Fragile.
A lost metahuman
Tara
aveva dodici anni quando la picchiarono per la
prima volta. Ricorda perfettamente l'impatto delle nocche di James
sulla sua
guancia, il sapore del sangue in bocca. Quando era piccola, Tara
cercava di far
vedere agli altri che, nonostante il suo aspetto minuto, era una
bambina forte.
Si mostrava esuberante, sicura di sé. Ma probabilmente si
ingannava da sola: i
bambini a volte non si accorgono delle menzogne. Tara spiccava sempre
sugli
altri, aveva bisogno di attenzione. Ma quella volta una parola di
troppo
l'aveva tradita. James era un tipo manesco, quasi nessuno nella scuola
a
Central City osava dargli contro. Beh, Tara era una di quelli. Non
ricorda
esattamente cosa gli aveva detto, ma il livido sullo zigomo, oh, quello
se lo
ricorda.
A
dodici anni Tara aveva cominciato a pensare di non
essere poi così forte. Aveva provato più volte a
prendersi la rivincita che
meritava su James, ma finiva ogni volta con un nuovo livido. Si
vergognava così
tanto che iniziò a pensare di non meritare più
nessun tipo di premio. I suoi
amici cercarono di consolarla, ma non c'era nulla da fare. La sua
autostima si
era volatilizzata come il fumo che rimane nell'aria dopo aver spento
una
candela. Uno sbuffo di nulla, che in poco tempo nulla ritorna.
Alle
superiori era andata ancora peggio. Tara si
isolò. Era tenuta in disparte, un puntino insulso in mezzo a
una folla
infinita. Nessuno si curava di lei, lei non si curava di nessuno. Il
problema
era che al mondo la sua esistenza era indifferente, mentre Tara
soffriva.
Soffriva in continuazione per la mancanza di attenzione. Nessuno la
conosceva,
nessuno voleva starle accanto. La solitudine all'inizio le sembrava una
prigione, una gabbia, come quelle di ferro battuto che ospitavano
pappagallini
colorati. Una gabbia bellissima, con i suoi intrecci di ferro
argentati. Una
gabbia che col tempo diventò la sua casa. La solitudine si
trasformò lentamente
in un'amica, un'amica fidata a cui Tara poteva rivolgersi per qualunque
cosa.
La Solitudine era sempre lì pronta per lei, non la deludeva
mai. Molte volte
Tara si rifugiò nel suo abbraccio, senza mai venire
allontanata.
Alle
superiori Tara perse completamente il suo
carattere forte. Quando provava a riconquistarlo, i pugni di qualcuno
pensavano
a ricordarle la sua inutilità. Nulla di quello che faceva
aveva più un senso
ormai, ogni piccola cosa che le dava la forza di continuare era stata
spazzata
via.
Le lacrime che bruciavano gli occhi e i pugni sul cuscino che
bruciavano la
pelle erano solo ricordi lontani di quel periodo in cui ancora aveva la
volontà
di fare qualcosa.
Tara si diplomò per un soffio. Poi, la sua vita
sprofondò. Vedeva scorrerle
davanti agli occhi tutti i successi delle sue compagne di scuola, donne
brillanti che in poco tempo si erano costruite una carriera.
Coraggiose,
intraprendenti. E lei era ancora lì, a venticinque anni,
ancorata sul fondo
della disperazione.
La psicologa era la cosa più irritante, che le ricordava
sempre di più quanto
in basso fosse arrivata. Dov'era finita la determinazione di quella
bambina
dura e intraprendente, che non pensava più di tre secondi
prima di mettersi nei
guai? La sua vita era nelle mani di una serafica donna priva di
sentimenti, che
pretendeva di giocare con lei come fosse il suo burattino. Che cosa ne
sapeva
di lei? Non poteva capire.
Tara si chiudeva nella solitudine. Non usciva di casa, non mangiava per
giorni.
Semplicemente, restava seduta a fissare il muro, con gli occhi che
bruciavano -
di nuovo - senza far altro che riflettere sulla sua
inutilità.
I suoi genitori erano una figura marginale. Comparivano a volte nella
sua
mente, pretendendo di aiutarla, imponendole di fare qualcosa, per
rialzarsi. La
riempivano di belle parole, ma in fondo nemmeno loro ci credevano. Lei
era la
figlia pazza, quella che parla con le ombre, che sussurra cose strane,
che urla
di notte, e ignora il mondo. Irrecuperabile.
La prigione. La prigione di ferro che la tratteneva era la sua migliore
amica e
la sua peggior nemica.
Quel
giorno, Tara era sola. Lo sguardo fisso sul muro,
non pensava a niente. A volte rivolgeva brevi sorrisi stanchi ai
fantasmi della
se stessa bambina, che se ne stava lì a guardarla come se
avesse voluto dirle io sono migliore di te, e
lo sarò sempre.
Le pareva così bella, quella Tara, e allo stesso tempo la
odiava, perché non
era lei e non poteva essere lei. Tara aveva freddo.
Quando successe, all'inizio percepì un lieve cambiamento
nell'atmosfera, ma
niente di più. Represse quella sensazione come se si
trattasse di un pensiero
brutto. Faceva sempre così, con i temporali,
perché le facevano paura. Era un
temporale strano, però, quello di quel giorno.
La Tara bambina le gridò qualcosa. Avrebbe voluto lanciarle
qualcosa,
strozzarla, vederla sparire. Ma nel frastuono dell'esplosione - ecco
cos'era,
quel temporale - non ebbe l'occasione di fare nulla. Il mondo attorno a
lei
scomparve, come se qualcuno avesse improvvisamente spento la
luce.
Dopo qualche secondo, Tara ricominciò a vedere.
Freddo. Neve.
Davanti a lei c'era la più grande distesa di ghiaccio che
avesse mai visto. Una
sconfinata pianura gelata, che rifletteva i suoi pensieri
gelidi.
Il vuoto.
Il freddo.
Tara non capiva, fissava il bianco attorno a lei, con il corpo
tormentato dai
brividi e il respiro che si addensava davanti al volto. Le lacrime le
si
congelarono sul viso.
Tara
si risvegliò in un letto d'ospedale. Non erano
poche le voci che giravano sul suo conto. Una ragazza che aveva
rischiato di
morire per ipotermia, ritrovata dai genitori priva di sensi in casa,
livida e
ricoperta di nevischio. Nevischio in casa, com'era possibile?
Tara provò a spiegare ai suoi genitori cosa le era successo.
Raccontò loro ogni
secondo di quelle due ore nel ghiaccio, di cui non era ancora riuscita
a capire
la causa. Raccontò loro il freddo e la paura, la paura di
non poter più tornare
a casa, di morire. Nemmeno lei sapeva come aveva fatto a tornare. Aveva
vagato
nel nulla ghiacciato per un tempo che era sembrato eterno, poi aveva
perso i
sensi. Non ricordava nient'altro. Era una cosa così enorme e
impossibile, che
non avrebbero mai potuto capire. Non le credevano.
Nemmeno la psicologa la prendeva sul serio. "Una proiezione del suo
stato
d'animo", diceva in continuazione. Non importava quanto Tara gridasse e
cercasse di spiegarle che lei c'era veramente stata, nella sconfinata
landa
ghiacciata, che era tutto vero, così vero che l'aveva quasi
uccisa.
La frustrazione la trascinava nel baratro.
Nessuno le credeva. Erano successe tante di quelle cose strane quella
sera.
Tara non riusciva a capire fino in fondo il significato delle parole
che
comparivano al telegiornale, ma l'esplosione di quella sera aveva
creato tante
stranezze, una più incredibile dell'altra. Tara
cercò di mettere a fuoco le
immagini sul televisore, uscendo per un attimo dal suo mondo di incubi.
Ecco,
c'era un ragazzo, per esempio, che era stato colpito da un fulmine. Era
quella
la notizia che ogni emittente televisiva riportava senza sosta. Tara
immaginò
la scarica elettrica tra le fibre del suo corpo, immaginò il
dolore che quel
ragazzo aveva dovuto provare. E si rese conto che c'era qualcosa che li
legava.
Forse quel ragazzo era sperduto in una landa di ghiaccio in quel
momento, come
lei. E forse, quando si sarebbe svegliato dal coma, nessuno gli avrebbe
creduto. Come lei. Tara sentì l'ingiustizia pesarle addosso.
Lei voleva essere
quella in coma. Almeno non avrebbe sentito la cappa di disperazione dei
suoi
genitori, sempre più convinti che fosse pazza. Ma
d'altronde, che cos'era la
pazzia, considerato quello che aveva vissuto?
Non
passava un giorno senza che Tara pensasse a quel
ragazzo. L'immagine di lui l'accompagnava costantemente, e forse i
genitori si
erano accorti di un cambiamento. Tara drizzava le orecchie a tavola,
quando al
telegiornale parlavano di lui, e continuava a chiedere informazioni sui
fulmini, e a rubare i giornali del padre in cerca di notizie. La
psicologa le
chiese di parlare di lui un giorno, di spiegarle che cosa
rappresentasse per
lei quel ragazzo. Tara rispose semplicemente che le dispiaceva per lui.
Nient'altro. La donna non sarebbe mai stata disposta ad accettare la
spiegazione reale.
E
poi, qualche settimana più tardi, successe di nuovo.
Tara era sdraiata sul letto e guardava il soffitto, persa nel silenzio
a
rincorrere i pensieri su quel ragazzo, quando sentì una
strana sensazione.
Tutto divenne buio e la ragazza si trovò nel mezzo di una
stanza d'ospedale
deserta. Era completamente disorientata, non capiva cosa fosse
successo, ma poi
i ricordi del ghiacciaio la riempirono come una valanga. Era successa
la stessa
cosa, e lei in quel momento poteva essere finita ovunque. Il terrore la
schiacciò non appena se ne rese conto, cominciò a
tremare, di paura questa
volta. Si portò le mani tremanti sugli occhi, sperando che
tutto potesse
scomparire da un momento all'altro. Ma quando scostò i
palmi, i candidi
macchinari ronzanti erano ancora lì, e Tara non
riuscì ad impedire che lacrime
calde le solcassero le guance. Ansimante, ignorando i gemiti che le
scappavano
dalle labbra, ruotò lentamente su se stessa per esaminare
l'ambiente
circostante. Continuando a sperare che sarebbe scomparso. Fu allora,
col
sottofondo dei rumori intermittenti delle macchine, che lo vide. Il
ragazzo del
fulmine era a pochi metri da lei.
Nel cuore di Tara si riversarono istantaneamente una dolcezza
incredibile,
mista a comprensione e qualcos'altro che non riuscì ad
identificare con
precisione. Il ragazzo del fulmine era lì, e lei provava per
lui una sorta di
amore materno che per poco le fece dimenticare tutto il resto. Si
avvicinò a
lui con passi incerti, questa volta temendo che tutto svanisse. Il
ragazzo dei
fulmini era lì. Tara osservò con dolcezza i suoi
lineamenti, e il suo petto che
si alzava e si abbassava al ritmo del rumore delle macchine.
Avvicinò
lentamente le dita al suo volto e sfiorò la sua pelle in una
carezza.
Nell'istante in cui i suoi polpastrelli toccarono la pelle di lui, Tara
poté
giurare di aver sentito una piccola scarica elettrica attraversarle il
dito.
Indugiò ancora in quella carezza tenera, che sentiva
così giusta. Si perse
nella contemplazione del ragazzo del fulmine, fino a quando la stanza
della
porta non si aprì. Tara si congelò, rendendosi
conto in quel momento di essere
in pigiama e di avere ancora le guance rigate di lacrime. Rimase
pietrificata
mentre una ragazza dalla pelle scura faceva il suo ingresso nella
stanza, i
suoi lineamenti piegati in una smorfia di disperazione. Le rivolse un
breve
sguardo e si avvicinò al letto. "Ho sbagliato stanza."
furono le
uniche parole che Tara riuscì a dire. La ragazza non ebbe
problemi a crederle,
probabilmente notando la confusione di cui Tara era preda. Lei si
limitò ad
uscire velocemente attraverso la porta, gettandosi a capofitto nel
corridoio
affollato dell'ospedale. Qualcuno si voltò a guardarla, ma
nessuno si soffermò
su quella ragazzina così insignificante, che
fuggì, camminando senza meta tra i
corridoi di quel luogo così ordinato, troppo ordinato per
lei che invece era un
groviglio di dubbi e insicurezza. Tara vagò per l'ospedale
per alcuni minuti
prima di venire trasportata misteriosamente ed inspiegabilmente di
nuovo a
casa.
Al
loro rientro i genitori la trovarono un po' scossa,
spaventata, ma non ci fecero molto caso. Tara decise di non raccontare
loro
nulla. Non le avrebbero creduto.
Passarono
mesi, e lo strano fenomeno non si ripeteva.
Tara avrebbe dato qualsiasi cosa per poterlo fare ancora una volta,
essere
trasportata in un posto sconosciuto, solo per sapere con certezza di
non essere
pazza, di non aver immaginato tutto. Ogni giorno che passava, la
realtà di quei
viaggi misteriosi scappava dalla sua debole presa, le scivolava tra le
dita. Un
giorno credeva di essere uscita di senno, il giorno dopo giurava a se
stessa di
essere stata nel ghiacciaio e all'ospedale. Non riusciva più
a distinguere i contorni
della realtà e quelli della fantasia; credeva di essere
stata veramente nei
luoghi dei suoi sogni spettrali, oppure negava il ghiacciaio e tutto il
resto.
A volte stentava a riconoscere il posto in cui si trovava, pensando di
esserci
stata trasportata improvvisamente. Piangeva, e urlava, e la gente si
fermava e
non capiva cosa succedeva. Le chiedevano cosa aveva, e lei sentiva la
sua voce
gridare come se la sua vita dipendesse da quello.
Il fantasma di se stessa bambina la perseguitava. Il
ghiacciaio non esiste, sei pazza, diceva. E lei urlava,
voleva
ammazzarla, ma non poteva. Piangeva.
Sei pazza.
No, lei non era pazza. Era
pazza?
Tara non lo sapeva più. Non si riconosceva. Il suo riflesso
nello specchio le
rimandava indietro un'immagine distorta. Ossuta, con gli occhi scavati
e rossi,
era il viso di uno straniero, ed era il suo.
Fu
come riprendere fiato dopo un'immersione. Tara era
dalla psicologa, e le scoppiava la testa. Chiese di andare in bagno,
chiuse la
porta dietro di sé, e dopo poco non era più
lì. Un campo di fiori, che la
circondava a perdita d'occhio. Le sue gambe erano immerse in quella
distesa di
petali rosa, tirava un lieve venticello che li faceva sembrare un mare
agitato.
All'inizio Tara fu felice. Significava che non era pazza, che non aveva
immaginato tutto. Ma poi fu sconvolta dalla realtà di quello
che era successo:
era in un luogo sconosciuto, isolato dal mondo e non sapeva come
tornare
indietro. Tara cadde in ginocchio, tra i fiori profumati. Ad un tratto
le
sembrarono sgualciti, consumati, invecchiati dal tempo.
Piegati da qualcosa più grande di loro, come lei. Tara era
in balia del proprio
destino, senza una appiglio a cui reggersi. Probabilmente quei viaggi
assurdi
erano veramente frutto della sua fantasia. Come si spiegava altrimenti
tutto
ciò? Forse era pazza.
Tara
uscì dal bagno dello studio della psicologa
un'ora e mezzo più tardi e ad accoglierla c'era una folla di
persone che la
cercavano. Fu assalita da mille volti diversi, mille voci preoccupate
che le
indirizzavano frasi che non capiva. E dopo tutta quella solitudine, il
frastuono era assordante, come una bomba che esplode. Tara si
gettò a terra,
urlando. Si sentì raggiungere dalla voce odiata della
psicologa. La guardò con
gli occhi sgranati e colmi di terrore, mentre la donna la tempestava di
domande. Tara rispose a monosillabi, le mani premute sulle orecchie.
Spiegò che
era stato come il ghiacciaio, ma era un campo di fiori. Nessuno le
credette. Fu
accompagnata a casa, i genitori ricevettero l'istruzione di non farla
più
uscire sola.
Non
era servito a niente. Altri mesi erano passati,
era sempre sorvegliata come una carcerata, ma nonostante ciò
i viaggi non erano
finiti. Appena era sola, scompariva nel nulla, per tornare qualche ora
o minuto
dopo. Un'assurdità per i suoi familiari. I genitori
pensavano che lei
scappasse, per tornare quando si rendeva conto di cosa aveva fatto.
Tara non
spiegava nemmeno dove era stata.
Un castello abbandonato, i cui corridoi rimbombavano solo dei suoi
passi senza
meta e delle sue invocazioni senza risposta, luogo perfetto per i
demoni che la
tormentavano.
La sommità di una montagna dall'aria rarefatta, che
rimandava indietro l'eco
dei suoi pianti.
Una foresta pluviale, in cui si sentiva inadeguata, troppo piccola.
Tara
veniva annientata dell'immensità di quei luoghi
senza confini.
Una
notizia buona però c'era. Il ragazzo
del fulmine si era svegliato. Tara aveva capito ormai che la sorte che
gli era
toccata era diversa dalla sua: lui non vagava per luoghi sconosciuti e
infiniti. Ciononostante Tara continuava a provare affetto per lui, come
l'amore
che si prova per un fratello che condivide il tuo stesso destino.
Quella notte
aveva cambiato le loro vite, per sempre.
Sapeva anche che la vita del ragazzo era cambiata in un altro modo.
Tara aveva
l'assoluta certezza che la Scia che era stata intravista a Central City
fosse
lui. Lo sapeva e basta, come si sa che il sole sta in alto e la terra
sta sotto
i piedi.
Aveva scoperto anche che esistevano altre persone con la vita
sconvolta, dopo
la notte del ghiacciaio. Metaumani, li chiamavano. Una parola difficile
e un
concetto semplice da capire, anche per Tara: erano uguali a lei.
Avevano la stessa luce di pazzia negli occhi, anche se meno forte, la
stessa
luce che aveva visto nei suoi
occhi,
nel riflesso dello specchio.
~
Questa
volta é l'Oceano. Il paesaggio intorno a Tara é
irrequieto, non
trova pace. Un vento incessante sferza la roccia e gli sparuti ciuffi
d'erba
che la punteggiano, il mare é agitato da onde grigie e
scostanti.
Il cielo é plumbeo, e rari raggi di sole fanno capolino tra
le nuvole, gettando
un fascio di luce sull'acqua.
Il paesaggio é confuso, come Tara. É successo di
nuovo, é stata trasportata in
un luogo sperduto, e passeranno ore prima di tornare a casa. Sempre che
ci riesca,
a tornare a casa.
Tara non ce la fa più. La sua vita é distrutta, e
non sa se c'è ancora una
speranza di normalità per lei. É stanca di quei
viaggi, é stanca di essere
perseguitata dai suoi demoni, é stanca di essere un peso;
é stanca di essere considerata
pazza, anche se quasi sicuramente lo è; é stanca
di non essere creduta, é
stanca di essere.
Tara é controllata dalla paura. Non vuole più
viaggiare, passerebbe tutto il
resto della vita chiusa in camera piuttosto. Quei luoghi infiniti la
annullano.
Che cos'è lei, di fronte a quell'oceano che si perde a vista
d'occhio, di
fronte a quella scogliera che lo sovrasta e che sembra non finire mai?
Tara non
é niente.
Però quel paesaggio un po' le piace, perché le
somiglia.
Tara resta immobile, lasciandosi frustare dal vento impietoso,
ascoltando il
rumore delle onde. Sembra una tempesta, come quella che c'è
nella sua
testa.
Un fulmine in lontananza, e un tuono la scuote. Gli occhi le bruciano,
i
capelli volano all'indietro seguendo i capricci del vento. Tara avanza
lentamente, un passo dopo l'altro. L'erba ispida le solletica i piedi
nudi. Non
sa più cosa pensare, cosa fare, é in balia di se
stessa. Tara é un metaumano, e
si chiede se anche lei un giorno sarà guidata dalla follia e
trasformata in
qualcosa di così lontano da lei, da quello che era, da non
sapere più chi è.
Tara sa già che è pazza, sa già che la
sua vita é e sarà un inferno. Un altro
tuono, e Tara é percorsa da un brivido.
Non vuole.
Non vuole più vivere.
Pensa agli altri metaumani, si chiede dove scompaiano dopo che Flash li
sconfigge. Anche lei vuole andare nel posto dove vanno quei demoni
dagli occhi
folli, e lo vuole fare in fretta.
Tara guarda il mare che brontola, e sorride. É la sua via di
fuga. Tara vuole
dire basta a quella assurdità, basta ai viaggi orribili,
basta ai luoghi
infiniti, basta a lei stessa, piccola, inutile e senza futuro. Tara si
avvicina
al bordo della scogliera, sente la roccia appuntita sotto i piedi, e
sembra
quasi una carezza. Inspira a pieni polmoni l'aria intrisa di salsedine
e odore
di tempesta. Quasi non se ne accorge, ma una risata disperata si fa
strada
dalla sua gola, fino ad uscire in un suono malato e rantolante. Le
nuvole la
minacciano, il vento la colpisce, il mare la sfida, e lei ride.
Sono pazza, dice a se stessa,
scuotendo la testa, e ride.
Tara avanza ancora sul bordo della roccia, sotto di lei solo le onde.
Dà
un'ultima occhiata al paesaggio, che in quel momento le pare il luogo
perfetto
per dire addio a tutto il suo tormento. É felice.
Tara fa
un salto nel vuoto.
Si lascia
trascinare dal vento, intorno a lei un
vortice di sensazioni intense, la salsedine, i tuoni, un fulmine
inaspettato,
gli stridii di uccelli lontani, il rumore delle onde che si infrangono
sugli
scogli, il mare scuro che la reclama.
Cade.
E
le acque si richiudono su di lei.
-
- - Angolo autrice - - -
Ciao a tutti, grazie per aver letto questa one shot. Diciamo che non ho molta esperienza con le fanfiction...ne ho scritte alcune, ma questa è la prima che pubblico. Ho sempre paura di non riuscire a rendere coerenti i personaggi con quello che sono nelle opere originali, perciò anche qui la protagonista è un personaggio di mia invenzione, ho preferito lasciare Barry e Iris sullo sfondo.
Che dire, un giorno guardando una puntata di The Flash ho pensato che fosse veramente strano il fatto che quasi tutti i metaumani affrontati da Barry fossero sempre forti e determinati a raggiungere il proprio obiettivo usando i poteri che sono stati dati loro dall'acceleratore. Poi ho pensato che forse ci potessero essere altri metaumani nascosti nell'ombra, insicuri e divorati da quegli stessi poteri che altri sanno sfruttare così bene. E ho deciso di raccontare la storia di uno di loro.
Tara è un personaggio molto diverso da quelli di cui sono solita scrivere. Prima di tutto, non ho mai scritto di persone con problemi psicologici; in secondo luogo, il finale drammatico è una cosa lontanissima dalle mie abitudini. Anche lo stile che ho usato è un po' inusuale per me, così frammentato, con le frasi brevi e spezzate. Ho voluto adottare questi espedienti per cercare di rendere al meglio la confusione e la fragilità di Tara. Diciamo che questa one shot è stata un enorme esperimento, spero che vi sia piaciuta quanto a me è piaciuto scriverla. <3
Alessia Krum