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Autore: _Frame_    17/07/2016    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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88. Bastone e Katana

 

 

“Giappone?”

Il drappo nero steso sul cielo scivolò lontano e si disperse. Una mano invisibile si era appigliata alle pieghe di stoffa e lo aveva strappato via dal sole, rivelandone la luce cristallina che brillava in mezzo alle foglie degli alberi. Raggi limpidi e dai riflessi verdi e bianchi discesero l’aria del boschetto, disegnarono larghe lame di luce che toccarono il terreno e fecero scintillare le gocce di pioggia incastonate fra l’erba come diamanti. Solo un fruscio di vento, lo scricchiolio del legno, un frullare d’ali che si allontanava da un ramo, e ripiombò il silenzio.

Giappone aveva ancora la gamba stesa di lato, la punta del piede rigida e allungata in mezzo ai ciuffi d’erba, il busto torto, le spalle voltate all’indietro, e il viso girato verso la voce che lo aveva appena chiamato. Uno spasmo di sorpresa e confusione gli attraversò lo sguardo, gli occhi slargati e ancora sfumati di paura assunsero una vena di smarrimento che li rese più scuri e profondi. Tremarono.

I battiti pesanti del cuore fecero pulsare il grumo di respiro che si era incastrato in fondo alla gola. Una vampata di sudori freddi gli venne addosso come la risacca di una marea.

Il suo riflesso era svanito, l’ombra spazzata via dall’alito di vento. Gli aveva lasciato un’impronta di brividi sulla schiena alla quale si era incollato, alle spalle che aveva abbracciato. Una scia di brividi, simili allo zampettare di mille formiche, prudeva all’interno delle ossa.

Giappone provò un’altra scossa di brividi alla base della schiena. C’era qualcun altro al posto del riflesso.

La bava di vento si ritirò, immobilizzò le chiome degli alberi, pietrificò le scaglie di luce ritagliate fra una foglia e l’altra, e scosse i capelli di Cina in un ultimo ondeggio. Le ciocche fluirono morbide sulla guancia, sfiorarono le labbra socchiuse in una mezza espressione di stupore, e ricaddero sulla spalla. La loro ombra scivolò via dalla luce degli occhi accesi di stupore e confusione che premevano su Giappone.

Cina fece scivolare la mano aperta giù dalla baracca abbandonata. Stese un piede in avanti, l’erba scricchiolò sotto i suoi piedi, e passò di fianco alla botte di legno marcito che conteneva il fascio di bastoni. Gli occhi bagnati dalla luce del sole ma ancora grigi di smarrimento risalirono il profilo di Giappone, dai piedi fino al viso. Gli fissarono lo sguardo. “Che cosa ci fai qui?” Flesse le sopracciglia verso l’alto, in un’espressione disorientata e messa in penombra dal buio del bosco.

Giappone percepì il sangue che ricominciava a fluire, il calore scorrere e sciogliere i brividi di ghiaccio che gli avevano congelato il corpo e il viso in quella posizione. I nervi disciolti formicolarono e gli scossero le viscere. La mano destra bruciò, era ancora chiusa a pugno.

Giappone aprì il palmo, le giunture delle dita scricchiolarono, e la croce di ferro scivolò dalla mano, pendendogli dal polso. Gli aveva lasciato profondi segni rossi sulla carne, senza farla sanguinare.

Il flusso di calore che era risalito alla testa gli spannò la vista. Gli occhi neri tornarono limpidi e lucidi, animati da una scintilla di sprezzo che gli fece un nodo allo stomaco, come un boccone amaro andato di traverso. La pesante presenza della katana cominciò a premere contro il fianco, la mano stesa e ancora irrigidita bruciò del desiderio di aggrapparsi al manico.

Giappone voltò il capo con un gesto rapido, distolse gli occhi da Cina, e i capelli gli nascosero il profilo del viso. “È il mio territorio, non devo giustificare la mia presenza.” Parlò freddo come il vento che era soffiato in mezzo a loro.

Ritirò il piede che aveva teso durante lo scatto che lo aveva fatto girare, unì le gambe, diede le spalle alla presenza di Cina che premeva lo sguardo sulla sua schiena. Strinse di nuovo le mani dietro i fianchi, lasciò che la croce di ferro ciondolasse dal polso rimbalzando sotto la stoffa della manica, e stese un primo passo lungo l’erba. Abbassò il tono, chinò la fronte. “Me ne stavo andando.” Il viso nero e piatto, una distesa di buio.

Il suolo dietro di lui frusciò, i ciuffi d’erba secca e ghiacciata scricchiolarono, un rametto si spezzò con uno schiocco.

“Aspetta.”

La voce di Cina gli fece risalire un brivido molle e viscido lungo la schiena.

Giappone storse un angolo della bocca verso il basso, senza voltarsi, e appesantì il passo. La katana batté sul fianco a ogni falcata, le mani strette dietro la schiena e toccate dalla croce di ferro prudevano, dovette scuoterle, e un fitto gorgoglio bruciò in fondo allo stomaco.

Cina avanzò ancora di due passi scuotendo il manto del bosco. Indurì la voce. “Giappone, ti prego, fermati.”

Giappone premette il piede a terra, appiattì la suola, e la gamba irrigidì. Arrestò il passo, si fermò all’interno di un raggio di luce bianca discesa dalle foglie, e tenne il capo basso, i capelli a cadere davanti alla fronte. Le dita si districarono da dietro la schiena, le mani si chiusero formando dei pugni e scivolarono lungo i fianchi. Le braccia incollate al busto. Le nocche della mano destra sfiorarono il manico della katana e Giappone percepì una piccola scossa schioccare sotto la pelle, fin dentro le ossa. Il vento gli soffiò contro la schiena, agitò i capelli contro la nuca, fece ondeggiare le ciocche sulle guance bianche, e le punte corvine sfiorarono gli angoli delle labbra che tremavano leggermente. Gli occhi si strinsero. L’ombra del bosco si infossò attorno alle orbite, scurendone il bordo e increspando la pelle delle palpebre e della fronte. Giappone inspirò a fondo e trattenne il fiato nel petto. Il corpo bruciava del desiderio di andarsene e scollarsi di dosso lo sguardo di Cina.

Dietro di lui, altri piccoli passi scricchiolarono sul fondo del bosco. La presenza di Cina si avvicinò come un flusso di energia calda trascinato dal soffio del vento.  

“Sul serio vuoi andartene via così? Senza dirmi niente?” Cina si fermò. Giappone ruotò la coda dell’occhio, sbirciò da sotto una ciocca di capelli, e vide il suo sguardo avvilirsi, sfumarsi di un’ombra di delusione. Parlò con tono amareggiato. “Nemmeno guardandomi in faccia?”

Giappone tenne le labbra sigillate. Lasciò uscire il respiro che aveva trattenuto e il corpo fremette. Bocca, spalle e petto vibrarono sotto quel sospiro carico di tensione. Giappone tornò a guardare davanti a sé. “Temo di non avere nulla da dire.” Sgranchì le dita lungo i fianchi. Le giunture scricchiolarono e la pelle pizzicò.

Cina aggrottò la fronte. “Io invece penso di sì.”

Un velo nero tornò a stendersi sopra le chiome degli alberi, spense i raggi di sole e raffreddò l’aria della foresta. Giappone si trovò immerso nel buio, gli occhi a fissare il leggero scuotersi delle foglie sul terreno e la nebbiolina che si stava formando in mezzo ai fusti. Brividi di freddo grattavano come un’unghia affilata la lunghezza della spina dorsale.

“Davvero non vuoi alcuna spiegazione da me,” gli disse Cina, “dopo quello che è successo alla riunione?”

Giappone spalancò gli occhi, sentì le pupille restringersi e proiettarsi nella stanza illuminata di quel giorno, a squadrare con disprezzo le tre presenze che occupavano l’ambiente chiuso, a mento alto e a schiena dritta.

Sentì una seconda volta il digrigno che Inghilterra aveva trattenuto fra i denti, rivide il rossore delle sue guance che bruciavano di rabbia, i suoi pugni stretti ai fianchi, e l’ultima occhiata di sprezzo che gli aveva lanciato prima di rivolgersi a Cina.

“Cina, fa’ qualcosa, è tuo...”

La sua voce che si bloccava.

Rivide anche gli occhi calmi di Cina, le sopracciglia innalzate, e lo sguardo disteso che aveva rivolto a Inghilterra, senza nemmeno sfiorare quello di Giappone. “Mio cosa?”

Inghilterra che si morsicava il labbro, impastando le parole e diventando ancora più rosso in viso. “Tuo...” Gli occhi affogati nell’indecisione.

Il silenzio che era calato, che aveva ammutolito anche America, che aveva raggelato la stanza e che aveva ingrigito lo sguardo di Cina.

Un unico sospiro da parte sua. “No, non lo è più.” I loro occhi che si incrociavano, quella fioca sfumatura di tristezza che aveva velato quelli di Cina. “Non lo è più da molto tempo, ormai.”

La pungente carezza del vento fece ritornare Giappone in mezzo al boschetto, con i piedi in mezzo alle pozzanghere, nel fango e nelle foglie marcite. La fronte bassa e i capelli cadenti davanti agli occhi.

Giappone prese un breve respiro che gli allargò le spalle. “La riunione è stata chiarissima e...” Sollevò le sopracciglia, appiattì il tono di voce che tagliò l’aria come la luccicante lama di un rasoio. “Illuminante sotto diversi punti di vista.”

Cina, alle sue spalle, sospirò. “Non posso dire lo stesso per me.” Mosse un altro passo, sfilò davanti alla botte contenente il mazzo di bastoni di legno, e la sua camminata fece scricchiolare l’erba indurita dal freddo. “Non sono d’accordo con le tue idee,” disse, “ma non posso dire di esserlo anche con quelle di America e Inghilterra.” Abbassò lo sguardo, e una leggera smorfia del naso gli diede un’aria amareggiata. “Quella volta ho preferito non infierire sulla questione di noi due davanti a loro, il rapporto fra me e te non li riguarda.”

Un fremito di collera si infilò nella carne di Giappone e strisciò attraverso le vertebre. Gli ghiacciò le ossa. Viscido, freddo, disgustoso da fare un nodo alla pancia e accapponare la pelle.  

Rapporto fra me e te...

Giappone restrinse i denti e sentì qualcosa ribollire dentro lo stomaco e infiammargli il sangue.

La voce di Cina arrivò trasportata da un filo di vento. “Accetto di essere tuo nemico,” divenne più cupa, più dura, “ma non devono esserci fraintendimenti fra noi due.”

Giappone roteò lo sguardo ancora contorto in quella fitta smorfia di irritazione. “Non vedo come possano essercene.”

“Ce ne sono,” rispose Cina, “perché temo che tu stia fraintendendo ciò che sto cercando di spiegarti.”

Giappone sussultò. Gli occhi scattarono, lanciarono uno sguardo fulmineo a Cina da sopra la spalla, ma il corpo rimase impietrito, come intagliato nel gesso.

I loro visi si incontrarono, solo un fascio di luce a trafiggere l’aria fra loro due, come una lama. Gli occhi di Cina assunsero di nuovo quell’espressione di fioca e velata malinconia che gli aveva sfumato gli occhi quel giorno della riunione.

“Io non ho deciso di combatterti per una mera questione politica o territoriale, Giappone.”

Il tono sincero penetrò il petto di Giappone come un lungo ago che si infila nella carne e che scivola in mezzo alle costole. La punta scavò nel cuore, gli trasmise una scossa di dolore che lo spinse di nuovo ad allontanare lo sguardo e ad aggrottare la fronte. La mandibola strinse, le dita si chiusero, le unghie si conficcarono nei palmi, i polsi tremarono.

“Quale altro scopo dovrebbe spingere una nazione a scatenare una guerra, allora?” gli domandò, secco.

Cina infittì l’ombra attorno agli occhi. “Questo mi piacerebbe sentirlo dire da te.”  

Giappone arricciò il labbro inferiore e ne morse la carne, tenendosi le parole in gola. Il vento scosse il fruscio delle foglie, gli mosse i capelli contro le guance e nascose il lieve tremito che gli aveva attraversato gli occhi rivolti al suolo. L’ambiente della foresta rabbuiò, divenne freddo e sbavato di una nebbia nera che strisciava in mezzo alle loro gambe.

L’aria soffiò anche attraverso il corpo di Cina, sollevò le punte dei capelli legati dietro la spalla che sfiorarono i tratti del viso.

“Tu perché hai deciso di iniziare a combattere?” domandò Cina. “Cosa stai cercando di dimostrare al mondo?” Inspirò, sollevò il mento, e una luce solenne gli riempì lo sguardo. “O stai cercando di dimostrarlo a te stesso?”

Giappone ebbe un tuffo al cuore. Una sorda martellata contro le costole che lo strozzò come un boccone andato di traverso, di quelli che ti fanno diventare il viso bianco e gli occhi lucidi.

Cina intensificò lo sguardo. Più adulto, più austero.

“Girati e guardami.”

Giappone strinse le labbra e chinò il capo, premete la guancia contro la spalla e tenne gli occhi bassi. Non lo guardò.

La schiena tremò, le braccia fremettero e tornarono immobili. Il respiro scivolò in mezzo ai denti, le labbra si torsero verso il basso, e le pieghe sulle guance annerirono il volto. “Mi sto solo prendendo ciò che mi spetta.” Le mani bruciarono. Dovette spremere più volte l’aria contro i palmi per sciogliere la voglia di agguantare la katana e sfilarla dal fodero in un gesto secco e rapido, come estrarre un coltello dal contenitore delle posate. Il desiderio di girarsi e di conficcargli la lama nello stomaco bruciava sotto la pelle, il sangue si era fatto di fuoco, le viscere erano tutto un nodo, il cuore accelerò i battiti e arroventò il corpo.

Cina indurì il tono. “E in base a cosa hai stabilito che il mondo ti è debitore?” Inflessibile.

Giappone respirò un’altra volta fra i denti. Sentiva di nuovo l’ombra del suo riflesso premere il busto contro la sua schiena, le braccia risalire le spalle, le mani chiudersi sul petto, le labbra sussurrargli quel fiato freddo e nero contro il lobo dell’orecchio. Deglutì. “Per quello che ci avete fatto in passato.” Gli occhi scattarono sul fianco, inquadrarono il manico della katana. La mano destra si aprì, le dita irrigidirono, tornarono a strizzarsi, a riaprirsi, e scattarono contro il fodero. Si chiusero sopra la tsuka, le unghie graffiarono fino a stridere.

“La nostra è stata giustizia,” rispose Cina, secco, “la vostra è pura vendetta.”

Giappone serrò i pugni, i palmi andarono in fiamme come lo sguardo. Strinse la mandibola. “Giustizia,” sibilò. Una lama di luce scarlatta attraversò il nero degli occhi, lingue di fuoco cremisi bruciarono fra le orbite.

Di nuovo lo sguardo di America che brillava di azzurro, ristretto sotto la piega delle palpebre socchiuse. Una mano spinta contro il petto, davanti al cuore, il braccio opposto teso e le dita divaricate che accoglievano la luce dentro il palmo.

“Unisciti a noi ed entra a far parte della Lega della Giustizia.”

Un richiamo rivolto a lui.

Giappone inspirò una sorsata di rabbia fra i denti. Il braccio che già impugnava la katana tremò facendo vibrare la lama infoderata contro il fianco.

Sollevò anche la mano sinistra e la scagliò contro il manico, schiacciò il fodero dentro il pugno, sollevò il pollice, e spinse l’unghia contro la tsuka.

Un forte e caldo flusso di energia corse attraverso la katana e bruciò sotto i palmi, risalì le braccia e si accumulò nel petto come un gomitolo di fuoco in mezzo alle costole.

Vide tutto rosso.

“Io non ho alcun dovere di giustificarmi con te!”

Giappone spinse sull’unghia premuta contro la tsuka. Una prima strisciata metallica stridette in mezzo alle sue dita, il raggio di sole in cui si era immerso proiettò la luce contro la fetta di lama emersa dal fodero e si concentrò in una scintilla d’argento. Stese la gamba destra. Il piede strisciò in mezzo all’erba tracciando un semicerchio, il ginocchio si flesse in avanti ricevendo tutto il peso del bacino già ruotato di lato. Le dita strette al manico si indurirono. Le nocche bianche e le vene grosse e pulsanti sotto la pelle.

Giappone richiamò la gamba sinistra, piegò il ginocchio, spinse le spalle in avanti, si gettò a tranciare quelle parole che stavano tagliando lui.

Prima ancora di riuscire a sollevare gli occhi da terra, di completare il passo, di innalzare il gomito e di sfilare la lama dal fodero, qualcosa gli toccò il collo.

Il bastone discese dall’alto, si appoggiò contro la sua carotide, spinse leggermente di lato premendo sul mento, e lo costrinse a inclinare la gola.

Cina lo impugnava con una mano sola. Il braccio destro solo leggermente rialzato, il gomito piegato di poco verso l’esterno, la manica cadente fin sopra il polso, a ciondolare all’altezza delle nocche, e il braccio sinistro disteso lungo il fianco.

Giappone spalancò gli occhi. Le iridi nere e lucide sotto il raggio del sole persero la sfumatura rossa. Le labbra socchiuse ebbero un fremito, il fiato vibrò attraverso i denti e fluì lungo il petto. Gli scaricò una scossa di allarme attraverso il cuore, una saetta elettrica che sentì esplodere in mezzo alle costole. Aveva ancora le mani strette attorno alla katana, una chiusa attorno al manico, e l’altra sul fodero. Solo una fetta di lama a brillare fra i due estremi.

Uno dei bastoni racchiusi nella botte scivolò sfregando lungo il bordo e sbatté contro un’altra punta di legno. Riempì lo spazio vuoto creato dal bastone che Cina aveva sfilato e puntato al collo di Giappone.

Sopra di loro, il vento passò attraverso le fronde degli alberi. Allungò un fioco ululato, un sospiro d’aria che si mescolò al fiato pesante che Giappone faceva sibilare attraverso la gola bruciante.

L’aria agitò le foglie, scompose i frammenti di luce incastonati in mezzo ai rami, li sbriciolò, e quelli tornarono a formarsi, a spennellare fasci di luce bianca e verde sopra di loro. Uno dei raggi ondeggiò sopra la fetta di lama emersa dal fodero della katana. La croce di ferro scivolò dalla manica di Giappone, crollò contro la katana, uno dei bracci tintinnò contro il manico. Finì abbagliato dal sole che lo fece luccicare in un rapido abbaglio.

Gli sguardi di Cina e Giappone si congelarono l’uno sull’altro.

Gli occhi sbarrati di Giappone, annebbiati dall’ombra e dalla punta di panico, e quelli placidi e socchiusi di Cina. L’espressione distesa, il respiro lento e regolare.

Giappone trattenne il fiato, una riga di sudore gli scivolò lungo la tempia, e sentì la carotide ingrossarsi e pulsare contro il bastone ancora appoggiato al suo collo. Il battito del cuore palpitava direttamente dentro le orecchie e all’interno della gola, riempiva la testa con un suono rapido e gutturale. Tu-tum, tu-tum.

Cina sollevò le estremità delle sopracciglia. L’espressione solenne tornò a incrinarsi in quella piega avvilita che fece scintillare la luce degli occhi. “Io non voglio farti del male.” Calò il braccio. La punta del bastone scivolò lungo la pelle di Giappone, sfiorò il mento, scese di fianco alla spalla, strisciò attraverso il muscolo irrigidito del braccio, e toccò terra. Cina fece un passo all’indietro. “E mi rattrista pensare che tu ne voglia fare a me.”

Giappone aprì di più il labbro inferiore e rilasciò il fiato che aveva tenuto chiuso nel petto. Gli sembrò di avere appena slacciato e gettato via una corda di ferro annodata attorno alla gola. Annaspò, come fosse appena riemerso da una nuotata sott’acqua. Le guance ripresero una spolverata di colore, il sangue ricominciò a circolare, la fronte si chinò leggermente e i capelli sfiorarono la radice del naso storta in una smorfia di frustrazione. Le mani ancora sigillate attorno alla katana ripresero a formicolare.

Cina fece scivolare un piede all’indietro, si sporse di fianco, i capelli raccolti scivolarono lungo la spalla, ricadendo sul braccio, e voltò la guancia per tenere lo sguardo premuto su quello di Giappone. “Coraggio.” Disegnò un arco con il braccio, facendo strisciare la punta del bastone in mezzo all’erba, e si irrigidì nella posizione. “Attaccami.”

Giappone sussultò. Sollevò la fronte, il viso finì immerso nel velo di luce disceso dagli spazi fra le foglie, e i muscoli delle braccia si indurirono. Sbatté le palpebre. L’espressione attonita e incredula di chi crede di aver sentito male.

Cina socchiuse le palpebre. Sguardo serio e inflessibile. “Se è questo l’unico modo che conoscete per risolvere le questioni e per ottenere ciò che desiderate, non mi tirerò indietro.”

Un reflusso di rabbia acida gli risalì lo stomaco. Giappone scagliò addosso a Cina un’occhiata tagliente e scosse il capo. “Non intendo farmi coinvolgere in qualcosa che potrebbe scomporre gli equilibri di...”

“Non è nemmeno mia intenzione farlo,” rispose Cina. “Questo non sarà un confronto fra nazioni.” Inspirò, come per raccogliere una sorsata di forza e coraggio. “Questo,” sollevò il braccio, la punta del bastone stese l’ombra contro il petto di Giappone, “sarà un confronto fra me e te.”

Giappone tenne gli occhi nell’ombra e inarcò le sopracciglia. “Cosa vorresti dimostrarmi?” Un’espressione scettica e intimidita sfilò attraverso il suo viso.

Un soffio di vento agitò i capelli di Cina, fece rotolare un vortice di foglie in mezzo alle sue gambe. Lui sospirò. “Lo scoprirai.” Tornò a calare la punta del bastone e la posò sul suolo, davanti al suo piede. “Affrontami e lo scoprirai.”

Lo sguardo di Giappone ruotò di lato. Gettò gli occhi a terra, contro una radice, voltando la guancia e lasciando che una ciocca di capelli fluisse davanti alle palpebre. Una breve scossa di dubbio lo fece esitare.

Giappone fece strisciare il piede all’indietro, raddrizzò il ginocchio, torse il busto e si sporse anche lui di fianco. Il viso ancora basso, lontano da Cina. Le dita impugnate al manico della katana allentarono la presa, spinsero verso il basso, e assottigliarono la porzione di lama luccicante che stava sfilando dal fodero.

Il vento frusciò attraverso i rami, scosse le foglie, fece traballare i capelli di Giappone contro le guance, e soffiò in mezzo ai vestiti, accapponandogli la pelle.

Giappone chiuse gli occhi. Respirò piano, assaporò la carezza del vento, immaginò il flusso del sangue che scorreva attraverso il corpo, concentrava le energie alla pianta dei piedi, scivolava lungo le braccia fino alle mani, dove i palmi e le dita stringevano sul manico e sul fodero della katana. Il sentimento di rancore volò via, spento dall’alito d’aria.

Spinse il piede di lato che scricchiolò fra i ciuffi d’erba e le foglie morte, torse il busto dando le spalle a Cina, pronto ad allungare un primo passo lontano da lui.

Un’ombra nera gli sfrecciò attraverso, stese le braccia, gli avvolse le spalle, spinse il suo busto contro la schiena, e il suo buio penetrò nel cuore. Giappone spalancò gli occhi e una luce rossa lampeggiò in mezzo alle palpebre.

Il piede che aveva allontanato scattò all’indietro, diede una strisciata in mezzo all’erba e si allungò di nuovo verso Cina. Giappone abbassò le spalle, restrinse gli occhi diventati cremisi, sentì l’aria fischiargli contro le orecchie e attraverso i capelli, e racchiuse nel campo visivo l’immagine del petto di Cina.  

Flesse il gomito all’esterno. La mano stretta al fodero della katana sfilò la lama. 

Swish!

Agguantò il manico chiudendo un pugno sopra l’altro, e impennò l’arma sopra la testa.

La luce del sole accese un forte lampo bianco che si accese alla base della lama, scivolò lungo il piatto, risalì il filo assottigliato, e morì sulla punta elevata al cielo.

Cina alzò gli occhi, l’ombra della katana gli attraversò il volto e lui dovette restringere le palpebre per ripararsi dalla luce. Spinse un piede alle sue spalle, scivolò di un passo all’indietro, lasciando un solco nell’erba, e sollevò anche lui il bastone sopra la testa. Le mani strette sulle due estremità.

Giappone scaricò una scossa di energia contro le braccia innalzate. Il flusso bollente salì fino alle mani e le dita strinsero di più.

La lama della katana discese l’aria, tracciò un arco d’argento dietro il passaggio della punta, emise un fischio, e sbatté di cattiveria contro il bastone.

Crack!

La forte vibrazione esplose nelle braccia di entrambi, penetrò nella carne fino a far fremere le ossa e le viscere.

La katana si conficcò nel legno. Un taglio liscio e pulito. Entrò con la facilità di un coltello che affetta una mela e fece pressione in avanti, guidata dalla forza di Giappone.

Cina strinse i denti e trattenne un gemito rauco, per il contraccolpo. La pressione che gli schiacciava le braccia e le spalle sembrava volerlo seppellire a terra. Lui piegò le ginocchia, spinse le spalle in avanti, e i piedi scivolarono sollevando una sottile nube di polvere. Entrambe le mani strette contro le due estremità del bastone, come una sbarra, e la lama della katana stesa in verticale davanti al suo viso.   

Cina tenne la mandibola serrata, i denti contratti, sopportò le braccia che bruciavano, le mani pulsanti, le vene gonfie, le unghie conficcate nel legno. Sollevò la fronte di scatto. I capelli scivolarono dagli occhi, due ciocche si incollarono alla guancia già rossa e sudata, attraversarono la luce infiammata di un occhio, e gli caddero lungo la spalla.

Si trovò di fronte al filo d’argento della lama nemica che tagliava la vista in due. Sentì le vibrazioni della katana appena schioccata davanti a lui solleticargli la punta del naso, come una corda pizzicata che ancora fa fremere l’aria. L’odore del metallo si unì a quello del vento di bosco, gli scivolò in gola.

Il profilo sfocato di Giappone era immobile dietro la lama impennata, immerso nel verde degli alberi, a gambe larghe e gomiti flessi. Il corpo saldo come roccia, un’aura rossa che bruciava attorno alla sua sagoma, e gli occhi arrabbiati gettati contro di lui.  

Cina inspirò. Sentì una scintilla accendersi nel cuore e infiammargli l’animo.

Schiuse il pugno stretto contro l’estremità più alta del bastone, appiattì il palmo e le dita, spinse la mano verso il cielo e inclinò la sua arma in posizione verticale.

La lama della katana si flesse all’interno del corpo di legno. Schegge scricchiolarono, schizzarono via in uno scoppio di aghi, e la lama scese inclinandosi lungo il profilo del bastone. Scivolò verso il basso e tagliò via una lingua di legno.

Cina sollevò il gomito sopra la testa, guidò il movimento del bastone che si sfilò dal morso della katana, e si scansò con un balzo all’indietro.

La lama precipitò – la fetta di legno che si era portata via la katana schizzò lontano –, tagliò l’aria e cadde a terra. Le braccia di Giappone si indurirono impedendole di toccarla. La punta della katana sfiorò un ciuffo d’erba, paralizzandosi a un soffio dal prato. Il mazzetto d’erba si inchinò per lo spostamento d’aria e tornò dritto, le punte verdi toccarono il filo della lama.

Giappone rigettò un gemito e si impietrì in quella posizione: la schiena piegata, le spalle crollate in avanti, i gomiti e le ginocchia tremanti, il viso basso contratto dalla fatica, e la lama inclinata davanti a lui, a una piuma dal terreno.

Cina sollevò anche l’altro braccio sopra la testa, agguantò il bastone con entrambe le mani, e chiuse i palmi sotto la parte affettata e più chiara della superficie di legno. Strinse fino a sentire lo scricchiolio della pelle e delle unghie.

Piegò il ginocchio della gamba ancora sollevata dopo la strisciata all’indietro. Spinse in avanti il piede, trattenne il fiato, e si diede lo slancio. Lo scatto gonfiò una nube di polvere dietro di lui.

L’ombra del bastone investì la figura china di Giappone, ancora a spalle e viso basso come la lama della sua katana.

Cina compì una falcata, posò il piede, spinse tutte le energie della gamba sulla pianta, e saltò in alto. Le braccia innalzate sopra la testa, un gemito di sforzo intrappolato fra i denti stretti, il suo corpo sfrecciato a rasoterra, il buio della sua ombra ad avvolgere Giappone.

Giappone ruotò lo sguardo verso l’alto, inquadrò la forma del bastone che stava ingrandendosi e calando contro di lui. Un abbaglio rosso accese gli occhi nascosti dietro i capelli caduti davanti alla fronte.

Giappone fece scorrere il flusso di forza dalle spalle lungo le braccia. Sentì due campi di energia concentrarsi all’altezza delle mani, scivolare attraverso la lunghezza della katana e accendere la lama dello stesso colore dei suoi occhi, come se avesse preso fuoco.

Abbassò le spalle, flesse le ginocchia, si spinse in avanti saltando di un passo verso Cina, e impennò la katana. Tagliò l’aria dal basso verso l’alto in una parabola a U, generò un turbine d’aria attorno alla punta di metallo.

Il bastone di Cina discese l’aria, scivolò lungo il profilo della lama messa in verticale e schiantò il colpo contro la tsuka, bloccandosi sopra il manico. Crash! Le due armi sbatterono formando una croce.

Quell’esplosione generò un turbine d’aria che vorticò, strisciò fra le gambe, trasportando foglie morte e sabbia, e morì in uno sbuffo che gli fece oscillare i capelli contro le guance.

I loro occhi si incontrarono da dietro l’incrocio; quelli ristretti e affilati di Giappone, racchiusi nell’ombra della fronte aggrottata, e quelli di Cina, immersi in una luce distesa, sfiorati dal tocco di un filo di capelli piovuto davanti al viso.

Solo le armi premute fra i due volti a dividere gli sguardi. 

Giappone fece stridere i denti. Spinse sulle piante dei piedi, tenendosi saldo al terreno, e sollevò il peso del bastone e della forza di Cina verso l’alto, con le braccia e le spalle che gli tremavano e le mani che bruciavano attorno al manico. Rivoli di sudore scivolarono in mezzo alle nocche e rigarono la pelle diventata bianca e rossa per lo sforzo.

Giappone torse la katana. Il bastone ancora incastrato sopra l’aggancio della tsuka si inclinò, indirizzando la punta verso il basso. Staccò la mano dalla presa, quella più in basso. Sollevò il braccio, impennò il gomito verso l’alto, e tornò ad avvolgere le dita capovolte sopra il pugno rimasto incollato al manico. Gonfiò i muscoli delle braccia, fece forza sulle spalle, e scaraventò il peso della katana ai suoi piedi, come a dare una frustata all’aria.

Il bastone si sfilò dall’incastro e precipitò a terra, tirandosi dietro le braccia di Cina.

Sentendosi precipitare, Cina ingoiò un ansimo, piegò le spalle in avanti e si resse sulle ginocchia.

Giappone resse la katana con una mano sola, stese il braccio di lato, fendette l’aria tracciando una linea d’argento davanti a sé, e avanzò di un passo. Balzò di una falcata in avanti, riagguantò il manico con entrambi i palmi, e sollevò la lama sopra la testa. L’ombra gli velò il viso come una maschera di panno nero.

Cina impennò la fronte di scatto. Sbarrò gli occhi, lucidi sotto l’abbaglio di un raggio di sole, e un rivoletto di sudore scese dalla tempia lungo la guancia. L’aria spostata dall’affondo della katana gli arrivò in faccia, soffiò via i capelli dalla fronte, e l’ombra della lama divise il volto in due.

Cina indurì lo sguardo, una fiamma di luce si accese in mezzo agli occhi e il battito del cuore martellò contro le costole.

Serrò i denti, “Ghn!”, spinse il flusso di energia bollente all’interno delle mani, immaginando l’ondata di energia scorrere e fiammeggiare attraverso il legno, e indirizzò il bastone addosso alla katana. Inclinò la punta, centrò la pressione contro il piatto della lama messa in verticale, e scagliò la katana di lato.

Giappone sbalzò, tirato dal peso della sua arma volata via, e incrociò i piedi due volte per restare in equilibrio. Sussultò, scosso da una rapida espressione di smarrimento che gli impallidì le guance. Le braccia molli e flesse verso il basso trasmisero una scossa di dolore e fatica che fece vibrare la lama fino alla punta che toccava terra. Una punta di frustrazione gli morse il cuore.

Giappone serrò le mani. Le nocche sbiancarono, le vene gonfie e blu pulsarono sotto la pelle, il sangue bruciò attraverso le dita. Gettò il capo all’indietro, l’occhiata affilata tagliò l’aria come la lama della katana, e solcò una scia rossa attorno al viso voltato sopra la spalla. Torse il busto, richiamò i gomiti contro lo stomaco, e sollevò la punta della lama facendola scivolare in mezzo ai ciuffi d’erba. Allungò un passo, premette la falcata di corsa, e rialzò la katana disegnando un arco d’argento dal basso verso l’alto. Assottigliò le palpebre e restrinse il campo visivo da dietro il profilo della lama impennata. Mirò alla gola di Cina, leggermente torta di lato e carezzata dai capelli che scivolavano davanti alla spalla.

Gli occhi di Cina volarono sulla cima della lama.

La katana si immerse nel raggio di luce che tagliava l’aria fra lui e Giappone, una scintilla bianca nacque sulla cima, si ingrossò come una fiamma, e corse lungo il profilo dell’arma.

Cina torse le spalle di profilo, tracciò un semicerchio con il piede, scavando il suolo, e strisciò di un passo di lato, scansandosi.

Il filo del metallo strisciò a un pelo dalla spalla, risalì sfiorando la gola, la mandibola, e il lobo dell’orecchio. Tagliò un ciuffo di capelli e quelli volarono come aghi scuri e sottilissimi gettati al vento.

Colpo a vuoto.

Cina voltò lo sguardo, fissò Giappone da sopra il profilo della spalla e corrugò le sopracciglia. Una scintilla di sfida accesa fra le ciglia socchiuse.

Giappone innalzò la fronte e gli scagliò addosso una rovente occhiata d’odio. Il disprezzo si condensò in forma liquida, fluì nelle vene, caldo, e gli fece tremare le labbra e i polsi.

Giappone sollevò la katana da sopra la spalla di Cina che aveva solo sfiorato. La capovolse, tuffò la punta verso il basso, le mani invertirono la posizione e strinsero le dita a pugno contro il manico rovesciato. Strisciò con i piedi compiendo un mezzo giro su se stesso e creando un arco di polvere attorno alle caviglie: una rapida piroetta che lo portò a dare le spalle a Cina. La katana ancora innalzata davanti al suo busto, la punta rivolta verso il basso ed entrambe le mani strette contro l’impugnatura, come una spada appena estratta dalla roccia. Giappone inspirò, gonfiandosi il petto, e trattenne l’aria.

Sbatté le ciglia, e in quel secondo di nero vide proiettata l’immagine della katana che si abbassava contro il suo fianco, gli passava di sbieco, sfiorando l’anca, e andava ad affondare nel corpo di Cina ancora in piedi dietro di lui. Schizzi di sangue esplodevano come petali scarlatti dal suo ventre contratto, la lama gli trafiggeva il busto inarcato in avanti e tornava indietro laccata di rosso.

Giappone riaprì gli occhi, rossi anche quelli.

In un colpo, affondò la lama.   

La katana generò una spira di vento che soffiò contro il suo busto, agitò la falda della giacca, e fischiò accompagnando l’affondo alle sue spalle.

Cina vide la lama strisciare lungo il fianco di Giappone, elevarsi, ingrandirsi e arrivargli addosso. Spinse sui piedi e scattò di fianco, schivando la lama che sfrecciò a un soffio dalla sua pancia.

Il colpo non incontrò resistenza e penetrò nel vuoto.

Giappone completò l’affondo, piegandosi in due con le spalle in avanti e stringendo la katana fra il braccio e il busto. Schioccò la lingua fra i denti, seccato.

Tornò a impennare l’arma, ripetendo la carica dell’affondo, e la gettò contro l’altro fianco, dove aveva sentito spostarsi il corpo di Cina dietro la sua schiena.

Crack!

Qualcosa bloccò l’attacco.

Giappone torse la testa all’indietro con uno scatto fulmineo – le spalle ancora spinte in avanti e le braccia ancora rigide e immobili nella stessa posizione.

La punta della katana era infilata dentro il profilo del bastone inclinato in diagonale davanti al busto di Cina. 

Le braccia di Cina tremarono per lo sforzo, le dita graffiarono il legno e i polsi si flessero, spingendo in avanti la pressione e facendo arretrare la katana.

Giappone scollò il pugno che aderiva alla tsuka. Girò la mano, tornò ad afferrare la katana rivolgendo le nocche al cielo, e diede un forte strattone con il gomito.

La punta della katana schizzò fuori dal bastone facendo volare tre schegge di legno. Giappone richiamò l’arma assieme alla gamba spinta all’indietro. Il piede riatterrò al suolo, spremette il peso in mezzo all’erba e gli fece compiere una giravolta. Di nuovo con lo sguardo di fronte a Cina, Giappone stese il braccio che impugnava la katana e gli gettò la punta della lama contro la spalla.

Pensò alla lama che affondava nell’osso della clavicola, spezzandolo come un legno secco, e alla corona di sangue che sarebbe schizzata a tingere i ciuffi d’erba. Una pioggia di goccioline rosse e scintillanti.

Cina richiamò il braccio che reggeva il bastone, piegò il gomito con un movimento fluido, portò la mano davanti al petto, e la katana affondò il colpo nel legno messo in orizzontale come una sbarra.

Gli occhi increduli di Giappone fissarono il punto di incrocio fra le due armi. La frustrazione bruciò acida in fondo allo stomaco.

Cina socchiuse le palpebre. Lo sguardo severo squadrò Giappone da dietro il profilo del braccio sollevato. Il suo era immobile come una roccia, le mani di Giappone invece tremavano di fatica, singhiozzi di brividi lo scuotevano come fosse aggredito dal freddo. La katana ancora incastonata nel bastone emise una forte vibrazione metallica.

“Osserva il tuo modo di combattere,” gli disse Cina.

Giappone tirò un risucchio di fiato in mezzo ai denti serrati, increspò il volto immerso nel buio dell’ombra, e i suoi occhi si incendiarono di collera. Le dita strette alla katana ebbero un fremito, sottili perline di sudore fiorirono dalla pelle e gocciolarono in mezzo alle nocche. Il flusso di rabbia e fatica gli arrossò le guance, infossò le pieghe della fronte, e ribollì nel petto, all’altezza del cuore.

Cina sollevò le sopracciglia, ma gli occhi rimasero duri come se si fosse accorto dello scorrere di quell’aura scarlatta attorno al corpo di Giappone.    

“Percepiscilo e impara a riconoscere ciò che ti scorre dentro.”

Inclinò il suo bastone già scheggiato – cri-crak! – e spinse la lama della katana a volgere la punta verso il basso. Scattò all’indietro. La katana si staccò dal legno in uno schiocco secco e le braccia di Giappone, molli e indebolite dalla pioggia di brividi, cedettero. Le spalle precipitarono in avanti assieme all’arma che aprì un lacero nell’aria.

Giappone zoppicò di un passo in avanti, incrociò i piedi, e la schiena cadde ingobbita, a capo basso. Violenti respiri rabbiosi e affaticati gli fecero tremare la curva della spina dorsale, le ginocchia e le spalle inchinate. La fronte nascosta dai capelli già umidi di sudore, ciocche nere e lucide come piume di corvo incollate alla pelle. Le braccia ammosciate e la punta della katana immersa fra i ciuffi d’erba, a toccare la terra.

Cina innalzò la punta del suo bastone, in posizione di guardia, tenendo le gambe leggermente divaricate, e sollevò il mento girando la guancia. Gli occhi premuti su Giappone, pesanti come due fari che penetrano nel buio.

“Hai talmente tanta paura di te stesso, di quello che sei diventato, che non riesci nemmeno a riconoscerti e a guidare i tuoi stessi movimenti.”

Giappone fremette. Un brivido, un singhiozzo di fiato che vibrò in mezzo ai denti, una corda del cuore che saltava in due, e di nuovo rigido. Strinse le mani, tirò su le spalle ma si bloccò subito, sollevando solo un leggero clangore metallico della lama contro la terra. Il capo basso come se lo avessero preso a bastonate sulla nuca. Il fiato pesante che scivolava fra i denti socchiusi e fra le labbra bianche e secche

Anche Cina prese una boccata di fiato più profondo, che scese fino allo stomaco. Un’ombra di austerità gli attraversò lo sguardo incollato a quel corpo piegato davanti a lui. “E un animo tormentato in questa maniera avrebbe diritto a erigersi sulla vetta del mondo?”

Giappone strinse la mandibola e gettò il capo di lato. Gli occhi nascosti sotto i capelli e la radice del naso increspata in una profonda espressione di sprezzo e raccapriccio.

Cina ritirò la punta del bastone, richiamandone l’ombra, e lo stese lungo il fianco, a sfiorarsi la gamba e il piede. Avanzò di tre passi, facendo scricchiolare l’erba. La foresta taceva, il vento si era appiattito e le foglie erano immobili, mescolate ai ritagli di cielo come le tessere di un mosaico luccicante. Cina camminò in mezzo ai pallidi raggi di luce grigia che discendevano l’aria. Un’altra falcata e si fermò davanti a Giappone, vicino tanto da sentirne il respiro affaticato, da vedere i rivoletti di sudore bagnargli le guance. Lui non si era mosso. La lama della katana davanti ai suoi piedi e in mezzo a quelli di Cina.

Cina fece strisciare il bastone in mezzo alle zolle d’erba. Lo sollevò, sbriciolando sottili granuli di terra all’altezza della punta, e lo posò sotto il mento di Giappone. Fece una leggera pressione, inclinò il polso, e lo spinse a tirare su il viso. Giappone ruotò gli occhi di pece verso l’alto, li immerse dentro la polverosa luce della foresta, e una breve scossa di paura gli fece allargare le palpebre e restringere le pupille. Collera e arroganza erano sbiadite. Una linea trasparente di sudore freddo serpeggiò lungo la tempia, giù per la guancia, fino alla punta del mento sostenuta dal bastone. Trattenne il respiro, il corpo congelato. Quella goccia traballò come i suoi occhi.

Cina lo guardò severamente, con occhi duri. “Come puoi pretendere di guardare il tuo nemico negli occhi,” la punta del bastone salì, carezzandogli la guancia, e gli fece inclinare il capo di lato, “se non hai nemmeno il coraggio di guardare te stesso allo specchio?”

Specchio...

Di nuovo lo sguardo di Giappone arse come una fiamma che avvampa nel cielo della notte.

La punta della katana strisciò a terra, tagliò di netto i fili d’erba, e si innalzò dal basso verso l’alto, di nuovo tracciando in aria un fine arco d’argento. Mirò al cuore.

Cina richiamò con un movimento fulmineo il braccio che non reggeva il bastone, lo portò in verticale davanti al petto, le nocche a mezza falange del pugno a sfioro della guancia. Con uno scatto, gettò il bastone in orizzontale contro il suo polso sollevato, a formare una croce con il braccio. Si riparò il petto.

Crash!

Il bastone poggiato al polso sbarrò l’attacco.

Cina strinse i denti, ingoiò il fiato che aveva creato un vuoto nel petto, per il forte colpo.

Il colpo della katana sprofondò nel legno, lo fece vibrare, e il polso incollato al bastone ammortizzò la pressione, trasmettendo le vibrazioni della lama al muscolo di tutto il braccio, fino alla spalla. Tenne la lama lontano dal busto e dal viso.

Giappone contrasse il volto nella stessa espressione di sforzo che stropicciava quello di Cina. Gli angoli della bocca stretta in quel ghigno di fatica vibrarono. Lui schiacciò i pugni attorno al manico della katana, spinse le energie lungo le gambe, fino ai piedi. Sollevò i talloni, premette le punte scavando due solchi nel terreno, e fece pressione sulle braccia, trattenendo un gemito in gola. La katana spinse sul bastone, il bastone schiacciò contro il polso di Cina, l’osso del polso tremante indebolì le energie del muscolo, e il braccio si avvicinò a uno sfioro dal petto. L’ombra dritta della katana era un filo nero che tagliava in due il cuore di Cina.

Cina gettò il capo in avanti, i capelli fluirono davanti alla spalla tremante per lo sforzo, e anche lui spinse l’aura di energia lungo le gambe. “Ghn!” Il terreno cedette, le zolle di erba si accartocciarono sotto di lui, la terra scavò due fosse sotto i piedi e il suolo si frantumò scrocchiando come fosse fatto di argilla secca. Cina ruotò il polso, mise la parte piatta dell’osso del polso contro il bastone, e scagliò un forte colpo in avanti, spingendo sulle ginocchia.

Giappone sbalzò all’indietro.

Scollò i piedi da terra, strisciò con le suole sui solchi che aveva creato prima, e staccò la katana dal bastone che fece il rumore della radice di un dente estrapolato dalla gengiva. Riatterrò a gambe divaricate, si piegò sulle ginocchia, scaricò la pressione del salto sui polpacci, e la katana si inclinò assieme a lui. Espirò, sgonfiò il petto, e la nube di fiato si condensò in mezzo alle labbra. Giappone piegò i gomiti davanti al busto, le spalle basse, in posizione di guardia, e tenne stesa la katana davanti al petto, la punta slanciata sopra la testa, a dividergli in due il profilo del volto.

Occhi neri come carboni e splendenti come tizzoni accesi fenderono l’aria in direzione di Cina, le labbra socchiuse aspirarono lente e profonde boccate d’aria che scivolarono lungo la gola, riempirono i polmoni, la pancia, gonfiarono il petto, e tornarono a stridere in mezzo ai denti.

Cina gettò le spalle all’indietro, tolse una gamba dal solco che si era scavato sotto il piede, arretrò di un passo pesante che fece vibrare il suolo, e sollevò entrambe le braccia. Le mani strette alla base del bastone, i gomiti tesi, l’arma dritta e rigida davanti al suo profilo, in linea con l’asse della schiena, e il viso libero dai fili di capelli che erano ricaduti dietro la spalla.

Si guardarono. Attorno a loro, la foresta era un paesaggio di pietra.

Un alito di vento soffiò in mezzo ai fusti degli alberi, generò un ovale di aria fredda, polvere e foglie attorno a Cina e Giappone, chiudendoli in quel piccolo campo di battaglia. La brezza trascinò una nuvola davanti al sole. I raggi si spensero, ritirandosi dagli spazi fra i rami, e un denso grigiore calò in mezzo al boschetto. Un drappo di buio e freddo steso sopra e dentro di loro, a congelargli le ossa.  

Giappone restrinse gli occhi che parvero ancora più densi e scuri sotto il cielo annuvolato. Serrò i pugni contro il manico della katana, le unghie stridettero e la pelle sudata emise il suono della plastica che viene stirata. Sollevò di più i gomiti, portò l’ombra della katana davanti al volto, e la lama sotto gli occhi. Il bagliore delle iridi infiammate si specchiò nel lucido d’argento. Fece strisciare un piede per terra, aprendo un arco. I sassolini e le foglie schiacciati dalla sua suola infransero il silenzio piombato in mezzo agli alberi. La gamba avanzò di lato, lo fece spostare come seguendo un ovale invisibile, e i piedi rimasero divaricati, le spalle basse ma dritte, e le braccia dure come rocce davanti al petto, a sostenere il peso della katana sguainata.

Lui e Cina non si scollarono gli sguardi di dosso. Occhi acuti e brillanti che si rincorrevano come quelli di una belva acquattata nei cespugli, con le orecchie basse, i denti aguzzi già vibranti di fame, e il cuore che batteva forte arroventando il sangue. Un fitto campo di tensione elettrica gli aleggiava intorno.

Anche Cina strisciò lungo il cerchio invisibile. Gli occhi vigili, i nervi tesi, i muscoli rigidi, le dita bianche attorno al bastone, e il fiato congelato nel petto.          

Giappone allungò un ultimo passo e si fermò a gambe divaricate e ginocchia flesse. La tensione accumulata nei muscoli e nelle ossa bruciava, la sentiva sfrigolare come tante piccole scossette che si agitano sotto la pelle, accapponandola, e che creano un alone di energia luminosa attorno al corpo.

Inspirò dal naso e trattenne.

Cina fermò il piede, lo fece stare in bilico sulla punta, come quello di una ballerina, e tenne lo sguardo premuto contro Giappone, vigile dietro l’ombra del bastone che scorreva davanti al suo viso bianco di tensione.

Giappone inclinò la punta della katana verso il basso, sciolse il pugno aderente alla tsuka, fece scivolare le dita lungo il manico, e flesse la mano sotto la lama. Le nocche distese rivolte verso l’alto, il palmo aperto contro il terreno, e il piatto della lama appoggiato sul polso che gli faceva da sostegno. Schiuse anche il pugno più alto, girò la mano e tornò a stringere le dita contro il manico della katana, in senso opposto. Lo impugnò come stesse brandendo un coltello rompighiaccio.

Inspirò di nuovo dal naso.

Tu-tum!

Il palpito del suo respiro forte come il battito del cuore.

La mano che impugnava la katana spinse in avanti il manico, fece strisciare il piatto della lama lungo il polso, la punta avanzò. Giappone ritirò il gomito e la lama tornò indietro scivolando sul polso, come un pungiglione che si retrae nel ventre dell’insetto.

Era un avvertimento.

Cina lo percepì come una sottile puntura alla base del collo che pizzica la pelle sudata sotto i capelli.

Fece strisciare un piede, sollevò il tallone, appiattì la caviglia e rimase poggiato solo con la punta. Inspirò, l’energia scese attraverso il corpo, ramificò lungo le vene, pompata dai lenti e profondi battiti cardiaci che erano come scariche elettriche.

Espirò.

Flesse il piede sollevato, scaricò il peso in avanti. Scattò. Il vento freddo si aprì attorno al passaggio del suo corpo come una spira, gli soffiò i capelli dietro le orecchie e bruciò contro le palpebre socchiuse.

Vedendolo arrivare incontro, Giappone sussultò, ma rimase immobile. Una scintilla d’argento splendette sulla punta della katana premuta sul suo polso.

Cina flesse il bastone, tenendolo con una mano sola, piombò davanti a Giappone e incrociò i piedi per far scivolare la corsa attorno al suo corpo. Gli occhi si strinsero sul suo fianco scoperto, sotto l’ombra del gomito piegato, e le mani bruciarono per l’energia passata al bastone pronto a calare e a premere contro il costato.

Lo sguardo di Giappone scattò all’indietro, allarmato.

Il bastone di Cina disegnò un arco da sinistra a destra, lo spostamento d’aria soffiò addosso a Giappone e gli sventolò il lembo della giacca. Arrivò a sfiorargli il fianco.

Giappone sentì una scossa di brividi scaricarsi dove il bastone aveva posato la sua ombra e si spinse indietro con un balzo per allontanarsi da quell’energia. Ruotò su se stesso. Il braccio avanzò, fece scorrere la katana lungo il polso, e la punta mirò al petto di Cina.

Cina piegò le ginocchia, si abbassò di colpo, e la lama gli sfrecciò sopra la spalla. Sentì il freddo del metallo toccargli il lobo dell’orecchio e scuotergli una ciocca di capelli.

Giappone ritirò di scatto la lama, la inclinò a destra, contro l’altro lato del collo di Cina, dritto sulla carotide, e riaffondò il colpo.

Cina richiamò la mano, sollevò il bastone dal basso verso l’alto, come se lo avesse estrapolato dal terreno, e parò il colpo.

Il legno schioccò senza rompersi.

La forte vibrazione esplose fra le due armi, Giappone la sentì arrivare fino in fondo allo stomaco, scavandogli una sensazione di vuoto nella pancia.

Strinse i denti torcendo una smorfia sulle labbra, “Mhf!”, e lo sguardo cadde a terra.

Cina fece stridere il bastone contro la lama. Lo slancio improvviso cacciò via la katana, spinse contro le braccia di Giappone e lo fece arretrare di un passo barcollante. Cina si piegò in avanti, il bastone flesso sul suo fianco, ruotò il polso, caricò il colpo lungo il braccio rilassato, e glielo scaraventò sulla spalla.

Giappone si torse, strizzò gli occhi e i capelli gli sventolarono sul viso, nascondendo l’espressione contratta dal dolore. Tentennò e piegò la spalla colpita, ingoiando la scossa di dolore in fondo alla pancia, senza emettere fiato.

Cina raddrizzò la schiena ma rimase in pozione d’attacco. Gettò lo sguardo a terra, attirato dalla sottile nuvola di polvere che si era gonfiata in mezzo alle gambe di Giappone. Non ci pensò due volte. Stese la gamba, incastrò il piede in mezzo a quelli di Giappone, e spinse contro l’interno della caviglia, sollevandogli la gamba.

Questa volta, Giappone ansimò. “Ah!” Un’ombra di panico e sorpresa mascherò l’espressione di dolore per il colpo incassato sulla spalla.

Precipitò prima sull’anca, sbatté il fianco, schiacciò il braccio fra il busto e il suolo, la pressione contro la gabbia toracica gli strappò via il fiato dai polmoni, e rigettò un colpo di tosse strozzato in mezzo ai denti. Le mani si spalancarono di scatto, lasciando cadere la katana. Cleng! La lama colpì un sasso e restò immobile, schiacciata nell’erba come la stessa guancia di Giappone. Il senso di umiliazione ricominciò a bruciare. Giappone strinse la mano, e le unghie raschiarono profondi solchi in mezzo alla terra, sradicando gli steli d’erba che si frantumarono sotto le sue dita tremanti della frustrazione che gli gonfiava il cuore.

Era caduto davanti a lui.

Cina gettò il bastone di fianco a sé, a braccio teso e schiena dritta. Inspirò e raddrizzò le spalle. Aggrottò la fronte, i fini occhi puntati contro Giappone tagliarono l’aria inasprendogli lo sguardo.     

“È così che ti ho insegnato?”

Giappone serrò entrambi i pugni in mezzo all’erba e chinò la fronte. Buttò fuori il grumo di fuoco che gli vorticava nel petto. “È così che ho imparato!” Voltò il viso, una ciocca di capelli scivolò dalla guancia, snudò la luce dello sguardo rivolto a Cina che bruciava come l’aura rossa che sfrigolava attorno al suo corpo. Aggrottò le sopracciglia, gli occhi divennero due lame di rabbia. “Non temo di guardarti negli occhi,” fece strisciare un ginocchio a terra e premette il piede in mezzo all’erba, “e non mi tratterrò mai davanti a nessuno, nemmeno davanti a te.” Raccolse la katana, diede un brusco slancio sui gomiti, e la sua schiena si inarcò, riportandolo in piedi.

Cina irrigidì la posa. L’onda di luce che era passata attraverso la lama della katana gli fece rabbrividire la spina dorsale, spingendolo a tornare in guardia.

Giappone tirò su le spalle. La fronte ancora bassa, rivolta alla punta della katana posata al suolo, e la bocca contratta in quella smorfia di rabbia e sprezzo. “Anche...” Annaspò. Aveva le guance rosse e le braccia tremanti, scosse da brividi di furia e fatica. “Anche se America sostiene il contrario...” Inspirò un’altra boccata di fiato. Serrò le mani attorno alla katana in una presa violenta, che gli fece tremare le vene serpeggiate in mezzo alle ossa sbiancate, e scosse il capo. “Io non ti devo nulla.”

Quelle parole fecero esitare Cina. Lui spinse lentamente le spalle all’indietro, come avesse incassato l’accusa che gli aveva colpito il petto, e restò zitto. Sguardo fermo ma annebbiato da un’ombra che diede all’espressione una sfumatura ferita.

Giappone prese due lente boccate di fiato. La voce uscì rauca e affaticata, il petto gli faceva mele e il cuore bruciava a ogni battito. “A prescindere dal ruolo che una nazione ha avuto nella vita e nella crescita di un’altra,” strinse i denti, gli angoli della bocca si incresparono verso il basso, “se quella nazione necessita di essere trattata come una pianta appassita che soffoca i fiori circostanti...” Fece scivolare la katana per terra, raccogliendola in mezzo ai piedi. Sollevò le braccia – avevano smesso di tremare – flesse i gomiti e richiamò la lama davanti al viso. La katana si stese sotto la luce degli occhi. I capelli ondeggiarono, fecero ombra sulla fronte. La maschera di buio si concentrò attorno alle palpebre ristrette, accentuò il colore rosso che scivolò lungo l’ovale delle iridi, attorno alle pupille dilatate. Il lampo scarlatto si specchiò lungo la lama della katana impugnata davanti al volto. “Va strappata senza nessuna pietà.”

Cina sentì un bruciore infiammargli lo stomaco. “Siete voi le piante da estirpare,” esclamò. “Voi crescete a dismisura, senza controllo e senza rispetto delle piante che vi circondano.” Sollevò il bastone, rivolgendogli la punta contro il petto, e strinse le dita, graffiando il legno con le unghie. “Così non soffocherete solo il mondo, ma anche voi stessi.”

Giappone sentì il freddo dell’ombra avvolgerlo, le braccia del suo riflesso stringersi attorno al petto, le mani nere penetrare la carne e strizzare il cuore in una dolorosa morsa che spremette fuori una scarica d’odio.

Vide rosso.

“Noi sapremo creare un mondo che sarà in grado di accogliere le nostre radici e di rigettare quelle più deboli!”

Scagliò la katana sul fianco, lontano dal viso, e un abbaglio d’argento risalì la lama.

Giappone allungò un passo, fendette l’aria scavandosi un passaggio nel vento, e caricò tutta la spinta sull’impugnatura. Premette il piede, spinse sul ginocchio, e saltò in avanti. Impennò la katana sopra la testa. La sua sagoma piatta e nera si immerse in un pallido raggio di sole che riusciva a scivolare in mezzo alle foglie, cadendo davanti a Cina.

Lo sguardo di Cina volò sulla lama pronta a calare e a schiantarsi sul suo corpo.

Cina strinse i denti, una scossa di paura gli attraversò il cuore, come una saetta elettrica che schiocca in mezzo al petto, e lui serrò d’istinto la presa attorno al bastone.

Immaginò la katana scendere, abbattersi contro la spranga di legno, far esplodere un lampo all’altezza del punto d’incontro, e spezzare in due l’arma in una pioggia di schegge.

Cina inspirò. Un’ondata di coraggio gli rallentò i battiti del cuore, raffreddò il circolo del sangue.

Spalancò le dita. Il bastone scivolò dalla presa e cadde a terra, in mezzo ai suoi piedi divaricati. Emise un tonfo sordo in mezzo all’erba e giacque immobile.

Cina piegò i gomiti verso il basso, a sfiorarsi i fianchi, e aprì i palmi rivolgendoli uno contro l’altro.   

La lama calò fischiando, la punta sfiorò la fronte di Cina, discese l’aria soffiandogli in faccia, e l’ombra della katana gli divise il petto in due. Entrò nello spazio fra le due mani aperte.

Cina schiacciò i palmi, li unì contro il piatto della lama, bloccò l’affondo.

Ci fu uno schiocco secco e acuto, simile al suono di una sberla.

Una botta di vento esplose in mezzo alle mani che avevano arrestato l’affondo, esplose in un cratere d’aria e scivolò in mezzo ai piedi di entrambi, scuotendo il manto di foglie, rami ed erba.

I loro corpi immobili, la foresta in silenzio, il buio fitto in mezzo agli alberi.

Il respiro affannoso di Giappone fece fremere le spalle chine. Le braccia vibrarono, i tremori corsero lungo la katana e si trasmisero alle mani di Cina schiacciate contro la lama. Erano giunte davanti al cuore come se stesse pregando.

Cina rilasciò la tensione con un breve sospiro contenuto, abbassò leggermente le spalle e irrigidì di più le mani appiattite contro la lama, arrestando i fremiti della katana.

Il corpo di Giappone continuò a scuotersi, a tremare. Il soffio di vento ancora aleggiava attorno a lui, spingendo il fumo nero della nebbia che risaliva le gambe e strisciava in mezzo a loro. Giappone sussultò, di fatica e di dolore. Spinse le energie sui muscoli delle braccia, li sentì gonfiarsi e pulsare al ritmo dei battiti del cuore che martellavano contro le costole e in mezzo alla gola. Il viso basso e nero. La contrazione di fatica a stropicciargli la pelle, rossa e umida di sudore, attorno agli angoli della bocca e alla radice del naso.

Cina distese lo sguardo e sbatté lentamente le palpebre. Gli occhi più scuri e pacifici, quasi tristi.

“Forza,” mormorò.

Abbassò le braccia, guidò la punta della lama che discese il suo petto, senza toccarlo, e accostò la katana alla sua pancia. Spinse leggermente sulla stoffa che si ritirò attorno alla pressione della punta, e sentì il metallo calcare sulla carne, senza affondare. “Fai un passo avanti,” disse. Sollevò gli occhi in cerca dello sguardo di Giappone. “Dimostra il coraggio di tenere fede alle tue parole.”

Giappone gemette fra i denti, tirò su lo sguardo. Una scossa di paura gli attraversò gli occhi. Un lampo bianco che restrinse le pupille e le fece tremare fra le palpebre sgranate e affogate nel vuoto.

La paura divenne un battito di dolore che pulsava assieme al cuore, fluì attraverso le vene, si raccolse nell’impugnatura della katana che iniziò a bruciare sotto la pelle come un tizzone rovente. La lama si fece più pesante da sostenere.

Giappone deglutì. Riprese a tremare, abbassò gli occhi sulla punta della katana che spingeva contro la pancia di Cina, creando una sottile ombra nei vestiti. Un’ondata di panico gli congelò il sangue, intensificò i battiti cardiaci. Nella sua mente, comparve l’immagine della katana che affondava il colpo, entrando nella pancia di Cina e uscendo dalla schiena. Una macchia nera si espandeva attraverso la stoffa.

Giappone inspirò dal naso, trattenne l’aria, irrigidì i muscoli, e gettò le spalle in avanti.

Le braccia non si mossero, ferme come quelle di una statua. La katana immobile.

Giappone soffiò aria in mezzo ai denti, rilassò le spalle, tornò ad abbassare la fronte per non guardare, e ricaricò la spinta sulle braccia.

Svuotò la testa dal turbine che gridava fra le pareti del cranio, e tornò ad affondare.

Spinse di spalle, ma le braccia rimasero dov’erano. Tennero ferma la katana.

Un sottile guaito di frustrazione gli scivolò dallo stomaco in mezzo alle labbra. Giappone schiacciò contro la spalla il viso macchiato di vergogna, i capelli come un’ala protettiva a nascondere la fronte e gli occhi.

Non ce la fece.

Cina abbassò le palpebre, riprese a respirare e la pancia si mosse contro la punta della lama. “Ascolta la voce che ti sta dicendo di fermarti, Giappone.” Scivolò di un piccolo passo all’indietro, urtò il bastone lasciato cadere a terra con una caviglia, e si fermò. Una triste sbavatura di supplica gli strinse la voce. “Non perderti, non è ancora troppo tardi.”

Giappone indurì la curva del collo girato, serrò la mandibola, il gonfiore blu della vena che strisciava sotto la pelle della gola batté e si ritirò. Si morse il labbro e si trattenne dallo scuotere la testa.

Cina si gonfiò i polmoni, e la luce che si accese negli occhi contratti dalla piega delle sopracciglia spazzò via la malinconica ombra di esitazione, gli contrasse il viso in un’espressione di collera.

“Mettete fine a questa follia prima che lo sia davvero!”

Staccò le mani dal piatto della lama, spalancò le braccia sventolando le maniche all’aria, e saltò all’indietro. Si trascinò dietro il peso delle spalle di Giappone che rotolò di un passo in avanti.

La katana affettò l’aria cadendo in mezzo ai suoi piedi.

L’ombra di Cina schizzò via, scivolò di fianco a Giappone compiendo un semicerchio attorno a lui. Le foglie frusciarono, volarono dietro la sua scia formata dalla terra scivolata da sotto i piedi.

Giappone tirò su la fronte, girò il viso, i capelli caddero sulla guancia, gli sfiorarono l’occhio sgranato che puntava dietro la sua spalla. Piegò i gomiti, caricò il colpo sentendo le mani diventare roventi contro la katana, e scagliò la lama come una frusta, tagliando una parabola d’argento attorno al suo busto. Cina abbassò la testa. Il filo della lama gli passò sopra il capo e volò via, richiamato dalle braccia di Giappone.

Cina abbassò gli occhi, puntò il bastone rimasto a terra dietro le gambe di Giappone.

Si lasciò cadere con le ginocchia a sfioro della terra – l’aria sopra la sua testa ancora scossa dal fendente – e premette una mano in mezzo all’erba. Spinse sui piedi e scattò volando contro il fianco di Giappone. Spalancò la mano, piegò le dita a coppa, raccolse il bastone, e chiuse il pugno.

Frush!

Un soffio di vento gli alitò sul collo, come una gettata d’aria.

Cina girò il capo. La lama della katana si impennò al cielo, illuminandosi di grigio, e cominciò a cadere contro di lui. Una corda d’ombra a dividere la vista. Cina gettò il bastone sopra la testa. Schianto. Crash! Il bastone vibrò, una scossa di dolore schioccò all’altezza del gomito, ma parò il colpo. Lo scagliò via, Giappone sollevò la katana e arretrò di un passo strisciato. Le spalle riaccaddero in avanti, le braccia molli, e le mani si trascinarono assieme alla lama di nuovo piegata a terra.

Cina spinse sulle ginocchia e balzò in piedi. Il bastone alto in posizione di guardia.

Il vento soffiò addosso a Giappone, gli sventolò i capelli davanti agli occhi, tappandoli, scivolò in mezzo ai vestiti facendoli ondeggiare attorno al corpo che aveva ripreso a tremare di umiliazione. L’aura rossa gli infuocò il profilo, crebbe come una fiammata, circondandolo.

Giappone sollevò la fronte, i capelli scivolarono via, e il fuoco arse anche fra le sue palpebre annerite dalle pieghe di rabbia. Allungò il primo passo, fece strisciare la lama della katana sull’erba ma la tenne bassa, i gomiti stretti contro i fianchi.

Le spirali di aria si divaricarono, accogliendo il passaggio della sua corsa.

Cina aspettò, freddo e composto come ghiaccio. Il bastone di guardia davanti a sé, le gambe divaricate, le spalle dritte, e la schiena ferma.

Gli occhi di Giappone lo puntarono come fari. I muscoli si tesero, le braccia si innalzarono, i polsi si flessero, e le mani accompagnarono la spinta della katana che tagliò una parabola in diagonale dal basso verso l’alto. La punta d’argento rivolta al petto di Cina.

Il filo della lama strisciò verso il cielo, l’aria divisa dal suo passaggio soffiò addosso al corpo di Cina.

Cina abbassò la punta del bastone, toccò il piatto della lama sulla parte sinistra, fece pressione. Gli fece inclinare leggermente la katana, spostandola dalla traiettoria che attraversava il suo petto, e la spinse verso l’alto, sopra la sua spalla, a trafiggere il cielo.

Il bastone scivolò giù dalla lama, strisciandoci sopra. Cina indurì la pressione delle dita, concentrò le forze sul movimento del braccio che scendeva, staccò il bastone dalla katana e lo sbatté contro il collo di Giappone, sul rigonfiamento della giugulare.

Giappone raggelò, spalancò la bocca, “Ah!”, e sentì il colpo bloccargli la gola come se una sfera di gomma gli si fosse incastrata nella gola.

Il viso sbiancò, gli occhi brillarono di dolore, il colore rosso sbiadì, tornò il nero pece a riempire le orbite, e una maschera di grigiore discese la fronte.

Cina irrigidì e ansimò. Le braccia ancora stese in avanti, il bastone premuto al collo di Giappone, i vestiti agitati dallo slancio del colpo. Qualcosa gli fermò il cuore, fece male in mezzo al petto, gli rammollì la forza che aveva indurito i muscoli, e raffreddò il bollire del sangue.

La pressione del colpo cedette.

Giappone se ne accorse. Ruotò gli occhi, e una scintilla color sangue ravvivò lo sguardo.

Riprese fiato, staccò una mano dalla katana che era scivolata verso il basso, tornò a impugnarla invertendo la direzione del polso e gettando il gomito di lato, e tagliò un colpo in diagonale.

Lo sguardo di Cina scese sulla lama. La vide arrivare contro il viso come una fine corda d’acciaio flessa durante la parabola di una frustata.

Sciolse la stretta di una mano, fece scivolare le dita via dal bastone, schiacciò il pugno, stringendo una manciata d’aria, e gettò il braccio davanti al viso. Girò la guancia, lontano dalla visione del colpo, e strizzò gli occhi.

Il movimento del braccio urtò la katana. La lama vibrò e si impennò senza arrestare la salita.

Il filo della katana, freddo e bruciante come ghiaccio, gli toccò la guancia all’altezza dello zigomo. Divise la carne con la facilità di un taglierino che scivola su un sottile foglio di carta.

Cina gettò di scatto il viso contro la spalla. La lama attraversò la guancia lasciandosi dietro una scia rossa, corse lungo il viso, verso l’orecchio. La punta lama tagliò la curva del padiglione, affondò in mezzo ai capelli, e riemerse.

La cascata di capelli si aprì come le ali di un’aquila che si spalancano al cielo. Il vento li agitò dietro le spalle, si ritirò, le ciocche scure ricaddero sciolte sulla schiena e sul viso ferito e sudato. Nascosero gli occhi, toccarono la punta del naso arricciato in una smorfia di dolore, e sfiorarono la bocca contorta sotto la stretta dei denti digrignati.

Si spinsero entrambi all’indietro, volarono in una spinta ad arco, e ricaddero a terra.

Giappone atterrò, il suolo tremò sotto la pressione dei suoi piedi, le ginocchia piegate ammortizzarono la caduta. Una mano premette a terra, a sostenere il peso sbilanciato delle spalle, e l’altra restò impugnata al manico della katana. La lama flessa davanti a lui, a proteggerlo, e appannata dagli annaspi di fatica e tensione che si gonfiavano fuori dalle labbra socchiuse. Un sottilissimo filo di sangue gocciolò dalla fine linea d’argento.

Cina cadde sul ginocchio, contenne un ansimo, spinse con la mano libera sulla gamba piegata davanti al petto, e piantò il bastone a terra, davanti a lui. I capelli piovvero dietro la schiena, scivolarono davanti alle spalle, davanti al viso. Una ciocca caduta in viso disegnò un rivolo scuro che sommerse la luce di un occhio, fluì seguendo la curva del naso, corse lungo la guancia. Cina ruotò lo sguardo verso Giappone senza muovere la testa. La forma dell’occhio socchiusa, a mandorla, e i tratti del viso distesi, come se non si fossero scontrati. Il taglio sulla guancia lacrimò una goccia di sangue che rigò la pelle lattea, si perse in mezzo ai capelli, incollando le ciocche umide al viso. Un’intensa luce, scura e profonda ma non ostile, si addensò all’interno della pupilla che continuava a osservare Giappone da dietro la chioma slegata.    

Giappone guadagnò tre profondi respiri di seguito. I battiti del cuore ancora rapidi e irregolari, le mani che bruciavano, i muscoli tesi per lo sforzo, il petto che fremeva sotto la pressione degli ansimi sibilanti in mezzo alla bocca aperta. Righe di sudore gocciolarono dalle punte delle ciocche. Giappone guardò Cina nel profondo di quegli occhi celati dietro i capelli, incontrò la luce del suo sguardo, e aggrottò la fronte. Non ebbe paura. “Perché hai esitato?” gli domandò, ripensando alla paura che aveva scorso nel suo viso quando si era bloccato.

Senza aspettare risposta, Giappone raddrizzò le ginocchia, i polpacci tremarono. Lui tornò a piagarsi per non cadere, strisciò di un passo in avanti, portandosi dietro il peso della katana. Riuscì a indurire i muscoli e mettersi dritto. “Come puoi pretendere che io mi fidi delle tue parole,” la stessa ombra di severità che aveva oscurato gli occhi di Cina mentre combattevano si riflesse nel suo sguardo, “se nemmeno tu sei fedele ai tuoi principi?”

Cina socchiuse gli occhi, li rivolse a terra. Inarcò le sopracciglia in una profonda espressione malinconica, tenuta nascosta dai capelli. “Non ho mai detto di volerti fare del male,” scosse il capo, “tantomeno di ucciderti.”

Giappone slargò gli occhi, mantenne la ruga di tensione a contrargli la fronte e gli angoli delle palpebre.

Cina spinse la mano sul ginocchio, si tirò in piedi facendo pressione contro l’estremità del bastone schiacciata in mezzo all’erba, e raddrizzò le spalle. Le ossa della schiena scricchiolarono, strappandogli una smorfia di dolore che rimase nascosta sotto i capelli. “Io comprendo il tuo tormento, Giappone.” Infilò una mano in mezzo ai capelli, li scostò dalla guancia ferita, scoprendo il taglio che aveva sbavato la pelle di rosso, e li lasciò cadere dietro la spalla, come fossero ancora allacciati. “Forse ho smesso di comprendere le tue azioni e le tue decisioni,” gli entrò con lo sguardo nel cuore, “ma non ho smesso di conoscerti.”

Giappone provò una forte fitta al petto. Una sensazione di vuoto che lo fece restare senza fiato.

Gli occhi di Cina tornarono a illuminarsi. Il vento gli soffiò attraverso, scompigliò i capelli sopra la spalla e davanti al viso, a sfiorargli la bocca. “Se sto cercando di farti ragionare non è perché voglio reprimerti, ma perché voglio salvarti.”

Giappone sentì la rabbia traboccare come la cima di un vulcano e inghiottire il sentimento di esitazione.

Gli scagliò la katana addosso, gli occhi in fiamme.

“Non osare avere pietà di me!”

Spremette tutto il peso sotto le suole, scavò due dunette di terra dietro i talloni sollevati, e si buttò addosso a Cina. La sua ombra si ingigantì, investendolo come la fredda risacca di un’onda.

Il corpo di Cina restò sciolto e rilassato, gli occhi serbavano il riflesso placido e scuro. Calmo come la superficie di un lago. Ruotò lo sguardo sull’impugnatura della katana, dove le dita di Giappone spremevano il manico.

Cina abbassò le spalle, spinse sui piedi e scattò di striscio, andandogli incontro anche lui. Sollevò il bastone con un braccio solo, l’estremità superiore compì un movimento a ventaglio, disegnando un arco, e si schiantò contro il polso di Giappone.

Giappone scattò come se lo avesse colpito con una scossa elettrica.

Ah!

Spalancò le mani e la katana volò via roteando.

Cina flesse le gambe fin quasi a inginocchiarsi, girò il bastone agguantandolo con entrambi i palmi, rivolse la punta contro Giappone, e mirò il petto. Scaraventò il colpo sullo sterno e Giappone si accartocciò sulla pancia. La gabbia di ossa vibrò, aprì un vuoto nel petto e gli congelò il respiro. L’espressione dolorante ma piatta come una maschera di carta, gli occhi spalancati e smarriti, la bocca socchiusa e le labbra bianche. Cina aprì una mano, piegò il gomito, caricò il colpo, e gli colpì il petto con il palmo, dandogli un’ultima spinta.

Giappone crollò supino, sbatté la nuca, diede un violento colpo di reni, e la schiena finì schiacciata a terra. Strizzò gli occhi, gemette, ci fu il buio e il dolore che ramificava nelle ossa, ingabbiandogli il corpo.

Quando riaprì le palpebre, una sagoma nera si ingrandì dietro i lampi bianchi, calò su di lui con le ginocchia aderenti alle anche, a tenergli il busto fermo. Le braccia d’ombra di Cina si impennarono, il profilo del bastone si elevò al cielo e ricadde in picchiata.

Giappone gettò la guancia contro il prato, voltò il capo, strizzò di nuovo le ciglia, a fiato sospeso, vedendo già il bastone frantumargli la faccia.

Il colpo esplose sopra la spalla, l’aria aperta dal cratere gli sbatté contro l’orecchia, fece sventolare la ciocca di capelli, e si ritirò, lasciandogli la pelle fredda e intorpidita.

Non provò dolore. Non lo aveva colpito.

Le fronde degli alberi si agitarono sopra di loro, il fruscio lento e gentile accompagnò lo scomporsi dei raggi di luce in mezzo alle foglie e il suono del battito del cuore di Giappone, gonfio e doloroso come una serie di pugni martellati in mezzo alle costole da dentro il petto.

Giappone contenne il respiro, gli occhi strizzati vibrarono, le labbra increspate in quella smorfia di panico e anticipazione del dolore tremarono assieme al corpo. Sudò freddo, e la gola divenne secca come se avesse buttato giù un pugno di segatura.

Schiuse le palpebre, lentamente, e i globi di luce sfocata in mezzo ai rami divennero limpidi e definiti. Il respiro soffiò timido dalle narici, a piccoli singhiozzi che sibilavano in gola.

Lo sguardo di Cina era ancora nascosto, tappato dalla cascata di capelli che era scivolata davanti al capo chino riverso su quello di Giappone. Le sue ginocchia premettero contro i fianchi, gli strapparono un gemito che gli irrigidì il corpo, teso come una corda di violino. Le braccia piegate contro il bastone piantato sopra la spalla di Giappone. I capelli sciolti fluirono davanti alle spalle e gli sfiorarono la guancia girata.

Giappone ne sentì il profumo. Dolce e familiare, di erbe, incensi, riso e fiori d’arancio appena sbocciati. Ruotò lentamente gli occhi incontro allo sguardo di Cina che lo osservava nell’ombra, e sentì una stretta al cuore che ingoiò in un sussulto strozzato.

Cina sbatté le ciglia. Un movimento lento e morbido come il battito d’ali di farfalla. Gli occhi scuri e tranquilli incorniciati dall’ombra dei capelli. “Se questa fosse stata un’arma,” le mani strinsero sul legno, e la pelle scricchiolò, “e se io avessi desiderato di ucciderti, ora l’Asse si ritroverebbe con un elemento in meno.”

Giappone socchiuse le labbra. Le parole bloccate in gola.

Il fischio di un oggetto in caduta aumentò, divenne più acuto e rapido, si sentì l’aria agitarsi, tagliata dal movimento rotatorio. Si interruppe di colpo.

Zac!

La katana precipitò dal cielo e si conficcò a terra, piantandosi fino a metà della lama.

Il suolo colpito scaricò una forte scossa sotto la schiena di Giappone. Lui ebbe un altro sussulto, il corpo emise un piccolo rimbalzo e tornò fermo come un pezzo di ghiaccio. L’orecchio ancora vibrava per l’eco del fischio, due rivoli di sudore scivolarono dai capelli e colarono a terra, gocciolando fra i ciuffi d’erba.

Gli occhi larghi, neri e profondi, tremarono spaventati e annaffiati dalla luce che scendeva dal cielo come il fascio di un riflettore.

Cina allentò la pressione delle dita contro il bastone, e abbassò la fronte. Il taglio scarlatto scomparve nel buio. “Lo sai, su un punto hai ragione.” Scosse il capo, piano, facendo ondeggiare i capelli sulle spalle chine. “Nemmeno io sono stato fedele ai miei principi.” Tornò a guardare Giappone. Di nuovo quell’espressione nostalgica che gli fece torcere lo stomaco. “Perché forse, se ti avessi fermato prima, tutto questo non sarebbe successo.”

Giappone restò a labbra socchiuse, ma il fiato uscì in un ansimo muto. Il cuore batteva ancora rapido e pesante, trasmettendo quel viscido suono gutturale fino alla gola.

Cina sollevò di poco i pugni stretti sul bastone, aggrappandosi a un punto più alto, in modo da avere la schiena più dritta, e sospirò. Un sospiro triste. “Io sono stato il primo a far prevalere i miei sentimenti da essere umano e non i miei doveri da nazione.” Un piccolo sorriso fiorì sulle labbra. Anche quello era triste. “Sono stato ben più ingenuo di te a pensare che a un certo punto ti saresti fermato da solo.”

Giappone sentì un moto di rabbia gorgogliare nello stomaco e risalire la bocca come un conato di bile. Serrò i denti e scagliò a Cina un’occhiata più bruciante e affilata della lama della katana, tinta del colore del sangue. “Quindi è questo che hai sempre tramato?” Il fiato ancora corto e soffocato dai battiti del cuore che gonfiavano la gola. “È bastato un mio piccolo passo davanti a te per farti pentire di avermi reso così?” Inspirò una boccata di aria aspra. Gli occhi ristretti tremarono, riempiendosi di una luce acquosa. “Per farmi passare da orgoglio a delusione davanti ai tuoi occhi?”

Cina mantenne quel minuscolo e pallido sorriso sulla bocca e scosse di nuovo la testa. “Non sei tu che ha deluso me.” Abbassò gli occhi, il sorriso scomparve, una lacrima di sangue discese la ferita e disegnò il profilo della guancia. “Sono io che ho deluso me stesso.”

Vedendolo così debole e vulnerabile, Giappone sentì qualcosa incrinarsi nel petto.

Le mani di Cina scivolarono dal legno, il bastone si inclinò, le dita si staccarono, e quello cadde nell’erba. Rotolò e si fermò, immobile.

Cina lo chiamò con voce rauca e bassa.

“Giappone.”

Le sue mani scesero, aprirono i palmi e li posarono sulle guance di Giappone. Un gesto morbido e delicato. Le dita si stesero, gli fluirono verso le tempie e gli districarono i capelli umidi di sudore e sporchi di granuli di terra.

Giappone gemette.

Il tocco era tiepido, dello stesso profumo dei suoi capelli che gli sfioravano il viso diviso fra la sua ombra e la luce del sole.  

Cina sollevò di più la mano destra, gli carezzò la guancia bianca come gesso, e mosse piano il pollice all’altezza dello zigomo. Gli occhi profondi e sinceri, la voce come un sussurro. “Tu possiedi una forza e un’integrità d’animo senza paragoni.” Giappone sentì il fiato tremargli in gola assieme al groppo di saliva che non riusciva a mandare giù. Lo scorrere della sua mano gli lasciò una scia di brividi che accapponò la pelle dietro la nuca e lungo le braccia. Lo sguardo di Cina rabbuiò, un filo di capelli scivolò da dietro l’orecchio e crollò davanti alla guancia, davanti alla ferita. “Ma questa forza è cresciuta dentro di te senza controllo, e finirà per distruggerti se non la dominerai.” La mano tornò ferma. I due palmi a stringergli le guance, il calore del tocco a paralizzargli il viso, a congelargli gli occhi sbarrati, e la voce che soffiava come una brezza a bloccargli il fiato nel petto, a trafiggergli il cuore. “Le vostre vittorie sono come un fuoco di paglia,” disse Cina. “Un fuoco che si impossesserà anche delle vostre anime, e che vi farà brillare più di qualsiasi stella che si sia mai affacciata sul mondo.” Sbatté lentamente gli occhi. Li riaprì, e la voce divenne scura come il suo sguardo. “Ma alla fine il fuoco si estinguerà, e di voi non rimarrà altro che un pugno di cenere.”

Giappone inarcò le sopracciglia verso l’alto, la fronte vibrò assieme alla luce degli occhi.

Le parole arrivarono come una coltellata affondata in mezzo alle costole.

Cina sospirò e chiuse gli occhi. “Perdonami per non averti saputo guidare nella tua crescita.”

Dal taglio sulla guancia fiorì una perla di sangue. La goccia traballò sulla ferita, si ingrossò, e si sciolse, discendendo la guancia. Crollò come una lacrima e cadde sul viso di Giappone. Si aprì in una macchia color rubino.

Giappone sentì la sensazione umida e calda espandersi sulla guancia. Strizzò gli occhi e li riaprì, irritato come fosse stato punto.

Cina spostò il viso di lato, e le sue dita strinsero leggermente. Le guance di Giappone immobili sotto il suo tocco. “Ho pensato solo a come insegnarti il valore, l’onore e la ricerca della propria forza interiore,” scosse il capo, avvilito, “e non ti ho mai insegnato come controllare tutto questo.”

La macchia di sangue che era piovuta sulla guancia di Giappone si dilatò e gli rigò la pelle, serpeggiando in mezzo alle dita di Cina.

Cina districò le mani dai suoi capelli, scollò i palmi lasciandogli due impronte di calore, e si rialzò. La sua sagoma piatta e nera dentro il fascio di sole. “Mi assumo le mie colpe.” Raccolse i capelli con un braccio, piegando il gomito sopra la testa, e li riportò dietro la spalla. “Perdonami per essere stato un cattivo insegnante.” Si girò, i suoi piedi frusciarono per terra, e se ne andò. La camminata lenta e cadenzata. Non aveva fretta.

Il corpo di Giappone rimase steso a terra, immobile, le braccia aperte, il viso al cielo, lo sguardo paralizzato in mezzo ai rami che si agitavano sopra di lui. La presenza di Cina gli era rimasta incollata addosso come un’ombra di pece vischiosa. Il busto fremette, sentendo ancora la pressione delle ginocchia contro le anche, e il cuore palpitò di dolore nel rivedere la sua immagine girarsi e andarsene, lasciandolo lì steso.

Giappone inspirò fra i denti stretti, in un risucchio che vibrò fino agli angoli della bocca.

Le fiamme si riaccesero.

Non glielo permetterò.

I battiti accelerarono, il respiro divenne più pesante, il corpo più caldo e i tremiti più profondi, più rabbiosi.

Ripensò agli occhi scuri che lo guardavano dall’alto, alla cornice di capelli sciolti che gli disegnava la forma delle guance, all’ombra che lo aveva sepolto e schiacciato a terra.

Un ribollio di collera e umiliazione gli bruciò in fondo alla pancia.

Non permetterò più a nessuno di guardarmi con superiorità.

Staccò un braccio da terra, lo gettò contro la guancia macchiata di sangue, e sfregò un singolo colpo secco contro la pelle.

Se è ancora così che mi vede, un lampo rosso attraversò gli occhi, gli dimostrerò che io e lui non abbiamo più niente a che fare. 

Il viso di Giappone divenne nero, gli occhi rossi. Un profondo dolore nel cuore che gli aprì un baratro in mezzo al petto. Il petto si gonfiava e sgonfiava, riempiendosi e rigettando i risucchi d’aria che fremevano in mezzo ai denti.

Dimostrerò al mondo intero che due nazioni non sono fatte per condividere un legame simile.

Scivolò sul fianco, si spinse sui gomiti, tirando le ginocchia allo stomaco, e barcollò per rimettersi in piedi.

La luce del sole brillò contro la lama della katana ancora conficcata a terra. Scintillò come un occhio che strizza una palpebra in uno sguardo d’intesa. Giappone strisciò due passi verso la katana, agguantò il manico, lo strinse graffiandolo, e sentì l’ombra d’odio distendersi anche nella voce che parlava nella sua mente.

Vendicherò io Italia. Piegò la katana a destra e a sinistra, fece scricchiolare il terreno che emise il rumore di una radice che viene estrapolata. E ripagherò Inghilterra con la stessa moneta.

La lama emerse con uno schiocco, brillò come una gemma appena estratta dalla roccia. Giappone sollevò il braccio, portò la katana davanti al viso, e si specchiò nel lucido del piatto. Restrinse gli occhi. Un arco rosso e liquido come il sangue attraversò le iridi.

Distruggendolo tramite colui che non è mai riuscito a sciogliere da questo nodo.   

Vide già l’immagine di quel sangue che ristagnava nei suoi occhi gocciolare dal corpo trafitto di America.

 

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Diari di Giappone

 

Non nascondo il fatto che potesse celarsi un minimo sentimento di invidia nel mio animo, un sentimento che poi ha guidato quelle che si sono rivelate le mie scelte e le mie azioni durante il corso di tutto il conflitto. Già avevo avuto modo di verificarlo, anzi, di dimostrarlo a me stesso durante quello che era accaduto alla riunione alla quale avevano partecipato anche America e Inghilterra, e ora ne ricevevo la conferma affrontando faccia a faccia una delle principali cause dei miei tormenti.

Se l’invidia fosse scaturita prima o dopo l’accendersi della guerra vera e propria, questo non posso saperlo di per certo. E non so nemmeno se sarebbe emersa comunque, anche senza lo scoppio del conflitto.

Suppongo dunque che sia opportuno parlarne cercandone l’origine e analizzandone le possibili cause fin dal primo momento in cui l’ho sentita crescere dentro di me.

Il rapporto fra me e Cina non è mai stato poi così diverso da quello che si è legato fra America e Inghilterra. Non tutte le nazioni possono dire di condividere ciò che accumuna me e America: il fatto di essere stati cresciuti da un altro paese. Questo ovviamente non ha influito solo sulla storia delle nostre nazioni, sulla nostra cultura, ma anche sul nostro carattere, segnandolo profondamente e donandogli addirittura delle caratteristiche in comune che hanno reso me e America molto simili sotto certi punti di vista. Sicuramente un elemento non da poco, considerando che a porre fine politicamente e fisicamente all’intera guerra siamo stati proprio io e America. Io e America, due nazioni così distanti e diverse, ma con un passato in comune che ci ha plasmati con idee e valori molto simili ma allo stesso tempo contrastanti. Lo stesso passato che ha fatto di noi gli ultimi protagonisti e gli ultimi martiri di quella guerra spaventosa. Pur continuando a soffrire per quegli ultimi giorni, per quell’ultima tragedia che ha travolto la mia nazione, penso si sia rivelata un’importante lezione per entrambi. Non so come possa vederla America, e non so cosa possa pensare lui a riguardo, ma secondo me abbiamo avuto tutti e due modo di fronteggiare in quell’ultimo capo di battaglia non solo un avversario e nemico, ma soprattutto noi stessi.

Parlando del passato, conosco il dramma che America ha vissuto durante gli anni in cui stava avvenendo la separazione con Inghilterra, e so anche come il loro rapporto serbi ancora quelle cicatrici che non sono mai completamente guarite dai loro animi. Forse i sentimenti che hanno toccato me e Cina nel corso del nostro distacco sono stati differenti, meno intensi, meno sofferti – non ero il primo e non sono stato l’ultimo paese a crescere sotto l’ala di Cina e a separarsi da lui –, ma hanno comunque avuto modo di imprimersi sulla nostra pelle.

Trovarmi a osservare negli anni il mondo che mi circondava e a scoprire l’esistenza di altre nazioni come America che avevano condiviso la mia stessa sorte generò in me sentimenti che non riuscii subito a riconoscere e a differenziare, perché li ritrovai mescolati e senza forma. Questo ovviamente contribuì ad accrescere la confusione mentale in cui già mi stavo smarrendo.

Da una parte, guardavo America con ammirazione, perché era riuscito come me a costruirsi da solo, nonostante il passato legato a un’altra nazione. Vedevo entrambi, sia me che lui, come un frutto che cade dall’albero e che, invece che marcire per essersi staccato dalla fonte vitale, genera una vita propria, fiorisce, e si eleva al cielo. 

Da una parte però provavo anche rabbia, perché non comprendevo il motivo di quel sottile legame d’affetto che era comunque permaso fra lui e Inghilterra. Io che avevo lottato così tanto per staccarmi da Cina mi ritrovavo davanti a qualcuno che poteva finalmente comprendere i miei sentimenti, le mie motivazioni, e che aveva dimostrato con la sua ribellione di condividere il mio stesso desiderio di indipendenza. Però lo scoprivo ancora inesorabilmente legato a colui che lo aveva tenuto stretto a sé per secoli interi, come se non fossero riusciti a far saltare in aria gli anelli di un’ultima catena congiunta ai loro destini. Sentivo rabbia perché non lo capivo. Non capivo America, e non capivo perché provasse sentimenti differenti dai miei. Qualcuno dei due era nel torto, e immediatamente decisi che quel qualcuno era America.

E dall’altra parte ancora c’era l’invidia, perché quello che avevo sempre considerato un qualcosa di soffocante incominciò a diventare un sentimento di mancanza, di perdita, quasi ne avessi ancora bisogno.

Io non comprendevo i sentimenti di America nei confronti di Inghilterra e ne rimanevo spaventato, ma allo stesso tempo non riuscivo a fare a meno di paragonarli a quelli che provavo per Cina. Trovai il vuoto. Un vuoto che si fece di nuovo sentire dopo tutti quei secoli passati a vivere lontano da lui.

A un certo punto, allora, cominciai a credere che io e America fossimo più diversi di quanto mi ero immaginato, e che le motivazioni che avevano spinto alle nostre indipendenze fossero, alla fine, di natura completamente differente.

Ne uscii profondamente deluso.

E dalla delusione nacque ulteriormente altra rabbia.

Io avevo strappato ogni legame con il mio passato per rendermi più forte, per estirpare ogni genere di ostacolo emotivo dal mio cammino. Sapevo che prima o poi io e Cina ci saremmo fronteggiati sul campo di battaglia. Era inevitabile. Io però non volevo esitare, non volevo dargli modo di farmi cedere, e volevo essere in grado di trattarlo esattamente come una nazione nemica, senza rimpianti. Era solo alla mia nazione che pensavo. Mi comportavo come se essere indipendente significasse isolarsi, essere da soli nel mondo, camminare esclusivamente con le proprie gambe. In questo modo mi estraniai da qualsiasi legame esterno, fisico ed emotivo. Nella mia sciocca ingenuità, pensavo che ‘essere forti’ significasse proprio questo.

Credo che ora risulti spontaneo identificare quale fosse il vero elemento che ha da sempre accumulato me, Germania e Italia, prima, durante e dopo la guerra. L’elemento che riesce a dimostrare perfettamente il perché quell’alleanza si è stretta proprio fra noi tre.

Semplicemente, avevamo tutti e tre qualcosa da dimostrare al mondo. E ci siamo lasciati trascinare e coinvolgere così tanto dal desiderio reciproco di raggiungere quell’obiettivo, che alla fine ci siamo affondati con le nostre stesse mani. 

Io avevo provato a dimostrare qualcosa alla nazione che mi aveva cresciuto e che mi aveva reso quello che ero. Avevo fallito, avevo deluso sia lui che me stesso, e ne ero uscito devastato. A quel punto, colui a cui volevo dimostrare il mio valore non fu più Cina, ma divenni io stesso. Così diedi inizio a quella spirale di guerre che si sono concluse con quella che mi ha quasi ucciso.

Italia, invece, si è sempre sentito in dovere di dimostrare la sua forza a Germania, al suo popolo che lo vedeva come il discendente di una grande nazione, di un valoroso condottiero che era riuscito a portare il proprio paese sulla vetta del mondo, e al fratello che, nonostante le sofferenze in comune e lo stesso carico di responsabilità sulle spalle, continuava a rimanergli affianco e ad assecondare le sue decisioni. Questo ha fatto smarrire Italia in quella che non è mai stata la sua identità, ma solo il ricalco di ciò che lui sperava di diventare, ignorando la sua vera natura. 

Germania forse è quello che ha subito questo genere di pressione più di me e di Italia messi insieme. Germania, sotto un certo punto di vista, è davvero diverso da noi. Io e Italia siamo nati spontaneamente, Germania è stato creato. È stato creato sul sangue di altre nazioni, di milioni di soldati e guerrieri, di centinaia di comandanti, generali e imperatori. Tutte vite che si sono sacrificate per un solo motivo: per riunire e far nascere sotto un unico nome quella che era una nazione belligerante che aveva come obiettivo la prevalenza sulle altre potenze e il dominio del continente. Germania probabilmente si sentiva in dovere di portare avanti queste guerre, di spingersi fino alla morte fin dove i suoi antenati avrebbero voluto vedere il paese. Le conseguenze le conosciamo ormai tutti.

C’è una forte influenza del passato in ogni nostra motivazione, in ogni nostra storia. Il legame stesso che si era formato fra noi tre elementi dell’Asse aveva il nostro passato come punto cardine. La guerra si è conclusa, fuori e dentro di noi, proprio nel momento in cui tutti e tre siamo stati in grado di staccarci dalle radici del nostro passato, pur senza dimenticarlo.

Disfarmi del mio passato. Questo era proprio quello che avevo tentato di fare dopo essermi battuto contro Cina, dopo essermi trovato faccia a faccia con la parte più buia di me, dopo aver preso la scelta che poi avrebbe ribaltato completamente le sorti della guerra.

Ancora non sapevo che la decisione che presi quel giorno si sarebbe rivelata una delle cause principali della nostra sconfitta.

 

   
 
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