gigante buono.” Mi incalzò poi, sorridendo con gioia. Seppur con estrema lentezza, mi avvicinai. Non ero certo cinofobica, ma la vista di quell’enorme rottweiler mi intimidiva. Protendendo una mano in avanti, lo accarezzai, per poi vederlo leccarmela e tentare di fare le feste. In quel preciso istante mi scansai, e tornando al fianco di Nathan, rividi anche gli altri. Proprio come la prima volta, John fu il primo a catturare la mia attenzione. La sedia a rotelle non era per lui un ostacolo, e senza farsi notare, perfino Boss provò a salutarlo. “Boss! Ciao!” disse lui, salutando quel grosso animale con inaudito calore. Ricambiando l’affetto ricevuto, il cane leccò il viso del ragazzo, che subito dopo, con un semplice gesto della mano, lo richiamò all’ordine. Obbedendo ciecamente, il cane si sedette, mantenendo poi una perfetta immobilità. “Sembri piacergli, è per caso tuo?” chiesi, sorridendo leggermente. “Sono stato io a trovarlo. Allora era solo un cucciolo, e guardalo adesso.” Rispose, sorridendo a sua volta e riuscendo a soddisfare la mia curiosità. Mantenendo il silenzio, continuai a sorridergli. Ad ogni modo, la nostra quiete fu interrotta da una voce che non avrei confuso con altre per nessuna ragione al mondo. “Scusate il ritardo, ragazzi.” Disse quella voce, che riconobbi istantaneamente. Già furiosa, mi voltai. Era Claire. “Figurati.” Azzardai, guardandola con occhi colmi d’odio. La mia buona stella sorrise, e in quel momento lei parve non accorgersi di nulla. Ad ogni modo, passai la serata con tutti loro, e per tutto quel tempo, non feci che divertirmi parlando di qualsiasi cosa, dalla mia vita alle mie passioni, e mentre parlavo, la vidi. Avvicinandosi lentamente, Claire strinse la mano di Nathan, per poi ergersi sulle punte e provare a baciarlo. Inutile è dire che lo stesso Nathan la ignorò pesantemente, ed io rimasi ferma e inerme, intenta a meditare per ritrovare la calma ormai persa. Mi conosceva da poco, ma nonostante tutto sapeva quanto lui mi piacesse. Dato il suo pessimo carattere, non avrebbe certo lasciato che glielo portassi via, così aveva scelto di puntare sulle mie emozioni, e in particolare sulla mia gelosia. Prevedendo i suoi movimenti, mi ero imposta di non lasciarla agire, ed ero perfino uscita vincitrice dal nostro muto conflitto, e con lo spuntare in cielo della luna, Nathan pronunciò una frase che non credevo sarebbe mai riuscito a formulare. “Raven ed io dobbiamo parlare, perciò non disturbateci.” Disse, ponendo enfasi sulle quelle ultime parole e posando lo sguardo sulla velenosa Claire. Per tutta risposta, lei guardò me. Non proferì parola, ma ero comunque certa dell’odio che provasse per me. Pregandomi di ignorarla, Nathan mi guidò in una stanza separata dalle altre, in cui nessuno oltre a lui era solito entrare. Una piccola ma spaziosa camera da letto, che ad essere sincera, mi ricordava la mia stanza. “Dicevi di volermi parlare.” Esordii, per poi tacere e attendere che iniziasse il suo discorso. “E la tua verità?” chiese, attendendo a sua volta una mia risposta. “Sai che non posso dirtelo.” Dissi, guardandolo con aria seria. “Non puoi continuare a nasconderlo, Raven. Non sai in che modo gli spiriti potranno agire!” mi disse, quasi volendomi redarguire e sfidare con la voce. A quelle parole, raggelai. Sapevo bene che amava il soprannaturale tanto quanto me, ma ad essere sincera non mi sarei mai aspettata una frase del genere. “E va bene! È tutta colpa di mia madre. Mi ha abbandonata, e ora che è morta sta cercando di controllarmi!” gridai fra le lacrime, sentendo gli occhi e il viso bruciare fino a divenire incandescenti. “Che significa?” chiese, stranito da quella mia rivelazione. “Era una criminale! Una persona orribile! Godeva uccidendo, e non aveva limiti!” urlai, continuando a piangere e fallendo nel tentativo di calmarmi. Abbracciandomi, Nathan mi strinse a sé, e sussurrando frasi confortanti, mi accarezzò la schiena con estrema leggerezza. “È me che vuole. Sono un suo oggetto, e vuole usarmi per finire la sua missione.” Continuai, singhiozzando e faticando a respirare. Guardandomi negli occhi, Nathan continuò a cercare di calmarmi, e parlandomi, ci provava con tutte le sue forze. “Raven, andrà tutto bene. Possiamo farcela, possiamo batterla.” “Cosa credi di fare? Non sai cosa accadrà.” Dissi, con la voce corrotta dal dolore e gli occhi ancora velati di lacrime. “Hai parlato delle tue emozioni, raccontami.” Pregò, stringendomi in un delicato abbraccio e posando su di me il suo sguardo colmo di apprensione. “Avevo quindici anni, ero appena stata adottata, e mi ha spinto a far del male a una ragazza. Nulla di grave, ma subito dopo sono scappata di casa. Ora sono tornata, ma continuo ad aver paura.” Dissi, pur raccontando una minima parte della mia storia. “E adesso?” indagò, attendendo di scoprire ulteriori dettagli. “Va molto meglio. Ha smesso di parlarmi, e non svengo da quasi un mese. “Bene.” Disse soltanto, per poi sorridermi e riprendere a parlare dopo una breve pausa di silenzio. “Sai cosa significa?” chiese, concentrandosi sulla mia ora confusa espressione. Mantenendo il silenzio, non risposi, e appena un attimo dopo, Nathan riprese a parlare. “Tu sei più forte di lei, e ce la farai, ne sono certo.” Disse, per poi abbracciarmi e spingermi contro il muro della stanza. Temendo di cadere, rimasi abbracciata a lui, che guardandomi, scelse di baciarmi. Non l’avevo mai confessato ad anima viva, ma desideravo che lo facesse sin dal giorno in cui ci eravamo incontrati per la prima volta. Il mio cuore batteva, e la mia mente lo gridava. Il suo nome produceva un’eco dolce e infinita, e pur non volendo ammetterlo, mi ero innamorata. Trovandomi sotto il negativo influsso di mia madre, avevo tentato di reprimere i miei sentimenti, ma ora mi sentivo più forte, e sapevo di poter cancellare la sua minaccia. Concentrai in quel bacio ogni grammo delle mie energie, godendo di ognuno dei secondi per cui si protrasse. Con la sua fine, lo guardai negli occhi, riuscendo a pronunciare soltanto una frase. “E Claire?” chiesi, ancora tremante a causa della valanga di emozioni provate in quel momento. “Lei può anche sparire. È te che amo, Raven!” rispose, riprendendo a baciarmi e guidandomi stavolta verso il letto, dove mi sdraiai intuendo il suo volere. In quel preciso istante, le mie stesse emozioni mi colsero impreparata, ma dominando ogni impulso, mi beai di quei momenti. Un amore che era finalmente sbocciato sotto la luce della luna e delle timide stelle, e il silenzio nostro compagno assieme alla notte. “Non sai da quanto lo aspettavo.” Ammisi, prendendomi una pausa dal posare le mie labbra sulle sue e lasciarmi guidare dal mio stesso cuore. “Adesso sei mia.” Disse, lasciandosi sfuggire una piccola risata e baciandomi ancora. Baci dolci, caldi e a lungo sognati, che ora ricevevo, e che arrivavano dall’unico ragazzo che amavo e sapevo di amare. Sensazioni mai provate prima. Il mio corpo scosso da brividi di piacere, ed io stessa concentrata su una sola cosa. Nathan. Ci amavamo davvero, e la fredda notte non riuscì a fermarci. Incuranti del freddo notturno, continuammo ad amarci per ore intere. Ore lunghe e intense, in cui perfino il dolore derivante dalla nostra impulsività appariva nullo e inesistente. Eravamo entrambi sfiniti, e poco prima di addormentarci, sfiancati dal nostro stesso amore, sussurrammo in coro una singola frase. “Ti amo.” Due parole apparentemente banali, ma che mi avevano finalmente conferito il coraggio di esprimermi.
 
 
 
 
 
Capitolo XIII

Uniti nella lotta

Era ormai mattina, e svegliandomi, ricordai la notte appena passata, colma di calore, amore e passione. In breve, una che non avrei mai dimenticato. Il mio cellulare era acceso, e il display illuminato. Le otto del mattino. Grazie al cielo era domenica, e nonostante il giorno di vacanza, sarei presto dovuta andare a casa. Informando Nathan della cosa, ripercorsi i miei passi, e una volta arrivata, venni accolta dalla piccola Chloe. “Dov’è la mamma?” chiesi, incerta e dubbiosa circa dove potesse trovarsi. “Sta dormendo. È rimasta sveglia tutta la notte ad aspettarti.” Rispose, sorridendo innocentemente e sedendosi sul divano di casa. Era impegnata a guardare i cartoni, e scegliendo di farle compagnia, mi fermai a riflettere. “Povera donna.” Pensai, provando pena per la sua candida anima. Mi voleva davvero bene, e nonostante mi avesse adottato, trattava sia me che Chloe allo stesso modo, così da non farmi credere di essere inferiori poiché non nata nella loro famiglia. Un giorno era passato, ed io ero ancora concentrata sull’ormai scorsa notte. Nathan ed io avevamo finalmente dato voce ai nostri sentimenti, amandoci in quella fredda notte, scaldata solo dal ritmico battito dei nostri cuori, ora uniti in uno solo. Ora come ora, mi sto preparando per andare a scuola, e mentre sono nell’atto di farlo, il mio cellulare squilla. Lo schermo si illumina, e spostandovi lo sguardo, noto l’arrivo di un messaggio. È di Nathan. “Nessuno deve saperlo.” Dice soltanto, grondando mistero e lasciandomi basita e interdetta. So bene che si riferisce alla relazione che abbiamo intrecciato e lasciato sbocciare appena dopo il nostro primo bacio, ma al contrario di lui, io non avrei problemi a lasciare che altre persone sappiano di noi. Sforzandomi di non pensarci, torno a concentrarmi su quanto sto facendo, e una volta pronta, esco di casa. La fermata dell’autobus non è fortunatamente lontana da casa, e raggiungerla non mi porta via molto tempo. Il pullman arriva puntuale dopo solo alcuni minuti, e salendoci, mi accomodo, sedendomi con fare tranquillo. Il mio cellulare è ancora accesso, e piantandomi gli auricolari nelle orecchie, lascio che la musica le riempia, distraendomi fino all’arrivo a scuola. Per pura fortuna, mi scopro puntuale, e al suono della prima campanella, sono già in aula. Tre ore scorrono veloci, e con l’inizio dell’intervallo, vado subito alla ricerca di Nathan. Lo trovo con le spalle al muro e lo sguardo fisso in avanti, la schiena contro uno degli alberi presenti nel cortile. “Perché quel messaggio?” gli chiesi, avvicinandomi e sfidandolo con la voce. “Perché è la pura verità, Raven. Nessuno deve saperlo.” Rispose, ripetendo la frase presente nel messaggio che ricordavo mi avesse inviato poche ore prima. “Per quale ragione? Sai che ti amo. Indagai, sentendo la mia voce spezzarsi dopo la fine dell’ultima frase. “Lo stesso vale per me, ma conosci le tue emozioni.” Continuò, sollevando nella mia mente migliaia di dubbi. “Pensaci. Se Claire o un’altra ragazza ci scoprisse diventeresti gelosa, e nessuno sa cosa potrebbe accadere!” gridò poi, riuscendo a spaventarmi e riducendomi al silenzio. Difatti rimasi lì, muta, ferma e inerme. Mai lo avevo visto così arrabbiato prima d’ora. “Ma Nathan, io ti…” biascicai, sentendo quella frase morirmi in gola e non trovare mai un vero completamento. “Anche io ti amo, Raven.” Rispose, ritrovando la calma e avvicinandosi al solo scopo di baciarmi in fronte. Lasciandolo fare, non mossi foglia, ma non appena fui sola, mi rannicchiai sotto quell’albero. Nello spazio di un momento, una miriade di calde lacrime iniziò a scendermi dagli occhi e rigarmi le guance, e ignorando il suono della campanella, rimasi dov’ero. Ero certa che nella confusione generale nessuno sarebbe riuscito a vedermi, e non muovendo un muscolo, piansi. Le mie lacrime cadevano copiose sui miei stessi vestiti, e singhiozzando, tentavo in ogni modo di ritrovare la calma e la compostezza ormai perse. Non riuscivo a crederci. Mi ero finalmente innamorata, ed ero felice, ma nonostante tutto non potevo dimostrarlo a causa del mio unico demone interiore. In cuor mio sapevo che Nathan aveva ragione, e anche se il solo pensiero mi portava alle lacrime, non potevo negarlo. Io lo amavo, e lui amava me, ragion per cui, assieme ai suoi amici, rimarremo tutti uniti nella lotta.

Capitolo XIV

Sotto il suo controllo

Ancora una volta, la buia e nera notte lasciava il posto alla lucente aurora, e un nuovo giorno aveva inizio. Ero di nuovo a scuola, seduta nel mio banco e impegnata a portare avanti la lettura di uno dei miei libri di magia e stregoneria. Non sono una maga, ma il mondo del soprannaturale ha sempre avuto un certo effetto su di me. Tutti i miei compagni ne sono perfettamente a conoscenza, tanto da ignorarmi ed evitare di distrarmi ogni volta che mi trovano immersa nella lettura. Il tempo scorre, e passandomi accanto, una ragazza mi urta, spezzando la mia concentrazione e facendomi cadere il libro dal banco. Soddisfatta di quel risultato, ride di gusto, e posando il suo sguardo sul pavimento dell’aula, si china per raccoglierlo. “ Che cos’è questo? Un tuo libro di magia?” chiede, con una vena di pungente sarcasmo nella voce. Una voce che ero sicura di aver già sentito, e che voltandomi in quella  direzione, scoprii appartenere ad una sola persona. Era Lydia. “Quel libro non ti appartiene. Ridammelo subito.” Le intimai, con il la voce corrotta da una giusta rabbia. “Altrimenti? Mi farai scomparire? Chiese, sfoggiando il suo ormai solito sarcasmo e mimando il gesto di agitare una bacchetta. “Ti ho detto di ridarmelo!” sbottai, scattando in piedi come una molla e sferrandole un pugno in pieno volto. Ad essere sincera, non avrei davvero mai voluto arrivare a tanto, ma in quel momento, era come se una forza misteriosa e sconosciuta mi governasse. Sinceramente, sospettavo che a causa della mia recente debolezza, lo spirito di mia madre fosse riuscito a tornare e controllare la mia mente portandomi a compiere tale gesto, e guardandomi intorno, mi concentrai nuovamente su Lydia. Pur non volendo, l’avevo colpita con forza, e a dimostranza di ciò, il suo occhio era diventato nero. Non si lamentava per il dolore, ma era caduta a terra, e faticava a rialzarsi. “Price!” Tuonò l’insegnante, sputando quella che era diventato il mio cognome sin dal giorno in cui ero stata adottata. Erano ormai passati due anni, e si erano rivelati un lasso di tempo così lungo da non permettermi di ricordare quello della mia famiglia biologica e naturale. Di fronte alla legge ero una Price, e nonostante tutto, avevo imparato ad accettarlo. Voltandomi di scatto, fissai il professore, con sguardo ancora colmo d’ira. Per nulla intimorito, afferrò la sua penna, e aprendo il registro, iniziò a scrivere. Sforzandomi, riuscii a leggere il mio nome, e un attimo dopo, compresi di essere appena stata ammonita. “E ora fila dal preside!” Aggiunse, in tono serio e perentorio al tempo stesso. Obbedendo a quella sorta di ordine, uscii dall’aula, e incamminandomi verso la mia nuova destinazione, incrociai il cammino e lo sguardo di Nathan. Aveva lasciato la classe poco prima di me, e notandomi, si avvicinò. “Cos’erano quelle urla? Si può sapere cos’hai fatto?” chiese, tacendo nell’attesa di una risposta. “È stata Lydia. Ha cercato di rubarmi un libro e gliel’ho chiesto indietro, ma non me l’ha reso, così l’ho picchiata.” Ammisi, sfuggendo dai suoi sguardi trasudanti collera e disapprovazione. “Ti rendi conto di quanto sia grave?” aggiunse, ponendo una domanda che alle mie orecchie giunse come retorica. “Ora raggiungi quell’ufficio prima di finire in guai più grossi.” Mi consigliò, guardandomi negli occhi per un’ultima volta appena prima di tornare in classe. Annuendo lentamente, scelsi di obbedire, e trovandomi di fronte a quella porta, bussai con educazione. “È permesso?” chiesi, muovendomi e parlando lentamente. “Venga avanti, signorina Price.” Rispose il preside, invitandomi ad entrare nel suo ufficio. In quel preciso istante, la mia rabbia parve svanire, e tornando a vederci chiaramente, mi accomodai su una delle sedie lì presenti. “Dica, signorina, cosa l’ha spinta a ferire la sua compagna?” chiese, facendo suonare quella domanda come parte di un interrogatorio. “Non ne ho idea.” Risposi, mentendo e sapendo di mentire come una sporca criminale. “Si lasci dare un consiglio. Farebbe meglio a contenere la sua rabbia in una scuola di questo calibro, signorina. Non vorrà continuare a cacciarsi nei guai, spero. In fondo, questo è già il secondo avvertimento, sbaglio?” continuò, per poi terminare il discorso con quella domanda, alla quale risposi con un semplice movimento della testa. “Ottimo. Può andare.” Concluse, lasciando che i nostri sguardi si incrociassero e dandomi il permesso di tornare in aula. Alzandomi in piedi, lasciai l’ufficio del preside congedandomi con tatto e delicatezza, e una volta tornata in classe, rividi Lydia. Appariva ancora dolorante, e si premeva una borsa con del ghiaccio sull’occhio e su una piccola parte del viso. Durante la mia assenza doveva essere stata accompagnata in infermeria, dove una sapiente infermiera aveva fatto il resto. Ad ogni modo, ero tornata in me, e fermandomi a riflettere, provai pena per lei. Non avrei mai voluto farle del male, ma le mie emozioni non avevano deposto a mio favore, dando così modo alla mia ormai defunta madre di agire attraverso me. Parlando con me stessa, capii che Nathan aveva ragione, e che io ero sotto il suo controllo.
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XV

Rimediare agli errori

Era pieno giorno. Il sole splendeva, ed io volevo stare da sola. Qualcosa mi aveva spinto a chiudere le tende nella mia stanza e accendere di nuovo le mie ormai famose candele, ora spente perché non utilizzate. Avevo in mente di dare inizio ad uno dei miei soliti rituali legati all’occulto, convinta che non potesse funzionare data la presenza in cielo del sole. Guardando per un attimo fuori dalla finestra, notai l’avvicinarsi di alcune grigie e pesanti nuvole, probabilmente pronte a scaricare fredda pioggia sulla città e le vicine campagne. “Perfetto.” Mi dissi, richiudendo la tenda e sedendomi in terra a gambe incrociate. Una manciata di preziosi secondi svanì dalla mia vita, e solo allora riuscii a sentirla. La voce di mia madre. Potevo distinguerla chiaramente, ma per qualche strana e a me ignota ragione, ero così spaventata da non riuscire a parlare. “Lasciami stare! Cosa ti ho mai fatto?” le chiesi, nel momento in cui un urlò abbandonò le mie labbra permettendomi di mostrarle la rabbia che covavo nel cuore da tempo. “Niente, Raven cara. Sei mia figlia, e sta tutto nel tuo sangue.” Disse semplicemente, lasciandosi poi sfuggire un sarcastico e acido sorriso che di certo non tradiva gioia. “Non è vero! Non ti voglio ascoltare!” gridai, iniziando ad agitarmi e lottando con tutte le mie forze perché il collegamento creato con lei non andasse distrutto. “Non ora, ma un giorno lo farai.” Aggiunse, lasciandosi poi sfuggire un sarcastico e acido risolino, che ebbe come unico risultato quello di adirarmi e disgustarmi al tempo stesso. La nostra conversazione finì in quel preciso istante, e del denso fumo nero fu l’ultima cosa che riuscii a vedere. La sua sinistra e malvagia risata echeggiava nella mia mente, e riaprendo gli occhi scossi la testa, cercando di dimenticare. Avevo letto molto sul mondo degli spiriti e sui contatti con loro, ma le mie conoscenze non erano abbastanza. Mi reputavo esperta abbastanza da sostenere un incontro con una figura di quel calibro, ma dopo quanto era accaduto, compresi di sbagliarmi. La testa mi doleva come mai prima, ed ero ancora scossa, letteralmente sul punto di svenire. Imputando la colpa di ogni cosa alla vista di mia madre, raggiunsi il bagno al solo scopo di sciacquarmi il viso. Una volta fatto, studiai la mia immagine riflessa nello specchio. Un particolare attirò la mia attenzione, e notandolo, sbiancai, divenendo in seguito pallida come una morta. I miei occhi. Da neri come il carbone erano diventati rossi come il sangue, e sentendo la paura paralizzarmi, parlai con me stessa, tentando in ogni modo di convincermi di stare sognando e immaginando ogni cosa. Mi chiedevo perché le mie iridi avessero cambiato colore, e in preda al terrore, afferrai il cellulare. “Nathan, ti prego, devi venire subito qui.” Supplicai, non appena rispose. “Che è successo?” chiese, preoccupato. “Non posso spiegare, ma sbrigati.” Replicai, sforzandomi per sopprimere il bisogno che avevo di piangere. Lo soddisfeci solo dopo la fine della telefonata, guardando il mio viso nello specchio e piangendo. Sembravo una vera e propria bambina, ma la cosa non mi toccava. Sapevo bene di non essere debole, ma certa di essere stata forte per ormai troppo tempo. incredibilmente, avevo anche cercato di reprimere i miei sentimenti, fallendo miseramente. Nessun umano né è mai stato capace, né mai lo sarà. La paura mi dominava, e non potevo farci niente. Non riuscivo a controllarmi, e piangevo senza sosta. I miei pianti si trasformarono presto in lamenti disperati, e improvvisamente, qualcuno bussò alla porta. Andando ad aprire, mi accorsi che Nathan era arrivato. Non appena lo vidi, lo abbracciai. Non gli diedi il tempo di entrare, e stringendolo a me, scelsi di baciarlo. “Grazie al cielo sei qui.” Dissi, prendendomi una pausa per respirare e guardarlo negli occhi. Aveva appena ignorato le mie manifestazioni d’affetto, ma la cosa non influiva sul mio umore, ancora cupo come la notte che tardava a calare. “Ero preoccupato, che è successo?” chiese, tacendo nell’attesa di una mia risposta. “Non lo so, è stata tutta colpa di un rituale.” Confessai, guardandolo fissamente negli occhi e sperando che potesse confortarmi. “Cosa? Che rituale?” indagò, stranito e confuso dalle mie parole. “È scritto in quel libro. Dissi, indicando il polveroso tomo presente sul tavolo del salotto. Lo avevo poggiato lì in un momento di confusione, e indicandolo, non feci che tremare. Prendendolo in mano, Nathan iniziò a sfogliarne le pagine, trovando su una delle stesse una serie di scritte. Illustravano in dettaglio come comunicare con gli spiriti di persone ormai morte, e alla vista delle stesse, Nathan sbiancò. “No, non la Luna Scura!” disse, mostrandosi preoccupato e riuscendo ad attirare la mia attenzione. Avvicinandomi, guardai di nuovo quella pagina, e spostando il mio sguardo dal libro al suo volto, raggelai. In quel momento, era come se il sangue all’interno delle mie vene avesse smesso di scorrere. “Volevo solo parlare con mia madre, dirle di lasciarmi in pace!” Continuai, tentando unicamente di giustificarmi per quanto avevo fatto. Guardandomi, Nathan mi afferrò per le spalle, e spingendomi contro il muro del salotto, iniziò a fissarmi. Spaventata, non osavo muovermi, e continuando a tremare, attendevo. “Raven, i tuoi occhi… Sono rossi.” Osservò, riuscendo finalmente a notare il cambiamento del loro colore. “Che significa?” azzardai, per poi tacere nell’attesa di un chiarimento. “È entrata dentro di te, ma puoi ancora controllarla.” Mi disse, parlando in tono estremamente serio. “Dici davvero?” soffiai, volendo quasi chiedere conferma di quanto avessi appena sentito. “Mai stato più serio.” Rispose, sorridendo leggermente e posando le sue labbra sulle mie. Indietreggiando poi di qualche passo, si frugò nella tasca della giacca, estraendone un piccolo ciondolo. La forma era quella di una rosa, e mettendomelo al collo, sorrise nuovamente. “Questo è per te.” Disse poi, stringendomi in un delicato abbraccio al quale non mi sottrassi minimamente. “Ci vediamo domani.” Concluse, deponendomi un ultimo bacio sulle labbra prima di andarsene. Aprendo la porta, lo vidi allontanarsi, e poco prima di richiuderla, mi abbandonai ad un sospiro. Pensando, e concedendomi del tempo per riflettere, mi scoprii fortunata di avere accanto un ragazzo come Nathan. Lo conoscevo ormai da lungo tempo, e amandolo avevo imparato che era ben diverso da tutti gli altri. Qualunque altra persona sarebbe certamente fuggita dopo aver scoperto le mie passioni e le mie stranezze, ma lui no. Aveva confessato di amarmi, e aveva perfino promesso di restarmi accanto nei momenti di questo calibro. Tutto per un semplice motivo, ovvero aiutarmi a rimediare ai miei errori.
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XVI

Attenta e impaurita

Un’ennesima notte se n’era andata lasciando spazio al giorno, ed io non avevo dormito. Non avrei mai voluto che accadesse, ma lo spirito di mia madre era tornato. Mi era di nuovo apparso in sogno, e parlandomi, aveva pronunciato tetre e oscure parole. “Presto lo farai.” Aveva detto, accarezzandomi una guancia poco prima di svanire. Un tocco caldo, a dir poco bollente, che mi disgustava. Era mia madre, ed era vero, ma Stando alle parole di Nathan, quella malvagia essenza aveva trovato nel mio corpo un caldo rifugio, e avrebbe presto iniziato a controllarmi. Per pura fortuna non ero sola, e avrei potuto contrattaccare. Tutto ciò che dovevo fare era seguire le istruzione di Nathan. Al pomeriggio un suo messaggio attirò la mia attenzione, e leggendolo scoprii di doverlo incontrare nel suo rifugio. “Dì alla mamma che farò tardi.” Dissi a Chloe, avvisandola della mia temporanea assenza da casa. “Va bene.” Si limitò a rispondere, annuendo e tornando a giocare con Eddie, il suo amato criceto. Poco prima di uscire, la guardai, per poi avvertire una strana stretta al cuore. Mi sentivo un mostro. La povera Chloe non era che una bimba ignara di tutto, all’oscuro dell’entità che silenziosamente mi risiedeva in corpo. Camminando, continuavo a guardarmi indietro, fissando lo sguardo sulla porta di casa e piangendo. “Mi dispiace.” Pensavo, mentre una lacrima solitaria mi solcava il volto. Ad ogni modo, il tempo scorreva, e lentamente, il mio viaggio continuava. Vagavo per le strade della città alla ricerca di un punto di riferimento, ma invano. Alcune lunghe ore passarono, e solo allora, lo vidi. Nathan. A quanto sembrava, mi stava cercando, e alla mia vista, mi corse incontro. “Raven! Per fortuna stai bene!” gridò, evidentemente felice di vedermi. “Che è successo?” chiese poi, con un sottile filo di preoccupazione nella voce. Stranita, lo guardai senza capire. “Il tuo viso. Ti sei ferita?” continuò, ponendomi poi quella strana domanda. Più confusa di prima, rimasi immobile, e appena un attimo dopo, la sua mano sfiorò la mia guancia. Lamentandomi per il dolore, mi voltai di scatto, sentendo quella ferita bruciare come non mai. “È stata lei.” confessai, riferendomi a mia madre e guardandolo con aria seria. “Adesso vieni, gli altri ci stanno aspettando.” Mi disse poi, prendendomi la mano e guidandomi dentro il suo ormai famoso nascondiglio. Alla sua vista, Claire si avvicinò, e in quell’esatto momento, sentii il mio corpo venire scosso da un tremito, poi una motivata rabbia iniziò a crescermi dentro. “Allontanati, Claire.” Dissi, con una voce roca e profonda che sapevo non mi fosse mai appartenuta. “Cos’è, impazzita?” chiese lei, indietreggiando spaventata. “No, è vittima di un demone. Ora sparisci di qui e sta zitta.” Rispose Nathan, facendosi incredibilmente serio e coraggioso. “Ma io…” biascicò quella, con la stessa insistenza di una bambina. “Ho detto zitta!” gridò lui, inviperito. A quelle parole, Claire non ebbe scelta dissimile dal rintanarsi in un angolo e rimanere in silenzio. “Demone?” Dissero in coro Trevor e Russell, parlando all’unisono come gemelli. “Già, e dovrete aiutarmi. La notte sta arrivando, e lei va legata.” Continuò Nathan, concentrandosi su di me e sul colore dei miei occhi, primo fra i tanti dettagli che amava. “Legarla? Non credi sia troppo?” intervenne John, preoccupato. “No, ora basta parlare e aiutami.” Disse lui, freddo come ghiaccio. Annuendo, l’amico andò subito in cerca di una robusta corda, alla cui vista, il malvagio essere dentro di me prese di nuovo il sopravvento. “Lasciatemi! Iniziai quindi a gridare, mentre venivo trascinata in una buia stanza contro il mio volere. Sotto l’influsso di quello spirito, non facevo che urlare, inveire e contorcermi come un animale colpito dalla rabbia, ma data la forza di Nathan, unita a quella dei suoi amici, tutto fu inutile. “Non lasciatela uscire per nessun motivo. Il demone proverà qualunque cosa pur di essere liberato. “Disse lui, per poi aprire la porta della piccola camera e uscirne seguito dai suoi compagni di avventure. Insieme ne avevano passate tante, ma sarei pronta a scommettere che nulla del genere gli era mai capitato. Seppur con estrema lentezza, le ore notturne passarono, e con l’arrivo del mattino, riuscii a tornare in me. Lo spirito era di nuovo svanito, e scoprendomi legata al letto presente in quella stanza, iniziai a urlare sperando di essere salvata. Sfortuna volle che nessuno riuscisse a sentirmi, o meglio, nessuno accorse, temendo di incorrere di nuovo nell’ira del demone che dimorava in me. Il sole filtrava dal vetro della finestra illuminando a giorno l’intera stanza, e pur sentendomi nuovamente tranquilla, sapevo di non poter essere salvata. I miei occhi erano tornati al loro colore originario, e immobilizzata dalle corde, non ero che attenta e impaurita.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XVII

Seduta spiritica

Era di nuovo notte, ma ero calma e capace di muovermi. Convinti della sparizione del demone che mi aveva posseduta, i miei amici avevano scelto di liberarmi, portandomi in una stanza diversa da quella dove ero stata rinchiusa. Nathan era sempre al mio fianco, e stringendomi la mano, mi parlava. “Raven, ascolta. C’è solo un modo per scacciare tua madre dal tuo corpo.” Mi disse, tacendo al solo scopo di raccogliere le idee e presentarmi la questione nel modo più delicato possibile. Dati i miei trascorsi, sapeva bene quanto fossi diventata sensibile con il tempo, ragion per cui ferirmi e spaventarmi erano gli ultimi dei suoi obiettivi. “Cioè?” azzardai, tremante e timorosa. “Vedi il tuo ciondolo?” mi chiese, prendendolo fra le dita per mostrarmelo meglio. “Sì, cos’ha che non va?” mi informai a quel punto, confusa dalle sue stesse parole. “Ti ho mentito, non è una semplice collana, ma un amuleto.” Rispose, sorridendo lievemente. “Amuleto?” gli feci eco io, incredula. “Se il piano funziona, custodiremo lì lo spirito di tua madre.” rispose, per poi tacere e scivolare nel silenzio. Con l’arrivo della notte, venni portata in una stanza simile al salotto di una casa, dove tutti i suoi amici si erano riuniti. Seduti su delle sedie, si tenevano per mano di fronte ad un libro aperto, pronunciando nenie e frasi in una lingua che non conoscevo. Colpita da un lampo di genio, compresi ogni cosa. Era una seduta spiritica. Volevo bene ai miei amici, e loro erano certi che tale espediente avrebbe funzionato, ma io no. Qualcosa, forse il mio sesto senso o una voce nella mia testa, mi diceva che le cose avrebbero continuato a peggiorare. Molte erano state le persone che credendo ai fantasmi, avevano cercato di comunicarci in quel modo, ma nulla aveva funzionato, o nei rari casi di successo, la sfortuna, il dolore e la morte avevano perseguitato quei poveri malcapitati. Ad essere sincera, non potevo lasciare che accadesse. Amavo Nathan con tutta me stessa, ed ero certa che se qualcosa di infausto gli fosse mai accaduto, non sarei mai riuscita a perdonarmelo. “Basta! Vi prego, smettetela!” gridai fra le lacrime, vedendoli lasciarsi le mani e riaprire gli occhi. “Raven, calma. Andrà tutto bene. Non ti fidi di noi?” mi disse Nathan, completando il suo discorso con quella domanda. “Non andrà tutto bene, Nathan! È questo che vuole, vuole essere liberata!” aggiunsi, con gli occhi dolenti e ancora velati dalle lacrime. “Ha ragione. Fine dei giochi, ragazzi.” Rispose, rivolgendo uno sguardo ai suoi amici, che pendendo dalle sue labbra, obbedirono ciecamente. Subito dopo, ognuno di loro lasciò la stanza, e rimanendo da sola con Nathan, gli parlai. “Basta, ne ho abbastanza di tutto questo. Volevo solo vivere e innamorarmi, come ogni persona normale, ma guarda dove ci ha portati tutto questo. Dissi, singhiozzando debolmente e faticando a respirare a causa del bruciore alla gola dovuto al pianto precedente. “Raven, ascolta, devi fidarti. Io e i miei amici sistemeremo tutto, vedrai.” Rispose poi Nathan, al solo scopo di confortarmi. “Smettila! Smettila di ripeterlo! Io non ci credo, va bene?” continuai, urlando con quanto fiato avessi in gola. “Non devi credere a me, devi credere in te stessa.” Concluse, allontanandosi lentamente da me e raggiungendo una delle camere da letto. Seppur con fare triste e sconsolato, lo seguii, e sdraiandomi al suo fianco, mi lasciai stringere e baciare. L’amore che provavo per lui mi aiutò a dimenticare il mio dolore, ma poco prima di addormentarmi, pensai. Ancora una volta, non lo credevo reale né possibile, ma era come se la mia intera vita stesse andando in pezzi, infrangendosi come un sogno, un vitreo bicchiere o una lastra di duro ma al contempo fragile ghiaccio. Mi sentivo spesso mancare e morire, tutto per colpa di una passione dai risvolti inaspettati, fra cui una seduta spiritica.
 
 
 
 
 
Capitolo XVIII

Apparizione sinistra

Pomeriggio inoltrato. Mi sono appena ripresa da uno dei miei ormai famosi svenimenti, e soccorsa da Nathan, lo guardo negli occhi. preoccupato, non riesce a staccare lo sguardo da me. “La collana, toglila.” Mi intima, aiutandomi a rialzarmi da terra. “Cosa? Perché? Chiedo, confusa e debilitata da un acuto dolore alla testa. “Ho detto toglila, subito.” Risponde, facendosi improvvisamente serio. Obbedendo a quella sorta di ordine, la prendo delicatamente in mano, per poi posarla sul comodino accanto al letto. “Il piano di ieri pare aver funzionato.” Osserva, sorridendo leggermente. “Buono a sapersi.” Rispondo, sorridendo a mia volta. “Tutto quello che devi fare ora è non toccare più quel ciondolo.” Afferma, dopo un prolungato silenzio. “Sei sicuro? In fondo è un tuo regalo, ed io…” “Raven, tesoro, so che ci tieni, ma è la cosa migliore.” Continua, donandomi con quelle semplici parole una nuova speranza. Il silenzio avvolge quindi la stanza, e la conversazione mia e di Nathan ha termine. Il buio cala sulla città, e stranamente, questa non appare viva come al solito. Da ormai lungo tempo, Nathan ed io siamo abituati ad ascoltare i latrati di Boss per poi sedarli, ma stasera, anche lui tace. Si prospetta quindi una notte tranquilla, e guardando fuori dalla finestra, sospiro cupamente. Di punto in bianco, il mio cellulare squilla, e nascondendolo nella tasca dei miei jeans, spero di non attirare l’attenzione di Nathan. Notando quanto sono tesa, non esita a chiedere spiegazioni, ed io minimizzo l’accaduto. “Solo un messaggio.” Rispondo infatti, mostrando un debole ma convincente sorriso. Alle mie parole, Nathan si tranquillizza, e dandomi le spalle, lascia la stanza. Alcuni minuti passano, ed io mi ritrovo da sola. Sicura di non essere osservata da nessuno, riprendo in mano il telefonino, rileggendo quel messaggio. “Non ho mai creduto alla faccenda del demone, quindi spirito o no, tu non ti avvicinerai a Nathan, è chiaro, piccolo impiastro?” queste le parole che lo componevano, e che agli occhi di qualunque altra persona, sarebbero potute apparire minacciose. Data la mia natura calma e razionale, quello non era certo il mio caso, così, evitando di eliminarlo, lo ignorai. Emettendo un suono, il mio telefono si spense in quell’istante. Batteria scarica. Non c’era da meravigliarsi, poiché avevo dimenticato di ricaricarlo. Rimettendomelo in tasca, mi sedetti sul letto, fermandomi a pensare. Mi chiedevo chi potesse avermi inviato quel messaggio, e a giudicare dal contenuto, conclusi che l’unico colpevole potesse essere qualcuno che mi odiava. Nella lista dei miei sospettati spiccavano due nomi. Lydia e Claire. Anche se per ragioni diverse, entrambe avevano il mio numero, e allo stesso modo, entrambe avevano un motivo per odiarmi. Una a causa del bullismo subito per mia mano, l’altra per amore di Nathan. Innamorata di lui da tempo immemore, Claire non riusciva ad accettare di vedere il ragazzo dei suoi sogni accanto ad una ragazza che non fosse lei, e avrebbe sicuramente superato ogni limite pur di vendicarsi. Forse il messaggio era da parte sua, e forse era soltanto un avvertimento, ma non potevo saperlo né esserne sicura. Difatti, il messaggio stesso sembrava non avere un mittente, provenendo da un numero telefonico a me sconosciuto e non salvato nella mia rubrica. Andando alla ricerca di indizi, rilessi quel messaggio infinite volte, riuscendo poi a notare la presenza di una parola in particolare. Impiastro. Un lemma che avevo sentito più di una volta, e che in ognuna di quelle occasioni, aveva abbandonato le labbra di una sola persona. In quel momento, tutti i pezzi di quel metaforico puzzle trovarono il loro posto. Lydia. Era stata lei, ed era tutta colpa sua. Sapevo bene che era notte fonda, ma dovevo assolutamente trovare il modo di chiarire con lei. Così, nonostante l’ora tarda, mi infilai il cappotto e uscii dal rifugio di Nathan. In genere, ci riunivamo tutti qui, ma per qualche strana ragione, lui ed io finivamo sempre per rimanere da soli, con quella di Boss come unica compagnia. Poco prima di uscire, indossai anche la collana. Sapevo bene che tenerla era rischioso, e lo stesso Nathan mi aveva avvertito, ma la mia testardaggine mi aveva impedito di dargli ascolto, e ormai era fatta. Animata da una forza che non credevo di possedere, camminai per tre interi isolati incurante del freddo notturno, raggiungendo la mia meta dopo circa un’ora. Quasi per istinto, mi fermai a guardarla. Eccola, lì davanti a me, la casa che cercavo. Avvicinandomi alla porta, bussai un paio di volte, attendendo pazientemente che venisse aperta. Per pura fortuna, fu proprio Lydia ad aprire. Con un gesto della mano, la salutai caldamente, ma lei, fredda come il vento che spirava all’esterno riuscendo a sfigurarti metaforicamente il volto, non ricambio. “Cosa vuoi da me?” mi chiese, sedendosi sul divano di casa e attendendo una mia risposta. “Spiegazioni. Perché quel messaggio? Perché? Cos’hai contro me e Nathan?” le dissi, iniziando poi a tempestarla di domande con un tono che diveniva progressivamente più serio e collerico. Alle mie parole, Lydia non rispose, e spaventata dalla piega che l’intera situazione stava prendendo, iniziò inconsapevolmente a tremare. Muta come un pesce, faticavo a contenere la rabbia, e lottando contro me stessa per riuscire a farlo, attendevo. I suoi tremori non accennavano a cessare, e le uniche parole a riempire il silenzio furono le sue. Lamenti di una ragazza che sfuggiva dai miei sguardi come una povera bestiola impaurita, e che pronunciando frasi strozzate, tentava di ammansirmi. “Io… non ho niente contro di voi, ma… è mio fratello, e…” “E?” la incalzai, forzandola a terminare quella frase. “Troppe ragazze l’hanno deluso, e non voglio vederlo soffrire di nuovo!” gridò fra le lacrime, sperando di aver soddisfatto la mia curiosità. A quelle parole, sentii la collera crescermi dentro, e il mio intero corpo venire travolto da un calore intenso e inspiegabile. “Quindi è così! Hai paura che tuo fratello soffra e ora che ha trovato l’amore non vuoi che lo viva, vero?” dissi, per poi avvicinarmi pericolosamente e porle quella domanda. “No! È solo che… che…” balbettava, sentendo il mio fiato sul collo e tentando invano di riportarmi alla ragione. “Che cosa, sciocca ragazzina?” chiesi, muovendo un ennesimo passo verso di lei e inchiodandola in un angolo di quella che era la cucina. Il tempo scorreva, e con l’andar dello stesso, la mia rabbia continuava a crescere. “Non… non farmi del male, ti prego.” Supplicò, cadendo letteralmente in ginocchio di fronte a me. Per nulla impietosita dalle sue preghiere, afferrai un coltello dall’apposito ceppo, e per una frazione di secondo, il mio viso si specchiò nell’affilata lama. Brandendolo minacciosa, mi avvicinai di nuovo a lei, e atterrandola con un pugno in pieno volto, glielo mostrai. “Tu non ostacolerai l’amore mio e di Nathan, capito, piccolo impiastro?” le dissi, vedendola tremare e recitare le sue preghiere sperando di non morire. Una mossa che non le sarebbe servita a nulla, poiché tutto accadde nei minuti a venire. Le strade erano deserte, e oltre a noi in quella cucina non c’era nessuno. La scena che seguì fu agghiacciante. Sorridendo maliziosa, le conficcai quel coltello dritto nel cuore, pugnalandola svariate volte, fino a vedere la lama coprirsi del suo stesso sangue. Inutile è dire che l’ultima cosa che Lydia vide furono i miei occhi. Rialzandomi da terra, venni colta da un improvviso dolore alle tempie, e fu allora che lo vidi. Per la prima volta di fronte a me, lo spirito di mia madre. Ero sicura di essere sveglia e vigile, ma proprio in quel momento, la vidi. Il viso magro ma perfetto, i lineamenti simili ai miei, ma due iridi vuote come quelle di una bambola in pregiata porcellana. “Raven, mia cara! La tua mente è un posto molto accogliente, sai?” disse, terminando quella frase con una domanda alla quale stentai a credere. Iniziando inconsciamente a tremare, collegai in fretta i pezzi di quella sorta di mosaico, realizzando quindi quella che era la realtà. Il suo spirito mi aveva di nuovo controllato, e tutto, a partire dalla lite, era colpa sua. A causa dei miei stessi tremori, rischiai di cadere a terra, e fissando il mio sguardo sul pavimento, la vidi. Lydia giaceva lì in terra pallida e priva di vita, o in altri termini morta. La risata di quel malvagio spirito echeggiò in tutta la casa, e crollando in ginocchio, mi lasciai andare ad un urlo liberatorio, al quale seguì un pianto dirotto. Non volevo crederci, ma nulla di quanto era accaduto era dissimile dal reale. Io l’avevo uccisa. Tremando incontrollabilmente, mi rialzai da terra, e non preoccupandomi neanche di nascondere il corpo o ripulirmi le mani dal sangue, corsi subito a casa. Era notte fonda, ed entrando mi assicurai di non fare rumore o disturbare nessuno. Raggiungendo il bagno, mi lavai le mani e il viso per pulirle dal sangue, e sperando che in qualche modo lo scorrere dell’acqua mondasse la mia anima dal peccato che avevo commesso. Arrivata sotto le coperte, non dormii né chiusi occhio. I miei sogni erano infatti tormentati da quell’apparizione, tetra e sinistra.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XIX

Criminale

Era notte, e attorno a me regnava il buio, ma al contrario di tutti i miei familiari, non dormivo. L’orrenda colpa di cui mi ero macchiata continuava a tormentarmi, e anche se lentamente, venivo privata del sonno. Nervosa, e spaventata, continuavo a tremare e rigirarmi nel letto. Il tempo passava, e con l’andar dello stesso, credetti di stare, seppur con estrema lentezza, impazzendo. Il volto di mia madre regnava sovrano nei meandri della mia povera mente, e nel tentativo di calmarmi, non feci altro che lavarmi le mani e il viso, e con l’arrivo del mattino, tentai di salvare le apparenze, preparandomi per andare a scuola come se nulla fosse accaduto. Una volta arrivata, entrai in aula al solo scopo di seguire le lezioni e fingere interesse come ero ormai solita fare. Dato il mio estremo nervosismo, la giornata scolastica mi apparve lentamente infinita. Seduta nel mio banco, passai ore a tamburellarci sopra con le dita, torturarmele e sfogliare le pagine dei miei libri sperando di ritrovare la calma e la compostezza ormai perse. Ero nervosa, e ad uno qualunque dei miei compagni sarebbe bastato uno sguardo per capirlo. Incredibilmente, nessuno mi rivolse la parola. La passione che avevo per il soprannaturale, unita al mio essere naturalmente taciturna, mi erano valsi la reputazione di ragazza strana, e fissando il mio orologio, sperai che i minuti si volatilizzassero, sparendo dalla mia vita come i fantasmi del mio oscuro passato. Ad ogni modo, l’ultima ora di lezione si concluse, e sulla strada di casa, camminavo. La paura e il terrore di essere vista, scoperta o riconosciuta mi dilaniavano l’anima, tanto da indurmi a voltarmi a controllarmi a intervalli regolari di pochi minuti. La strada che percorrevo appariva deserta, e improvvisamente, lo vidi. Un grosso e minaccioso cane continuava a seguirmi fissandomi con odio. Gli occhi, di un giallo simile a quello del prezioso oro, tradirono il suo vero essere. Era Boss, il cane di John. Avvicinandomi, tentai di ammansirlo, ma per qualche strana ragione, ogni mio passo nella sua direzione non faceva che adirarlo e spingerlo ad abbaiare con ferocia sempre maggiore. Spaventata, mi ritrassi, e concentrandomi nuovamente sul mio cammino, fissai lo sguardo sul pavimento. Riflettendo, compresi che era tutto troppo strano. Forse erano la mia mente e la mia immaginazione a convincermi di ogni cosa, ma nonostante tutto, ne ero convinta. Boss mi conosceva ormai da lungo tempo, e stando ai miei ricordi, era stato descritto da John come il classico gigante buono. Un gigante fiero e muscoloso che ora abbaiava mostrando dei rivoli di bava, che colando lentamente, abbandonavano la sua bocca. Tornando a guardarlo, esaminai i suoi occhi. Più scuri e brillanti del solito. In quel momento, ne fui sicura, mia madre aveva scelto di cambiare obiettivo, aizzando contro di me quella grossa bestia. Fuggendo, corsi più veloce che potessi, e con il fiato di chi non fa altro da tutta una vita, raggiunsi casa mia. Una volta arrivata, afferrai saldamente la maniglia della porta, e abbassandola, entrai. Ignorando ogni membro della mia famiglia, raggiunsi in fretta la mia accogliente camera, e sedendomi sul letto, chiusi gli occhi. Respirando a fondo, sperai di svuotare la mente e dimenticare ogni cosa, ma per mia nera sfortuna, anche questo tentativo si rivelò vano. Rimettendomi in piedi, mi avvicinai alla mia scrivania. Guardandomi poi intorno, aprii nuovamente ognuno dei miei libri nella speranza di trovare un rituale o una formula magica in grado di riportare lo spirito di mia madre nella dimensione alla quale apparteneva, ma anche in questo frangente, nulla. Il vuoto più totale. Sentendo quindi il peso del mondo schiacciarmi come il più pesante dei macigni, compii un gesto disperato. Uscendo nuovamente di casa, mi imposi un singolo obiettivo. Raggiungere il rifugio di Nathan. Lo conoscevo come i palmi delle mie stesse mani, ed ero sicura che lo avrei trovato lì, pronto a proteggermi e aiutarmi come era solito fare dall’inizio della nostra relazione. Sapevo bene che mi amava, ed ero inoltre certa che al contrario di qualsiasi altra persona, non mi avrebbe creduto una criminale. Lo ero di fronte alla legge, ma non di fronte al suo amore.    
 
Capitolo XX

Scambio di colpe

Impegnata in una corsa senza apparente fine, rimanevo concentrata, e correndo a velocità sostenuta, speravo di sfuggire ai pericoli della giungla urbana. La notte era ormai scesa, e malgrado la presenza delle auto in strada fosse davvero esigua, la cosa non importava. Il problema era difatti un altro, ovvero Boss. Il gigantesco rottweiler appartenuto al mio amico John. Sin dal giorno dell’omicidio di Lydia, mia madre aveva deciso di prendere il controllo della mente di quel grosso cane, aizzando contro di me, la sua stessa figlia, allo scopo di terminare la sua missione ed eliminarmi. Ansimando per la stanchezza, correvo sentendo in lontananza i latrati di Boss, che con lo scorrere del tempo si facevano sempre più vicini. Ormai era ufficiale. Se non fossi riuscita ad arrivare al rifugio, mi avrebbe sbranata. Per alcuni sporadici secondi, il silenzio regnò sovrano attorno a me, ma improvvisamente, rieccola. La bestia dalla quale fuggivo sembrava instancabile, e il suo ringhio, profondo e sommesso, mi incuteva terrore. Anche se per pochissimo tempo, la distanza che ci separava rimase uguale, ma inciampai in una stupida roccia, e in quel preciso istante, la mia fortuna smise di sorridermi, voltandomi quindi le spalle. “È finita.” Mi dissi, tentando invano di rialzarmi e fallendo miseramente nel mio intento. Notandomi debole e priva di difese l’animale si avvicinò e ringhiando sonoramente, si preparò ad attaccare. Sperando segretamente di distrarlo e fargli perdere interesse per me, mi finsi astutamente morta, salvo poi rotolare sull’asfalto e utilizzare quei momenti per prepararmi e pensare. In quel momento, il mio sguardo cadde sulla roccia in cui ero inciampata, e aguzzando l’ingegno, mi decisi. Fu allora che raccogliendola da terra, la lanciai in direzione del cane, che guaendo per il dolore, mi regalò il tempo necessario a fuggire. Approfittando di quegli attimi di libertà, riuscii a raggiungere la mia destinazione. Bussando alla porta con insistenza, pregai che Nathan mi sentisse e scegliesse di aprire, e una volta dentro, lo abbracciai stringendolo a me con quanta forza avessi. Alla mia vista, Nathan si mostrò confuso, e mantenendo il silenzio, mi guardò senza capire. “Chiudi la porta.” Lo pregai, tremando e faticando a respirare a causa della lunga e folle corsa che mi aveva condotto fin da lui. Obbedendo a quella sorta di ordine, Nathan agì in fretta, e appena un attimo dopo, scoprii che non era solo. Tutti i suoi amici, ad eccezione di Claire e Lydia, erano con lui. “Che sta succedendo?” chiese Russell, stranito dalla mia presenza e dallo stato in cui versavo. “Lì fuori c’è una bestia! È un piano di mia madre, e vuole uccidermi!” risposi, gridando e non riuscendo a controllare le mie emozioni. Alcuni minuti scorsero lenti, e tenendo lo sguardo fisso sulla porta, aspettavamo. Quella belva sarebbe tornata a momenti, ed io ne ero certa. In quel frangente, il silenzio appariva assordante, e mentre il mio intero corpo veniva scosso da tremiti sempre più evidenti, iniziai a sentirli. Colpi secchi, e via via sempre più forti. Dei latrati colmi d’ira si susseguirono, e nonostante i nostri sforzi, la porta cedette. Di fronte a noi c’era Boss, che continuando a ringhiare, ci guardava spostando lo sguardo con estrema lentezza. Un rivolo della sua disgustosa bava colò fino a terra, e spiccando un balzo, il cane fu addosso a John. Essendo il suo padrone, era convinto che esistesse un modo per farlo tornare alla normalità. “Sta buono bello. Sono io, non mi riconosci?” chiedeva, dimenandosi senza sosta e avendo come unico obiettivo quello di liberarsi. Approfittandosi della sua debolezza, l’animale lo aveva inchiodato al terreno, e con una sola zampata, lo mandò definitivamente al tappeto. Non era morto, ma svenuto. Avvicinandosi, Trevor e Russell cercarono di aiutare l’amico, ma purtroppo senza successo. Ancora sotto l’influsso dello spirito di mia madre, quella grossa bestia li atterrò tutti, per poi allontanarsi e concentrare la sua attenzione su di noi. Camminando lentamente, l’animale puntò Nathan, e spiccando un secondo balzo in avanti, lo costrinse in un angolo della stanza. Indietreggiando, parlava in modo calmo tentando di ammansirlo, ma venendo morso alla gamba, cadde a terra, urlando e contorcendosi per il dolore. Non contento di quel così misero risultato, il cane continuava a scuoterlo come avrebbe fatto con un pupazzo, e inorridita dalla vista del sangue, non muovevo un muscolo. Improvvisamente, una forza a dir poco mistica prese possesso del mio corpo, e gridando il nome del mio amato Nathan, caddi in ginocchio accanto a lui. Boss aveva finalmente deciso di darci tregua, e rimanendo seduto in un angolo della stanza, mi fissava. Intanto, il tempo scorreva, ed io ero preoccupata. I miei amici giacevano esanimi sul pavimento, e di fronte ad un incosciente Nathan, scoppiai a piangere. “Perché vuoi farmi questo? Cosa vuoi da me? Cosa vuoi da noi?” gridai fra le lacrime, conservando la segreta speranza che Nathan si svegliasse. Per pura sfortuna, ciò non accadde, e guardando negli occhi quel cane, un tempo mansueto, sperai in un segno. Avvicinandosi, l’animale mi sfiorò una mano, per poi posare lo sguardo sulla mia collana. Sapevo bene che mia madre lo stava controllando, e non riuscivo a crederci. Lo aveva spinto ad attaccarci, aveva ferito ognuno di noi, mi aveva perfino portata alle lacrime, e per cosa? Una collana. Una stupida collana. Un ninnolo che apparteneva in qualche modo al mondo della magia, e che per me aveva un inestimabile valore. Con gli occhi ancora velati dalle lacrime, me la tolsi per poi porgergliela, e in quel preciso istante, una luce illuminò a giorno la stanza. Schermendomi il viso con un braccio, non riuscii a vedere nulla, ma alcuni attimi dopo, scoprii la verità. Boss era tornato il cane di sempre, e le ferite dei miei amici erano guarite. Per pura fortuna, anche Nathan si era ripreso, e guardandomi negli occhi, mi si avvicinò. “Mi dispiace. Tutto questo è solo colpa mia.” Biascicai, lasciandomi abbracciare e chiudendo gli occhi al solo scopo di evitare di versare nuove lacrime. “Non è vero.” Rispose lui, continuando a fissarmi e scivolando poi nel silenzio. “Come puoi dirlo?” chiesi, confusa e stranita da quelle parole. “Raven, io ero lì. Ero lì durante ognuno dei tuoi crimini. Hai terrorizzato l’intera scuola, odiato Claire, torturato e ucciso mia sorella, ma va tutto bene.” Rispose, mantenendo una calma a mio dire mostruosa. “Che stai dicendo? Sai che è tutta colpa mia!” replicai, sapendo di essere completamente colpevole di ogni capo d’accusa. “Sta zitta! Lydia era mia sorella, e quel mostro l’ha uccisa!” gridò, per poi iniziare a piangere e fissare per l’ennesima volta il suo sguardo su di me. Aveva ormai perso ogni controllo. Si era mostrato forte ai miei occhi per tutti quegli anni, ma come una piccola bomba ad orologeria, era finalmente esploso. “Quando è morta hanno cercato il colpevole, ed io ne ero sicuro. Sapevo che eri stata tu, ma allora non eri in te, ed io non ci riesco.” Disse poi, lasciando quella frase in sospeso. Guardandolo, attesi che riprendesse a parlare, e in quel momento, le mia pazienza venne premiata. “Non riesco ad accettarlo, né ad odiarti!” concluse, per poi tacere e attendere una mia qualsiasi risposta. Rimanendo ferma e inerme, ascoltai quelle parole in religioso silenzio, e guardandolo, decisi di fare ciò che andava fatto. Stringendolo a me, lo baciai con forza e passione incredibili. Ero ormai certa di amarlo con tutta me stessa, e ad occhi chiusi, mi beai di quel momento. In quel momento, un singolo pensiero albergava nella mia mente. “Ti amo, Nathan, e ti amerò per sempre.” Gli dissi, concedendomi una pausa per respirare e dominare le mie stesse emozioni. Un nuovo bacio suggellò quella promessa, e con la sua fine, io sparii dalla sua vista. Dopo quanto era accaduto, mi ero concessa del tempo per pensare, e sulla strada di ritorno a casa, maturai una folle ma per me importante decisione.  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXI

Missione compiuta

Il dorato mattino prendeva il posto della nera notte, e impegnata negli ultimi passi verso casa, la raggiunsi. Bussando alla porta, attesi che venisse aperta, ed entrando, salutai la mia matrigna con il calore che sapevo di non averle mai riservato. Feci lo stesso con Chloe, e subito dopo, raggiunsi la mia stanza. Camminando lentamente, ammirai la mia immagine riflessa nello specchio. La ragazza che vedevo appariva ferita, e la sua bellezza risultava logorata dal tempo. Quasi istintivamente, iniziai a piangere, e aprendo uno dei cassetti della mia scrivania, andai alla ricerca di un foglio di carta. Tastando il fondo del cassetto con le dita, sperai di trovare ciò che cercavo, e poco prima di riuscirci, notai qualcos’altro. Per qualche strana ragione, la mia collana era tornata al suo posto. Quello era infatti il cassetto nel quale ero solita conservarla, e parlando con me stessa, sussurrai una sola parola. “Grazie.” Subito dopo, afferrai un foglio di carta e una penna, iniziando quindi a scrivere una lettera, stavolta indirizzata alla mia vera madre. Scrivendola, ebbi cura di esternare i miei sentimenti, e spiegarlo ciò che stavo affrontando. Soddisfatta del mio lavoro, la rilessi, e preparandomi ad uscire di casa, salutai quella che era la mia famiglia. Mi ero ormai decisa, e sapevo che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro. Uscendo di casa, mi diressi subito verso il cimitero cittadino. Proprio come mia madre, Lydia era stata sepolta in quella nuda terra, e raggiungendo la sua tomba, vi deposi delle rose bianche. Dopo la sua morte, Nathan aveva avuto modo di parlarmene a fondo, rivelandomi quanto lei stessa amasse quei fiori. Sapendolo, avevo creduto che quel gesto avrebbe avuto un significato grande e profondo per la sua famiglia, e la fortuna volle che non mi sbagliassi. Sorprendentemente, anche lui era lì, finalmente pronto a far visita all’ormai defunta sorella. Era ormai passato circa un anno dalla sua morte, e nonostante avesse cercato di continuare a vivere e andare avanti, lui non l’aveva mai dimenticata. Un gesto normale agli occhi di qualunque altra persona, ma lodevole ai miei. Scorgendolo in lontananza, mi avvicinai, e prendendogli la mano, lo salutai. “Già un anno.” Osservai, parlando a bassa voce. Mantenendo il silenzio, Nathan si limitò ad annuire, e sorridendo leggermente, mi strinse la mano con forza leggermente maggiore. Spostando lo sguardo dal terreno al suo viso sorrisi, e solo allora mi ricordai della lettera. “È per mia madre.” Gli dissi, sentendo la gioia di quel momento svanire lentamente. “Vi lascio da sole.” Rispose, notando la tomba della donna che mi aveva offerto il dono della vita. Sorridendo debolmente, mi avvicinai a quella fredda pietra tombale, e unendo i piedi, dispiegai quella lettera. Respirando profondamente, iniziai a leggerla ad alta voce. Sapevo bene che molte altre persone, impegnate a rendere omaggio ai propri cari avrebbero potuto sentirmi, ma la cosa non mi toccava. Facendomi coraggio, andai avanti. “Cara mamma, sono io, Raven. Avevi ragione, sono tua figlia, e ad essere sincera, ti volevo bene. Tu non lo sai, ma parlo al passato per una sola ragione. Ricordi il giorno della mia nascita? Ne sono sicura. Allora non ero che una dolce e indifesa neonata, ma sapevo che eri felice. L’intera famiglia era felice. Poi è arrivato quel funesto giorno, ovvero quello del mio abbandono. Senza pensarci, hai scelto di far dividere le nostre strade, e mi hai abbandonata. Una nuova famiglia ha scelto di offrirmi una seconda possibilità, e restituendomi la gioia che credevo di aver perso, mi ha fatto battere il cuore e conoscere le mie emozioni, a lungo sopite unicamente per colpa tua. Anni fa hai deciso di tornare da me provando a parlarmi, e nonostante tu non faccia più parte del mondo dei vivi, ci sei riuscita. Mi hai parlato, spaventato, influenzato e controllato. È solo colpa tua. Mi sono macchiata di crimini orribili, ho ferito le persone che amavo, e ancora oggi, nonostante il lento scorrere del tempo, non riesco a dimenticare il dolore che ho inferto a tutti. Perché sei tornata? Volevi punire i vivi irriconoscenti di fronte alla vita stessa, e scegliendo di controllare me e la mia giovane mente, ce l’hai fatta. Hai punito i mortali e i loro peccati terreni, e senza saperlo, hai punito anche me. Ne sei all’oscuro, ma mi hai impedito di vivere ed essere felice. Volevo vivere, e questo era il mio solo desiderio, fino ad oggi. Ora come ora, desidero solo chiudere gli occhi, espiare le mie colpe, e andarmene da questo mondo. Sei l’unica persona a cui questa colpa verrà imputata, e se ora puoi sentirmi, ho un’ultima cosa da dirti. Volevi essere un’eroina, vivere una vita oltre la nera morte, e anche se a spese della tua unica figlia, che tanto avevi desiderato, sei riuscita a realizzare il tuo desiderio e completare il tuo obiettivo. Volevi punirmi? Missione compiuta.” Quelle le due parole con cui avevo chiuso quella lettera, esternando i miei sentimenti e riuscendo a togliermi un enorme peso dalle spalle e dal cuore. Finalmente mi scoprivo libera, ma tremendamente infelice. Dati i miei trascorsi, non desideravo più di vivere in un mondo come questo, dove il dolore che avevo causato ed inflitto continuava a farsi sentire, ferendo sia me che le persone a me care. Non riuscivo più a sopportare questo peso, e raggiungendo un precipizio poco lontano dal cimitero, mi scoprii sul punto di compiere un metaforico passo, un salto nel vuoto che mi sarebbe risultato fatale. Poco prima che riuscissi a muovermi, sentii qualcuno gridare il mio nome. Era Nathan. Appariva stanco, e aveva le lacrime agli occhi. Mi parlava con voce spezzata, e mi pregava di tornare indietro. “Non puoi farlo! Hai ancora molto per cui vivere. Pensa a me, a noi, al nostro amore!” diceva, gridando con quanto fiato avesse in gola e lottando contro se stesso per non piangere. “Che mi dici di Chloe? E la tua matrigna? Loro ti vogliono bene! E io ti amo!” aggiunse poi, lasciando che alcune piccole lacrime rompessero gli argini presenti nei suoi occhi. A quelle parole, sentii il cuore venire stretto in una sorta di letale morsa, e cancellando dalla mia mente ognuno di quegli oscuri pensieri, agii d’istinto. Muovendo un singolo passo in avanti, afferrai la mano di Nathan, che stringendomi a sé, scelse di baciarmi. Guardandolo, notai il luccichio presente nel profondo dei suoi occhi, indice dell’amore che sapevo provasse per me. Un secondo bacio unì le nostre labbra, e alcuni minuti dopo, compii la migliore delle azioni. Stringendo in mano quell’ormai famosa lettera, la strappai, affidando poi ognuno dei pezzi al baratro oltre quel precipizio. Camminando, lasciai che mi prendesse per mano, e con ogni passo, mi avvicinai a casa. una volta arrivata, lo salutai, e riabbracciando la mia intera famiglia, non potei che piangere. Alla mia vista, la piccola Chloe tentò di consolarmi, e lasciandola fare sorrisi. Tre lunghi anni passarono, e in una mattina d’inverno, mi scoprii incinta. Nathan mi convinse poi a fare il grande passo, e dopo le nozze, abbiamo accolto in casa la nostra amata bambina. Parlandone e guardandola crescere, abbiamo deciso di chiamarla Annabelle. Ad essere sincera, era un nome che sin da ragazza avevo sempre amato, e che Nathan, da padre orgoglioso, aveva accettato senza opporsi, amandolo a sua volta. Sin dal giorno della sua nascita, Nathan ed io abbiamo dato inizio a una nuova vita, e una semplice frase ne è la chiave. Non ero sicura di arrivare a tanto, ma si può dire che sia stata proprio io a coniarla. Era una serata fredda, e mirando il cielo, guardavamo le stelle, e abbandonandomi ad un sospiro di sollievo, mi ero fermata a pensare, ricordando ogni sfaccettatura del mio passato. La mia vera madre aveva provato ad uccidermi e spingermi a compiere il suo stesso percorso, ma io non gliel’avevo permesso. “Missione compiuta.” Ripetevo ad alta voce ogni volta, avendo il piacere e la fortuna di vedere Nathan sorridere. Poteva sembrare banale, ma il suo sorriso, unito a quello della piccola Annabelle, della mia matrigna, e della mia sorellina Chloe, mi dava ogni giorno speranza. Nessuno al mondo sa perchè non fui mai punita per i miei crimini, ma poco importa. Dei semplici e luminosi sorrisi, all'apparenza banali, mi infondevano sicurezza e fiducia in me stessa, portandomi a capire di non essere la persona che la mia vera e defunta madre voleva che fossi, ovvero una senza cuore né anima.
 
 
 
 
 
 
 
Dopo un lungo periodo di incubazione, la storia che avete appena letto, con protagonista la misteriosa Raven, è sbarcata su questo sito, e sono davvero felice che voi siate arrivati fin qui. Sentitevi liberi di recensire, ci vedremo nella prossima, o nei miei vecchi scritti, Emmastory :)
   
 
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