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Autore: Drops of Neverland    01/07/2016    2 recensioni
Johnlock | Teen!Lock | Alternative Universe
AU: John e Sherlock sono migliori amici al liceo, poi si perdono di vista.
Sherlock Holmes si trova ad una stupida riunione di classe con i suoi stupidi ex-compagni di classe, che rivede per la prima volta dopo vent'anni. Ora è quello che ha sempre voluto essere, il primo consulente investigatuvo al mondo, eppure quando si ritrova con le vecchie compagnia nulla sembra cambiato; è ancora lo strano, l'escluso di cui prendersi in giro. L'unica nota positiva della serata è che, forse, potrà rivedere John Watson, il suo migliore amico del liceo, e forse qualcosa di più, perso di vista dopo la scuola.
Una fanfiction che si alterna tra il 2014 e il 1994, una Teen!Lock tutta Johnlock, che esplorerà il rapporto di Sherlock e John durante il liceo e, nel frattempo, vedrà il ricontrarsi dopo vent'anni.
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Classe 1994
Chapter 4 - #morning
Ultimo anno di scuola
21 novembre 1994, Hamilton College

 
Un familiare rumore metallico ruppe il silenzio che aleggiava nella stanza. Era forte e decisamente sgradevole. Sherlock mugugnò e, dopo aver alzato leggermente la testa dal cuscino, buttò a terra la sveglia che cadde fracassandosi.
« È la terza che rompi questo mese » mugugnò John, assonnato, dall’alto del suo letto a castello, sopra il compagno di stanza « Tanto le fornisce la scuola » biascicò quest’ultimo. John ridacchiò mentre cominciava a scendere la scala. Una delle cose che più odiava in assoluto era scendere dal letto la mattina, poggiando i piedi ancora caldi sul freddo metallo. Quando fu finalmente in piedi, la prima cosa che fece fu guardare fuori dalla finestra, solo per posare lo sguardo sulle nuvole scure e sulle gocce che si poggiavano veloci sul vetro; l’ennesima, inglese, uggiosa giornata di scuola.
Prese un cuscino dal divano  appoggiato sulla parte opposta al letto a castello dove dormivano lui e Sherlock, e glielo lanciò per buttarlo giù dal letto. Per essere un iperattivo, dormiva davvero tanto, e ogni mattina farlo alzare era un’impresa. John ancora non capiva esattamente perché si preoccupasse di farlo arrivare a colazione in tempo. Lui era completamente indipendente: aveva gente con cui mangiare a tavola e persone con cui passeggiare per i corridoi, persone che quando camminava con Sherlock non lo salutavano neppure. E allora perché si ostinava a girare con lui? Con un drogato, un sociopatico?
John scosse la testa.  Doveva evitare di fare certe riflessioni di prima mattina, o gli sarebbe esploso il cervello. Si limitò invece a richiamare Sherlock un’altra mezza dozzina di volte, finché il diretto interessato non decise che forse sarebbe stato meglio alzarsi. A quel punto, John si era già  lavato e sostava davanti allo specchio cercando di fare il nodo alla cravatta dell’uniforme. Ogni mattina era la stessa storia.
« Imparerai mai ad allacciarti la cravatta? » urlò Sherlock dal bagno.
« Abbassa la voce! » sbuffò John « O avremo un altro richiamo dal preside per rumori molesti ».
« Se tu non avessi iniziato a sbraitare non avremmo mai ricevuto quel richiamo! ».
« Avevi rubato le prove dell’unico caso d’importanza mai accaduto alla Hamilton e le hai sistemate sul tappeto della nostra camera, certo che ho iniziato a sbraitare ».
John arrangiò il nodo della cravatta rossa alla bell’e meglio, in quel momento non gli importava granché. Durante la colazione avrebbe chiesto a qualche ragazza carina di fargli il nodo; non sapeva perché, ma le ragazze non rifiutavano mai a quella richiesta.
John ripensò a due giorni prima quando, dopo le lezioni, era rientrato nella sua camera, la 221B, ed aveva trovato Sherlock seduto sul polveroso tappeto rosso a gambe incrociate, curvo sopra qualcosa. La prima impressione che diede a John fu quella di un bambino chino sul suo giocattolo preferito, seduto a terra nonostante tutti i rimproveri della madre.
« Sherlock ?» lo aveva chiamato per attirare la sua attenzione. Sapeva che non si sarebbe accorto di lui se non lo avesse richiamato. Poteva concentrarsi su qualcosa per ore « Che stai facendo? ».
« Oh, John » si era girato, e John aveva potuto constatare con sommo orrore che Sherlock aveva in mano il diario di Kaitlyn Harvey, prima suicida nella storia della Hamilton. Kaitlyn era stata ritrovata sul tetto dell’edificio dell’Aula Magna qualche  giorno prima, morta. La scuola non aveva fatto trapelare nulla delle cause di quello che era stato definito un incidente, aveva messo presto tutto a tacere e sequestrato tutti i beni di Kaitlyn Harvey per ridargli alla famiglia, trattenendo solo alcuni quaderni e il suo diario personale. Il preside Atkins aveva intimato agli studenti di far continuare la propria vita regolarmente. A quanto pareva, Sherlock non era della stessa opinione « Sto leggendo il diario della Harvey » disse, con un scrollata di spalle « Noioso. Racconta solo le sue giornate con commenti offensivi rivolti a svariate persone. Terribilmente banale ».
John aveva perso il controllo, aveva urlato che si dovrebbe portare rispetto per una ragazzina suicidata appena tre giorni prima e che non bisognerebbe rubare le prove che la polizia scolastica stava esaminando. Era arrivato poi uno dei professori a bussare alla loro porta ed erano stati portati dal preside che li aveva richiamati per rumori molesti. John aveva scoperto in seguito che era stato Gil Ivanov a lamentarsi con il professore per le urla provenienti dalla 221B.
“Chissà cosa stanno facendo quei due, prof, per gridare tanto. In pieno pomeriggio, poi. Magari potrebbe sorprenderli in flagrante”.
John si era ormai abituato alle frecciatine che riceveva da quando girava con Sherlock. Per lo più, si limitava a un non sono gay, quando le persone facevano allusioni di quel genere. Non gli dava particolarmente fastidio, ma gli era capitato un paio di volte di perdere la pazienza, alzare il tono di voce, e andarsene sbattendo la porta. Riflettendoci su, forse, era capitato più di un paio di volte. Non era comunque mai successo che un loro compagno di scuola arrivasse a tanto. E John iniziava a non poterne più.
Sherlock uscì dal bagno in una nuvola di vapore. I capelli neri bagnati gli coprivano la fronte e non sembravano volersi staccare dalla pelle bianca, a cui aderiva anche la camicia bianca dell’uniforme scolastica appena inumidita dal vapore acqueo del bagno.
« Ti ammalerai prima o poi, se tutte le mattine lasci i capelli bagnati » disse John, mentre cercava per l’ultima volta di allacciarsi la cravatta in maniera decente. Generalmente riusciva ad arrangiarsi e ad aggiustarla alla bell’e meglio. Quella mattina proprio non gli usciva.
« Teoricamente mi prenderei solo un raffreddore, in quanto l’influenza è una malattia infettiva virale. Cavolo, John!, vuoi fare il medico, dovresti sapere queste cose. E comunque, stare male sarebbe una vera fortuna. Non dovrei frequentare le lezioni o vedere i nostri compagni. Inoltre potrei usufruire del tempo in più per cose davvero utili, come fare esperimenti e bere tè e fare esperimenti sul tè ».
« Esperimenti sul tè? ».
« Quando vincerò il Premio Nobel per gli esperimenti sul tè capirai ».
John ridacchiò. Erano rari i momenti in cui Sherlock faceva certe battute, e quando capitavano cercava sempre di gustarli con calma. Sherlock si stava specchiando, girandosi e rigirandosi per ammirarsi  meglio con la sua solita egocentricità. John constatò con una certa invidia che il nodo della sua cravatta era perfetto, stretto al punto giusto e per niente sformato. Lui ancora ci litigava e Sherlock, ovviamente, l’aveva notato. Improvvisamente, Sherlock abbandonò il contatto visivo che manteneva con la sua copia nello specchio e si avvicinò a John. Lo prese di spalle, girandolo verso di sé e avvicinandolo. Puntò gli occhi sulla sua cravatta sformata dalla sua formidabile altezza - lo superava di almeno quindici centimetri. John si sentiva andare a fuoco, in imbarazzo, perché solitamente Sherlock non era il tipo di persona che amava il contatto umano. Ritrovarselo a pochi centimetri da sé, di prima mattina, con i suoi occhi azzurri puntati su di sé, piegato per rifargli il nodo della cravatta era qualcosa di davvero insolito.
« Quella cosa che tu definisci cravatta mi stava urtando i nervi » mormorò piano, mentre le sue dita  definivano un nodo perfetto.
 
A John non piaceva l’atmosfera che si era creata nel corso dei quattro giorni successivi al suicidio. Per niente. I corridoi solitamente pieni di vita, dove i ragazzi passavano il loro tempo libero in maniera energica e caotica, si erano trasformati in locali vuoti, attraversati di  tanto in tanto dalle silenziose figure in cui si erano trasformati gli studenti. Le amiche di Kaitlyn Harvey erano buie presenze costanti, ogni volta che una di loro entrava in una stanza tutti tacevano istintivamente, lanciando loro lunghe occhiate malinconiche. Più di una volta era successo che una di loro scoppiasse a piangere durante le lezioni o nelle ore dei pasti, e John sentiva sempre la voglia di alzarsi e precipitarsi ad abbracciarle; Sherlock si limitava a distogliere lo sguardo, o continuare a fare ciò che stava facendo. Se John non l’avesse conosciuto così bene, avrebbe detto che non provava alcun sentimento davanti alla vista di quelle ragazze distrutte dal dolore; coglieva invece la sensazione di profondo imbarazzo che provava a stare a contatto con i nudi sentimenti umani. Riusciva a percepire l’agitazione che s’impossessava di Sherlock quando le vittime del lutto facevano la loro entrata da una mano passata tra i riccioli scuri o dal ticchettio della penna sul banco; la vedeva quando piegava un po’ la testa di scatto mentre scriveva, o dalla gamba che muoveva velocemente sotto il banco.
Quando quella mattina John nella sala mensa per fare colazione, l’atmosfera era ancora la stessa dei giorni precedenti. Fu contento che Sherlock non fosse sceso con lui; si sarebbe probabilmente innervosito, e sarebbe stato ancor più irritante di quanto non fosse tutti i giorni, tutto il tempo.
John si avvicinò al bancone dove la signora della mensa distribuiva il cibo a tutti gli studenti. Non era la stereotipata signora della mensa: non era grassa brufolosa o scontrosa; al contrario, era una minuta donna sulla quarantina, con lunghi capelli di un biondo sporco che teneva sempre raccolti in una coda alta, che le scopriva il viso rigorosamente struccato e le faceva mettere in risalto i grandi occhi marroni. Con i ragazzi della Hamilton era sempre sorridente, ed aveva sempre qualche parola gentile per John e, incredibilmente, aveva una predilezione per Sherlock, che ricambiava le simpatie di Rita Murray con sorrisi carismatici.
« Buongiorno, John! » gli sorrise Rita « cosa ti andrebbe stamattina? » chiese con la sua solita gentilezza.
« Oh, il solito caffè, grazie » John non era molto in vena di fare conversazione quella mattina, e non riusciva a comprendere come Rita potesse continuare a sorridere con l’atmosfera che c’era quei giorni, ma le era infinitesimamente grato, perché era rincuorante vedere un sorriso nel buio della morte.
« Sherlock? » domandò la donna.
« Oh, ancora in camera a fare chissà cosa » borbottò in risposta, nonostante sapesse che non era quello che gli stava chiedendo . dopo un attimo di silenzio John alzò gli occhi al cielo, rassegnato « Sherlock vuole un tè ai frutti di bosco con una fetta di pane e marmellata. E sì, prendo io la sua colazione ».
Rita annuì soddisfatta « Ora sì che ci siamo, John ».
 
John si sedette ad un dei grandi tavoli circolari della sala mensa. Il suo vassoio con la colazione era davanti a lui, ed un altro simile occupava il posto vuoto alla sua destra. Tutti gli studenti seduti con lui lanciarono un’occhiata derisoria alla sedia vuota.
« Non sapevo che fossi anche l’assistente dello psicopatico, Watson » commentò uno di loro, un tipo tozzo che frequentava la sua stessa classe di fisica, a cui Sherlock si era riferito come stupido provincialotto di strette vedute.
« Va’ a farti fottere, Brad » rispose John.
Guardò il vassoio piegando un po’ la testa. Non era il suo assistente e, per quanto ci provasse, non riusciva a resistere alla sensazione di dovere quando Sherlock tutte le mattine gli diceva « John, ti raggiungo. Prendi tu la mia colazione ».
Ricordava quando glielo aveva chiesto la prima volta, durante la loro prima mattinata insieme da compagni dii stanza. John gli aveva detto sì per fare un gesto carino. All’ora non aveva idea che sarebbe diventata un’abitudine.
Sherlock si buttò scompostamente sulla sedia accanto a lui, risvegliandolo dal flashback « Niente! Ti rendi conto? Assolutamente niente! » esclamò, gesticolando come un pazzo. Lui gesticolava sempre, finendo per colpire qualche povero passante innocente o gente seduta vicino a lui. Tutti gli occhi del tavolo erano puntati su Sherlock.
« Abbassa la voce e cerca di calmarti» borbottò John con gli occhi bassi. Chiedeva troppo forse? Voleva solo fare colazione in pace.
« Il caso della settimana scorsa non ha portato a niente, John, come potrei calmarmi? Merda! Eppure c’ero così vicino. Se solo le persone non fossero così banali. Dovrebbero smetterla di lasciare in giro le proprie cose, è ovvio che le scambi per degli indizi! E si lamentano pure, in continuazione! Loro non si annoiano, almeno. Sono io ad annoiarmi. Neanche quest’omicidio riesce a tirarmi su di morale, la polizia del college non mi vuole lasciar partecipare ».
« Stai dicendo che la settimana scorsa ho saltato filosofia e mi sono beccato una punizione perché tu avevi sbagliato a capire quali fossero degli indizi per il tuo caso e quali no? ».
« Be’, di sicuro non è stata colpa mia! ».
« Oh, smettila! Sei un idiota. E poi quello di Kaitlyn Harvey è stato un suicidio, non un omicidio ».
« Ma per favore!  E poi sarei io l’idiota. Quello lì è stato chiaramente un omicidio, ma nessuno si degna di ascoltarmi. Le prove sono così ovvie. Devo solo capire chi è stato ».
In quel momento, John si rese conto che tutti li avevano sentiti e che li stavano fissando, con la mascella a terra e negli occhi la paura e lo stupore di chi non sa, e la rassegnazione di chi era consapevole che non avrebbe mai saputo. E si rese conto di quanto fosse fortunato ad essere una delle poche persone a cui sarebbe stato spiegato il genio di Sherlock Holmes. Ma ciò non gli impedì di provare profondo imbarazzo e dispiacere quando si rese conto che un’amica di Kaitlyn Harvey era seduta a quel tavolo. La ragazza si sciolse in un pianto disperato, che ricordava l’infrangersi di un milione di bicchieri di cristallo, ancora e ancora e ancora. Una sua amica si precipitò ad abbracciarla, nonostante fosse anche lei sul punto di scoppiare a piangere. Tutta la mensa aveva gli occhi puntati su di loro.
Quando John si girò, vide Sherlock scribacchiare qualcosa freneticamente, mentre scuoteva la testa per riuscire a non far cadere i ricci neri davanti agli occhi. Si era sentito fortunato ad essere amico di Sherlock Holmes, eppure quella sensazione svanì subito a quella vista. La mensa era nel più totale silenzio, interrotto solo dai singhiozzi della ragazza, e a Sherlock non importava. John si sentì crollare il mondo a dosso. Lanciò un’occhiata piena di sensi di colpa alla ragazza prima di alzarsi e lasciare  la mesa nello stupore di tutti.
*
 
Ora mi dici perché te ne sei andato così dalla sala mensa?
 
E me lo chiedi pure?
 
Certo che te lo chiedo pure. Non vuoi sapere nulla sull’omicidio? So che muori dalla voglia di farmi tantissime domande. Tu adori farmi delle domande e adori me.
 
Hai ferito quella ragazza con la tua presunzione, Sherlock. E non te ne è importato niente. E ora vuoi che parli con te solo perché ti senti adulato. Ed io non ti adoro! E mandarsi i bigliettini durante la lezione è da ragazzine!
 
Tu sei la regina delle ragazzine, John. A proposito, dobbiamo portare qualcuno alla festa di venerdì prossimo? Nei film adolescienziali fanno così. Mi sto informando.
 
Perché non rispondi al mio biglietto? Sei molto scortese. E dai, su, una piccola domanda. Sarò felice di rispondere anche ad una domanda ovvia. Tipo perché è un omicidio e non un suicidio.
 
Okay. Dimmi un’informazione a casaccio, così riesco a farti stare zitto.

E comunque sì, generalmente si porta qualcuno alle feste.
 
Così non c’è gusto a spiegarti tutto, se ti dico un'informazione a mia scelta o casuale. Non mi piace vantarmi del mio fantastico cervello in questa maniera.
 
Oh, andiamo. Tu ami di vantarti del tuo cervello in qualsiasi maniera.
 
Hai ragione.
 
Allora, quale sarebbe l’informazione?
 
Non farti pregare!
 
È molto semplice. Talmente semplice da essere riassunta in una sola parola.
 
…ovvero?
 
Popolarità.
 
« Holmes! Watson! Non è permesso scambiarsi bigliettini durante l’ora di letteratura, non tollero un simile comportamento! Entrambi in presidenza, subito ».

lo so che sono sprita per 
quasi due mesi, e mi merito
i pomodori. Non scriverò 
neanche colorato. Ma sono
stata molto presa dalla scuola
dalle serie tv, da fiere del fumetto e dal setlock.
ma ora che è state aggiornerò
più spesso spero!
le recensioni sono ancora ben accette!
si torna in pista
the game is never over

 
miss neverland
 
  
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