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Autore: zorrorosso    12/07/2016    0 recensioni
“Il sonno, la fame, la morte e l’amore... Non importa chi sei, cosa sei e quale sarà il tuo destino, sono queste le cose che ci rendono tutti uguali... Nessuno può resistere. Nemmeno tu!”- il tono di Jake si assopí di nuovo, ritornando apparentemente ubriaco e stanco, in procinto di addormentarsi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Devo essere sincera, avevo questo capitolo mezzo pronto in memoria da diverso tempo, l'ho riletto diverse volte e ho riletto tutta la fic e non sono più convinta in questa storia, tantomeno lo sviluppo centrale che avevo in mente (soprattutto quando ho scritto il cap  1) che avrebbe portato almeno un altro capitolone ed una superarringa finale, quindi al momento questo è l'ultimo capitolo che pubblicherò, anche se rimarrà aperta nel caso cambiassi idea in futuro...
 

Perdono

Nell’aprire la porta dello studio, la figura di una signora abbastanza alta, non piú giovane, piegata sulla scrivania ed i capelli grigi sul volto, si presentó di fronte a lui, quasi senza muoversi e senza parlare.

Solo dopo aver ascoltato i suoi passi, evitando ancora il suo sguardo, si alzó in piedi per pochi secondi e gli porse la mano, nel tentativo distratto di stringere la sua, tenendo gli occhi fissi sullo schermo del computer. Ancora pochi attimi prima che tutto, nel suo atteggiamento, cambiasse repentinamente. Non poteva notare ancora il suo volto nella sua interezza, ma qualche cosa agli angoli della bocca rese la sua espressione da indifferente, a interessata, a sbalordita ed infine terrorizzata. Cosí la donna serró le labbra, le coprí con la punta delle dita sbiancate, come testimone di qualche cosa di indescrivibile.

Nel corso degli anni che lo avevano allontanato dal concerto piú bello che potesse ricordare, Elwood aveva giá visto troppi sguardi scandalizzati dalla lunga fedina penale, niente di nuovo, ma qualche cosa in quella signora era terribilmente familiare, una coperta rosa tra le braccia della Pinguina, la ragazzina sul ciglio della finestra con un libro sulle ginocchia, la ragazza vestita a festa per il ballo della scuola. Era un giorno di fine estate, ma faceva ancora caldo.

Elwood allentó il nodo alla cravatta e rimase in silenzio, inspirando profondamente.

“Si sieda”- disse lei, il tono della voce, combaciò con la sua ultima espressione di sgomento.

Alzò lo sguardo, due occhi azzurri che si erano fatti beffe del tempo trascorso, rimanendo sempre gli stessi, e mostró una modernissima sedia ergonomica proprio di fronte a lui. Elwood non esitò ed adagió la schiena sul morbido velluto con un attimo di soddisfazione, l’ultimo, prima di ritornare sugli occhi sconvolti della donna.

Lei deglutí, mentre il suo volto si contrasse nel tentativo di assumere un’espressione seria, ma gradevole. Lui, per quanto cercasse di rimanere confidente, si meraviglió al punto da non riuscire a chiudere la bocca. I loro sguardi si incrociarono e i due si riconobbero dal profondo degli oltre tre decenni che li avevano separati.

Irene smise di respirare per un attimo, interdetta sul da farsi: avrebbe dovuto continuare, pretendendo di non conoscerlo, evitando la procedura sul conflitto d’interessi? Avrebbe dovuto tendergli le braccia, come se stesse parlando ad un amico che non vedeva da troppo tempo? Ricordó il loro ultimo ultimo bacio, il loro addio, il suo no di risposta ed il lungo sospiro che seguí lo sportello della Caddy chiudersi con un cigolio quasi doloroso.

In un primo momento fece finta di non riconoscerlo. Chiunque poteva vestirsi di nero e portare un paio di occhiali scuri.

“Ehm, signor Blues...”- disse lei, rileggendo i verbali.

Elwood non poté fare a meno di contrarre le labbra in una smorfia, lo aveva sempre chiamato Delaney, anche se lui aveva assicurato fin troppe volte che quello non era più il suo nome. Era la prima volta che lo chiamava cosí.

“Avvocato... Summer?”- domandó lui ricordando il suo cognome da nubile perfettamente.

“No, Villiers”- corresse lei senza guardarlo, aggiustando gli occhiali sul naso, per leggere meglio.

“Irene, Villiers?”- domandó lui richiudendo subito la bocca, fattasi improvvisamente arida.

Lei alzó lo sguardo ed indicó veloce la targhetta dorata di fronte a lui, come per evidenziare che chiunque avrebbe potuto leggerlo, poi lo riabbassó attenta sulle sue letture.

“I-Irene?”- mormoró lui, piú indeciso.

“Ci conosciamo?”- disse lei, evitando ancora una volta di incrociare direttamente il suo volto. Come se gli anni non fossero mai passati, lo ricordó, com’era a vent’anni. Amava osservare il suo sguardo attento su una rivista di motori, i suoi occhi di un blu profondo, seguire attentamente tutti i dettagli tecnici, numeri e specifiche, non fare quasi caso a lei o alla lieve carezza sulla guancia che gli aveva appena dato, riaggiustando gli occhiali ed affondare di nuovo tra le sue braccia, in silenzio, ascoltare stanca il ritmo regolare del suo cuore.

“Irene!”- ripeté lui, con voce piú alta, ma vagamente spezzata.

“N-nah...”- ribatté lei veloce, sperando per qualche strana ragione, che St.Helen non spuntasse mai tra i documenti dell’accusa.

Ed invece ritornó con gli occhi sullo schermo, la denuncia, le pratiche. Tutta la sezione riguardante il rapimento di minori era partita da una Madre Superiora in un istituto cattolico... Sorella Mary Stigmata: la Pinguina?! Irene deglutí sonoramente, lasciandosi travolgere da tutta un’altra serie di problematiche, mentre l’uomo dondoló sullo schienale per ritornare con le braccia sulla scrivania, quasi rimbalzando, ed abbozzó un sorriso goffo, inarcando le sopracciglia.

Irene si alzó all’improvviso dalla scrivania e si allontanó per qualche istante, senza scusarsi o senza lascarlo parlare.

“Direi che non posso fare molto per le accuse di furto aggravato, e, ehm, santi numi, sicuramente quei ventiquattro milioni di dollari saranno ormai quintuplicati, ma vorrei provare a sollevare le accuse sul rapimento di minore, oramai sarà sicuramente maggiorenne e potrà testimoniare per se stesso..."- calcolò a voce alta raggiungendo la porta dell'ufficio e chiudendola veloce dietro di se. Il mezzo sorriso di Elwood si incrinò fino a spegnersi, mentre i ricordi lasciarono spazio ad un silenzioso presente.

 

"Vieni con me."- vent'anni si vivono una volta sola, ma ad Elwood non importava troppo quello che pensavano gli altri.
"Dove sei stato?"- la voce cristallina di Irene si era fatta un po' più grave con gli anni. L
a donna, allora giovane aggiustó veloce il collo del vestito, senza rispondere.
"Vieni via con me, con noi, partiamo stanotte!"- ribatté lui con insistenza.

Irene cercó nervosamente le chiavi dell’auto che il signor Summer le aveva prestato ed aprí lo sportello, quasi non voleva ascoltarlo per il timore di cedere.

“Mi dispiace, non volevo fare tardi anche questa volta, c’é stata la consegna dei diplomi e Jake...”- Elwood, frugó qualche secondo nelle tasche della giacca, nel tentativo di trovare qualche cosa di andato perduto nella breve corsa. A quel gesto, la ragazza si spazientí e voltó lo sguardo per qualche secondo.

“E dove? In un’altra delle tue trovate? O in una di quelle di Jake?”- quelle scuse vane la irritarono piú di quanto non lo fece la sua assenza di un anno.

“No, questa volta partiamo sul serio, abbiamo trovato un sacco di musicisti, abbiamo una banda seria... Potresti venire con noi e io... Ecco...”- Elwood arrossí, ma le parole mancarono. Neanche l’oggetto che stava cercando rinvenne dalle sue ricerche.

"Io non vengo da nessuna parte con te! Mi hai lasciato qui, te ne sei andato via! Tieni questa è la foto di noi due insieme al ballo!"

La ragazza gli scaraventò una foto di lei sola, vestita a festa davanti ad una tenda azzurra.

“Facciamo una bella coppia, non ti pare?”- aggiunse con ironia.

Elwood scosse la testa.

“Non farlo per me...”- la sua voce si soffocó: la musica era tutto quello che era rimasto, tutto quello che avevano.

Irene pianse in silenzio. I suoi occhi sbarrati e colmi di lacrime lo fissarono. La sua testa si inclinó in uno sguardo che gli ricordó come, anni prima, aveva scrutato la fierezza dei due giovani Ravens presentarsi al cortile di St.Helen, in cappello e occhiali da sole. Senza pensarci, Elwood tentò di prenderle le spalle, ma lei si ritrasse quasi subito.

“No. Addio. Ovunque tu voglia andare, io non ci sarò”.

***

“Asbestos...”- Elwood sbottò una breve risata, mentre il capo si chinò dalla stanchezza, il suo respiro si fece profondo, addormentandosi. Lou mosse lo sguardo su di lui per qualche secondo ed alzò le spalle con indifferenza, per poi allungare le gambe sulla parte del divanetto rimasta libera. Era di nuovo nella band, tutto come ai vecchi tempi o quasi, mancava ancora qualcuno.

Anche Jake si sarebbe disteso di lì a poco, ma prima di addormentarsi allungó le mani sulla bottiglietta di cocacola, due sorsi per ritornare in sesto ed esprimere due frasi di senso compiuto.  Aprí la finestrella della guardiola ed osservó le mura grezze di un edificio che, insieme agli altri, avrebbe fatto parte del nuovo quartiere popolare. Case e cemento avrebbero sostituito la periferia un tempo fatta solo di industrie dismesse, ma in quel momento di grazia era ancora il deserto apparente degli scavi delle fondamenta ed il fango della terra fresca mista alla pioggia sul cantiere: molto probabilmente a lavori finiti sarebbero arrivati gli yuppies, ma senza la loro presenza, il mondo sembrava non cambiare. Sopra di lui il cielo stellato, pensó a Curtis, non si possono avere incertezze e ripensamenti quando ormai tutto é stato deciso, quando il motore é partito e non c’é modo di frenare. Avrebbero affondato il Bismark, fosse l’ultima cosa che avessero mai fatto.

Continuó a bere dalla bottiglia, nel fitto di quei pensieri troppo pesanti da sopportare da solo, quando lo sguardo si fermó su quel dannato tatuaggio, una croce latina che il suo compagno di cella gli aveva inciso parecchi anni prima. Un’idea stupida, quanto stupido era stato difenderla

“Mi dispiace”- disse a voce alta - “forse un giorno ci perdonerai...”
  
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