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Autore: supersara    01/07/2016    10 recensioni
Fanfiction partecipante al contest "La prima volta che mi hai sorriso" indetto dal gruppo di Facebook Takahashi Fanfiction Italia.
Breve OS ambientata subito dopo lo scontro fra Inuyasha e Sesshomaru, scontro che vide perdente quest'ultimo.
Dal testo: "No, lei non doveva morire. Era giusto che morisse, ma non sarebbe morta. Perché? Perché lui non voleva che lei morisse."
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Rin, Sesshoumaru
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Era appoggiato al tronco di quell’albero da giorni. Ferito nel corpo e nell’orgoglio, attendeva che i colpi subiti gli consentissero almeno di muoversi.

Odiava se stesso, detestava la sua debolezza, detestava suo fratello e detestava suo padre, che lo aveva trascinato in basso, fino a quella miserevole condizione.

Il rumore dei piccoli passi in lontananza gli risuonò nelle orecchie. Ancora quella bambina umana che si divertiva a giocare con il fuoco.

Sbucò timidamente da dietro un cespuglio e gli corse incontro porgendogli una foglia, che usava a mo’ di piatto, con dentro una manciata di funghi. Sesshomaru chiuse gli occhi sospirando: il primo giorno aveva portato un pesce, il secondo della carne secca, il terzo bacche e radici. Cambiava ogni giorno perché temeva che non mangiasse perché il cibo non era di suo gradimento.

Sconsolata dal fatto che anche quest’ultimo tentativo fosse andato male, poggiò a terra la foglia e gli porse uno strano cilindro di legno che conteneva un liquido bianco: non era acqua, si trattava di un liquore. Il demone spostò lo sguardo su di lei facendola sobbalzare più per sorpresa che per paura: gli occhi marroni brillavano di una luce determinata, e la bocca era contorta, come se si stesse sforzando.

Non ne comprese il motivo, ma afferrò i contenitore e bevve un sorso per accontentarla. La ragazzina sembrò gonfiarsi di gioia. Si alzò e corse di nuovo da dove era venuta.

Sesshomaru guardò per diversi minuti la direzione in cui era sparita chiedendosi a chi avesse rubato quel liquido orribile.

La debolezza era il peggiore dei mali: provava repulsione per se stesso, che si era fatto battere da un mezzo demone, ma non ne provava per quella piccola umana, sudicia, muta e senza speranza. Per lei provava solo pena, il misero destino che l’attendeva gli faceva provare persino una punta di rabbia.

Passò un atro giorno, e di nuovo Sesshomaru udì i suoi passi. Diversi questa volta: lenti, come se si stesse trascinando. Quando la vide capì che era stata picchiata: l’occhio era tumefatto, un dente le si era scheggiato, zoppicava e presentava lividi in tutto il corpo. Si inginocchiò vicino a lui e gli porse la solita foglia, con un pesciolino minuscolo, probabilmente quel giorno non era riuscita a prendere altro.

“Non lo voglio.” Disse lui freddamente.

Lei sgranò gli occhi incredula: era la prima volta che sentiva la sua voce.

“Come ti sei procurata quelle ferite?” Chiese il demone addolcendo leggermente il tono, o per lo meno cercando di non spaventarla. Magari era stato il proprietario del liquore che aveva rubato per lui. Doveva essere frustrante non poter far nulla per difendersi: un essere umano, femmina e per di più bambina. Lei era l’immagine della disperazione per Sesshomaru, così debole da suscitare pena persino un demone come lui. Forse perché nonostante la sua posizione così misera, aveva cercato di aiutarlo.

Lei, aiutare lui…

La ragazzina fece un respiro profondo e sorrise: un sorriso vero, gioioso, felice. Sorrideva perché lui si era interessato a lei. Ma non si aspettava nulla, era soltanto felice che a qualcuno importasse.

Sesshomaru distolse lo sguardo incredulo: come si poteva gioire in una situazione del genere?

La ritrovò a terra, senza vita, i morsi dei lupi si erano aggiunti alle ferite arrecate dai suoi stessi simili: una creatura che non era benvoluta neanche da quelli della sua stessa specie.

Era quella la giusta conclusione, per quanto terribile e dolorosa, per lei non poteva andare altrimenti.

Sesshomaru riusciva a sentire la paura che aveva provato: la corsa disperata, la consapevolezza che il piede rotto non le avrebbe dato la velocità di cui aveva bisogno per salvarsi, il primo morso alla gamba: spietato. Famelico il lupo mentre strappava la sua carne e se ne nutriva, le mani sul volto, mosse dall’istinto e dalla speranza di riuscire a salvarsi, e gli occhi ancora sgranati dalla paura e dalla confusione. La terribile domanda del perché doveva morire? La liberazione da una vita orribile, solitaria e misera che tuttavia lei voleva vivere, con tutta l’ostinazione con cui un bambino, che non conosceva depressione o istinti suicidi, poteva aggrapparvisi.

No, lei non doveva morire. Era giusto che morisse, ma non sarebbe morta. Perché? Perché lui non voleva che lei morisse.

Si figurò di nuovo quel sorriso disinteressato mentre estraeva Tenseiga dal fodero. Nessuno gli aveva mai sorriso così. Fu allora che li vide: i messaggeri dell’aldilà pronti per accompagnarla in quel viaggio.

Un solo fendete, misericordioso, quasi angelico. Era di nuovo viva.
 
  
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