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Autore: franci893    03/07/2016    2 recensioni
"Non c’era più niente da dire, ma mi sentivo stranamente elettrizzata, in quel silenzio.
Era come se tra di noi stessero scorrendo migliaia di parole non dette, di cui neppure noi stessi eravamo consapevoli. Non mi era mai capitato di trovarmi così in empatia con qualcuno. Mai."
La storia di un incontro casuale tra due sconosciuti destinato a perdersi nelle nebbie del tempo.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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A brief moment in time
 

Le onde del mare s’infrangevano con forza contro la scogliera, alimentate da un’aria fredda, subdola, che s’infiltrava ovunque e che produceva dei piccoli vortici invisibili con le poche foglie secche rimaste a terra. Erano talmente fragili che sarebbe bastato anche molto meno di un soffio di vento per sollevarle. Mi avevano sempre fatto tenerezza, così piccole e piene di vita all’inizio della primavera, deboli e ingiallite in autunno.
Per l’ennesima volta da quando ero arrivata sul lungomare, rimisi intorno al collo la mia sciarpa di lana rossa, regalo della nonna, e tirai su il cappuccio della felpa, cercando di ripararmi almeno in parte da quell’aria gelida e invernale. Ma non c’era niente da fare: non appena lo sistemavo perché restasse fermo per più di qualche secondo, una folata di vento lo ributtava indietro.
Decisi di lasciar perdere. Onestamente, in quel momento il vento era l’ultimo dei miei problemi.
Scavalcai la ringhiera che separava la strada dalla scogliera e mi ci sedetti sopra, ancorandomi strettamente alla sbarra di ferro per non cadere. Iniziai a fissare il mare, il suo lento ma eterno movimento verso la costa, le creste spumose delle onde più alte e, in lontananza, il rollare di un peschereccio che stava tornando indietro. Alcune gocce d’acqua salata, trascinate dal vento e dall’impatto contro gli scogli, volarono sul mio viso, ma non mi davano fastidio.
Guardare il mare era, da sempre, la cosa che preferivo al mondo.
Niente, nemmeno le pastiglie omeopatiche che mia madre insisteva a prendere per rilassarsi riuscivano a calmarmi come il mare.
Infatti, anche questa volta funzionò. La mia mente si sgombrò all’istante di tutte le preoccupazioni che mi avevano accompagnato da quando ero salita sul diretto Milano – Sanremo.
Ora non provavo niente, e mi sentivo leggera, quasi il mio corpo fosse privo di peso.
Le mie labbra s’incresparono in un sorriso, quando sentii alcune gocce di pioggia sfiorarmi la pelle. Chiusi gli occhi per assaporare quella sensazione di freschezza, il vento che faceva volare alcune ciocche di capelli intorno al mio viso. Mi bastava davvero poco per stare bene.
Ancora un minuto, e poi me ne vado.
Sì, desideravo stare lì solo un poco ancora, ma ne avevo bisogno. Dopo avrei dovuto affrontare il motivo per cui ero venuta a Sanremo e, lo sapevo, non sarebbe stato affatto facile.
Ero così immersa nei miei pensieri che, in un primo momento, non mi accorsi di essere osservata.
Di solito mi basta un istante per capire se qualcuno mi sta fissando, ma questa volta, vuoi per l’atmosfera e il rumore del vento, vuoi per tutto quello che mi frullava nella testa, rimasi beatamente ignara di quello sguardo perplesso e un po’ preoccupato che si era appuntato su di me.
Tuttavia, quando riaprii gli occhi e mi voltai per scavalcare la ringhiera e tornare sul marciapiede, incrociai quello sguardo. Fu questione di un attimo, mi distrassi e misi male il piede a terra.
Chiusi impulsivamente gli occhi, mentre cadevo, aspettando il dolore che ne sarebbe conseguito.
Invece non sentii nulla.
- Stai bene? - chiese una voce sconosciuta, sopra la mia testa.
Riaprii gli occhi di colpo e mi accorsi di essere ancora in piedi. O meglio, in piedi sì, ma con le mani aggrappate a due braccia robuste e gli occhi a due millimetri da una giacca scura, di pelle.
Per un attimo rimasi inebetita, forse per la paura in seguito alla caduta.
Mi attraversò il pensiero di quanto fosse piacevole stare in quell’abbraccio caldo, al riparo dal vento. Poi però, la mia parte razionale tornò a prendere il controllo.
Mi scostai bruscamente e misi qualche passo tra me e l’uomo misterioso.
Perché queste cose accadevano solo a me?
Sembrava quasi che la sorte si divertisse a farmi questi piccoli scherzi in continuazione.
- Grazie tante, eh! - borbottai rivolta a quest’ultima, quasi fosse lì a sentirmi.
- Come scusa? - domandò lo sconosciuto.
Alzai di scatto la testa, mortificata e imbarazzata.
- No, no, niente! Stavo solo parlando tra me e me. O meglio con la mia sfortuna, sai, in questi ultimi tempi è una presenza piuttosto ingombrante.
Il ragazzo, perché a occhio e croce non doveva avere più di vent’anni, mi guardò incredulo.
Poi, con mia grande sorpresa, scoppiò a ridere, svelando una fila di denti bianchi e perfetti.
Il suo sorriso mi piacque subito, contagiandomi, tanto che anche a me sfuggì una risata, mentre riflettevo sull’assurdità delle mie parole. Non era un approccio molto comune, e di solito, con delle uscite del genere, le persone tendevano a girarmi al largo, classificandomi come una svampita.
Tuttavia, il ragazzo non rientrò a far parte di questa categoria, anzi. Mi tese la mano e si presentò.
- Io sono Diego - mi disse, esibendo di nuovo un sorriso allegro.
- Rossella - ricambiai la stretta con decisione.
- E’ un nome che non si sente spesso - osservò lui, la sua mano ancora stretta nella mia.
- Colpa di “ Via col vento”. Mia madre adora quella storia, così quando sono nata mi sono beccata questo nome - sorrisi, pensando a mia madre, avvolta in una di quelle stravaganti coperte sudamericane che amava tanto, mentre guardava il suo film preferito.
In quel momento, una fitta di nostalgia mi fece rabbrividire.
- Rossella. Ti dona - mormorò lui, osservandomi attentamente dalla testa ai piedi.
- Anche Diego ti si addice. Non riuscirei a immaginarti con un altro nome - ribattei, mentre anch’io cercavo di cogliere ogni particolare di lui.
Alcuni passanti ci lanciarono un’occhiata perplessa: evidentemente dovevamo rappresentare uno spettacolo bizzarro, con le mani in una stretta amichevole, a parlare di quanto i nostri nomi ci stessero bene. Il tutto tenendo conto che quelle piccole goccioline di pioggia non erano più tanto piccole, e nemmeno tanto poche.
Eppure in quel momento avrebbe potuto anche scoppiare una tempesta marina e io non mi sarei accorta di nulla.
- Sta piovendo - osservò Diego, alzando lo sguardo verso il cielo e socchiudendo gli occhi, mentre l’acqua rimbalzava sul suo viso e scorreva giù, scivolando lungo il collo e poi sotto il colletto della camicia. Con mio grande imbarazzo, mi accorsi di aver seguito il percorso di quell’unica, piccola goccia d’acqua e ora gli stavo fissando abbastanza apertamente il petto, che si alzava e abbassava rapidamente, nascosto dal cotone leggero.
Sono sempre stata una persona pragmatica, ma devo ammettere che, in quel momento, non avevo il minimo controllo di me stessa. Sembrava quasi che, abbandonata Milano, avessi perso tutta la mia baldanza e il mio sangue freddo.
Sollevai lo sguardo verso di lui. Diego mi fissava, non diceva niente. I suoi occhi parlavano per lui.
Non era infastiditi, solo curiosi e, forse, preoccupati. Probabilmente in quel momento dovevo avere davvero l’aspetto di una svampita, con la sciarpa che si attorcigliava continuamente intorno al mio collo, il cappuccio abbassato sulle spalle e i capelli bagnati, appiccicati alla pelle umida.
- Mi dispiace - mormorai, abbandonando la calda stretta della sua mano e facendo qualche passo indietro. Il vento soffiava forte e pioveva a dirotto, adesso.
Eppure non era nulla paragonato a quello che provavo dentro di me.
Mi sembrava di essere spaccata a metà, quasi due personalità stessero lottando dentro di me, quella che avrebbe voluto saltare sul primo treno e tornare a Milano, e l’altra, che mi aveva spinto a raggiungere Sanremo e che mi ancorava i piedi a terra.
Sono quei momenti in cui non ti senti più parte della comune dimensione, ti astrai completamente e guardi dentro te stesso, sconvolto da quello che vi trovi, mentre continui a scavare sempre più a fondo.
Per fortuna, Diego era più razionale di me. Probabilmente, se fossi stata sola, sarei stata capace di rimanere sotto la pioggia come un’idiota per non so quanto tempo, e non penso mi avrebbe giovato molto.
Perciò, quando sentì il suo braccio passare attorno alle mie spalle e la sua stretta calda mi avvolse, non potei fare altro che appoggiarmi a lui e seguirlo.
Ci rifuggiamo in un bar lì vicino, di dimensioni piccole, certo, ma molto accogliente. Quasi stonava con la fila di alberghi e ristoranti che si stagliavano sul lungomare, troppo grandi, troppo anonimi, troppo freddi.
Diego si sedette di fronte a me, lanciandomi un’occhiata pensierosa.
All’improvviso, prima che potessi fermarlo, si chinò verso di me e mi tolse la sciarpa, ormai bagnata fradicia, appoggiandola accanto a sé.
Tornò a sedersi e aspettò una mia reazione, inarcando un sopracciglio.
Fu allora che in me la razionalità tornò a prendere il sopravvento. Giurerei di aver quasi sentito un “clic” nella mia testa quando successe, ma mentre il mio cervello processava alla velocità della luce il fatto che io fossi seduta in un bar, intirizzita dal freddo e seduta con un perfetto sconosciuto di cui conoscevo solo il nome.
- Penso che prenderò un caffè! - esclamai, di punto in bianco.
Ormai la figura della svitata l’avevo fatta, tanto valeva non esibirmi in mille spiegazioni sul mio comportamento di poco prima.
Anche perché, onestamente, non me ne veniva in mente nemmeno una.
Le labbra di Diego si incresparono in un sorriso. Chiamò la barista e ordinò.
Un caffè per me, una birra per lui.
Effettivamente, guardando l’ora, forse la sua scelta era più adatta.
- Allora… - iniziai, guardandomi in giro, cercando di farmi venire in mente qualche battuta intelligente che lo potesse stupire. Peccato che non fossi mai stata brava in questo genere di cose.
- Allora… - Diego si sporse verso di me, i gomiti appoggiati sul tavolo, lo sguardo curioso.
- Bel locale - dissi. Davvero questa era la miglior battuta che ero riuscita a tirare fuori?
- Lo so. L’ho trovato per caso il giorno che sono arrivato a Sanremo. Almeno mi sento a mio agio, gli altri sono troppo…perfetti, per i miei gusti - sorrise, e di nuovo vidi quella schiera di denti bianchissimi e perfetti.
- Come mai sei da queste parti? - chiesi, incuriosita.
Lui mi guardò sorpreso e, credo, nei suoi occhi passò un’ombra di delusione, che sul momento non compresi.
- Be’, ecco... - si era fatto improvvisamente timido, e si grattò lievemente la testa, quasi cercasse le parole giuste - io sono un cantautore. O almeno, ci provo - esibì un lieve sorriso.
Di nuovo quei denti perfetti. Wow.
- Figo! - esclamai. Effettivamente gli si addiceva – suoni con una band o sei un solista? - chiesi.
- Suono con mio fratello. Lui è più vecchio di me, ma non se la cava male - ridacchiò.
- E come mai siete venuti a Sanremo? - non appena lo chiesi, mi resi conto della stupidità della mia domanda. Cosa mai poteva fare a Sanremo un cantante in pieno Festival della musica italiana?
- Non dirmelo. Sei un cantante famosissimo, milioni di ragazze spasimano per te e io non ti ho riconosciuto. Bene. Sì, oggi la sorte è davvero contro di me - borbottai.
Diego scoppiò a ridere, ma notando la mia espressione mortificata si diede subito un contegno.
- Eh, magari. Non ci conosce nessuno, o almeno, la nostra fama si estende solo tra Verona e Bardolino. Sanremo è la nostra occasione - sorrise, speranzoso.
I suoi occhi si illuminarono di una luce nuova, brillante.
Dovevo ammetterlo: io non avevo mai seguito il Festival di Sanremo. Non che appartenessi a quella schiera di persone che lo snobbavano per partito preso, semplicemente non mi interessava. Quindi non sapevo nemmeno a che punto fosse la gara, ne’ chi fossero i partecipanti.
- Be’, si può sempre provare, giusto? E poi, voglio dire, è già un bel traguardo. Non che io me ne intenda molto, una volta ho provato a suonare la chitarra ma ero un completo disastro.  D’altronde non è mica facile come sembra, con tutte quelle corde e il dover ricordarsi dove mettere le dita e…-alzai lo sguardo e mi basto un secondo per capire, ahimè, che strumento suonasse Diego. Accidenti!
Imbarazzata, maledissi silenziosamente la mia parlantina a macchinetta e sperai nell’arrivo di un diversivo. Arrivò una tazza di caffè bollente. Meglio di niente.
Tuttavia Diego non lasciò perdere così facilmente.
- Parli sempre così veloce? - mi chiese, sorseggiando piano la sua birra.
Deglutii un sorso di caffè prima di rispondere.
- Assolutamente no. Io non parlo mai veloce. Per niente - il suo sguardo ironico mi fece arrossire.
- Va bene, solo quando sono nervosa. Non lo faccio apposta, mi succede e basta. Parlo, parlo e non riesco a smettere di parlare. Ecco, lo sto facendo di nuovo, scusa - e per chiudere in bellezza, mentre cercavo di bere un po’ di caffè, me lo versai sulla giacca.
Al peggio non c’era limite.
- Ehi, ehi, calmati Rossella. Mi spieghi perché ti metto tanto in agitazione? - Diego allungò una mano verso le mie e le strinse in una presa calda e rassicurante.
Presi un bel respiro. Dovevo calmarmi. Era assurdo che fossi così agitata, soprattutto visto che non era ancora successo nulla di quello che temevo.
- Non sei tu - mormorai, abbassando lo sguardo e fingendo di preoccuparmi della macchia di caffè. In realtà in quel momento quello era l’ultimo dei miei pensieri.
La mia mente era occupata solo da una parola di quattro lettere, che campeggiava a caratteri cubitali: papà.
Era incredibile come stare con Diego mi facesse sentire così vulnerabile con me stessa e facesse uscire tutte le mie paure e le mie preoccupazioni.
Per la prima volta, da anni, volevo parlare a qualcuno di mio padre. A chiunque, anche ad un estraneo come Diego. Eppure non potevo farlo.
Non potevo iniziare dicendo: “Ehi, ti va di ascoltare la storia della mia vita?”
Mi sentivo inerme di fronte a me stessa.
Tuttavia, anche in questo caso non dovetti fare nulla di più che aspettare. Fu Diego che, consapevolmente oppure no, mi diede l’opportunità di sfogarmi.
- Tu perché sei venuta a Sanremo? - chiese.
Appoggiò piano il bicchiere di birra sul tavolo. Sul labbro gli era rimasto un lieve strato di spuma bianca, e dovetti fare uno sforzo enorme per non chinarmi verso di lui e cancellarlo via.
- Lunga storia - mormorai, alzando le spalle. Una parte di me voleva resistere e non dire una parola. L’altra invece mi spingeva a parlare e parlare fino a che non mi si fosse seccata la gola.
- Abbiamo tempo - disse Diego, tranquillo.
I suoi occhi mi perforavano, scrutavano dentro i miei, cercando risposte.
- Non voglio farmi gli affari tuoi - precisò - se hai bisogno di parlare con qualcuno, io ci sono. Mi sembra che tu sia venuta da sola fin qui, vero? - chiese, incoraggiandomi a parlare con un piccolo sorriso.
- Sì. Non è un problema - risposi.
Piccola bugia. Era un grande problema, in quel momento.
Mi stavo iniziando a pentire di essere saltata sul primo treno per Sanremo e di aver seguito l’impulso di un istante. Più le ore passavano, più il mio piano, anche se dubito si fosse potuto definire tale, sembrava assurdo.
- Okay, forse lo è - ammisi, più rivolta a me stessa che a lui.
Diego non mi chiese spiegazioni. Bevve la sua birra in silenzio, a piccoli sorsi, aspettando che io andassi avanti. Sembrava sinceramente interessato, ma non cercava di forzarmi a parlare.
Anzi, il suo silenzio incoraggiante mi faceva venire voglia di sfogare finalmente tutta la rabbia e il dolore che avevo accumulato in me negli anni precedenti.
Sentivo le parole bruciare sulla punta della lingua, pronte a uscire e liberarsi.
- Sono venuta per mio padre - dissi.
Potevo fermarmi qui ma bastò quella semplice frase a scatenarne un’altra. E un’altra ancora.
Gli raccontai tutto. Probabilmente partii dal momento della mia nascita, ma era più forte di me, avevo la necessità fisica di parlare con qualcuno, quasi il mio corpo fosse ormai estenuato dal mio voler trattenere dentro ogni singola emozione degli ultimi sette anni, da quando mio padre se ne era andato di casa. Gli spiegai per filo e per segno tutti i particolari che mi ricordavo di quel giorno: la macchina carica di valigie, il cappotto bagnato di pioggia, gli occhi seri e lucidi, la sua lieve, impercettibile carezza sulla mia testa prima di andarsene.
Era tutto indelebile nella mia mente, come se fosse accaduto il giorno prima.
Raccontai a Diego anche quello che era successo dopo: il mio silenzio ostinato, i vani tentativi di mio padre di tenersi in contatto con me e, da ultimo, la mia decisione di venire a Sanremo per riallacciare i rapporti.
Per la prima volta in vita mia, riuscii a esprimere a parole quello che avevo provato.
Non era una confessione solo rivolta a Diego. Era soprattutto rivolta a me stessa.
Quando finii di parlare, mi sentivo esaurita, quasi avessi spremuto ogni singolo grammo di energia.
- Cavolo - borbottai, emettendo un bel respiro e rifocillando i miei polmoni d’aria nuova.
Alzai lo sguardo verso Diego.
A essere onesti, ero talmente presa dalla mia confessione che non avevo più fatto molto caso a lui.
Forse si era addormentato. Oppure, ancora più probabile, si era dato alla fuga e in questo momento cercava di mettere il maggior numero di chilometri possibile tra sé e la ragazza folle del bar.
Sorrisi, immaginandomelo mentre correva a perdifiato per tutto il lungomare di Sanremo.
Invece mi sbagliavo.
Diego era ancora lì, il bicchiere di birra ormai vuoto e la stessa espressione interessata e attenta.
- Allora? - chiesi, titubante.
- Cosa? - disse.
- Che ne pensi? - adesso che mi ero sfogata volevo assolutamente sapere il suo punto di vista. Avevo fatto bene ad andare a Sanremo? Il mio piano si sarebbe risolto in un colossale buco nell’acqua? E se mio padre non avesse voluto vedermi? E se...?
- Stai pensando troppo. Ti sento fino a qua - sorrise lievemente, di fronte alla mia espressione attonita.
- Io non penso troppo. E’ che ho tanti pensieri in testa. E poi è una cosa seria, e dato che non ho parlato con nessuno di questo piano eccetto te, e visto che non conosco nessuno qui, a parte te, e tenendo conto che più passa il tempo e più mi sembra una grande sciocchezza, io...- ero presissima dal mio discorso, ma lui mi interruppe.
- Stai di nuovo parlando veloce - soffocò una risata.
- Hai ragione - sospirando, mi morsicai il labbro inferiore, come facevo sempre quando ero nervosa.  - Scusa - aggiunsi, per l’ennesima volta.
- Lo dico per te, dovresti calmarti. In fondo credo tu abbia fatto la scelta giusta, venendo a trovare tuo padre. Secondo me andrà bene - mi sorrise, quel sorriso lieve ma intenso che mi faceva rabbrividire.
- Ma certo. E poi ormai sei arrivata a un passo dalla fine, cosa ti costa provare? - rispose.
Aveva ragione. Cos’altro poteva ancora trattenermi, a questo punto?
Ci ero dentro fino al collo e dovevo portare a termine quello che avevo iniziato.
Improvvisamente, mi venne quasi da ridere. Non che ci fosse niente di divertente, ma il fatto di aver parlato con qualcuno e di aver ottenuto il suo appoggio aveva permesso che mi rilassassi, almeno in parte.
- Grazie Diego - dissi, sincera.
- Figurati – ribatté.
Sorrise e si protese verso di me, allungando le mani sul tavolo.
Non c’era più niente da dire, ma mi sentivo stranamente elettrizzata, in quel silenzio. Era come se tra di noi stessero scorrendo migliaia di parole non dette, di cui neppure noi stessi eravamo consapevoli.
Non mi era mai capitato di trovarmi così in empatia con qualcuno. Mai.
- Allora… - iniziai, non riuscendo a staccare gli occhi dai suoi.
- Allora… - ripeté Diego, prendendo una delle mie mani tra le sue.
Stava per aggiungere qualcos’altro quando il suo telefono squillò.
Subito quell’atmosfera elettrica si dissolse. Ritrassi la mano e iniziai a guardarmi intorno, imbarazzata. Ma cosa diavolo stavo facendo ancora lì?
Feci per alzarmi e andarmene, ma Diego mi fece segno di restare.
Dall’altro capo del telefono qualcuno stava parlando concitatamente e sembrava piuttosto arrabbiato.
- Sì, lo so. Sto arrivando, sono a cinque minuti dall’Ariston. Sì, lo so che ore sono…ma vedi di calmarti, ti ho detto che sto arrivando! - sbuffando, Diego pose fine alla chiamata.
- Guai in vista? - chiesi.
- Devo andare - si alzò e prima che potessi fermarlo andò a pagare il conto.
Poi, senza aggiungere altro, mi prese per mano e mi trascinò fuori dal bar.
- Diego, si può sapere cosa…? - gli arrancai dietro, cercando di fermarlo.
Io non avevo tempo per andare all’Ariston, dovevo raggiungere mio padre!
Finalmente ci fermammo di fronte all’entrata del teatro. Era enorme e brillava, emergendo nell’oscurità della sera invernale. Peccato che non potessi permettermi di restare lì.
- Diego, ascolta, io…- iniziai, ma lui mi fermò.
- Se stasera andrà bene, la mia vita potrebbe cambiare per sempre, e non so se sono pronto per questo. Ho paura, lo ammetto, anzi, sono terrorizzato, ma è la mia occasione, e non intendo sprecarla – si interruppe per prendere fiato - promettimi che anche tu non sprecherai la tua, di occasione. Vai da tuo padre e chiaritevi. Fallo per te, ma fallo anche per me. Voglio che almeno uno di noi due stasera riesca a uscire vittorioso da ciò che ha intrapreso, d’accordo? - disse, girandosi verso di me.
Io annuii, non sapendo cosa rispondere. Il mio cuore batteva all’impazzata, e la lingua sembrava si fosse incollata al palato.
Diego sorrise, accarezzandomi piano una guancia.
- Sono contento di averti conosciuto, Rossella. Buona fortuna - mi diede un bacio sulla guancia e poi iniziò a correre verso l’entrata riservata agli artisti.
Restai imbambolata qualche secondo, per poi riprendermi e chiamarlo.
- Ehi, Diego! - urlai. Lui si girò, la porta già aperta - distruggili stasera! -
Diego sorrise, mi fece l’occhiolino e poi sparì.
Rimasi a guardare la porta chiusa ancora per qualche istante.
Non pioveva più, e nell’aria aleggiava forte il profumo dei pini mescolato a quello del mare. Una leggera brezza muoveva le cime degli alberi e spazzava via le ultime nubi. Alcune stelle brillavano contro la volta scura del cielo.
Inspirai a pieni polmoni quell’aria fresca e nuova. Mi sentivo rincuorata, di nuovo carica e pronta ad affrontare quello che mi stava aspettando. Perciò, dopo aver dato un’ultima occhiata alle luci sfavillanti dell’Ariston, mi voltai e andai a prendere l’autobus.
Non sapevo come sarebbe andato l’incontro con mio padre. Potevo immaginarlo, sperare che andasse in un certo modo, ma solo affrontandolo lo avrei saputo.
Come Diego, anch’io avevo paura del cambiamento e di ciò che sarebbe successo.
Ma, come Diego, anch’io non avevo alcuna intenzione di lasciarmi sfuggire questa occasione.



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Ciao a tutti!
Questa one shot l'avevo scritta qualche anno fa e l'avevo pubblicata su un altro forum, ma ho deciso di riprenderla in mano e revisionarla. Spero sia di vostro gradimento :)

Francesca
   
 
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