Le
previsioni meteo avevano annunciato una giornata di sole e
temperature di gran lunga superiori alle medie stagionali: una
rarità per il
clima solitamente uggioso di ottobre.
La
città era già sveglia e brulicante di persone
affaccendate che
affollavano caffetterie, vagoni della metropolitana e camminavano
spedite lungo
i marciapiedi. Come ogni lunedì mattina i cittadini,
archiviato a malincuore il
weekend, riprendevano il loro quotidiano trantran e facevano ritorno al
lavoro.
Piccole
api indaffarate in un enorme alveare sempre in attività.
Gli
operai del cantiere in Via Leopardi avevano ricominciato a
martellare, trapanare e abbattere muri già di buon ora.
Karim, il proprietario
del supermarket dall'altro lato della strada, stava sistemando i suoi
espositori
con le cassette di frutta e verdura fresca fuori dal suo negozio,
all'ombra
della vecchia tenda da sole scolorita. In lontananza Mrs. Hoffman si
avvicinava
a passi stanchi al portoncino in legno che si trovava esattamente
accanto alle
ordinate file di mele che Karim stava riponendo con cura nell'apposita
cassetta
in legno.
«Miriam!
Com'è andato il turno stanotte?», la
salutò allegramente
l'uomo non appena si accorse della presenza della donna.
Quella
si arrestò bruscamente a pochi metri dall'ingresso del suo
palazzo, come se le parole del commerciante l'avessero distolta dai
suoi
pensieri lasciandola alquanto disorientata.
Pochi
secondi e
parve riprendersi,
tornando padrona di sé e perciò acida ed
indisponente come suo solito.
«Uno
schifo come sempre. Il mondo è saturo di cretini che ancora
non
hanno compreso che andare in moto ai duecento km/h senza casco o
protezione
alcuna è da deficienti. Stupidi imbecilli!»,
borbottò mentre si affannava alla
ricerca delle chiavi all'interno della sua ampia borsa di tela stinta.
Miriam
Hoffman, 57 anni, nubile, di professione infermiera al pronto
soccorso dell'Ospedale Maggiore della città. Rappresentava
il classico
stereotipo della zitella inasprita e scontrosa, fermamente convinta che
tutto
il mondo complottasse alle sue spalle e che non ci si dovesse mai
fidare di
nessuno. Viveva al primo piano di quella vecchia palazzina dai grigi
muri
scrostati e, come
non si stancava mai di
far notare agli altri inquilini, nelle giornate più calde
o semplicemente più
noiose si improvvisava portinaia, piazzandosi nello stretto atrio
d'ingresso
con una sedia pieghevole e una pila di riviste di gossip.
Nessuno
dei condomini osava commentare questa sua iniziativa ed essi
si limitavano a salutarla cordialmente nell'entrare o nell'uscire e ad
accettare in cambio un'occhiataccia risentita o un rimbrotto borbottato
a mezza
voce.
Espressione rigida e capelli grigi
raccolti in una severa acconciatura retrò, nessuno osava
apertamente
contraddire Mrs. Hoffman.
Si
trattava di uno stretto palazzo risalente agli anni '30, incuneato
tra due strutture recentemente ristrutturate che non facevano altro che
mettere
in risalto la fatiscenza e il vecchio stile che caratterizzavano
l'edificio di
Via Leopardi 13. In totale si contavano cinque piani più una
soffitta.
A
pianterreno si trovavano le malridotte cassette della posta che, a
differenza di quelle nuove eleganti costruzioni del centro
città con le loro
ordinate file uniformi di cassette laccate, erano una diversa
dall'altra
sebbene tutte ugualmente semi arrugginite e tenute insieme quasi per
miracolo.
Un portaombrelli in plastica sbeccata, dimenticato da chissà
chi, se ne stava
solitario, tristemente vuoto e abbandonato, accanto alla porticina in
ferro che
conduceva alle cantine.
La bacheca degli
annunci appariva tristemente vuota, decorata unicamente da un adesivo
di un
gruppo di giovani anarchici arrivato fin lì e un datato
biglietto che ricordava
di chiudere sempre il portone a chiave, soprattutto nelle ore notturne.
Al
primo piano abitava Mrs. Hoffman,
in un bilocale in cui regnavano centrini di pizzo ingiallito e odore di
cavolo
bollito,
e dall'altro lato del pianerottolo, al di là di un'estrosa
porta verniciata di
rosso fuoco, risiedeva Mr. Ono. Quest'ultimo era un anziano signore
giapponese,
sempre sorridente, che non usciva quasi mai di casa se non per sparire
per ore
e ore nella penombra del piano interrato, tra la muffa e le ragnatele
della sua
cantina. Nessuno lo aveva mai sentito pronunciare una parola e nessuno
lo avevo
mai visto vestito in un modo che non contemplasse una vestaglia di seta
e un
paio di pantofole ricamate. Si mormorava
che allevasse cuccioli di iguana ma nessuno era mai riuscito a vederne
uno.
Al
secondo piano
c'era il
Bilocale
degli Orrori, immobile sfitto ormai da anni a causa dell'orribile serie
di
delitti di cui si
narrava fosse stato
scenario. Qualcuno
parlava di esperimenti che implicavano elettricità e
cadaveri, taluni andavano
raccontando di orge e banchetti a base di carne umana e sangue di neonati, altri ancora menzionavano torture medievali e
vergini di ferro. Fatto sta che nessun giornale aveva mai parlato di
quello che
era accaduto tra quelle mura e l'unica cosa certa era che da
più di
quarant'anni nessuno metteva piede lì dentro. L'appartamento
2B era invece
occupato da una coppia che nella vita
non faceva altro che litigare e lanciarsi piatti. Lui, Julio, immigrato
argentino, come nei peggiori cliché faceva l'insegnante di
tango approfittando
del suo fascino latino e dei suoi piedini agili. Lei, che neanche a
farlo
apposta si chiamava Julia, frequentava tutte le classi di danza del
fidanzato
per poi puntualmente sottoporlo ad accuse di tradimento, o presunto tale, ogni sera. Il fatto
che le alunne ballerine avessero un'età media di 79 anni non
sembrava frenare
Julio dal fare il galante e Julia dall'esserne terribilmente gelosa. Presi singolarmente erano delle
persone cordiali,
salvo trasformarsi in furie incivili e rissose non appena si trovavano
l’uno al
cospetto dell’altro. Nonostante ciò stavano
insieme da più di dieci anni.
Al
terzo piano vivevano Jack e Adam, due fratelli tanto spiantati
quanto talentuosi. Il sogno del primo era di conquistare Hollywood, un
premio
Oscar e Jennifer Lawrence; quello del secondo era di vendere milioni di
copie
del suo futuro album, suonare al Glastonbury Festival e fare un duetto
con Paul
McCartney. Per ora si limitavano a lavoretti saltuari e nel loro tempo
libero
si divertivano nel cercare di innalzare il livello di stress della loro
dirimpettaia oltre limiti sempre nuovi.
Esattamente
di fronte, all'interno 3A, abitava Juno Morrison,
strampalata ragazza che ogni tre mesi rischiava di essere sfrattata per
il
mancato pagamento dell'affitto mensile da Mr. Anger, un anziano signore
dall'aspetto rinsecchito ma dal carattere iroso.
Infine
la soffitta era occupata da Jerome, eccentrico inventore
francese, che ogni tre per due causava piccole esplosioni che facevano
inviperire Mrs. Hoffman, la quale più volte era stata
costretta a medicarlo.
Ovviamente dopo averlo opportunamente insultato a dovere.
Quella
mattina le finestre al terzo piano presentavano ai passanti un bizzarro spettacolo. Dal lato ovest erano totalmente
spalancate e da esse fuoriuscivano delle note di pianoforte
accompagnate da una
voce che cantava in falsetto e da un'altra voce dal timbro
più basso che
rivolgeva improperi al suddetto omino canterino.
Sul
lato est
invece tutto
taceva. Le
persiane erano sigillate e nessun rumore riusciva a superare lo spesso
strato
di cemento armato e intonaco scrostato.
Miriam
Hoffman non stette molto ad interrogarsi su quella stranezza.
Sopportava ormai da un paio di anni quella coppia di fratelli alquanto
spostati
ed era a conoscenza delle loro 'aspirazioni' lavorative.
Così come d'altro
canto era a conoscenza della totale sregolatezza che governava la vita
dell'altra ragazza del terzo, quella Juno. La vedeva spesso, era sempre
in
ritardo ed ogni volta si fiondava giù dalle scale, tre
gradini alla volta,
finendo puntualmente per rischiare di lasciarci le penne tutte le
volte. Biondi
capelli vaporosi, vestiti stropicciati e tintinnio di braccialetti e
bigiotteria da due soldi.
Quella
mattina Jack, svegliatosi decisamente troppo presto per i suoi
standard, si era ritrovato a domandarsi quale istinto masochista lo
spingesse a
convivere con quel suo consanguineo con l'insopportabile vizio di
esercitare il
suo talento da polistrumentista alle ore più disparate del
giorno e della
notte. Quand'era la dolce melodia dell'arpa a cullarlo tra le braccia
di Morfeo
ancora poteva chiudere un occhio e sorvolare; ma quando si trattava del
poderoso suono di un trombone alle prime luci del mattino la faccenda
diventata
semplicemente insostenibile.
Allungò
una mano per arraffare alla cieca il suo telefono, abbandonato
la sera prima forse sul comodino o forse ancora nella tasca dei jeans
gettati
accanto del letto. Quando lo trovò diede una rapida occhiata
all'orario e
alla data registrati
sullo schermo.
8.13,
lunedì.
Un
urlo di rabbia gli
sfuggì dalle labbra: «ADAAAM! Cristo santo, cosa
ho fatto per meritarmi ciò?»
In
quel momento il rumore del piano e dei cinguettii spaccatimpani di
Adam cessò, prontamente sostituito dall'incessante
martellare proveniente dal
cantiere di fronte. Un attimo e suo fratello riattaccò con
un suo nuovo
imperdibile cavallo di battaglia: Someone Like You di
Adele.
Colonna
sonora meno
deprimente
non poteva esistere. Jack prese un bel respiro e
sfilò un piede da sotto il caldo piumone. Poteva pure far
caldo fuori ma quelle
vecchie pareti erano così umide che nel palazzo regnavano
sempre spifferi ed
infiltrazioni. Un lieve pulsare alle tempie avvertì il
ragazzo del mal di testa
che si sarebbe scatenato di lì a poco se non avesse preso
delle serie
precauzioni. Precauzioni che potevano essere nell'ordine:
1)
Un paio di paraorecchie.
2) Fratricidio.
3)
La fuga.
Trovandosi
sprovvisto della prima e non essendo in vena di omicidi già
di prima mattina, il ragazzo si risolse a seguire l'ultima opzione.
Gettò
da un lato la trapunta e si sporse dal bordo del materasso per
lanciare un'occhiata sotto di esso, alla ricerca della sua maglietta
scomparsa.
Avere la brutta abitudine di gettare i vestiti in modo caotico dove
capitava si
stava rivelando sempre più controproducente. Ma da essere
pigro qual era, Jack,
ogni volta si riprometteva di riporre con più attenzione i
suoi indumenti per
poi accorgersi
quanto la sedia o
l'armadio fossero lontani ed irraggiungibili dal morbido letto su cui
era
spaparanzato e così finiva per spogliarsi lì e
gettare tutto il superfluo attorno.
Una
volta recuperata una maglia non troppo sudata né spiegazzata
abbandonò la stanza e senza farsi notare dal fratello,
impegnato in un assolo
molto ispirato, uscì dalla porta d'ingresso. Il contatto con
il pavimento
freddo e impolverato del pianerottolo lo fece rabbrividire e
così con un balzo
poco agile atterrò sullo zerbino della vicina. La stampa della faccia sorridente
di un coniglio lo fissava dal
tappetino spelacchiato sul quale aveva trovato rifugio.
Chissà in quale pulcioso
mercatino di seconda mano Juno aveva pescato quell’obbrobrio.
Senza
curarsi della possibilità di disturbare, Jack
scampanellò più
volte, impaziente di togliersi da lì e dal raggio d'azione
dell'udito
supersonico di Mrs. Hoffman, i cui grandi e glaciali occhi aveva scorto
fissarlo dalla tromba delle scale.
Un
lieve scalpiccio giunse smorzato dal legno scadente della porta
d'ingresso. Il ragazzo poteva percepire su di sé lo sguardo
inquisitore di Juno
attraverso lo spioncino. Sapeva fin troppo bene quanto la ragazza
adorasse, un
po' sadicamente, far aspettare i propri ospiti solo per il gusto di
scrutarli
senza poter essere vista. Probabilmente alla morte di Mrs. Hoffman ne
avrebbe
ereditato il ruolo di guardiana, la seggiolina pieghevole e lo sguardo
arcigno.
«Vattene
Jake! Stamattina non sono in vena»
Il
ragazzo per tutta risposta pigiò nuovamente e con
più insistenza
sul pulsante del campanello. Il tonfo di un pugno
assestato al legno della porta si udì chiaramente anche
all'esterno, facendo
nascere un sorrisino sfacciato sul viso del vicino.
Per
qualche secondo tutto tacque dopodiché il rumore metallico
dello
scatto della serratura sostituì il silenzio. Dallo spiraglio
che si aprì emerse
un visino arrossato, solcato da profonde occhiaie violacee, su cui capeggiava uno sguardo truce.
«Sei
uno splendore stamane! Posso accomodarmi?»,
esclamò il ragazzo
facendo un passo avanti.
La
bionda non pareva però intenzionata a schiodarsi da
lì né tantomeno
a farlo passare.
«Vattene.
Se hai bisogno di un riparo perché Adam sta facendo il
fringuello scemo vai a far compagnia alla Hoffman!»,
borbottò Juno, una nota di
cattiveria nella voce solitamente così allegra.
Tre
piani più sotto Miriam Hoffman interruppe la lettura di un
interessante articolo che narrava del nuovo hotel con spa per gatti
inaugurato
da Paris Hilton e storse il naso nel sentirsi nominare.
Jack
non si fece scoraggiare da quel benvenuto tutt'altro che
amichevole. «Pasticcino, ti preparo la colazione, ti
va?»
«No»
Un
muro di gelo.
«Ti
pulisco il bagno?»
«No»
Niente
da fare.
«Ti
faccio un massaggio ai tu-sai-cosa?», tentò ancora.
La
ragazza parve sorpresa. «Tu odi i piedi delle persone! Mi
obblighi
sempre ad indossare le calze in tua presenza...»
Jack
parve inorridire al solo udire la parola 'piedi'. «Da
ciò puoi
dedurre quanto io sia disperato!»
La
porta si spalancò silenziosamente.
Il
ragazzo, deciso ad
approfittare di quel momento, scattò in avanti prima che
alla sua stramba
vicina di casa venissero strane idee e decidesse di tornare sui suoi
passi e
lasciarlo a morire di fame sul quel sudicio pianerottolo.
L’appartamento
di Juno,
come tutti quelli posizionati dal lato est e che erano numerati con la
lettera
A, era un semplice bilocale composto da soggiorno con cucina, bagno e
camera da
letto. La ragazza però, assidua frequentatrice dei mercatini
delle pulci e amicona
di decrepiti rigattieri, aveva farcito quegli scarsi metri quadri con
ogni
sorta di chincaglieria. Ogni pezzo pareva non c’entrare nulla
con gli altri ma
il quadro d’insieme comunicava una chiassosa e colorata
confusione che in
qualche modo aveva il sapore di casa.
Jack
osservò con la coda
dell’occhio i movimenti della ragazza e, non appena questa
scomparve in
silenzio dietro la porta scorrevole del bagno, si precipitò
a spalancare l’anta
del lucido frigorifero color fragola posizionato nell’angolo
opposto della
stanza. Una rapida occhiata bastò a riportargli alla mente
che, se mancava poco
che lui e suo fratello Adam andassero a fare la spesa a mesi alterni,
Juno
invece si recava quasi tutti i giorni da Karim o
all’ipermercato due isolati
più in là e stipava quantità
allucinanti di cibo in ogni scaffale, stipetto e
ripiano della casa. Persino il forno, in casa Morrison, era utilizzato
a mo’ di
credenza.
Imitando
i gesti cauti e
lenti che bisognava adoperare per vincere a quel giochino dove si
dovevano sfilare
dei piccoli parallelepipedi di legno senza causare il crollo
dell’intera torre,
Jack riuscì ad appropriarsi di una pera, una confezione di
bacon, uno yoghurt e
due uova. Il bello del mangiare il suo cibo stava nel fatto che esso,
oltre ad
offrire un’ampia selezione, era sempre freschissimo mentre i
due fratelli
rischiavano ogni settimana di avvelenarsi a vicenda a causa del loro
perseverare nell’ignorare l’esistenza di una data
di scadenza.
«Serviti
pure, carissimo, fai come se fossi
a casa tua…»,
commentò lei, la voce carica di sarcasmo, riapparendo alle
sue spalle.
Jack
rovesciò il suo
bottino sull’ampio tavolo di legno e si accomodò
su una delle quattro sedie
spaiate della cucina. «Non avresti della maionese per caso? O
della senape?»,
si informò mentre recuperava una padella dallo scolapiatti
sopra il doppio
lavello.
Lei
sbuffò, vistosamente
contrariata, prima di accoccolarsi dal lato opposto del tavolo.
«Prova a
guardare nel freezer. E già che ci sei prendimi anche la
scatola di waffle
surgelati», borbottò mentre lo guardava armeggiare
con fiammiferi e accendigas
nella speranza di avere fortuna e di riuscire ad accendere quei
fornelli
capricciosi prima della fine del mondo.
«Nel
freezer?», si informò
dubbioso. Aprì il comparto del congelatore e lo
analizzò incuriosito, «È un
bagnoschiuma questo? Perché c’è una
copia di 1984 qui
dentro?!»
Juno
spazientita si alzò
e, spintonando il suo amico da un lato, si piazzò lei
davanti
all’elettrodomestico ronzante color confetto. Due secondi
più tardi e il ragazzo
si ritrovò con le mani occupate da due confezioni formato
famiglia di maionese
e senape, che gli erano state consegnate con malagrazia dalla bionda.
«Primo:
in questa casa non
ho spazio e metto le cose dove trovo posto. E quel libro è
nel freezer perché
ho il sospetto che Big Brother possa spiare anche me. Secondo: hai il
gas
acceso e la padella è vuota…»
Jack
evitò di farle notare
che il romanzo di Orwell in quanto distopico non narrava della
realtà attuale e
si limitò ad aggiungere del burro nel tegame. Questo prese
immediatamente a
sfrigolare e poco dopo le uova lo raggiunsero. Nel frattempo il
microonde
girava lento, scaldando un paio di waffles preconfezionati.
«A
che ora vai al lavoro
oggi?», domandò mentre rigirava le uova aiutandosi
con una spatola in plastica.
Erano quasi pronte, pochi secondi, un pizzico di sale e pepe et
voilà!
Il
rumore di ceramica
frantumata lo fece voltare all’improvviso.
Juno
se ne stava in piedi
accanto alla porta finestra, lo sguardo perso nel vuoto e i piedi
circondati da
decine di cocci taglienti.
Il
ragazzo le si avvicinò
apprensivo, «Tutto bene?»
La
avvertì di non muoversi
dato che non indossava altro che un paio di lisi calzini a pois, prima
di
recuperare scopa e paletta da dietro la porta e mettersi a raccogliere
i vari
pezzi, facendo attenzione in modo da raccoglierne anche le piccole
schegge.
«Era
la mia tazza
preferita»
Jack
gettò il tutto nella
pattumiera e stava per tornare da lei quando si accorse che…
«Cazzo!
Le uova!». Un
denso fumo, accompagnato da un penetrante odore di bruciato, si stava
sollevando a partire dalla pentola posata sul fornello ancora acceso.
La
finestra venne
spalancata insieme alle persiane ancora sigillate, le uova carbonizzate
seguirono i frammenti di ceramica nella spazzatura e i waffles si
rivelarono
essere gli unici superstiti.
«Juno?»
La
ragazza era ancora
nella stessa posizione, con l’unica differenza che ora aveva
le mani vuote e la
luce del sole entrava a fiotti da dietro le sue spalle, investendola e
facendo
risplendere i suoi capelli chiari ed ancora arruffati.
«Ho
perso di nuovo il
lavoro. Sono solo un disastro, è ovvio che non mi vogliano.
Guarda! Non so
neanche tenere in mano una maledetta tazza senza ridurla in mille
pezzi. E ora
arriverà di nuovo quel vecchio bavoso, perché
ovviamente dovevano licenziarmi
proprio a fine mese, e io non so come pagare questo affitto per quanto
misero»,
sbottò tutt’a un tratto. Si osservò le
mani e poi abbassò lo sguardo al
pavimento ora pulito ai suoi piedi, «Grazie Jake, mangia pure
i miei waffles…»
Dire
che Juno in campo
lavorativo era fortunata avrebbe significato prendersi in giro da soli.
Era una
ragazza piene di risorse nonostante lei in primis tendesse a
sottovalutarsi
continuamente e a credersi solo un’incapace. È
vero, non era propriamente la
persona più puntuale, precisa ed organizzata del mondo ma
quando una cosa la
entusiasmava ci metteva anima e corpo, dando tutta sé stessa
e portando alla
fine qualsiasi progetto. Purtroppo, in una società dove la
disoccupazione
giovanile era una malattia dilagante ed ancora senza cura e dove lo
studio, il
sudore e il merito non sempre venivano ripagati, Juno si era ritrovata
con una
laurea e nessun impiego degno di tale attestato. Aveva ottenuto quel
titolo
accademico tanto sognato pochi mesi prima, alla giovane età
di neanche ventidue
anni, e da allora nulla era cambiato. Lei aveva continuato a lavorare
in una
sala giochi e con il passare del tempo la luce che prima la animava
aveva
iniziato ad affievolirsi. Era successo spesso che venisse licenziata
con poco
preavviso a causa di tagli al personale, fallimenti o semplicemente per
delle
sue piccole mancanze.
Era
un’artista e nessuno
meglio di Jack, o di suo fratello, poteva capire la sofferenza che si
provava
nell’avere così tante idee, così tanta
voglia di esprimersi e nessuno disposto
ad ascoltarti. Urlare, prendersela con il mondo non serviva a nulla.
Fin dai
tempi del Big Bang campare della propria arte si era sempre rivelato
arduo se
non addirittura impossibile. Questo non voleva dire che bisognasse
cessare di
tentare e ritentare, di avere fiducia e di continuare a creare
bellezza,
qualsiasi forma essa avesse: un disegno, una melodia, un
cortometraggio, una
danza.
Jack
la prese per mano e
la fece sedere nuovamente al tavolo e le spinse di fronte un piatto con
un paio
di waffle cosparsi di confettura alle fragole. Si accomodò
accanto a lei e
avvicinò a sé una porzione dello stesso dolce,
optando però per una copertura
alla crema di nocciole.
«Ci
sei già passata. Non è
la fine del mondo e anche questa volta la supererai a testa alta. Non
ti
piaceva neanche quel lavoro, ricordi? Dicevi sempre che i ragazzini
erano
insolenti e chiassosi e le mance inesistenti»,
tentò di confortarla
riportandole alla mente quanto poco aveva gradito quei mesi presso la
sala giochi.
Un ambiente frequentato principalmente da teppistelli che volevano
mettersi in
mostra e da persone con dei seri problemi di dipendenza dal gioco
d’azzardo. Le
era sempre sembrato una forzatura, stare lì con un sorriso
finto a servire
birra e marshmallow quando in verità avrebbe voluto urlare a
quei bambini di
stare all’aria aperta, giocare insieme e godersi
quell’età meravigliosa che non
tornerà mai più. Avrebbe desiderato afferrare per
le spalle quegli uomini dagli
occhi spenti e scuoterli per bene, riportarli alla ragione e se
necessario
cacciarli via da lì, trappola dove il tempo vola e lo
stipendio sfuma.
«Almeno
avevo un’entrata
mensile…», gli fece saggiamente notare lei.
Jack,
ottimista
impenitente, acciuffò il telefono dalla tasca dei pantaloni
e digitò
rapidamente un messaggio.
«Lascia
stare Adam, non
potete sempre salvarmi voi due. Prima o poi dovrete rassegnarvi e
lasciarmi
andare a fare…la gigolò!»,
brontolò lei impossessandosi del suo cellulare e
sbirciando il testo appena inviato.
Alza il culo, usignolo adorato, vai
a comprare il
giornale di oggi e corri, CORRI, da Juno.
Tipica
gentilezza
fraterna.
«Intendevi
forse dire che
le tue prospettive future comprendono anche l’opzione della
prostituzione?»,
chiese lui a metà tra l’incredulo e lo
sghignazzante.
Lei
parve offendersi per
la scarsa presa in considerazione che la sua idea aveva raccolto e il
suo
orgoglio femminile accusò malamente il colpo. Neanche la
escort poteva fare
ora. Tanto valeva passare all’ultima spiaggia rimasta: la
senzatetto.
«Stai
insinuando forse che
sarei una pessima prostituta?», berciò lei
oltraggiata, schiaffeggiando la sua
mano che tentava di metterla a tacere imboccandola con una porzione
super di
waffle.
Lui
parve preso in
contropiede e imbarazzato tentò di arrampicarsi sugli
specchi: «Posso chiedere
l’aiuto da casa?»
A
quel nuovo tentativo di
evasione lei si indignò e scattò in piedi,
rischiando di trascinare con sé il
piatto e creare un nuovo piccolo disastro simile al precedente.
«Aspettami
qui!», ordinò
perentoria, non fornendo informazioni aggiuntive e sparendo al di
là della
porta che conduceva alla zona notte.
Se
c’era una cosa che non
aveva mai imbarazzato Juno era il suo corpo, anzi era sempre stata
piuttosto
disinibita dal punto di vista fisico, bloccandosi poi per altre cose
come
l’ammettere di tenere a qualcuno o mostrare ad altri una sua
opera. Aveva
sempre pensato al corpo come ad un involucro, a volte attraente a volte
meno,
che serviva solo a proteggere, o a nascondere, il bene veramente
prezioso ed importante.
Nonostante tutto però Juno era pur sempre una donna e,
volente o nolente,
custodiva dentro di sé un piccola dose di vanità
che non voleva assolutamente
essere sminuita ma semmai accresciuta tramite complimenti ed
apprezzamenti.
In
camera da letto regnava
il caos più assoluto, dovuto ad una notte insonne, ad un
cambio armadio semi
abbozzato e alla disperazione nera che ieri sera l’aveva
assalita. Scansò con
un piede la cappelliera che conteneva la sua collezione di baschi e
fece un
breve salto ad ostacoli per raggiungere l’ampio guardaroba
senza inciamparsi
nelle numerose scarpe spaiate disseminate sul parquet tarlato. Lo
spalancò per
poi immergersi tra quel marasma di indumenti alla ricerca della scatola
nella
quale custodiva gli acquisti errati. Lì dentro, tra un
pullover di angora
giallo canarino che lasciava pelucchi in ogni dove e un paio di
sbrilluccicanti
scarpette con cinturo alla caviglia che parevano quelle di Dorothy ne Il Mago di Oz, era custodito il suo
segreto più oscuro e nascosto. Un completino intimo in pizzo
nero, reggiseno a
balconcino e slip striminziti, di quelli che ammazzano il fisico di
qualunque
donna non sia Adriana Lima. Risaliva a quando, depressa
dall’ennesimo no
ricevuto da una galleria d’arte, si era consolata comprando
quel completo La
Perla e bevendosi quattro Cosmopolitan, rischiando in un colpo solo la
bancarotta e il coma etilico. Se lo era provata e riprovata davanti
allo
specchio, crogiolandosi in quel momento di pura frivolezza, ma alla
fine non lo
aveva mai indossato davanti a nessuno. Ovviamente non avrebbe mai
pensato che
la sua prima apparizione in pubblico, avvolta in sexy pizzo da
900€ suonati,
sarebbe stata per convincere quell’imbecille di Jack che
sì, anche lei era una
donna, nonostante solitamente passasse metà delle sue
giornate vestita con
l’orrida divisa del lavoro e l’altra
metà infagottata in morbidi pigiami dalle
fantasie improbabili.
Si
sfilò i pantaloni con
un simpatico motivo a ranocchie e la maglia in cotone verde scuro,
gettò sul
letto i suoi semplici slip neri e, sogghignando maligna, si
levò anche i
calzini. Cercando di non restare incastrata in quel reggiseno che
pareva più
uno strumento di tortura medievale che un indumento di biancheria
intima, si
coprì rapida il seno nudo. Il sospetto che il tizio che
abitava
nell’appartamento di fronte al suo, al di là della
stretta strada, la spiasse
non l’aveva mai abbandonata del tutto. Un’ultima
occhiata al proprio riflesso,
una spazzolata vigorosa ai lunghi capelli annodati e via.
Sapeva
di stare per fare
una cosa stupida ma era disoccupata, era giovane e la sua
femminilità era
appena stata messa in dubbio. Con passo baldanzoso si avviò
verso il salotto,
dove aveva abbandonato il suo vicino.
Non
appena fece la sua
apparizione oltre la soglia, tentando di atteggiarsi in un modo che
potesse
anche vagamente sembrare seducente, fu accolta da uno strillo acuto.
«Dannazione,
J.! Mi è
quasi preso un infarto nel vederti spuntare così dal nulla e
agghindata in
questo modo. Va bene che oggi fa caldo ma copriti prima che ti venga
una
polmonite. E se era un tentativo per riportarmi sulla strada
dell’eterosessualità, perdonami tesoro, ma
continuo a preferire dei pettorali
scolpiti alle tue, seppure adorabili, tettine», mi accolse un
sorridente Adam,
spaparanzato sul divano ed intento a mangiarsi una confezione di
biscotti
secchi, ricoperti da un’abbondante dose di marmellata.
Quello
era proprio quello
che ci voleva per farla sentire desiderabile: incontrare un gay
incallito.
«TETTINE?!»,
osò chiedere
con voce strozzata la ragazza.
Una
risata fragorosa
irruppe prepotentemente alle sue spalle e voltandosi scoprì
che appoggiato al
frigorifero – e dove altro volevi che fosse? –
stava, bello come il sole, Jack
intento a prendersi gioco dell’amica in modo sfacciato.
«Stava
cercando di
mostrarmi il suo potenziale in
vista
del suo prossimo lavoro e tu, caro fratello, l’hai appena
distrutta!»
La
ragazza strinse i pugni
furiosa e si avvicinò piano al ragazzo alle sue spalle,
ignorando la domanda
che suo fratello aveva appena rivolto loro dalle morbide
profondità dei cuscini
in cui era sprofondato. Misurò la distanza che la separa da
lui e si mosse
lentamente, con pochi movimenti fluidi, fino ad arrivare a pochi
centimetri dal
suo corpo. Si alzò sulle punte dei piedi e si
spalmò contro il suo petto, in
modo assolutamente spudorato, avvicinando la testa al suo collo
esposto. Lo
leccò piano, mentre con studiata casualità faceva
sfregare i suoi fianchi
contro il bacino del ragazzo. Insinuò una mano sotto la sua
maglietta leggera,
pronta ad accarezzare più pelle bollente possibile. Poteva
chiaramente sentire
il suo respiro accelerato così come i suoi muscoli
irrigiditi nello sforzo di
resistere stoicamente e non cedere agli istinti che probabilmente gli
urlavano
di ammettere che sì, era una bomba sexy prima di rischiare
di far sesso con la
sua vicina di casa proprio lì, contro quel frigorifero, e
davanti agli occhi
curiosi di suo fratello. Purtroppo la ragione perse miseramente contro
un
impulso primordiale che lo spingeva a volerne sempre di più
e così, quasi
inconsapevolmente, si ritrovò a percorrere con i
polpastrelli la pelle morbida
e calda della ragazza. Seguì il contorno dei suoi fianchi,
risalì verso il
seno, accarezzandolo piano, prima di tornare verso il basso, questa
volta più
impetuoso, per afferrarla con forza sotto le cosce e spingerla ancora
di più
addosso a sé. La sentì ridacchiare piano, gli
mordicchiò piano il lobo
dell’orecchio prima di sussurrargli:
«Faresti
meglio a lasciarmi prima che il tuo amichetto là sotto si
monti ancora di più
la testa…»
Jack
abbandonò la presa su
di lei in modo brusco, quasi come se si fosse bruciato, e si
allontanò a grandi
passi dal frigorifero e dal corpo bruciante della ragazza.
«Mmh,
risvolto
interessante. Potevate continuare, sapete? Non capisco bene
perché ma il porno
etero continua comunque ad eccitarmi…»,
commentò Adam, come sempre senza
ritegno alcuno. Quel ragazzo non aveva la minima idea di cosa volessero
dire
riservatezza e discrezione.
Juno
si ricompose, le
guance arrossate e un senso di leggero smarrimento.
«È il potere delle tettine,
bello mio!», esclamò
trionfante.
Mentre
la ragazza spariva
nuovamente verso la sua stanza, Jack, dopo essersi dato un contegno, si
lasciò
cadere accanto al fratello, il quale lo osservava sempre più
divertito.
«Non
ho ben capito quello
che è appena successo ma ti assicuro che la tua reazione
è assolutamente normale.
Anzi, mi sarei preoccupato del contrario…», lo
rassicurò con una pacca sulla
spalla Adam.
Quei
due formavano una
coppia insolita. Da un lato c’era Jack, moro,
dall’aspetto sempre arruffato,
lunatico. E dall’altro stava Adam, biondo, sempre attento al
proprio look,
forse persino fin troppo, fanfarone. All’apparenza antitetici
erano invece
probabilmente la metà della stessa mela, sempre pronti ad
aiutarsi e a correre
l’uno in aiuto dell’altro. Pubblicamente si
trattavano quasi a pesci in faccia
ma chiunque avesse avuto la possibilità di conoscerli un
po’ più
approfonditamente si sarebbe accorto del legame solidissimo che
esisteva tra i
due.
«Taci!
Dov’è il
giornale?», sbottò il moro, ancora stizzito per
quanto appena accaduto contro
quel dannato frigorifero.
Juno
si era trasferita in
Via Leopardi 13 da poco più di un anno, dopo essersi
lasciata in modo piuttosto
brutale con il suo ultimo ragazzo, con cui condivideva un appartamento
verso il
centro città. Ritrovatasi senza un tetto e con i suoi pochi
averi impacchettati
in fretta e furia dentro un paio di scatoloni, la ragazza si era resa
conto di
essere costretta a dire addio alle luci e alle vetrine scintillanti del
cuore
chic e pulsante di quella metropoli per ripiegare verso la periferia.
Ma anche
i sobborghi, negli anni prima dell’ultima recessione
economica, erano stati
oggetto di radicali processi di riqualificazioni e nuovi ed eleganti
edifici
avevano preso il posto di decadenti condomini grigi o villette in stile
vittoriano divorate dall’edera e dalle piante infestanti.
L’unica soluzione era
stata guardare ancora oltre, alla periferia della periferia, e
così era
capitata lì, capolinea della metropolitana verde. Non aveva
mai messo piede in
quel quartiere, rinomato per la sua eccentricità e
l’elevata percentuale di
artistoidi ed omosessuali che la popolavano. Aveva vagato a lungo per
quelle
strade strette e ripide, alcune così in pendenza da poter
essere percorse solo
da dei piccoli tram che sembrano voler sfidare la forza di
gravità.
Quell’immagine le aveva fatto venire in mente Lisbona e le
lunghe nottate
passate a bighellonare per le strade buie ai tempi del periodo post
diploma. Ma
scarpinare per quei viottoli con due scatoloni pieni fino a scoppiare e
un
zaino di dimensioni spropositate rispetto alle esili spalle che ne
dovevano
sopportare il carico toglieva gran parte della suggestività
al luogo. Juno si
era ritrovata così costretta a fare una pausa, nonostante il
sole stesse
calando e lei non avesse ancora idea di cosa avrebbe fatto quella
notte. Aveva
gettato il suo fardello sul marciapiedi, accanto al banchetto di un
supermarket
di second’ordine, dalle vetrine impolverate e dalla tenda da
sola sdrucita. Si
era seduta sul più grande dei due scatoloni, aveva
appoggiato la schiena al
muro della palazzina retrostante e si era accesa una sigaretta. Non
poteva
permettersi una stanza d’albergo, non era mai stata brava a
mantenere le
amicizie e si ritrovava così sprovvista di contatti a cui
chiedere ospitalità.
La sua unica ancora di salvezza, la sua amica Lea, si trovava
dall’altra parte
del mondo, alla ricerca della pace interiore e cazzate varie, o almeno
così le
aveva comunicato nella sua ultima cartolina, giunta tre settimane prima
con un
francobollo tibetano.
Era
avvenuto lì il loro
primo incontro. Jack e Adam dovevano andare a sentire il concerto di un
ex
compagno di conservatorio del secondo e uscirono proprio in quel
momento dal
portoncino accanto a cui sedeva Juno. Stavano litigando come al solito,
accusandosi l’un l’altro del loro ritardo e
dell’assenza di contanti necessari
per poter pagare un taxi. Si erano fermati appena fuori dal palazzo per
decidersi sul da farsi e proprio allora Jack, notando la sigaretta tra
le mani
della ragazza bionda accovacciata su uno scatolone lì
accanto, le rivolse la
parola per la prima volta chiedendole se poteva regalargliene una e
prestarle
l’accendino. Juno, che nonostante sapesse benissimo di essere
al verde e di
avere ancora tre sole sigarette nel pacchetto, gliela offrì
abbozzando un
sorriso. Nell’attesa avevano iniziato a chiacchierare e ad un
certo punto Adam
le aveva chiesto se stava aspettando per caso qualcuno. Lei aveva
negato,
spiegando a grandi linee la sua storia e chiarendo il fatto che fosse
solo alla
ricerca di un affitto il più misero possibile. Era stato
allora che i due
fratelli le avevano parlato di Mr. Anger e del bilocale, piuttosto
squallido
avevano specificato, che si era liberato dopo che il rancoroso
proprietario
aveva sbattuto fuori l’ultimo affittuario a causa dei suoi
mancati pagamenti. E
anche perché era un pervertito, aveva aggiunto Adam
sogghignando.
Alla
fine aveva trascorso
la notte sul divano dei due ragazzi e tre giorni più tardi
si era installata
nell’appartamento 3A della palazzina al civico 13.
Essendo
tutti e tre
artisti si erano trovati sulla stessa lunghezza d’onda
condividendo
frustrazioni, castelli in aria e bottiglie del più economico
vino bianco
venduto nel supermercato di Karim. Aveva già ritratto
più volte entrambe i suoi
vicini, soprattutto Adam che, vanitoso come pochi, si prestava
volentieri ad
ore ed ore di seduta di posa per poi ogni volta lamentarsi del fatto
che non
avesse reso giustizia alla sua accecante avvenenza. Jack,
più schivo ed
irrequieto, diventava sofferente dopo una mezz’oretta ed
iniziava a dimenarsi sulla
sedia come un’anima in pena. Juno preferiva senza dubbio
ritrarlo addormentato.
In cambio la ragazza aiutava il fratello aspirante attore a ripassare
il
copione e ripetere le battute per i numerosi provini a cui prendeva
parte. Adam
dal canto suo non si faceva scrupolo alcuno e ad ogni ora del giorno e
della
notte li allietava con le sue note e i suoi testi.
Juno
fece ritorno proprio
in quel momento in soggiorno e si accomodò sul divano tra i
due ragazzi. Si era
cambiata e per evitare altri piccoli incidenti si era premurata di
coprire più
pelle possibile, corredando il tutto con un bel paio di calze
antiscivolo
decorate con tante piccole ciambelle glassate. Giusto per essere sicuri
di
ammazzare l’ormone impazzite di Jack.
«Allora?
Questo
giornale?», chiese, girando la testa prima a destra e poi a
sinistra per
guardare i suoi vicini.
Jack
le allungò metà del
quotidiano, indicandole la pagina con le offerte di lavoro e
cacciandole in
mano un pennarello rosso.
«Potresti
sempre andare a
Parigi a tratteggiare ritratti dei passanti con il carboncino. Molto
bohémien,
no? E io potrei venire a trovarti molto spesso per poter andare ad
incollare le
mie manine alla vetrina di Dior e Chanel…»,
propose Adam prima di alzarsi e
recarsi verso il cucinino, pronto per depredare nuovamente la dispensa.
Scorse
rapidamente gli
annunci, facendo una prima cernita ed eliminando quelli in cui erano
richieste
qualifiche e titoli che lei non possedeva. Laurea in robotica?
Padronanza della
lingua finlandese? Conoscenza del linguaggio di programmazione Java?
«Java?
Che accidenti è
Java?», chiese sconsolata, tirando l’ennesima riga
sull’offerta di un posto in
un laboratorio di chimica organica.
«Non era quella
specie di canguro con le
orecchie da coniglio di Star Wars?», bofonchiò
Adam, la bocca impastata dai
quintali di sorbetto ai frutti di bosco di cui era riuscito ad
impadronirsi,
nonostante Juno lo avesse sapientemente nascosto dietro al libro di
Orwell.
«Deficiente:
quello era
Jar Jar Binks!», lo corresse subito Jack, molto pignolo
quando si toccava la
saga di George Lucas.
«Secondo
voi sarei in
grado di fare la saldatrice? Vi ricordate della protagonista di Flashdance?», si
informò la ragazza.
Quel
film non le era mai
piaciuto anche se raccontava le vicende di una ballerina che, come
tutti loro,
incontrava più di qualche difficoltà nel
realizzare il suo sogno.
Jack
le rubò il pennarello
dalle dita e cancellò l’annuncio.
«Saresti un pericolo di dimensioni epiche con
un saldatore tra le mani. Ci teniamo alla sopravvivenza della specie
umana
dopotutto e non le auguriamo una rapida estinzione». Fece
scorrere la punta in
feltro rossa lungo la pagina prima di picchiettarla
nell’angolo in basso a
sinistra. Disegnò un bel cerchio attorno
all’ultima colonna di parole e le
rivolse uno sguardo trionfante. «Cercasi
ragazza qualificata e con esperienza per aiutare famiglia nella
gestione dei
figli e, se richiesto, della casa. Ottima paga. 002779313, chiamare in
mattinata o in tarda serata», recitò,
mettendoci più enfasi di quanta la
situazione effettivamente richiedesse. Ah i vizi degli attori!
«Io
odio i bambini»
«Oh
sì, lei detesta i
bambini», le fece eco prontamente Adam.
Più
che una vera e proprio
avversione nei confronti di quei teneri esserini sotto gli otto anni
d’età,
Juno ne era segretamente terrorizzata. Erano delle creature fragili,
che
necessitavano della protezione di una persona che fosse responsabile
per loro,
che li accudisse e non permettesse che succedesse loro nulla di male.
Erano
però anche dei mostriciattoli, assolutamente imprevedibili e
volubili, un
attimo tutti gridolini e fossette e il secondo dopo urlavano
così forte da
spaccarsi i polmoni per lo sforzo, il viso congestionato e le mani
strette a
pugno.
«Tentar
non nuoce. È
comunque il lavoro in cui potresti dare il meglio di te. Ti vedo senza
di più
nelle vesti di tata che di saldatrice. O di
prostituta…», aggiunse
ridacchiando. Una pronta sberla si abbatté sulla sua nuca,
scatenando l’ilarità
anche del secondo fratello demente.
«La
dimostrazione di poco
fa non è bastata?», lo sfidò a denti
stretti mentre le sue manine birbanti già
minacciavano di avvicinarsi troppo al cavallo dei pantaloni del moro.
Questo
balzò prontamente
in piedi, deciso a non prestarsi ad un’altra scena in cui a
fare la scena del
cretino c’era lui. Le porse invece, quasi come per sancire
un’offerta di pace,
il suo telefono facendo cenno all’ampio cerchio rosso che
svettava sulla carta
stampata posata in grembo alla ragazza.
Lei
lo afferrò in malo
modo e dichiarò che avrebbe provato a contattare il numero
sul giornale solo
perché lei aveva bisogno di un lavoro e di certo non
perché lui gliel’avesse
poco gentilmente ordinato.
Digitò
il numero, le dita
leggermente titubanti. Se c’era una cosa che proprio non le
piaceva era parlare
al telefono con degli sconosciuti. Odiava non sapere chi aspettarsi al
di là
della cornetta.
Squillò
un paio di volte
prima che qualcuno rispondesse, «Casa Seymour, chi
parla?».
Una
voce femminile, dal
tono annoiato e dal forte accento russo.
«Buongiorno
Mrs. Seymour!
La sto chiamando perché ho letto il suo annunc-»
Il
suo tentativo di
presentazione venne bruscamente interrotto dalla voce
dell’altra donna che,
probabilmente rivolgendosi ad un’altra persona presente nelle
vicinanze, chiamò
a gran voce Mrs. Seymour, facendo capire a Juno che quella con cui
stava
parlando probabilmente doveva essere una domestica o una figlia
adottata,
chiunque tranne la vera Mrs. Seymour.
Maledizione, Ivanka! Hai appena
interrotto la mia
sessione mattutina di agopuntura! Si può sapere
cos’hai da strillare tanto?!
Forse
dimenticandosi del
fatto di avere una persona in attesa sulla linea telefonica, la vera
Mrs.
Seymour stava sfogando tutto il suo mattutino malumore sulla povera
ragazza.
«Sì,
pronto? Con chi
parlo?». La voce questa volta era molto più
melodiosa seppur con una leggera
vena antipatica in sottofondo.
Juno
decise che non era
quello il momento di inebetirsi e fare supposizioni sulle due donne e
si
riscosse. «Buongiorno Mrs. Seymour. Mi chiamo Juno Morrison e
la chiamavo a
proposito dell’annuncio-»
«Bene!
Venga
immediatamente. Ormai la mia mattinata è irrimediabilmente
rovinata a causa di
quella sciocca di Ivanka quindi tanto vale peggiorarla ulteriormente.
Via
Corridoni, 17. Dica al tassista di fermarsi sul retro. A
dopo!», e con questo concluse
la chiamata.
Juno
rimase per un attimo
perplessa, ascoltando il vuoto tu-tu-tu che il telefono le restituiva.
Poi
realizzò. Venga immediatamente.
Immediatamente!
Lanciò
il telefono sul
divano, ignorando le proteste del suo legittimo proprietario e il sesto
grado
dell’altro fratello, e si precipitò in camera.
Dove accidenti aveva messo la
sua unica camicetta stirata delle grandi occasioni? Si gettò
come una furia tra
gli abiti che occupavano il suo guardaroba, prelevandoli a piene mani
per poi
scaraventarli sul letto dopo averli scorsi rapidamente. Ovviamente la
camicia
in questione si trovava nell’angolo più
irraggiungibile ed anfrattuoso
dell’armadio. E, orrore degli orrori, aveva il colletto
macchiato di quello che
pareva caffè. Stizzita dall’imprevisto, getto la
gruccia e la camicia in terra,
prima di voltarsi a fronteggiare il cumulo di vestiti che si era
formato tra le
lenzuola sfatte del suo letto.
«Bisogno
di aiuto?»,
trillò una voce ben conosciuta alle sue spalle.
Adam
se ne stava
appoggiata con nonchalance allo stipite della porta, guardando con
occhio
critico quella torre di indumenti spiegazzati e malridotti. Si tenne
per sé il
segreto disgusto che la passione della sua amica per gli abiti usati
gli
procurava, deciso ad essere d’aiuto e non polemizzare. Non
stavolta perlomeno.
«Pantaloni
neri ampi che
sbucano dal cassetto del comodino di destra. Maglioncino girocollo
morbido
grigio che fa capolino verso la cima di quel marasma di abiti sul
letto.
Ballerine nere di velluto, una è sotto il termosifone mentre
l’altra è nel tuo
beautycase, nonostante non abbia idea di come abbia potuto finire
lì»,
snocciolò in tono professionale, il tutto senza essersi
mosso di un solo passo.
Juno
ormai non si chiedeva
neanche più perché lui senza spettinarsi o
muovere un solo muscolo riuscisse a
comporre outfit da favola mentre lei poteva correre, affaccendarsi,
vestirsi,
spogliarsi, rivestirsi, cambiarsi nuovamente, sudare e sembrare
comunque un
pagliaccio.
«Trucco
leggero: velo di
fondotinta, ombretto chiaro, mascara e lucidalabbra. Un tocco di blush
e di
matita marrone al massimo. Raccogli i capelli in uno chignon morbido.
Sì, lo so
sono magnifico, non c’è bisogno che tu lo dica ad
alta voce».
***
Tre
fermate con la
metropolitana verde, cambio con la linea rossa, al quinto stop discesa,
dieci
minuti a piedi e Juno raggiunse Via Corridoni 17 e Casa Seymour. O
meglio,
l'alta cancellata che custodiva Casa Seymour.
Non
serviva ricontrollare
il retro dello scontrino spiegazzato su cui aveva scribacchiato
l'indirizzo
datole da Mrs. Seymour al telefono. I complicati disegni arzigogolati
in ferro
battuto dell'ampio cancello d'ingresso le fecero capire che il posto
era
proprio quello. Dove altro poteva vivere una persona dalla voce e dai
modi
prepotentemente aristocratici come quelli di Mrs. Seymour?
Ricordandosi
dell'accenno
ad un ingresso secondario la ragazza iniziò a percorrere il
perimetro esterno
della proprietà, ritrovandosi a maledire quel caldo
eccessivo che aveva deciso
di apparire proprio quel giorno rischiando di farla arrivare a
quell'incontro
con un bel paio di chiazze di sudore sul cardigan. Se per 'ingresso
secondario'
si era immaginata una scrostata porticina imbrattata di graffiti in un
vicolo
laterale dovette rapidamente ricredersi. Nulla in quella zona
residenziale di
lusso, per quanto secondario e riservato ai poveretti come lei, mancava
di una
buona dose di appariscente eleganza. Si ritrovò di fronte ad
un portoncino
lucente con un battente dorato finemente lavorato che svettava sullo
sfondo
scuro del legno laccato.
Quella
superficie era così
lucida che ci si poteva quasi specchiare e grazie a ciò Juno
si accorse di un
ciuffo ribelle sfuggitole dalla crocchia un po' improvvisata in cui
aveva
raccolto sommariamente i capelli. Si risistemò
l'acconciatura e facendosi
coraggio allungò una mano per bussare e manifestare la sua
presenza.
L’estrema
efficienza del
personale della casa si rese subito palese nel tempo record in cui la
porta
venne delicatamente socchiusa da un anziano signore
dall’espressione bonaria.
«Immagino
lei sia Ms.
Morrison. Prego mi segua all’interno…»
La
ragazza si limitò ad
annuire e ad accodarsi diligentemente all’uomo.
Pantaloni
morbidi, gilet
scuro e camicia chiara. Niente livrea, niente guanti. Juno dovette
riconoscere
che non aveva propriamente l’aspetto del maggiordomo di
Downton Abbey.
Attraversarono
un’ampia
cucina illuminata da grandi finestre che si affacciavano su modesto
orticello,
composto da sei file ordinate di piantine. Una signora dai capelli
bianchi le
rivolse un sorriso gentile nel passare attraverso una saletta con
qualche
poltroncina e un ampio tavolo, mentre il ragazzo seduto nel bovindo,
intento a
fumare una sigaretta, la ignorò semplicemente.
Juno
si domandò da quanti
altri membri fosse composto il gruppo di domestici, autisti e
giardinieri vari
e sperò che Mrs. Seymour avrebbe risposto al più
presto ai suoi dubbi.
Salirono
una piccola scala
in legno bianco, superarono una porta imbottita di tessuto scarlatto
damascato
e arrivarono finalmente nel cuore della casa. Un atrio immenso, dal
lucido
pavimento di marmo venato, alte ed eleganti colonne dal capitello
finemente
decorato da foglie di acanto e ghirlande scolpite,
un’elegante scalinata che
pareva aprirsi a ventaglio come la coda di un elegante abito da sera.
Un lampadario
di cristallo sormontava le loro teste, colpito dalla cascata di luce
che si
riversava nella stanza proiettava riflessi multicolori su tutte le
pareti.
«Oh
finalmente! Morrison,
giusto? Vieni, cara, vieni con me!», apparsa dal nulla,
avvolta da una nuvola
di costoso profumo, Mrs. Seymour fece il suo ingresso trionfale
scendendo dalla
scalinata e raggiungendoli a sorpresa alle spalle.
Si
trattava di una donna
che certamente non poteva attraversare una stanza senza poter passare
inosservata. Slanciata, dal fisico atletico nonostante probabilmente
avesse
superato la quarantina, la pelle abbronzata e tonica, gli occhi grandi
e
luminosi. Emanava fascino puro ad ogni passo. Juno ne rimase come
incantata; da
artista non poteva ammirare la bellezza in ogni sua forma e rimanerne
ogni
volta stupita.
Quasi
non notò di essere
stata afferrata per un polso dalla mano fresca di manicure della donna
e di
essere stata trascinata in una veranda sul retro della casa. Un vassoio
con una
teiera di porcellana dipinta e un paio di tazze venne prontamente
posata sul
tavolino in vetro che si trovava tra un divanetto in vimini crema e un
paio di
pouf. Juno ringraziò la signora dai capelli bianchi di poco
prima quando la
vide intenta a versarle del tè.
Mrs.
Seymour accavallò le lunghe
gambe e si sporse verso la ragazza, come a volerla studiare
più da vicino per
non perdersi neanche un piccolo dettaglio.
«Hai
una bella pelle,
nonostante le lentiggini e le occhiaie. È una fortuna, sai?
Se l’avessi avuta
io ora l’isola alle Antille l’avrei io e non il mio
chirurgo estetico», mormorò
infine senza distogliere lo sguardo.
Aveva
una bella voce,
ferma e piena. Una di quelle voci a cui non avresti certamente
disubbidito.
Juno
si accarezzò
sovrappensiero la guancia, ricordando a malapena di essermi messa un
velo di
fard giusto per non sembrare appena ripescata dal Danubio, con il suo
colorito
sempre sui toni del verdognolo. Non sapendo se ringraziare o meno
decise di
tacere nel dubbio. Cosa avrebbe dovuto dire d’altronde? Non
poteva permettersi
un fazzoletto di appartamento ai confini del mondo figurarsi
un’isola tropicale
o un medico che le restaurasse il viso!
«Bene,
cara, hai un
curriculum? No, anzi, non ho alcuna voglia di leggerlo quindi che ne
dici di
riassumermi rapidamente cosa sai fare? Ti avverto che non ho molto
tempo, tra
dieci minuti arriva il mio insegnante di meditazione», le
suggerì la padrona di
casa, non accennando a toccare la sua tazza e scoraggiando la ragazza
dal
cercare di bere il proprio tè.
Juno
si raddrizzò, fece un
piccolo respiro e si lanciò: quella era la sua occasione.
Non aveva mai pensato
a fare la tata ma quella famiglia era senza dubbio benestante ed
influente e se
si fosse fatta benvolere forse avrebbero potuto introdurla o fornirle
delle
credenziali valide per il suo ingresso ufficiale nel mondo
dell’arte. Senza
dubbio ne avrebbe ricavato di più che facendo popcorn e
versando cocacola alla
spina!
Le
raccontò brevemente dei
suoi anni prima dell’accademia, ritenendo più
importante focalizzarsi sui suoi
traguardi invece che sulla sua infanzia e i componenti della sua
famiglia. Le
espose i numerosi concorsi a cui aveva preso parte arrivando nelle
prime
posizioni, menzionò la piccola esposizione delle sue opere
che aveva avuto
luogo l’anno prima nella sala del vecchio municipio.
Cercò di rendere
scintillante ed estrosa l’immagine della sua vita, senza
menzionare le
umiliazioni a cui era sottoposta quando doveva supplicare Mr. Anger
affinché le
concedesse una proroga di una settimana per il pagamento mensile
dell’affitto o
agli sberleffi da parte di dodicenni presuntuosi di cui era stata
vittima senza
avere la possibilità di difendersi e farsi valere per paura
di perdere il suo
posto di lavoro. Si accorse di essere andata fuori tema quando si
bloccò a metà
di una frase piena di lodi per il lavoro di Magritte e si rese conto
che la sua
interlocutrice stava fumando guardando il cielo azzurro oltre il tetto
in
vetro.
Quest’ultima
parve
riscuotersi a sua volta e tornò a fissare quella piccola
ragazza bionda di
fronte a sé. Espirò una densa nuvoletta di fumo,
«Non si può certo dire che tu
non abbia passione, cara ragazza! E io ammiro la passione, soprattutto
quando è
così genuina ed indomabile, quando ti divora e ti consuma.
Ti toglie il sonno e
l’appetito, vero?», si interruppe sospirando.
Schiacciò con un gesto rabbioso
la sigaretta nel posacenere in vetro blu e si passò
distrattamente le mani tra
i capelli perfettamente acconciati.
Juno
osservò quella donna
che pareva conoscere così bene quello che agitava il suo
animo e ammise
semplicemente: «La mia passione è tutto quello che
ho»
La
signora parve quasi
spaventata dalle sue parole e per un attimo un lampo di pura sofferenza
attraversò quegli occhi chiari contornati da lunghe ciglia
cariche di mascara.
Senza
preavviso alcuno si
alzò, facendo frusciare la sua gonna di seta color pesca.
«Sei assunta»,
sentenziò decisa.
La
ragazza di fronte a lei
tentò di celare la sua sorpresa e la sua gioia ma un
luccichio le fece brillare
gli occhi nocciola.
Ce
l’aveva fatta! Quel
posto era sua e per ottenerlo non aveva neanche dovuto mostrare il suo
curriculum, il suo voto di laurea, il nome della sua accademia o,
peggio
ancora, contrattare affinché le garantissero perlomeno il
salario minimo. Un
dubbio rannuvolò la sua mente: cosa aveva ottenuto
realmente? Non aveva la
minima idea di cosa avesse davvero bisogno Mrs. Seymour e lei
certamente non si
era spiegata al riguardo.
«Io,
io non so cosa dire.
La ringrazio ma…cosa dovrei fare in pratica?», si
azzardò a domandare la bionda
nonostante la sua neo datrice di lavoro si fosse già
incamminata verso
l’interno della casa. Quella, come resasi conto di aver
scordato qualcosa, si
arrestò sulla soglia della portafinestra e si diede della
sciocca.
Ruotò
su sé stessa, in un
turbinio di fragranza fruttata e seta preziosa, e tornò sui
suoi passi. «Perdonami,
tesoro, non sono mai in forma smagliante prima di mezzogiorno e del mio
doppio
Martini. Per le faccende domestiche non devi preoccuparti, per quello
c’è Adele
e suo marito Arthur. In più come cameriere abbiamo Tobias,
nonostante non si
possa certo dire che sia un ragazzo solare. Tu dovrai occuparti di mio
figlio
Marlowe. Ha quasi quattro anni ma è fin troppo sveglio
purtroppo e gestirlo è
diventato impossibile con tutti i miei impegni. E suo padre di certo
non è
d’aiuto: l’ultima volta che l’ho visto
è stata tre settimane fa. Skype o
FaceTime ovviamente non contano, giusto? Il piccolo mostro si alza
sempre alle
nove quindi puoi essere qui per quell’ora e restare fino alle
sei quando io
finisco la lezione di pole dance. Puoi fargli fare tutto quello che
vuoi, basta
che sia istruttivo e non contempli l’utilizzo di petardi o
molestie sessuali
varie. Ma questo mi pare superfluo da aggiungere. Tutto
chiaro?», sciorinò alla
velocità della luce mettendo a dura prova
l’attenzione di Juno.
Quest’ultima
non faceva in
tempo a registrare un’informazione e a reagire di conseguenza
che subito ce
n’erano altre tre da assimilare e non perdere.
Mrs.
Seymour, chiaramente
soddisfatta della sua esauriente spiegazione, si incamminò
nuovamente verso il
soggiorno e sparì dentro la casa.
Juno
esalò un sospiro di
sollievo prima di domandarsi se il suo primo giorno lavorativo era da
considerarsi quel giorno stesso o quello seguente o chissà
quando. Doveva
cercare questo Marlowe? Si augurò che non fosse una piattola
insopportabile,
aveva difficoltà già con un bambino addormentato,
figurarsi con uno attivo e
sgambettante!
Il
corso dei suoi pensieri
fu interrotto da Mrs. Seymour che ritornò quasi correndo in
veranda, sebbene
visibilmente di fretta non perdeva comunque la sua eleganza e la sua
grazia.
Chissà come ci riusciva. Probabilmente era un dono di
natura. Adam l’avrebbe
adorata.
«Lotus
è qui e lui odia
aspettare. Alla faccia della calma zen! Mi sono scordata di dirti che
con Marlowe
puoi iniziare domani, oggi è andato alla festa di compleanno
della figlia dei
Beckham e non tornerà fino a stasera, grazie al cielo.
Ovviamente dovrai
aiutarmi anche con Felix perché io non so proprio
più che pesci pigliare con
lui. Anzi che ne dici di andare da lui ora? Così vi
conoscete e tu puoi
assicurarti che pranzi. Ti spiacerebbe preparargli da mangiare al
massimo? O
prendere qualcosa d’asporto se non sai cucinare, non te ne
farei certo una
colpa dato che io ho imparato ad usare il microonde solo
l’altro ieri. Via
Morgagni 19, ultimo piano. E prima di andare passa un attimo da Tobias
a farti
consegnare la borsa. Grazie mille, stella, e buona giornata! Non farti
scoraggiare da Felix, è solo testardo!»,
cinguettò, sempre senza prendere
fiato, prima di volatilizzarsi.
Juno
cercò di far ordine
nella sua testa e stabilire quali fossero i prossimi passi da compiere.
Tobias.
Borsa. Via Morgagni 19. Felix.
Chi
accidenti era Felix?
Meglio
darsi una mossa
invece di perdere tempo inutile a rimuginare riguardo a qualcosa che
avrebbe
scoperto di lì a poco. Prima di andare però s
bevette finalmente la sua tazza
di tè, nonostante si fosse ormai raffreddato.
Dopodiché afferrò le sue cose e,
cercando di fare mente locale, individuò la porta rossa
imbottita di prima e
percorse in senso contrario il percorso dell’andata. Quella
casa le piaceva
terribilmente, tutto era costoso sì ma anche di buongusto,
cosa non sempre
scontata quando si parlava di ricconi sempre pronti a cadere nella
trappola del
pacchiano. Una volta raggiunta la saletta ai piedi della scala bianca
per poco
non si scontrò con il ragazzo moro che al suo arrivo non
l’aveva notata. O
aveva deliberatamente fatto finta di non notarla.
Lui
le rivolse
un’occhiataccia e fece per proseguire per il corridoio ma la
ragazza fu più
veloce e lo afferrò gentilmente per una spalla.
«Tobias,
giusto? Io sono
Juno. Mrs. Seymour mi ha detto di farmi consegnare da te la borse per
tale
Felix», gli spiegai, premurandomi di interrompere
immediatamente il contatto
tra la mia mano e la giacca leggera. Io in primis non apprezzavo quando
le
persone con cui parlavo mi toccassero, figurarsi se a farlo era una
sconosciuta.
Un
sorrisetto incredulo si
fece largo sulle labbra del ragazzo: «Felix? Tu
stai andando da Felix?», chiese come per sincerarsi
del fatto
che non si trattasse di uno scherzo. Nel vedere l’espressione
confusa della
bionda però parve capire che lei non aveva la più
pallida idea di cosa stesse
parlando e che non sapeva assolutamente nulla su Felix.
Ebbe
un moto di comprensione
e le indicò la stanzetta accanto, dandole istruzioni
dettagliate per recuperare
la borsa, prima di lasciarla sola e andarsene per la sua strada,
continuando a
ridacchiare tra sé. Felix se la sarebbe mangiata in un
battibaleno quella.
Quest’ultima,
lungi dal
farsi scoraggiare così facilmente, recuperò un
ampio borsone di pelle marrone,
se lo mise in
spalla, salutò
cordialmente Adele e uscì in strada dalla porta sul retro.
Non
avendo la più pallida
idea di dove si trovasse Via Morgagni, estrasse il suo malmesso
telefono e si
collegò alla rete WiFi cittadina, il cui segnale era
perfetto in quel quartiere
centrale. Non come da lei, dove, per riuscire ad allacciarsi al
collegamento
internet bisognava sporgersi dal tetto del palazzo, rischiando di
cadere di sotto
solo per inviare un messaggio Whatsapp non usando i propri GB.
Con
sua somma sorpresa si
accorse che l’indirizzo datole si trovava più
vicino al suo quartiere che a
quello dei Seymour, anzi stava proprio al confine con
l’inizio della loro zona
squattrinata, solo sette isolati più in su del suo malconcio
appartamento.
Riprese
la metropolitana e
scese due fermate prima della sua solita. Il segnale WiFi era
già ballerino a
quella distanza e, cercando di riportare alla mente il percorso che
poco prima
Google Maps le aveva mostrato, procedette verso sud fino a svoltare a
sinistra
al terzo incrocio.
Via
Morgagni 19. Alzò lo
sguardo dubbiosa trovandosi di fronte ad una palazzina color bianco
sporco,
così alta da svettare sul resto delle costruzioni
circostante. Conosceva quella
costruzione, emergeva dal paesaggio urbano e persino dal tetto della
soffitta
di Jerome la si poteva facilmente individuare.
Mrs.
Seymour aveva detto
ultimo piano e Juno pregò che fosse fornito di ascensore
quel palazzo. Non era
mai stata un tipo troppo sportivo e soprattutto, abitando al terzo
piano di una
costruzione priva di ascensore, aveva imparato ad odiare le scale.
Un
paio di ragazzini se ne
stavano appoggiati al muro scrostato accanto alla porta a vetri che
conduceva
all’ingresso. Non c’era traccia di campanelli.
Fece
per avvicinarsi e il
ragazzo più alto le rivolse un sorrisetto storto.
«Chi stai cercando, bellezza?»,
la apostrofò mieloso.
Juno
lo ignorò, ormai era
diventata un’esperta nell’ignorare quegli
adolescenti così arroganti che si
credevano già degli adulti e volevano intimorire chiunque
apparisse debole ai
loro occhi.
Provò
a spingere la porta
d’ingresso, trovandola fortunatamente aperta e fece per
entrare.
«Troia!»
Fece
finta di niente e si
incamminò velocemente verso la porta metallica che riluceva
nella fioca luce
dell’atrio semibuio. Richiamò
l’ascensore e ci salì, pigiando senza indugio il
pulsante che recava inciso il numero più alto. 23.
Il
tetto del mondo, pensò.
O perlomeno della parte scadente e sporca di quella giungla di
città.
Quella
scatoletta di ferro
iniziò a salire tremolando a tratti, facendole dubitare che
ce l’avrebbe mai
fatta a portarla fino in cima. Dopo un’infinità di
tempo le porte si aprirono
liberandola da quello spazio soffocante. Uscì rapidamente e
si guardò attorno.
Un’unica porta si affacciava su quello stretto pianerottolo.
Nessuna targhetta,
nessuno zerbino, nessuna piantina ornamentale.
Ovviamente
anche qui il
campanello sembrava non esistere.
La
ragazza si avvicinò e
bussò titubante sul legno stinto della porta.
Aspettò un attimo e riprovò di
nuovo, questa volta mettendoci più energia.
«Felix?»,
tentò, non
sapendo bene che pesci pescare.
Mrs.
Seymour non aveva
accennato all’idea che lui non fosse in casa. Avrebbe potuto
lasciare la borsa
lì fuori ma magari conteneva qualcosa di valore e quello non
sembrava proprio
il posto più sicuro per lasciare una borsa incustodita.
Avrebbe potuto chiamare
Mrs. Seymour ma non aveva il suo numero e quella mattina
l’aveva chiamata con
il telefono di Jack, quindi non poteva neanche risalirci dalla
cronologia.
Facendo
un ultimo
tentativo provò ad abbassare la maniglia e con sua somma
sorpresa questa si
aprì docilmente, aprendo uno spiraglio sul buio assoluto.
Nero
come la pece.
Fece
un passo in avanti,
allungando le mani alla ricerca della parete e di un eventuale
interruttore. Si
sentiva una ladra e voleva andarsene subito da lì.
C’era odore di chiuso e il
caldo era quasi soffocante. Ma era il suo lavoro e quindi fece un
ulteriore
passo avanti. Tentò di avanzare nuovamente, le mani tese in
avanti nel caso si
fosse scontrata con qualcosa.
Fu
un attimo, il suo piede
inciampò in qualcosa sul pavimento e lei si
sbilanciò in avanti, cadendo
rovinosamente a terra. La schiena picchiò contro qualcosa di
spigoloso e lei si
lasciò scappare un impropero.
Dio,
perché non poteva mai
avere un lavoro normale? Lei voleva solo dipingere per l’amor
del cielo!
Cercò
di muoversi ma
appoggiò la mano su qualcosa di rigido e appuntito e
ritrasse il palmo. Sfiorò
piano quello che la circondava e si accorse di essere circondata da
libri.
Letteralmente un mare di libri.
All’improvviso
sentì una
porta cigolare e dei passi affrettati. E poi una voce: «Chi
è quell’idiota
sdraiato sui miei libri?! Giuro che mi hai rovinato la prima edizione
di
Fitzgerald io…»
La
luce si accese tutto
d’un tratto, illuminando una stanza vuota piena solo di libri
sparsi, impilati,
rovesciati. E un ragazzo con i soli boxer indosso e
un’espressione infastidita
stampata sul volto.
Immagino che giustamente le persone non ne possano più dei miei esperimenti. Lo so, inizio sempre troppe cose e poi ne concludo a malapena la metà. Lo so. La mia mente lavora troppo velocemente ed altrettanto velocemente si stanca di un progetto, soprattutto quando questo smette di entusiasmarmi o non trova poi alcun riscontro.
Questo capitolo mi piace (MIRACOLOOO!) e perciò, soddisfatta nonostante tutto, lascio a voi l'ardua sentenza.
Abbracci a tutti!
S.
P.S. Commenti costruttivi o distruttivi (no, please :'c) sono sempre ben accetti :)
P.P.S. 'Se son rose fioriranno altrimenti...in bocca la lupo!' verrà aggiornata un pochetto in ritardo ma non disperate.