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Autore: HannibalLecter    08/07/2016    1 recensioni
Juno non era mai stata una ragazza troppo ambiziosa: in fondo sognava solo la fama di Andy Warhol, un’esposizione delle sue opere al Metropolitan di New York e un fidanzato che assomigliasse alla foto di Robert Redford da giovane che conservava nel suo portafogli. Una cosa da niente, no? Certamente non aveva progettato di andare a vivere nella palazzina fatiscente di Via Leopardi 13, con Adam e Jack, aspiranti attori e musicisti, come vicini sempre pronti a risucchiarle l’anima con le loro stupidaggini e le loro incursioni notturne. Come non era nei suoi piani improvvisarsi babysitter di un piccolo mostro e terapeuta della madre di quest’ultimo, dedita a troppi Martini, sonniferi e scarpe di Prada. E soprattutto non avrebbe mai pensato di finire ad accudire un capriccioso artista ventiquattrenne, testardo come un mulo, orgoglioso come Draco Malfoy e maledettamente inguaiato.
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Le previsioni meteo avevano annunciato una giornata di sole e temperature di gran lunga superiori alle medie stagionali: una rarità per il clima solitamente uggioso di ottobre.

La città era già sveglia e brulicante di persone affaccendate che affollavano caffetterie, vagoni della metropolitana e camminavano spedite lungo i marciapiedi. Come ogni lunedì mattina i cittadini, archiviato a malincuore il weekend, riprendevano il loro quotidiano trantran e facevano ritorno al lavoro.

Piccole api indaffarate in un enorme alveare sempre in attività.

Gli operai del cantiere in Via Leopardi avevano ricominciato a martellare, trapanare e abbattere muri già di buon ora. Karim, il proprietario del supermarket dall'altro lato della strada, stava sistemando i suoi espositori con le cassette di frutta e verdura fresca fuori dal suo negozio, all'ombra della vecchia tenda da sole scolorita. In lontananza Mrs. Hoffman si avvicinava a passi stanchi al portoncino in legno che si trovava esattamente accanto alle ordinate file di mele che Karim stava riponendo con cura nell'apposita cassetta in legno.

«Miriam! Com'è andato il turno stanotte?», la salutò allegramente l'uomo non appena si accorse della presenza della donna.

Quella si arrestò bruscamente a pochi metri dall'ingresso del suo palazzo, come se le parole del commerciante l'avessero distolta dai suoi pensieri lasciandola alquanto disorientata.

Pochi secondi e parve riprendersi, tornando padrona di sé e perciò acida ed indisponente come suo solito.

«Uno schifo come sempre. Il mondo è saturo di cretini che ancora non hanno compreso che andare in moto ai duecento km/h senza casco o protezione alcuna è da deficienti. Stupidi imbecilli!», borbottò mentre si affannava alla ricerca delle chiavi all'interno della sua ampia borsa di tela stinta.

Miriam Hoffman, 57 anni, nubile, di professione infermiera al pronto soccorso dell'Ospedale Maggiore della città. Rappresentava il classico stereotipo della zitella inasprita e scontrosa, fermamente convinta che tutto il mondo complottasse alle sue spalle e che non ci si dovesse mai fidare di nessuno. Viveva al primo piano di quella vecchia palazzina dai grigi muri scrostati e, come non si stancava mai di far notare agli altri inquilini, nelle giornate più calde o semplicemente più noiose si improvvisava portinaia, piazzandosi nello stretto atrio d'ingresso con una sedia pieghevole e una pila di riviste di gossip.

Nessuno dei condomini osava commentare questa sua iniziativa ed essi si limitavano a salutarla cordialmente nell'entrare o nell'uscire e ad accettare in cambio un'occhiataccia risentita o un rimbrotto borbottato a mezza voce. Espressione rigida e capelli grigi raccolti in una severa acconciatura retrò, nessuno osava apertamente contraddire Mrs. Hoffman.

Si trattava di uno stretto palazzo risalente agli anni '30, incuneato tra due strutture recentemente ristrutturate che non facevano altro che mettere in risalto la fatiscenza e il vecchio stile che caratterizzavano l'edificio di Via Leopardi 13. In totale si contavano cinque piani più una soffitta.

A pianterreno si trovavano le malridotte cassette della posta che, a differenza di quelle nuove eleganti costruzioni del centro città con le loro ordinate file uniformi di cassette laccate, erano una diversa dall'altra sebbene tutte ugualmente semi arrugginite e tenute insieme quasi per miracolo. Un portaombrelli in plastica sbeccata, dimenticato da chissà chi, se ne stava solitario, tristemente vuoto e abbandonato, accanto alla porticina in ferro che conduceva alle cantine. La bacheca degli annunci appariva tristemente vuota, decorata unicamente da un adesivo di un gruppo di giovani anarchici arrivato fin lì e un datato biglietto che ricordava di chiudere sempre il portone a chiave, soprattutto nelle ore notturne.

Al primo piano abitava Mrs. Hoffman, in un bilocale in cui regnavano centrini di pizzo ingiallito e odore di cavolo bollito, e dall'altro lato del pianerottolo, al di là di un'estrosa porta verniciata di rosso fuoco, risiedeva Mr. Ono. Quest'ultimo era un anziano signore giapponese, sempre sorridente, che non usciva quasi mai di casa se non per sparire per ore e ore nella penombra del piano interrato, tra la muffa e le ragnatele della sua cantina. Nessuno lo aveva mai sentito pronunciare una parola e nessuno lo avevo mai visto vestito in un modo che non contemplasse una vestaglia di seta e un paio di pantofole ricamate. Si mormorava che allevasse cuccioli di iguana ma nessuno era mai riuscito a vederne uno.

Al secondo piano c'era il Bilocale degli Orrori, immobile sfitto ormai da anni a causa dell'orribile serie di delitti di cui si narrava fosse stato scenario. Qualcuno parlava di esperimenti che implicavano elettricità e cadaveri, taluni andavano raccontando di orge e banchetti a base di carne umana e sangue di neonati, altri ancora menzionavano torture medievali e vergini di ferro. Fatto sta che nessun giornale aveva mai parlato di quello che era accaduto tra quelle mura e l'unica cosa certa era che da più di quarant'anni nessuno metteva piede lì dentro. L'appartamento 2B era invece occupato da una coppia che nella vita non faceva altro che litigare e lanciarsi piatti. Lui, Julio, immigrato argentino, come nei peggiori cliché faceva l'insegnante di tango approfittando del suo fascino latino e dei suoi piedini agili. Lei, che neanche a farlo apposta si chiamava Julia, frequentava tutte le classi di danza del fidanzato per poi puntualmente sottoporlo ad accuse di tradimento, o presunto tale, ogni sera. Il fatto che le alunne ballerine avessero un'età media di 79 anni non sembrava frenare Julio dal fare il galante e Julia dall'esserne terribilmente gelosa. Presi singolarmente erano delle persone cordiali, salvo trasformarsi in furie incivili e rissose non appena si trovavano l’uno al cospetto dell’altro. Nonostante ciò stavano insieme da più di dieci anni.

Al terzo piano vivevano Jack e Adam, due fratelli tanto spiantati quanto talentuosi. Il sogno del primo era di conquistare Hollywood, un premio Oscar e Jennifer Lawrence; quello del secondo era di vendere milioni di copie del suo futuro album, suonare al Glastonbury Festival e fare un duetto con Paul McCartney. Per ora si limitavano a lavoretti saltuari e nel loro tempo libero si divertivano nel cercare di innalzare il livello di stress della loro dirimpettaia oltre limiti sempre nuovi.

Esattamente di fronte, all'interno 3A, abitava Juno Morrison, strampalata ragazza che ogni tre mesi rischiava di essere sfrattata per il mancato pagamento dell'affitto mensile da Mr. Anger, un anziano signore dall'aspetto rinsecchito ma dal carattere iroso.

Infine la soffitta era occupata da Jerome, eccentrico inventore francese, che ogni tre per due causava piccole esplosioni che facevano inviperire Mrs. Hoffman, la quale più volte era stata costretta a medicarlo. Ovviamente dopo averlo opportunamente insultato a dovere.

 

Quella mattina le finestre al terzo piano presentavano ai passanti un bizzarro spettacolo. Dal lato ovest erano totalmente spalancate e da esse fuoriuscivano delle note di pianoforte accompagnate da una voce che cantava in falsetto e da un'altra voce dal timbro più basso che rivolgeva improperi al suddetto omino canterino.

Sul lato est invece tutto taceva. Le persiane erano sigillate e nessun rumore riusciva a superare lo spesso strato di cemento armato e intonaco scrostato.

Miriam Hoffman non stette molto ad interrogarsi su quella stranezza. Sopportava ormai da un paio di anni quella coppia di fratelli alquanto spostati ed era a conoscenza delle loro 'aspirazioni' lavorative. Così come d'altro canto era a conoscenza della totale sregolatezza che governava la vita dell'altra ragazza del terzo, quella Juno. La vedeva spesso, era sempre in ritardo ed ogni volta si fiondava giù dalle scale, tre gradini alla volta, finendo puntualmente per rischiare di lasciarci le penne tutte le volte. Biondi capelli vaporosi, vestiti stropicciati e tintinnio di braccialetti e bigiotteria da due soldi.

 

Quella mattina Jack, svegliatosi decisamente troppo presto per i suoi standard, si era ritrovato a domandarsi quale istinto masochista lo spingesse a convivere con quel suo consanguineo con l'insopportabile vizio di esercitare il suo talento da polistrumentista alle ore più disparate del giorno e della notte. Quand'era la dolce melodia dell'arpa a cullarlo tra le braccia di Morfeo ancora poteva chiudere un occhio e sorvolare; ma quando si trattava del poderoso suono di un trombone alle prime luci del mattino la faccenda diventata semplicemente insostenibile.

Allungò una mano per arraffare alla cieca il suo telefono, abbandonato la sera prima forse sul comodino o forse ancora nella tasca dei jeans gettati accanto del letto. Quando lo trovò diede una rapida occhiata all'orario e alla data registrati sullo schermo.

8.13, lunedì.

Un urlo di rabbia gli sfuggì dalle labbra: «ADAAAM! Cristo santo, cosa ho fatto per meritarmi ciò?»

In quel momento il rumore del piano e dei cinguettii spaccatimpani di Adam cessò, prontamente sostituito dall'incessante martellare proveniente dal cantiere di fronte. Un attimo e suo fratello riattaccò con un suo nuovo imperdibile cavallo di battaglia: Someone Like You di Adele.

Colonna sonora meno deprimente non poteva esistere.  Jack prese un bel respiro e sfilò un piede da sotto il caldo piumone. Poteva pure far caldo fuori ma quelle vecchie pareti erano così umide che nel palazzo regnavano sempre spifferi ed infiltrazioni. Un lieve pulsare alle tempie avvertì il ragazzo del mal di testa che si sarebbe scatenato di lì a poco se non avesse preso delle serie precauzioni. Precauzioni che potevano essere nell'ordine:

1) Un paio di paraorecchie.

2)  Fratricidio.

3) La fuga.

Trovandosi sprovvisto della prima e non essendo in vena di omicidi già di prima mattina, il ragazzo si risolse a seguire l'ultima opzione.

Gettò da un lato la trapunta e si sporse dal bordo del materasso per lanciare un'occhiata sotto di esso, alla ricerca della sua maglietta scomparsa. Avere la brutta abitudine di gettare i vestiti in modo caotico dove capitava si stava rivelando sempre più controproducente. Ma da essere pigro qual era, Jack, ogni volta si riprometteva di riporre con più attenzione i suoi indumenti per poi  accorgersi quanto la sedia o l'armadio fossero lontani ed irraggiungibili dal morbido letto su cui era spaparanzato e così finiva per spogliarsi lì e gettare tutto il superfluo attorno.

Una volta recuperata una maglia non troppo sudata né spiegazzata abbandonò la stanza e senza farsi notare dal fratello, impegnato in un assolo molto ispirato, uscì dalla porta d'ingresso. Il contatto con il pavimento freddo e impolverato del pianerottolo lo fece rabbrividire e così con un balzo poco agile atterrò sullo zerbino della vicina. La stampa della faccia sorridente di un coniglio lo fissava dal tappetino spelacchiato sul quale aveva trovato rifugio. Chissà in quale pulcioso mercatino di seconda mano Juno aveva pescato quell’obbrobrio.

Senza curarsi della possibilità di disturbare, Jack scampanellò più volte, impaziente di togliersi da lì e dal raggio d'azione dell'udito supersonico di Mrs. Hoffman, i cui grandi e glaciali occhi aveva scorto fissarlo dalla tromba delle scale.

Un lieve scalpiccio giunse smorzato dal legno scadente della porta d'ingresso. Il ragazzo poteva percepire su di sé lo sguardo inquisitore di Juno attraverso lo spioncino. Sapeva fin troppo bene quanto la ragazza adorasse, un po' sadicamente, far aspettare i propri ospiti solo per il gusto di scrutarli senza poter essere vista. Probabilmente alla morte di Mrs. Hoffman ne avrebbe ereditato il ruolo di guardiana, la seggiolina pieghevole e lo sguardo arcigno.

«Vattene Jake! Stamattina non sono in vena»

Il ragazzo per tutta risposta pigiò nuovamente e con più insistenza sul pulsante del campanello. Il tonfo di un pugno assestato al legno della porta si udì chiaramente anche all'esterno, facendo nascere un sorrisino sfacciato sul viso del vicino.

Per qualche secondo tutto tacque dopodiché il rumore metallico dello scatto della serratura sostituì il silenzio. Dallo spiraglio che si aprì emerse un visino arrossato, solcato da profonde occhiaie violacee, su cui capeggiava uno sguardo truce.

«Sei uno splendore stamane! Posso accomodarmi?», esclamò il ragazzo facendo un passo avanti.

La bionda non pareva però intenzionata a schiodarsi da lì né tantomeno a farlo passare.

«Vattene. Se hai bisogno di un riparo perché Adam sta facendo il fringuello scemo vai a far compagnia alla Hoffman!», borbottò Juno, una nota di cattiveria nella voce solitamente così allegra.

Tre piani più sotto Miriam Hoffman interruppe la lettura di un interessante articolo che narrava del nuovo hotel con spa per gatti inaugurato da Paris Hilton e storse il naso nel sentirsi nominare.

Jack non si fece scoraggiare da quel benvenuto tutt'altro che amichevole. «Pasticcino, ti preparo la colazione, ti va?»

«No»

Un muro di gelo.

«Ti pulisco il bagno?»

«No»

Niente da fare.

«Ti faccio un massaggio ai tu-sai-cosa?», tentò ancora.

La ragazza parve sorpresa. «Tu odi i piedi delle persone! Mi obblighi sempre ad indossare le calze in tua presenza...»

Jack parve inorridire al solo udire la parola 'piedi'. «Da ciò puoi dedurre quanto io sia disperato!»

La porta si spalancò silenziosamente.

Il ragazzo, deciso ad approfittare di quel momento, scattò in avanti prima che alla sua stramba vicina di casa venissero strane idee e decidesse di tornare sui suoi passi e lasciarlo a morire di fame sul quel sudicio pianerottolo.

L’appartamento di Juno, come tutti quelli posizionati dal lato est e che erano numerati con la lettera A, era un semplice bilocale composto da soggiorno con cucina, bagno e camera da letto. La ragazza però, assidua frequentatrice dei mercatini delle pulci e amicona di decrepiti rigattieri, aveva farcito quegli scarsi metri quadri con ogni sorta di chincaglieria. Ogni pezzo pareva non c’entrare nulla con gli altri ma il quadro d’insieme comunicava una chiassosa e colorata confusione che in qualche modo aveva il sapore di casa.

Jack osservò con la coda dell’occhio i movimenti della ragazza e, non appena questa scomparve in silenzio dietro la porta scorrevole del bagno, si precipitò a spalancare l’anta del lucido frigorifero color fragola posizionato nell’angolo opposto della stanza. Una rapida occhiata bastò a riportargli alla mente che, se mancava poco che lui e suo fratello Adam andassero a fare la spesa a mesi alterni, Juno invece si recava quasi tutti i giorni da Karim o all’ipermercato due isolati più in là e stipava quantità allucinanti di cibo in ogni scaffale, stipetto e ripiano della casa. Persino il forno, in casa Morrison, era utilizzato a mo’ di credenza.

Imitando i gesti cauti e lenti che bisognava adoperare per vincere a quel giochino dove si dovevano sfilare dei piccoli parallelepipedi di legno senza causare il crollo dell’intera torre, Jack riuscì ad appropriarsi di una pera, una confezione di bacon, uno yoghurt e due uova. Il bello del mangiare il suo cibo stava nel fatto che esso, oltre ad offrire un’ampia selezione, era sempre freschissimo mentre i due fratelli rischiavano ogni settimana di avvelenarsi a vicenda a causa del loro perseverare nell’ignorare l’esistenza di una data di scadenza.

«Serviti pure, carissimo, fai come se fossi a casa tua…», commentò lei, la voce carica di sarcasmo, riapparendo alle sue spalle.

Jack rovesciò il suo bottino sull’ampio tavolo di legno e si accomodò su una delle quattro sedie spaiate della cucina. «Non avresti della maionese per caso? O della senape?», si informò mentre recuperava una padella dallo scolapiatti sopra il doppio lavello.

Lei sbuffò, vistosamente contrariata, prima di accoccolarsi dal lato opposto del tavolo. «Prova a guardare nel freezer. E già che ci sei prendimi anche la scatola di waffle surgelati», borbottò mentre lo guardava armeggiare con fiammiferi e accendigas nella speranza di avere fortuna e di riuscire ad accendere quei fornelli capricciosi prima della fine del mondo.

«Nel freezer?», si informò dubbioso. Aprì il comparto del congelatore e lo analizzò incuriosito, «È un bagnoschiuma questo? Perché c’è una copia di 1984 qui dentro?!»

Juno spazientita si alzò e, spintonando il suo amico da un lato, si piazzò lei davanti all’elettrodomestico ronzante color confetto. Due secondi più tardi e il ragazzo si ritrovò con le mani occupate da due confezioni formato famiglia di maionese e senape, che gli erano state consegnate con malagrazia dalla bionda.

«Primo: in questa casa non ho spazio e metto le cose dove trovo posto. E quel libro è nel freezer perché ho il sospetto che Big Brother possa spiare anche me. Secondo: hai il gas acceso e la padella è vuota…»

Jack evitò di farle notare che il romanzo di Orwell in quanto distopico non narrava della realtà attuale e si limitò ad aggiungere del burro nel tegame. Questo prese immediatamente a sfrigolare e poco dopo le uova lo raggiunsero. Nel frattempo il microonde girava lento, scaldando un paio di waffles preconfezionati.

«A che ora vai al lavoro oggi?», domandò mentre rigirava le uova aiutandosi con una spatola in plastica. Erano quasi pronte, pochi secondi, un pizzico di sale e pepe et voilà!

Il rumore di ceramica frantumata lo fece voltare all’improvviso.

Juno se ne stava in piedi accanto alla porta finestra, lo sguardo perso nel vuoto e i piedi circondati da decine di cocci taglienti.

Il ragazzo le si avvicinò apprensivo, «Tutto bene?»

La avvertì di non muoversi dato che non indossava altro che un paio di lisi calzini a pois, prima di recuperare scopa e paletta da dietro la porta e mettersi a raccogliere i vari pezzi, facendo attenzione in modo da raccoglierne anche le piccole schegge.

«Era la mia tazza preferita»

Jack gettò il tutto nella pattumiera e stava per tornare da lei quando si accorse che…

«Cazzo! Le uova!». Un denso fumo, accompagnato da un penetrante odore di bruciato, si stava sollevando a partire dalla pentola posata sul fornello ancora acceso.

La finestra venne spalancata insieme alle persiane ancora sigillate, le uova carbonizzate seguirono i frammenti di ceramica nella spazzatura e i waffles si rivelarono essere gli unici superstiti.

«Juno?»

La ragazza era ancora nella stessa posizione, con l’unica differenza che ora aveva le mani vuote e la luce del sole entrava a fiotti da dietro le sue spalle, investendola e facendo risplendere i suoi capelli chiari ed ancora arruffati.

«Ho perso di nuovo il lavoro. Sono solo un disastro, è ovvio che non mi vogliano. Guarda! Non so neanche tenere in mano una maledetta tazza senza ridurla in mille pezzi. E ora arriverà di nuovo quel vecchio bavoso, perché ovviamente dovevano licenziarmi proprio a fine mese, e io non so come pagare questo affitto per quanto misero», sbottò tutt’a un tratto. Si osservò le mani e poi abbassò lo sguardo al pavimento ora pulito ai suoi piedi, «Grazie Jake, mangia pure i miei waffles…»

Dire che Juno in campo lavorativo era fortunata avrebbe significato prendersi in giro da soli. Era una ragazza piene di risorse nonostante lei in primis tendesse a sottovalutarsi continuamente e a credersi solo un’incapace. È vero, non era propriamente la persona più puntuale, precisa ed organizzata del mondo ma quando una cosa la entusiasmava ci metteva anima e corpo, dando tutta sé stessa e portando alla fine qualsiasi progetto. Purtroppo, in una società dove la disoccupazione giovanile era una malattia dilagante ed ancora senza cura e dove lo studio, il sudore e il merito non sempre venivano ripagati, Juno si era ritrovata con una laurea e nessun impiego degno di tale attestato. Aveva ottenuto quel titolo accademico tanto sognato pochi mesi prima, alla giovane età di neanche ventidue anni, e da allora nulla era cambiato. Lei aveva continuato a lavorare in una sala giochi e con il passare del tempo la luce che prima la animava aveva iniziato ad affievolirsi. Era successo spesso che venisse licenziata con poco preavviso a causa di tagli al personale, fallimenti o semplicemente per delle sue piccole mancanze.

Era un’artista e nessuno meglio di Jack, o di suo fratello, poteva capire la sofferenza che si provava nell’avere così tante idee, così tanta voglia di esprimersi e nessuno disposto ad ascoltarti. Urlare, prendersela con il mondo non serviva a nulla. Fin dai tempi del Big Bang campare della propria arte si era sempre rivelato arduo se non addirittura impossibile. Questo non voleva dire che bisognasse cessare di tentare e ritentare, di avere fiducia e di continuare a creare bellezza, qualsiasi forma essa avesse: un disegno, una melodia, un cortometraggio, una danza.

Jack la prese per mano e la fece sedere nuovamente al tavolo e le spinse di fronte un piatto con un paio di waffle cosparsi di confettura alle fragole. Si accomodò accanto a lei e avvicinò a sé una porzione dello stesso dolce, optando però per una copertura alla crema di nocciole.

«Ci sei già passata. Non è la fine del mondo e anche questa volta la supererai a testa alta. Non ti piaceva neanche quel lavoro, ricordi? Dicevi sempre che i ragazzini erano insolenti e chiassosi e le mance inesistenti», tentò di confortarla riportandole alla mente quanto poco aveva gradito quei mesi presso la sala giochi. Un ambiente frequentato principalmente da teppistelli che volevano mettersi in mostra e da persone con dei seri problemi di dipendenza dal gioco d’azzardo. Le era sempre sembrato una forzatura, stare lì con un sorriso finto a servire birra e marshmallow quando in verità avrebbe voluto urlare a quei bambini di stare all’aria aperta, giocare insieme e godersi quell’età meravigliosa che non tornerà mai più. Avrebbe desiderato afferrare per le spalle quegli uomini dagli occhi spenti e scuoterli per bene, riportarli alla ragione e se necessario cacciarli via da lì, trappola dove il tempo vola e lo stipendio sfuma.

«Almeno avevo un’entrata mensile…», gli fece saggiamente notare lei.

Jack, ottimista impenitente, acciuffò il telefono dalla tasca dei pantaloni e digitò rapidamente un messaggio.

«Lascia stare Adam, non potete sempre salvarmi voi due. Prima o poi dovrete rassegnarvi e lasciarmi andare a fare…la gigolò!», brontolò lei impossessandosi del suo cellulare e sbirciando il testo appena inviato.

Alza il culo, usignolo adorato, vai a comprare il giornale di oggi e corri, CORRI, da Juno.

Tipica gentilezza fraterna.

«Intendevi forse dire che le tue prospettive future comprendono anche l’opzione della prostituzione?», chiese lui a metà tra l’incredulo e lo sghignazzante.

Lei parve offendersi per la scarsa presa in considerazione che la sua idea aveva raccolto e il suo orgoglio femminile accusò malamente il colpo. Neanche la escort poteva fare ora. Tanto valeva passare all’ultima spiaggia rimasta: la senzatetto.

«Stai insinuando forse che sarei una pessima prostituta?», berciò lei oltraggiata, schiaffeggiando la sua mano che tentava di metterla a tacere imboccandola con una porzione super di waffle.

Lui parve preso in contropiede e imbarazzato tentò di arrampicarsi sugli specchi: «Posso chiedere l’aiuto da casa?»

A quel nuovo tentativo di evasione lei si indignò e scattò in piedi, rischiando di trascinare con sé il piatto e creare un nuovo piccolo disastro simile al precedente.

«Aspettami qui!», ordinò perentoria, non fornendo informazioni aggiuntive e sparendo al di là della porta che conduceva alla zona notte.

Se c’era una cosa che non aveva mai imbarazzato Juno era il suo corpo, anzi era sempre stata piuttosto disinibita dal punto di vista fisico, bloccandosi poi per altre cose come l’ammettere di tenere a qualcuno o mostrare ad altri una sua opera. Aveva sempre pensato al corpo come ad un involucro, a volte attraente a volte meno, che serviva solo a proteggere, o a nascondere, il bene veramente prezioso ed importante. Nonostante tutto però Juno era pur sempre una donna e, volente o nolente, custodiva dentro di sé un piccola dose di vanità che non voleva assolutamente essere sminuita ma semmai accresciuta tramite complimenti ed apprezzamenti.

In camera da letto regnava il caos più assoluto, dovuto ad una notte insonne, ad un cambio armadio semi abbozzato e alla disperazione nera che ieri sera l’aveva assalita. Scansò con un piede la cappelliera che conteneva la sua collezione di baschi e fece un breve salto ad ostacoli per raggiungere l’ampio guardaroba senza inciamparsi nelle numerose scarpe spaiate disseminate sul parquet tarlato. Lo spalancò per poi immergersi tra quel marasma di indumenti alla ricerca della scatola nella quale custodiva gli acquisti errati. Lì dentro, tra un pullover di angora giallo canarino che lasciava pelucchi in ogni dove e un paio di sbrilluccicanti scarpette con cinturo alla caviglia che parevano quelle di Dorothy ne Il Mago di Oz, era custodito il suo segreto più oscuro e nascosto. Un completino intimo in pizzo nero, reggiseno a balconcino e slip striminziti, di quelli che ammazzano il fisico di qualunque donna non sia Adriana Lima. Risaliva a quando, depressa dall’ennesimo no ricevuto da una galleria d’arte, si era consolata comprando quel completo La Perla e bevendosi quattro Cosmopolitan, rischiando in un colpo solo la bancarotta e il coma etilico. Se lo era provata e riprovata davanti allo specchio, crogiolandosi in quel momento di pura frivolezza, ma alla fine non lo aveva mai indossato davanti a nessuno. Ovviamente non avrebbe mai pensato che la sua prima apparizione in pubblico, avvolta in sexy pizzo da 900€ suonati, sarebbe stata per convincere quell’imbecille di Jack che sì, anche lei era una donna, nonostante solitamente passasse metà delle sue giornate vestita con l’orrida divisa del lavoro e l’altra metà infagottata in morbidi pigiami dalle fantasie improbabili.

Si sfilò i pantaloni con un simpatico motivo a ranocchie e la maglia in cotone verde scuro, gettò sul letto i suoi semplici slip neri e, sogghignando maligna, si levò anche i calzini. Cercando di non restare incastrata in quel reggiseno che pareva più uno strumento di tortura medievale che un indumento di biancheria intima, si coprì rapida il seno nudo. Il sospetto che il tizio che abitava nell’appartamento di fronte al suo, al di là della stretta strada, la spiasse non l’aveva mai abbandonata del tutto. Un’ultima occhiata al proprio riflesso, una spazzolata vigorosa ai lunghi capelli annodati e via.

Sapeva di stare per fare una cosa stupida ma era disoccupata, era giovane e la sua femminilità era appena stata messa in dubbio. Con passo baldanzoso si avviò verso il salotto, dove aveva abbandonato il suo vicino.

Non appena fece la sua apparizione oltre la soglia, tentando di atteggiarsi in un modo che potesse anche vagamente sembrare seducente, fu accolta da uno strillo acuto.

«Dannazione, J.! Mi è quasi preso un infarto nel vederti spuntare così dal nulla e agghindata in questo modo. Va bene che oggi fa caldo ma copriti prima che ti venga una polmonite. E se era un tentativo per riportarmi sulla strada dell’eterosessualità, perdonami tesoro, ma continuo a preferire dei pettorali scolpiti alle tue, seppure adorabili, tettine», mi accolse un sorridente Adam, spaparanzato sul divano ed intento a mangiarsi una confezione di biscotti secchi, ricoperti da un’abbondante dose di marmellata.

Quello era proprio quello che ci voleva per farla sentire desiderabile: incontrare un gay incallito.

«TETTINE?!», osò chiedere con voce strozzata la ragazza.

Una risata fragorosa irruppe prepotentemente alle sue spalle e voltandosi scoprì che appoggiato al frigorifero – e dove altro volevi che fosse? – stava, bello come il sole, Jack intento a prendersi gioco dell’amica in modo sfacciato.

«Stava cercando di mostrarmi il suo potenziale in vista del suo prossimo lavoro e tu, caro fratello, l’hai appena distrutta!»

La ragazza strinse i pugni furiosa e si avvicinò piano al ragazzo alle sue spalle, ignorando la domanda che suo fratello aveva appena rivolto loro dalle morbide profondità dei cuscini in cui era sprofondato. Misurò la distanza che la separa da lui e si mosse lentamente, con pochi movimenti fluidi, fino ad arrivare a pochi centimetri dal suo corpo. Si alzò sulle punte dei piedi e si spalmò contro il suo petto, in modo assolutamente spudorato, avvicinando la testa al suo collo esposto. Lo leccò piano, mentre con studiata casualità faceva sfregare i suoi fianchi contro il bacino del ragazzo. Insinuò una mano sotto la sua maglietta leggera, pronta ad accarezzare più pelle bollente possibile. Poteva chiaramente sentire il suo respiro accelerato così come i suoi muscoli irrigiditi nello sforzo di resistere stoicamente e non cedere agli istinti che probabilmente gli urlavano di ammettere che sì, era una bomba sexy prima di rischiare di far sesso con la sua vicina di casa proprio lì, contro quel frigorifero, e davanti agli occhi curiosi di suo fratello. Purtroppo la ragione perse miseramente contro un impulso primordiale che lo spingeva a volerne sempre di più e così, quasi inconsapevolmente, si ritrovò a percorrere con i polpastrelli la pelle morbida e calda della ragazza. Seguì il contorno dei suoi fianchi, risalì verso il seno, accarezzandolo piano, prima di tornare verso il basso, questa volta più impetuoso, per afferrarla con forza sotto le cosce e spingerla ancora di più addosso a sé. La sentì ridacchiare piano, gli mordicchiò piano il lobo dell’orecchio prima di sussurrargli:  «Faresti meglio a lasciarmi prima che il tuo amichetto là sotto si monti ancora di più la testa…»

Jack abbandonò la presa su di lei in modo brusco, quasi come se si fosse bruciato, e si allontanò a grandi passi dal frigorifero e dal corpo bruciante della ragazza.

«Mmh, risvolto interessante. Potevate continuare, sapete? Non capisco bene perché ma il porno etero continua comunque ad eccitarmi…», commentò Adam, come sempre senza ritegno alcuno. Quel ragazzo non aveva la minima idea di cosa volessero dire riservatezza e discrezione.

Juno si ricompose, le guance arrossate e un senso di leggero smarrimento. «È il potere delle tettine, bello mio!», esclamò trionfante.

Mentre la ragazza spariva nuovamente verso la sua stanza, Jack, dopo essersi dato un contegno, si lasciò cadere accanto al fratello, il quale lo osservava sempre più divertito.

«Non ho ben capito quello che è appena successo ma ti assicuro che la tua reazione è assolutamente normale. Anzi, mi sarei preoccupato del contrario…», lo rassicurò con una pacca sulla spalla Adam.

Quei due formavano una coppia insolita. Da un lato c’era Jack, moro, dall’aspetto sempre arruffato, lunatico. E dall’altro stava Adam, biondo, sempre attento al proprio look, forse persino fin troppo, fanfarone. All’apparenza antitetici erano invece probabilmente la metà della stessa mela, sempre pronti ad aiutarsi e a correre l’uno in aiuto dell’altro. Pubblicamente si trattavano quasi a pesci in faccia ma chiunque avesse avuto la possibilità di conoscerli un po’ più approfonditamente si sarebbe accorto del legame solidissimo che esisteva tra i due.

«Taci! Dov’è il giornale?», sbottò il moro, ancora stizzito per quanto appena accaduto contro quel dannato frigorifero.

Juno si era trasferita in Via Leopardi 13 da poco più di un anno, dopo essersi lasciata in modo piuttosto brutale con il suo ultimo ragazzo, con cui condivideva un appartamento verso il centro città. Ritrovatasi senza un tetto e con i suoi pochi averi impacchettati in fretta e furia dentro un paio di scatoloni, la ragazza si era resa conto di essere costretta a dire addio alle luci e alle vetrine scintillanti del cuore chic e pulsante di quella metropoli per ripiegare verso la periferia. Ma anche i sobborghi, negli anni prima dell’ultima recessione economica, erano stati oggetto di radicali processi di riqualificazioni e nuovi ed eleganti edifici avevano preso il posto di decadenti condomini grigi o villette in stile vittoriano divorate dall’edera e dalle piante infestanti. L’unica soluzione era stata guardare ancora oltre, alla periferia della periferia, e così era capitata lì, capolinea della metropolitana verde. Non aveva mai messo piede in quel quartiere, rinomato per la sua eccentricità e l’elevata percentuale di artistoidi ed omosessuali che la popolavano. Aveva vagato a lungo per quelle strade strette e ripide, alcune così in pendenza da poter essere percorse solo da dei piccoli tram che sembrano voler sfidare la forza di gravità. Quell’immagine le aveva fatto venire in mente Lisbona e le lunghe nottate passate a bighellonare per le strade buie ai tempi del periodo post diploma. Ma scarpinare per quei viottoli con due scatoloni pieni fino a scoppiare e un zaino di dimensioni spropositate rispetto alle esili spalle che ne dovevano sopportare il carico toglieva gran parte della suggestività al luogo. Juno si era ritrovata così costretta a fare una pausa, nonostante il sole stesse calando e lei non avesse ancora idea di cosa avrebbe fatto quella notte. Aveva gettato il suo fardello sul marciapiedi, accanto al banchetto di un supermarket di second’ordine, dalle vetrine impolverate e dalla tenda da sola sdrucita. Si era seduta sul più grande dei due scatoloni, aveva appoggiato la schiena al muro della palazzina retrostante e si era accesa una sigaretta. Non poteva permettersi una stanza d’albergo, non era mai stata brava a mantenere le amicizie e si ritrovava così sprovvista di contatti a cui chiedere ospitalità. La sua unica ancora di salvezza, la sua amica Lea, si trovava dall’altra parte del mondo, alla ricerca della pace interiore e cazzate varie, o almeno così le aveva comunicato nella sua ultima cartolina, giunta tre settimane prima con un francobollo tibetano.

Era avvenuto lì il loro primo incontro. Jack e Adam dovevano andare a sentire il concerto di un ex compagno di conservatorio del secondo e uscirono proprio in quel momento dal portoncino accanto a cui sedeva Juno. Stavano litigando come al solito, accusandosi l’un l’altro del loro ritardo e dell’assenza di contanti necessari per poter pagare un taxi. Si erano fermati appena fuori dal palazzo per decidersi sul da farsi e proprio allora Jack, notando la sigaretta tra le mani della ragazza bionda accovacciata su uno scatolone lì accanto, le rivolse la parola per la prima volta chiedendole se poteva regalargliene una e prestarle l’accendino. Juno, che nonostante sapesse benissimo di essere al verde e di avere ancora tre sole sigarette nel pacchetto, gliela offrì abbozzando un sorriso. Nell’attesa avevano iniziato a chiacchierare e ad un certo punto Adam le aveva chiesto se stava aspettando per caso qualcuno. Lei aveva negato, spiegando a grandi linee la sua storia e chiarendo il fatto che fosse solo alla ricerca di un affitto il più misero possibile. Era stato allora che i due fratelli le avevano parlato di Mr. Anger e del bilocale, piuttosto squallido avevano specificato, che si era liberato dopo che il rancoroso proprietario aveva sbattuto fuori l’ultimo affittuario a causa dei suoi mancati pagamenti. E anche perché era un pervertito, aveva aggiunto Adam sogghignando.

Alla fine aveva trascorso la notte sul divano dei due ragazzi e tre giorni più tardi si era installata nell’appartamento 3A della palazzina al civico 13.

Essendo tutti e tre artisti si erano trovati sulla stessa lunghezza d’onda condividendo frustrazioni, castelli in aria e bottiglie del più economico vino bianco venduto nel supermercato di Karim. Aveva già ritratto più volte entrambe i suoi vicini, soprattutto Adam che, vanitoso come pochi, si prestava volentieri ad ore ed ore di seduta di posa per poi ogni volta lamentarsi del fatto che non avesse reso giustizia alla sua accecante avvenenza. Jack, più schivo ed irrequieto, diventava sofferente dopo una mezz’oretta ed iniziava a dimenarsi sulla sedia come un’anima in pena. Juno preferiva senza dubbio ritrarlo addormentato. In cambio la ragazza aiutava il fratello aspirante attore a ripassare il copione e ripetere le battute per i numerosi provini a cui prendeva parte. Adam dal canto suo non si faceva scrupolo alcuno e ad ogni ora del giorno e della notte li allietava con le sue note e i suoi testi.

Juno fece ritorno proprio in quel momento in soggiorno e si accomodò sul divano tra i due ragazzi. Si era cambiata e per evitare altri piccoli incidenti si era premurata di coprire più pelle possibile, corredando il tutto con un bel paio di calze antiscivolo decorate con tante piccole ciambelle glassate. Giusto per essere sicuri di ammazzare l’ormone impazzite di Jack.

«Allora? Questo giornale?», chiese, girando la testa prima a destra e poi a sinistra per guardare i suoi vicini.

Jack le allungò metà del quotidiano, indicandole la pagina con le offerte di lavoro e cacciandole in mano un pennarello rosso.

«Potresti sempre andare a Parigi a tratteggiare ritratti dei passanti con il carboncino. Molto bohémien, no? E io potrei venire a trovarti molto spesso per poter andare ad incollare le mie manine alla vetrina di Dior e Chanel…», propose Adam prima di alzarsi e recarsi verso il cucinino, pronto per depredare nuovamente la dispensa.

Scorse rapidamente gli annunci, facendo una prima cernita ed eliminando quelli in cui erano richieste qualifiche e titoli che lei non possedeva. Laurea in robotica? Padronanza della lingua finlandese? Conoscenza del linguaggio di programmazione Java?

«Java? Che accidenti è Java?», chiese sconsolata, tirando l’ennesima riga sull’offerta di un posto in un laboratorio di chimica organica.

 «Non era quella specie di canguro con le orecchie da coniglio di Star Wars?», bofonchiò Adam, la bocca impastata dai quintali di sorbetto ai frutti di bosco di cui era riuscito ad impadronirsi, nonostante Juno lo avesse sapientemente nascosto dietro al libro di Orwell.

«Deficiente: quello era Jar Jar Binks!», lo corresse subito Jack, molto pignolo quando si toccava la saga di George Lucas.

«Secondo voi sarei in grado di fare la saldatrice? Vi ricordate della protagonista di Flashdance?», si informò la ragazza.

Quel film non le era mai piaciuto anche se raccontava le vicende di una ballerina che, come tutti loro, incontrava più di qualche difficoltà nel realizzare il suo sogno.

Jack le rubò il pennarello dalle dita e cancellò l’annuncio. «Saresti un pericolo di dimensioni epiche con un saldatore tra le mani. Ci teniamo alla sopravvivenza della specie umana dopotutto e non le auguriamo una rapida estinzione». Fece scorrere la punta in feltro rossa lungo la pagina prima di picchiettarla nell’angolo in basso a sinistra. Disegnò un bel cerchio attorno all’ultima colonna di parole e le rivolse uno sguardo trionfante. «Cercasi ragazza qualificata e con esperienza per aiutare famiglia nella gestione dei figli e, se richiesto, della casa. Ottima paga. 002779313, chiamare in mattinata o in tarda serata», recitò, mettendoci più enfasi di quanta la situazione effettivamente richiedesse. Ah i vizi degli attori!

«Io odio i bambini»

«Oh sì, lei detesta i bambini», le fece eco prontamente Adam.

Più che una vera e proprio avversione nei confronti di quei teneri esserini sotto gli otto anni d’età, Juno ne era segretamente terrorizzata. Erano delle creature fragili, che necessitavano della protezione di una persona che fosse responsabile per loro, che li accudisse e non permettesse che succedesse loro nulla di male. Erano però anche dei mostriciattoli, assolutamente imprevedibili e volubili, un attimo tutti gridolini e fossette e il secondo dopo urlavano così forte da spaccarsi i polmoni per lo sforzo, il viso congestionato e le mani strette a pugno.

«Tentar non nuoce. È comunque il lavoro in cui potresti dare il meglio di te. Ti vedo senza di più nelle vesti di tata che di saldatrice. O di prostituta…», aggiunse ridacchiando. Una pronta sberla si abbatté sulla sua nuca, scatenando l’ilarità anche del secondo fratello demente.

«La dimostrazione di poco fa non è bastata?», lo sfidò a denti stretti mentre le sue manine birbanti già minacciavano di avvicinarsi troppo al cavallo dei pantaloni del moro.

Questo balzò prontamente in piedi, deciso a non prestarsi ad un’altra scena in cui a fare la scena del cretino c’era lui. Le porse invece, quasi come per sancire un’offerta di pace, il suo telefono facendo cenno all’ampio cerchio rosso che svettava sulla carta stampata posata in grembo alla ragazza.

Lei lo afferrò in malo modo e dichiarò che avrebbe provato a contattare il numero sul giornale solo perché lei aveva bisogno di un lavoro e di certo non perché lui gliel’avesse poco gentilmente ordinato.

Digitò il numero, le dita leggermente titubanti. Se c’era una cosa che proprio non le piaceva era parlare al telefono con degli sconosciuti. Odiava non sapere chi aspettarsi al di là della cornetta.

Squillò un paio di volte prima che qualcuno rispondesse, «Casa Seymour, chi parla?».

Una voce femminile, dal tono annoiato e dal forte accento russo.

«Buongiorno Mrs. Seymour! La sto chiamando perché ho letto il suo annunc-»

Il suo tentativo di presentazione venne bruscamente interrotto dalla voce dell’altra donna che, probabilmente rivolgendosi ad un’altra persona presente nelle vicinanze, chiamò a gran voce Mrs. Seymour, facendo capire a Juno che quella con cui stava parlando probabilmente doveva essere una domestica o una figlia adottata, chiunque tranne la vera Mrs. Seymour.

Maledizione, Ivanka! Hai appena interrotto la mia sessione mattutina di agopuntura! Si può sapere cos’hai da strillare tanto?!

Forse dimenticandosi del fatto di avere una persona in attesa sulla linea telefonica, la vera Mrs. Seymour stava sfogando tutto il suo mattutino malumore sulla povera ragazza.

«Sì, pronto? Con chi parlo?». La voce questa volta era molto più melodiosa seppur con una leggera vena antipatica in sottofondo.

Juno decise che non era quello il momento di inebetirsi e fare supposizioni sulle due donne e si riscosse. «Buongiorno Mrs. Seymour. Mi chiamo Juno Morrison e la chiamavo a proposito dell’annuncio-»

«Bene! Venga immediatamente. Ormai la mia mattinata è irrimediabilmente rovinata a causa di quella sciocca di Ivanka quindi tanto vale peggiorarla ulteriormente. Via Corridoni, 17. Dica al tassista di fermarsi sul retro. A dopo!», e con questo concluse la chiamata.

Juno rimase per un attimo perplessa, ascoltando il vuoto tu-tu-tu che il telefono le restituiva. Poi realizzò. Venga immediatamente. Immediatamente!

Lanciò il telefono sul divano, ignorando le proteste del suo legittimo proprietario e il sesto grado dell’altro fratello, e si precipitò in camera. Dove accidenti aveva messo la sua unica camicetta stirata delle grandi occasioni? Si gettò come una furia tra gli abiti che occupavano il suo guardaroba, prelevandoli a piene mani per poi scaraventarli sul letto dopo averli scorsi rapidamente. Ovviamente la camicia in questione si trovava nell’angolo più irraggiungibile ed anfrattuoso dell’armadio. E, orrore degli orrori, aveva il colletto macchiato di quello che pareva caffè. Stizzita dall’imprevisto, getto la gruccia e la camicia in terra, prima di voltarsi a fronteggiare il cumulo di vestiti che si era formato tra le lenzuola sfatte del suo letto.

«Bisogno di aiuto?», trillò una voce ben conosciuta alle sue spalle.

Adam se ne stava appoggiata con nonchalance allo stipite della porta, guardando con occhio critico quella torre di indumenti spiegazzati e malridotti. Si tenne per sé il segreto disgusto che la passione della sua amica per gli abiti usati gli procurava, deciso ad essere d’aiuto e non polemizzare. Non stavolta perlomeno.

«Pantaloni neri ampi che sbucano dal cassetto del comodino di destra. Maglioncino girocollo morbido grigio che fa capolino verso la cima di quel marasma di abiti sul letto. Ballerine nere di velluto, una è sotto il termosifone mentre l’altra è nel tuo beautycase, nonostante non abbia idea di come abbia potuto finire lì», snocciolò in tono professionale, il tutto senza essersi mosso di un solo passo.

Juno ormai non si chiedeva neanche più perché lui senza spettinarsi o muovere un solo muscolo riuscisse a comporre outfit da favola mentre lei poteva correre, affaccendarsi, vestirsi, spogliarsi, rivestirsi, cambiarsi nuovamente, sudare e sembrare comunque un pagliaccio.

«Trucco leggero: velo di fondotinta, ombretto chiaro, mascara e lucidalabbra. Un tocco di blush e di matita marrone al massimo. Raccogli i capelli in uno chignon morbido. Sì, lo so sono magnifico, non c’è bisogno che tu lo dica ad alta voce».

 

 

***

 

 

Tre fermate con la metropolitana verde, cambio con la linea rossa, al quinto stop discesa, dieci minuti a piedi e Juno raggiunse Via Corridoni 17 e Casa Seymour. O meglio, l'alta cancellata che custodiva Casa Seymour.

Non serviva ricontrollare il retro dello scontrino spiegazzato su cui aveva scribacchiato l'indirizzo datole da Mrs. Seymour al telefono. I complicati disegni arzigogolati in ferro battuto dell'ampio cancello d'ingresso le fecero capire che il posto era proprio quello. Dove altro poteva vivere una persona dalla voce e dai modi prepotentemente aristocratici come quelli di Mrs. Seymour?

Ricordandosi dell'accenno ad un ingresso secondario la ragazza iniziò a percorrere il perimetro esterno della proprietà, ritrovandosi a maledire quel caldo eccessivo che aveva deciso di apparire proprio quel giorno rischiando di farla arrivare a quell'incontro con un bel paio di chiazze di sudore sul cardigan. Se per 'ingresso secondario' si era immaginata una scrostata porticina imbrattata di graffiti in un vicolo laterale dovette rapidamente ricredersi. Nulla in quella zona residenziale di lusso, per quanto secondario e riservato ai poveretti come lei, mancava di una buona dose di appariscente eleganza. Si ritrovò di fronte ad un portoncino lucente con un battente dorato finemente lavorato che svettava sullo sfondo scuro del legno laccato.

Quella superficie era così lucida che ci si poteva quasi specchiare e grazie a ciò Juno si accorse di un ciuffo ribelle sfuggitole dalla crocchia un po' improvvisata in cui aveva raccolto sommariamente i capelli. Si risistemò l'acconciatura e facendosi coraggio allungò una mano per bussare e manifestare la sua presenza.

L’estrema efficienza del personale della casa si rese subito palese nel tempo record in cui la porta venne delicatamente socchiusa da un anziano signore dall’espressione bonaria.

«Immagino lei sia Ms. Morrison. Prego mi segua all’interno…»

La ragazza si limitò ad annuire e ad accodarsi diligentemente all’uomo.

Pantaloni morbidi, gilet scuro e camicia chiara. Niente livrea, niente guanti. Juno dovette riconoscere che non aveva propriamente l’aspetto del maggiordomo di Downton Abbey.

Attraversarono un’ampia cucina illuminata da grandi finestre che si affacciavano su modesto orticello, composto da sei file ordinate di piantine. Una signora dai capelli bianchi le rivolse un sorriso gentile nel passare attraverso una saletta con qualche poltroncina e un ampio tavolo, mentre il ragazzo seduto nel bovindo, intento a fumare una sigaretta, la ignorò semplicemente.

Juno si domandò da quanti altri membri fosse composto il gruppo di domestici, autisti e giardinieri vari e sperò che Mrs. Seymour avrebbe risposto al più presto ai suoi dubbi.

Salirono una piccola scala in legno bianco, superarono una porta imbottita di tessuto scarlatto damascato e arrivarono finalmente nel cuore della casa. Un atrio immenso, dal lucido pavimento di marmo venato, alte ed eleganti colonne dal capitello finemente decorato da foglie di acanto e ghirlande scolpite, un’elegante scalinata che pareva aprirsi a ventaglio come la coda di un elegante abito da sera. Un lampadario di cristallo sormontava le loro teste, colpito dalla cascata di luce che si riversava nella stanza proiettava riflessi multicolori su tutte le pareti.

«Oh finalmente! Morrison, giusto? Vieni, cara, vieni con me!», apparsa dal nulla, avvolta da una nuvola di costoso profumo, Mrs. Seymour fece il suo ingresso trionfale scendendo dalla scalinata e raggiungendoli a sorpresa alle spalle.

Si trattava di una donna che certamente non poteva attraversare una stanza senza poter passare inosservata. Slanciata, dal fisico atletico nonostante probabilmente avesse superato la quarantina, la pelle abbronzata e tonica, gli occhi grandi e luminosi. Emanava fascino puro ad ogni passo. Juno ne rimase come incantata; da artista non poteva ammirare la bellezza in ogni sua forma e rimanerne ogni volta stupita.

Quasi non notò di essere stata afferrata per un polso dalla mano fresca di manicure della donna e di essere stata trascinata in una veranda sul retro della casa. Un vassoio con una teiera di porcellana dipinta e un paio di tazze venne prontamente posata sul tavolino in vetro che si trovava tra un divanetto in vimini crema e un paio di pouf. Juno ringraziò la signora dai capelli bianchi di poco prima quando la vide intenta a versarle del tè.

Mrs. Seymour accavallò le lunghe gambe e si sporse verso la ragazza, come a volerla studiare più da vicino per non perdersi neanche un piccolo dettaglio.

«Hai una bella pelle, nonostante le lentiggini e le occhiaie. È una fortuna, sai? Se l’avessi avuta io ora l’isola alle Antille l’avrei io e non il mio chirurgo estetico», mormorò infine senza distogliere lo sguardo.

Aveva una bella voce, ferma e piena. Una di quelle voci a cui non avresti certamente disubbidito.

Juno si accarezzò sovrappensiero la guancia, ricordando a malapena di essermi messa un velo di fard giusto per non sembrare appena ripescata dal Danubio, con il suo colorito sempre sui toni del verdognolo. Non sapendo se ringraziare o meno decise di tacere nel dubbio. Cosa avrebbe dovuto dire d’altronde? Non poteva permettersi un fazzoletto di appartamento ai confini del mondo figurarsi un’isola tropicale o un medico che le restaurasse il viso!

«Bene, cara, hai un curriculum? No, anzi, non ho alcuna voglia di leggerlo quindi che ne dici di riassumermi rapidamente cosa sai fare? Ti avverto che non ho molto tempo, tra dieci minuti arriva il mio insegnante di meditazione», le suggerì la padrona di casa, non accennando a toccare la sua tazza e scoraggiando la ragazza dal cercare di bere il proprio tè.

Juno si raddrizzò, fece un piccolo respiro e si lanciò: quella era la sua occasione. Non aveva mai pensato a fare la tata ma quella famiglia era senza dubbio benestante ed influente e se si fosse fatta benvolere forse avrebbero potuto introdurla o fornirle delle credenziali valide per il suo ingresso ufficiale nel mondo dell’arte. Senza dubbio ne avrebbe ricavato di più che facendo popcorn e versando cocacola alla spina!

Le raccontò brevemente dei suoi anni prima dell’accademia, ritenendo più importante focalizzarsi sui suoi traguardi invece che sulla sua infanzia e i componenti della sua famiglia. Le espose i numerosi concorsi a cui aveva preso parte arrivando nelle prime posizioni, menzionò la piccola esposizione delle sue opere che aveva avuto luogo l’anno prima nella sala del vecchio municipio. Cercò di rendere scintillante ed estrosa l’immagine della sua vita, senza menzionare le umiliazioni a cui era sottoposta quando doveva supplicare Mr. Anger affinché le concedesse una proroga di una settimana per il pagamento mensile dell’affitto o agli sberleffi da parte di dodicenni presuntuosi di cui era stata vittima senza avere la possibilità di difendersi e farsi valere per paura di perdere il suo posto di lavoro. Si accorse di essere andata fuori tema quando si bloccò a metà di una frase piena di lodi per il lavoro di Magritte e si rese conto che la sua interlocutrice stava fumando guardando il cielo azzurro oltre il tetto in vetro.

Quest’ultima parve riscuotersi a sua volta e tornò a fissare quella piccola ragazza bionda di fronte a sé. Espirò una densa nuvoletta di fumo, «Non si può certo dire che tu non abbia passione, cara ragazza! E io ammiro la passione, soprattutto quando è così genuina ed indomabile, quando ti divora e ti consuma. Ti toglie il sonno e l’appetito, vero?», si interruppe sospirando. Schiacciò con un gesto rabbioso la sigaretta nel posacenere in vetro blu e si passò distrattamente le mani tra i capelli perfettamente acconciati.

Juno osservò quella donna che pareva conoscere così bene quello che agitava il suo animo e ammise semplicemente: «La mia passione è tutto quello che ho»

La signora parve quasi spaventata dalle sue parole e per un attimo un lampo di pura sofferenza attraversò quegli occhi chiari contornati da lunghe ciglia cariche di mascara.

Senza preavviso alcuno si alzò, facendo frusciare la sua gonna di seta color pesca. «Sei assunta», sentenziò decisa.

La ragazza di fronte a lei tentò di celare la sua sorpresa e la sua gioia ma un luccichio le fece brillare gli occhi nocciola.

Ce l’aveva fatta! Quel posto era sua e per ottenerlo non aveva neanche dovuto mostrare il suo curriculum, il suo voto di laurea, il nome della sua accademia o, peggio ancora, contrattare affinché le garantissero perlomeno il salario minimo. Un dubbio rannuvolò la sua mente: cosa aveva ottenuto realmente? Non aveva la minima idea di cosa avesse davvero bisogno Mrs. Seymour e lei certamente non si era spiegata al riguardo.

«Io, io non so cosa dire. La ringrazio ma…cosa dovrei fare in pratica?», si azzardò a domandare la bionda nonostante la sua neo datrice di lavoro si fosse già incamminata verso l’interno della casa. Quella, come resasi conto di aver scordato qualcosa, si arrestò sulla soglia della portafinestra e si diede della sciocca.

Ruotò su sé stessa, in un turbinio di fragranza fruttata e seta preziosa, e tornò sui suoi passi. «Perdonami, tesoro, non sono mai in forma smagliante prima di mezzogiorno e del mio doppio Martini. Per le faccende domestiche non devi preoccuparti, per quello c’è Adele e suo marito Arthur. In più come cameriere abbiamo Tobias, nonostante non si possa certo dire che sia un ragazzo solare. Tu dovrai occuparti di mio figlio Marlowe. Ha quasi quattro anni ma è fin troppo sveglio purtroppo e gestirlo è diventato impossibile con tutti i miei impegni. E suo padre di certo non è d’aiuto: l’ultima volta che l’ho visto è stata tre settimane fa. Skype o FaceTime ovviamente non contano, giusto? Il piccolo mostro si alza sempre alle nove quindi puoi essere qui per quell’ora e restare fino alle sei quando io finisco la lezione di pole dance. Puoi fargli fare tutto quello che vuoi, basta che sia istruttivo e non contempli l’utilizzo di petardi o molestie sessuali varie. Ma questo mi pare superfluo da aggiungere. Tutto chiaro?», sciorinò alla velocità della luce mettendo a dura prova l’attenzione di Juno.

Quest’ultima non faceva in tempo a registrare un’informazione e a reagire di conseguenza che subito ce n’erano altre tre da assimilare e non perdere.

Mrs. Seymour, chiaramente soddisfatta della sua esauriente spiegazione, si incamminò nuovamente verso il soggiorno e sparì dentro la casa.

Juno esalò un sospiro di sollievo prima di domandarsi se il suo primo giorno lavorativo era da considerarsi quel giorno stesso o quello seguente o chissà quando. Doveva cercare questo Marlowe? Si augurò che non fosse una piattola insopportabile, aveva difficoltà già con un bambino addormentato, figurarsi con uno attivo e sgambettante!

Il corso dei suoi pensieri fu interrotto da Mrs. Seymour che ritornò quasi correndo in veranda, sebbene visibilmente di fretta non perdeva comunque la sua eleganza e la sua grazia. Chissà come ci riusciva. Probabilmente era un dono di natura. Adam l’avrebbe adorata.

«Lotus è qui e lui odia aspettare. Alla faccia della calma zen! Mi sono scordata di dirti che con Marlowe puoi iniziare domani, oggi è andato alla festa di compleanno della figlia dei Beckham e non tornerà fino a stasera, grazie al cielo. Ovviamente dovrai aiutarmi anche con Felix perché io non so proprio più che pesci pigliare con lui. Anzi che ne dici di andare da lui ora? Così vi conoscete e tu puoi assicurarti che pranzi. Ti spiacerebbe preparargli da mangiare al massimo? O prendere qualcosa d’asporto se non sai cucinare, non te ne farei certo una colpa dato che io ho imparato ad usare il microonde solo l’altro ieri. Via Morgagni 19, ultimo piano. E prima di andare passa un attimo da Tobias a farti consegnare la borsa. Grazie mille, stella, e buona giornata! Non farti scoraggiare da Felix, è solo testardo!», cinguettò, sempre senza prendere fiato, prima di volatilizzarsi.

Juno cercò di far ordine nella sua testa e stabilire quali fossero i prossimi passi da compiere. Tobias. Borsa. Via Morgagni 19. Felix.

Chi accidenti era Felix?

Meglio darsi una mossa invece di perdere tempo inutile a rimuginare riguardo a qualcosa che avrebbe scoperto di lì a poco. Prima di andare però s bevette finalmente la sua tazza di tè, nonostante si fosse ormai raffreddato. Dopodiché afferrò le sue cose e, cercando di fare mente locale, individuò la porta rossa imbottita di prima e percorse in senso contrario il percorso dell’andata. Quella casa le piaceva terribilmente, tutto era costoso sì ma anche di buongusto, cosa non sempre scontata quando si parlava di ricconi sempre pronti a cadere nella trappola del pacchiano. Una volta raggiunta la saletta ai piedi della scala bianca per poco non si scontrò con il ragazzo moro che al suo arrivo non l’aveva notata. O aveva deliberatamente fatto finta di non notarla.

Lui le rivolse un’occhiataccia e fece per proseguire per il corridoio ma la ragazza fu più veloce e lo afferrò gentilmente per una spalla.

«Tobias, giusto? Io sono Juno. Mrs. Seymour mi ha detto di farmi consegnare da te la borse per tale Felix», gli spiegai, premurandomi di interrompere immediatamente il contatto tra la mia mano e la giacca leggera. Io in primis non apprezzavo quando le persone con cui parlavo mi toccassero, figurarsi se a farlo era una sconosciuta.

Un sorrisetto incredulo si fece largo sulle labbra del ragazzo: «Felix? Tu stai andando da Felix?», chiese come per sincerarsi del fatto che non si trattasse di uno scherzo. Nel vedere l’espressione confusa della bionda però parve capire che lei non aveva la più pallida idea di cosa stesse parlando e che non sapeva assolutamente nulla su Felix.

Ebbe un moto di comprensione e le indicò la stanzetta accanto, dandole istruzioni dettagliate per recuperare la borsa, prima di lasciarla sola e andarsene per la sua strada, continuando a ridacchiare tra sé. Felix se la sarebbe mangiata in un battibaleno quella.

Quest’ultima, lungi dal farsi scoraggiare così facilmente, recuperò un ampio borsone di pelle marrone, se lo mise  in spalla, salutò cordialmente Adele e uscì in strada dalla porta sul retro.

Non avendo la più pallida idea di dove si trovasse Via Morgagni, estrasse il suo malmesso telefono e si collegò alla rete WiFi cittadina, il cui segnale era perfetto in quel quartiere centrale. Non come da lei, dove, per riuscire ad allacciarsi al collegamento internet bisognava sporgersi dal tetto del palazzo, rischiando di cadere di sotto solo per inviare un messaggio Whatsapp non usando i propri GB.

Con sua somma sorpresa si accorse che l’indirizzo datole si trovava più vicino al suo quartiere che a quello dei Seymour, anzi stava proprio al confine con l’inizio della loro zona squattrinata, solo sette isolati più in su del suo malconcio appartamento.

Riprese la metropolitana e scese due fermate prima della sua solita. Il segnale WiFi era già ballerino a quella distanza e, cercando di riportare alla mente il percorso che poco prima Google Maps le aveva mostrato, procedette verso sud fino a svoltare a sinistra al terzo incrocio.

Via Morgagni 19. Alzò lo sguardo dubbiosa trovandosi di fronte ad una palazzina color bianco sporco, così alta da svettare sul resto delle costruzioni circostante. Conosceva quella costruzione, emergeva dal paesaggio urbano e persino dal tetto della soffitta di Jerome la si poteva facilmente individuare.

Mrs. Seymour aveva detto ultimo piano e Juno pregò che fosse fornito di ascensore quel palazzo. Non era mai stata un tipo troppo sportivo e soprattutto, abitando al terzo piano di una costruzione priva di ascensore, aveva imparato ad odiare le scale.

Un paio di ragazzini se ne stavano appoggiati al muro scrostato accanto alla porta a vetri che conduceva all’ingresso. Non c’era traccia di campanelli.

Fece per avvicinarsi e il ragazzo più alto le rivolse un sorrisetto storto. «Chi stai cercando, bellezza?», la apostrofò mieloso.

Juno lo ignorò, ormai era diventata un’esperta nell’ignorare quegli adolescenti così arroganti che si credevano già degli adulti e volevano intimorire chiunque apparisse debole ai loro occhi.

Provò a spingere la porta d’ingresso, trovandola fortunatamente aperta e fece per entrare.

«Troia!»

Fece finta di niente e si incamminò velocemente verso la porta metallica che riluceva nella fioca luce dell’atrio semibuio. Richiamò l’ascensore e ci salì, pigiando senza indugio il pulsante che recava inciso il numero più alto. 23.

Il tetto del mondo, pensò. O perlomeno della parte scadente e sporca di quella giungla di città.

Quella scatoletta di ferro iniziò a salire tremolando a tratti, facendole dubitare che ce l’avrebbe mai fatta a portarla fino in cima. Dopo un’infinità di tempo le porte si aprirono liberandola da quello spazio soffocante. Uscì rapidamente e si guardò attorno. Un’unica porta si affacciava su quello stretto pianerottolo. Nessuna targhetta, nessuno zerbino, nessuna piantina ornamentale.

Ovviamente anche qui il campanello sembrava non esistere.

La ragazza si avvicinò e bussò titubante sul legno stinto della porta. Aspettò un attimo e riprovò di nuovo, questa volta mettendoci più energia.

«Felix?», tentò, non sapendo bene che pesci pescare.

Mrs. Seymour non aveva accennato all’idea che lui non fosse in casa. Avrebbe potuto lasciare la borsa lì fuori ma magari conteneva qualcosa di valore e quello non sembrava proprio il posto più sicuro per lasciare una borsa incustodita. Avrebbe potuto chiamare Mrs. Seymour ma non aveva il suo numero e quella mattina l’aveva chiamata con il telefono di Jack, quindi non poteva neanche risalirci dalla cronologia.

Facendo un ultimo tentativo provò ad abbassare la maniglia e con sua somma sorpresa questa si aprì docilmente, aprendo uno spiraglio sul buio assoluto.

Nero come la pece.

Fece un passo in avanti, allungando le mani alla ricerca della parete e di un eventuale interruttore. Si sentiva una ladra e voleva andarsene subito da lì. C’era odore di chiuso e il caldo era quasi soffocante. Ma era il suo lavoro e quindi fece un ulteriore passo avanti. Tentò di avanzare nuovamente, le mani tese in avanti nel caso si fosse scontrata con qualcosa.

Fu un attimo, il suo piede inciampò in qualcosa sul pavimento e lei si sbilanciò in avanti, cadendo rovinosamente a terra. La schiena picchiò contro qualcosa di spigoloso e lei si lasciò scappare un impropero.

Dio, perché non poteva mai avere un lavoro normale? Lei voleva solo dipingere per l’amor del cielo!

Cercò di muoversi ma appoggiò la mano su qualcosa di rigido e appuntito e ritrasse il palmo. Sfiorò piano quello che la circondava e si accorse di essere circondata da libri. Letteralmente un mare di libri.

All’improvviso sentì una porta cigolare e dei passi affrettati. E poi una voce: «Chi è quell’idiota sdraiato sui miei libri?! Giuro che mi hai rovinato la prima edizione di Fitzgerald io…»

La luce si accese tutto d’un tratto, illuminando una stanza vuota piena solo di libri sparsi, impilati, rovesciati. E un ragazzo con i soli boxer indosso e un’espressione infastidita stampata sul volto.













Immagino che giustamente le persone non ne possano più dei miei esperimenti. Lo so, inizio sempre troppe cose e poi ne concludo a malapena la metà. Lo so. La mia mente lavora troppo velocemente ed altrettanto velocemente si stanca di un progetto, soprattutto quando questo smette di entusiasmarmi o non trova poi alcun riscontro.
Questo capitolo mi piace (MIRACOLOOO!) e perciò, soddisfatta nonostante tutto, lascio a voi l'ardua sentenza.
Abbracci a tutti!
S.
P.S. Commenti costruttivi o distruttivi (no, please :'c) sono sempre ben accetti :)
P.P.S. 'Se son rose fioriranno altrimenti...in bocca la lupo!' verrà aggiornata un pochetto in ritardo ma non disperate.
  
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