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Autore: falling_watson    01/07/2016    2 recensioni
"Ma la Senna si era rivelata crudele e matrigna e lo aveva sputato via, il suo sacrificio non aveva calmato le sue acque vorticose, e si era ritrovato sulla banchina, fradicio, pervaso da un dolore lancinante, in un inferno peggiore di quello in cui si sarebbe ritrovato al di là del fiume."
Il tentativo di suicidio di Javert fallisce, e l'Ispettore deve confrontarsi con la sua coscienza, e con la sua nemesi.
[Valvert, pre-slash, se strizzate gli occhi]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Javert, Jean Valjean
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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As a boy, he was taught he was the bad one 
One that could heed the other, the protector 
He will walk, he will walk, he will walk into the river 

  • Winter Windows, Sea Wolf 
Camminava come camminano i dannati, come camminano le anime tornate dalle profondità dell’inferno, e forse era così. Grondava acqua, e lasciava dietro di sé una scia di impronte bagnate, che rifulgevano alla luce della luna in quella insanguinata notte di giugno. I capelli incollati al volto nascondevano la sua espressione cupa, e tutto, in quell’uomo, no, in quel fantasma, in quell’anima dannata faceva trasparire un’aura di morte. Zoppicava, e il sangue si mescolava al putridume della Senna sul marciapiede. Tra i denti malediceva il caso, Dio, Satana, gli uomini. Nessuno fece caso a quella figura, nessuno, in quella notte di tragedia e di giovani vite spezzate, si sarebbe stupito del fatto che il diavolo stesso si fosse aggirato per le strade di Parigi. Poche ore prima le acque della Senna lo avevano chiamato come il canto di una sirena attira un marinaio. Aveva desiderato l’abbraccio dell’acqua scura, come unico conforto dal crollo di tutto ciò in cui aveva creduto, del fatto che un galeotto fosse un galeotto, e che un santo fosse un santo, che la Legge gli avrebbe sempre arriso, e che operando nel suo nome, e solo nel suo, avrebbe operato nel giusto. La consapevolezza dell’esistenza di forze diverse dalla Legge ed ugualmente potenti lo aveva gettato nell’abisso della disperazione, si era accorto che tutto ciò in cui aveva creduto e per cui si era battuto per tutta la sua vita non aveva senso. Quale soluzione migliore, se non porre fine a quell’esistenza insensata?  
Ma la Senna si era rivelata crudele e matrigna e lo aveva sputato via, il suo sacrificio non aveva calmato le sue acque vorticose, e si era ritrovato sulla banchina, fradicio, pervaso da un dolore lancinante, in un inferno peggiore di quello in cui si sarebbe ritrovato al di là del fiume. Aveva vagato per le strade deserte senza sapere come procedere, per la prima volta da tempo immemore.  
Fin da piccolo, era stato consapevole delle due strade che gli si aprivano davanti, verso la criminalità o verso la giustizia, e subito era stato sicuro di quale avrebbe preso. Aveva dovuto rinnegare le sue origini… aveva voluto bene a sua madre? Sì, benedizione o maledizione che fosse. Gli aveva insegnato a riconoscere le stelle, la sua guida, che guardavano benignamente sugli uomini, sempre uguali, immutate e distanti. Ora il cielo era scuro, non riusciva a vedere le stelle, o forse esse c’erano eccome, ma i suoi occhi non le percepivano. Forse stava finalmente morendo, forse le ferite riportate dalla caduta lo stavano uccidendo, forse il suo folle volo non era stato del tutto inutile, forse l’agognata morte lo stava lentamente prendendo con sé. 
Le stelle e il mondo intero diventarono nere. 
 
Lo risvegliarono strazianti grida di dolore. Si stupì che non fossero le sue. Si trovava in un letto estraneo, percepiva la presenza di altre persone, sentiva respiri, colpi di tosse, pianti, parole sconnesse e le urla che lo avevano destato. Un ospedale. Un ospedale troppo affollato a causa degli accadimenti della notte. Qualche angelo vestito da passante aveva avuto pietà del suo corpo e lo aveva fatto portare fin lì, senza spaventarsi del fatto che ormai fosse un fantasma, un’ombra. Probabilmente i medici, troppo occupati con i feriti della sommossa per preoccuparsi di un uomo che aveva fallito anche nel togliersi la vita, lo avevano stordito con il laudano e lo avevano lasciato tra i casi meno gravi e urgenti, con la speranza che non agonizzasse troppo. Qualcuno gli aveva medicato le fratture alle costole, alle gambe e alle braccia. 
Si alzò di scatto, e le sue membra intorpidite dalla tintura di oppio non protestarono energicamente come temeva. Corse via come aveva continuato a fare nelle ultime ore, urtando e inciampandosi nei letti di fortuna che affollavano il corridoio dell’ospedale, cercava una porta, una via d’uscita, anche dalla sua vita. Attraversò stanze e corridoi sovraffollati di moribondi che provenivano dalle barricate, rivoluzionari e soldati uguali di fronte al dolore e alla morte. Aveva visto il fiume di sangue dei suoi scorrere tra i cadaveri e i ciottoli, impregnando le uniformi, e aveva anche visto i corpi dei giovani rivoluzionari ricomposti e messi in fila. Qualcuno teneva a loro, sembrava che dormissero. Il ragazzino, soprattutto, lo aveva spiazzato, così giovane, eppure già morto. Lo Javert di prima, con il suo sistema di valori bianco e nero, pensò che era stato meglio così, che fosse morto, ancora giovane e in un certo qual modo innocente, anche se i suoi occhi avevano visto la miseria e l’orrore dell’umanità. Se fosse cresciuto, sarebbe diventato un tagliagole e un ladro. Ma non riusciva più a pensare soltanto in questo modo, ormai, l’influenza di Valjean, di quel santo galeotto, era troppo forte. Quel bambino biondo e sporco, con quegli occhi adulti sul viso infantile, troppo coraggioso per il suo bene, avrebbe potuto essere suo figlio, un monello di strada, cresciuto sulle misere paghe di un ispettore di polizia, che molto spesso aveva dovuto decidere se scaldarsi o mangiare.  
In un certo senso, gli ricordava se stesso da piccolo: un bambinetto zingaro con i vestiti troppo grandi, che correva nei vicoli più oscuri e miserabili. Sua madre aveva cercato quanto possibile di tenerlo pulito, nutrito e vestito, e, nei giorni più fortunati, con un tetto sulla testa. Aveva anche cercato di tenerlo al sicuro, nel modo che conosceva, con incantesimi e amuleti, che lui aveva rinnegato il prima possibile. Ciarlatanerie, menzogne per creduloni con soldi da buttar via. Talvolta gli tornava in mente la pietra fredda contro il suo petto, portata al collo, nascosta sotto i vestiti, per fare in modo che gli altri bambini non lo prendessero ulteriormente in giro. 
Sua madre e il suo mondo di spiriti e stelle, suo padre sconosciuto e galeotto, li aveva lasciati dietro di sé da molto tempo, rinnegati, ma non dimenticati: d’altronde, doveva a sua madre il saper riconoscere le costellazioni, a volte imprecava tra i denti nella sua lingua natia, sapeva, almeno in teoria, predire il futuro, leggere le carte, le mani. Ma tutto ciò gli ricordava le prese in giro, le cattiverie, le emarginazioni che aveva dovuto patire da bambino e oltre, era strano e doloroso. 
“Ispettore!” una voce lo fece tornare alla realtà. Un giovane ufficiale, che aveva visto centinaia di volte alla stazione di polizia, ma di cui ora la sua mente sconvolta non ricordava il nome, stava in piedi in fondo al corridoio lungo al quale Javert aveva camminato, affiancato da un uomo in borghese, un medico o un infermiere. “Ispettore, fermatevi”. L’ufficiale e il medico si avvicinarono in quello che sembrò un attimo, un sogno. Javert non era più sicuro di ciò che lo circondava, il dolore stava ritornando, le gambe non lo reggevano più.  
“Ispettore, avevamo perso le speranze di vedervi vivo. Quella nota che avete lasciato faceva trasparire il peggio, e il vostro cappotto è stato trovato sulla banchina vicino al Pont-au-Change, credevamo…” farfugliò il giovane, ma l’Ispettore non lo ascoltava più. Non cercò nemmeno di protestare contro il titolo, di dire che lui non era più degno di essere chiamato così, che aveva tradito la Legge e tutto ciò in cui credeva. Si lasciò trascinare via, sconfitto. 
 
Ormai era morto. Ormai si considerava morto. Si svegliava, andava al lavoro, tornava a casa, cenava, si coricava con gli stessi gesti misurati ed abitudinari, come se la notte fatale non fosse mai accaduta, ma ora avevano un che di meccanico, mancavano dell’orgoglio e dello zelo che li aveva caratterizzati fino a quel momento. 
Le fratture riportate lo avevano costretto a uno straziante mese di riposo, ed altri due, ancora più strazianti, di lavoro d’ufficio.  
La sua vita gli scorreva addosso come l’acqua del fiume, semplicemente esisteva. Era una statua dietro la scrivania, con lo sguardo perso nel vuoto, che compilava moduli e rispondeva a monosillabi o non rispondeva affatto. 
Gli altri ufficiali, se dapprima lo avevano lodato per essere sopravvissuto alle barricate o lo avevano trattato con il consueto miscuglio di rispetto e timore, ora quasi lo ignoravano, dopo che non rispondeva più ai loro saluti. 
Non aveva più tentato il suicidio, era sprofondato in una sorta torpore. Doveva fare qualcosa.  


Jean Valjean sentì bussare alla porta e pensò che la Morte fosse arrivato a prenderlo. Quando aprì l’uscio, e si ritrovò davanti quell’ombra che era stata l’Ispettore, ritenne di aver avuto ragione. L’ombra lo fissò, con quegli occhi che sembravano aver visto i peggiori gironi infernali, con le labbra dischiuse, come se avesse voluto dire qualcosa, ma si era fermato, stupito di vedere Valjean lì. Se aveva ancora i capelli lunghi e le basette dell’Ispettore e la sua alta statura, il suo contegno abituale aveva lasciato il posto a un uomo preda di una disperazione immensa, più magro, pallido ed emaciato del solito, con l’uniforme in disordine, come se fosse stata abbottonata in fretta, ricurvo sotto un peso che era celato nel suo animo.  
“Perdonate la franchezza, ma avevo smesso di attendervi, Ispettore” 
Javert si riebbe dallo stupore in cui era precipitato. “Non sono qui per arrestarvi. In realtà non so perché sono qui. Dovrei andarmene. Scusatemi. Non vi disturberò mai più. Non mi vedrete mai più. Addio.” 
L’Ispettore era visibilmente confuso, somigliava a un animale accerchiato dai predatori, che tentava in ogni modo di cercare una via di fuga, atterrito, Valjean vedeva il panico nei suoi occhi. La lince aveva terrorizzato la tigre. 
“Ispettore, aspettate. Fermatevi.” Valjean lo afferrò per il braccio, Javert trattenne il respiro al contatto. 
“Non siete in grado di andare da nessuna parte in questo stato, ora entrate e cercate di calmarvi, va bene?” 
Gli parlava con quel tono che si usa con i bambini e i malati, che aveva sicuramente usato con la figlia della sgualdrina – qual era il suo nome? Cosette?  
Javert non aveva ormai nulla da perdere, e si lasciò guidare dentro quell’appartamento spartano, ma accogliente, e si lasciò cadere su una poltrona. Non riusciva a respirare, le pareti lo soffocavano, i suoi vestiti lo soffocavano, la sua pelle lo soffocava. Tremava e sudava freddo, il cuore gli martellava nel petto, e voleva soltanto gettarsi fuori dalla porta e tornare nella Senna.  
“Volete qualcosa? Dell’acqua, una tazza di tè? Respirate, Javert, siete pallido come un lenzuolo.” 
Un bicchiere d’acqua apparve come per magia. Quel santo galeotto compiva anche miracoli? O forse era così in panico da non essersi accorto che Valjean si era alzato ed era andato in cucina? 
Egli lasciò che si calmasse, senza fargli domande pressanti, lasciò che tornasse a respirare normalmente.   
“Perdonate il mio comportamento,  Mad- Valj-… Monsieur. Come vi ho già detto, non accadrà mai più, me ne vado, grazie per l’ospitalità” 
“Aspettate, aspettate. Non mi avete detto perché siete qui.” La sua voce era calma e gentile. 
“Sono qui… sono qui perché…” la voce di Javert si spezzò in singhiozzi. Si stupì, non piangeva da quando era bambino. 
“Sono qui perché siete l’unica cosa che mi tiene ancorato alla mia vecchia vita, anche se siete voi ad averla distrutta. Siete l’unica costante della mia vita che mi rimane… ho perso tutto, non mi resta più nulla, la mia vita non ha più senso, Valjean… non sono più degno del mio lavoro, del mio titolo, ma continuo a farlo, sono morto, sono morto, non sento più nulla, la Senna non mi ha ucciso, ma è come se l’avesse fatto, sono morto…” 
Javert si sciolse in lacrime sul divano della sua nemesi, lasciò andare tutto il peso che gli gravava l’animo come un fiume in piena, lo travolse e lo lasciò spiazzato. Singhiozzava incontrollabilmente, ormai tutto il torpore che aveva caratterizzato quegli ultimi mesi era stato spazzato via. 
Valjean lo aveva lasciato parlare, senza fare domande pressanti, anche se aveva spalancato gli occhi quando l’Ispettore aveva menzionato la Senna. Aveva cercato di confortarlo, toccandogli insicuro il braccio con le dita, senza sapere nemmeno lui come procedere.  
“Siete vivo. Siete vivo. Respirate, le sentite le mie dita sul vostro braccio? State piangendo, dovete aver per forza sentito qualcosa, altrimenti non stareste piangendo. Va tutto bene, respirate, siete vivo.”


Angolo dell'autrice: questa è la prima fanfiction che ho scritto dopo anni, e la prima in assoluto ad essere pubblicata. È una one-shot senza capo nè coda, data da una commistione tra il libro, il musical/film e headcanon personali. Fose la troverete troppo corta, troppo concisa, troppo affrettata, e mi scuso per questo. Mi scuso anche per eventuali errori di battitura che potrebbero essermi sfuggiti. 
Esiste un sequel? Vedrà la luce? Chissà.
Parzialmente ispirata ai miei attacchi d'ansia.
Ancora due parole sul titolo, preso pretenziosamente da un epigramma greco ellenistico (ciao, liceo classico, ciao); esso si riferisce alla "prima morte" di Javert, quella avvenuta nella Senna, con la morte di tutti i valori in cui aveva creduto fino ad allora, e alla sua "seconda morte", la sua vera morte,  da uomo nuovo, con dei nuovi valori, più avanti, forse. Troppo contorto? Forse.
La citazione all'inizio è presa dalla canzone "Winter Windows" di Sea Wolf, testo che ho trovato particolarmente adatto al nostro Ispettore preferito.
Alla prossima, si spera.
  
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