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Autore: Kimmy_90    18/07/2016    1 recensioni
Mafé vive sulla nave, ancorata in mezzo al cielo di Canos, da che ha memoria. Quel pianeta, ufficialmente, appartiene alla sua famiglia – a suo padre, il Generale Morar: ma lei non ha mai messo piede su quel mondo, né può vederlo, a causa delle nuvole del nord ovest.
Mafé legge. E legge. E legge. E ascolta. E origlia.
E scopre. E ruba informazioni. E annaspa.
Finché decide di scendere su Canos, quella che, seppur lontana, è la sua terra.
[Partecipa al contest "Poker d'immagini" diNajara87]
Genere: Avventura, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1


Il mare di nuvole correva sotto i suoi piedi, ammassandosi, scomponendosi e ricomponendosi, avviluppandosi e sciogliendosi, raddensandosi, sprofondando. Mafé, in piedi sulla terrazza di controllo H, fletteva le gambe e stringeva le ginocchia, reggendosi al corrimano delle scalette metalliche. Sotto la terrazza, il vuoto. Sotto il vuoto, le nuvole.
Sotto il mare di nuvole, c’era Canos.
E più Mafé guardava, meno vedeva.
Canos, diceva papà. Lì, sotto, sotto i suoi piedi, sotto la loro nave.
Mafé guardava, e non vedeva.
C’era solo un mare di nuvole – e la Solaris che tramontava mogia, lanciando i suoi raggi tiepidi nel cielo giallastro: mancava qualche decina d’ore alla notte di Canos, e molte meno alla cena. Mafé sarebbe dovuta rientrare – anzi, Mafé non sarebbe mai dovuta essere lì. Era scesa con l’intenzione di non farsi scoprire, con l’idea di defilarsi immediatamente – ma il terrore e lo stupore le tenevano il corpo in ostaggio: incapace di muoversi, tremava.
E guardava.
E non vedeva.
“Mafé!”
Neanche la voce adirata di suo padre riuscì a scuoterla: quel mare dorato, e il vento, e il silenzio rotto solo dall’aria e dallo stridio di qualche uccello – come calamite, come corde. Era prigioniera.
Quel giorno Mafé si convinse che era stato Canos stesso a imporle quel sortilegio. Suo padre, fulmineo, la afferrò per il bavero della camicetta, stringendola poi al petto: con pochi rapidi balzi risalì le scalette della terrazza di controllo, chiudendo la pesante porta metallica con tanto furore da far tremare il pavimento e le pareti del ponte. La posò per terra, guardandola furibondo e levando la sua grande mano in un gesto che prometteva una sonora sberla sul volto.
Mafé si ritrasse, accovacciandosi per proteggersi dal colpo: ma questo non arrivò mai. Suo padre rimase in silenzio, abbassando la mano e guardandola dritto negli occhi. Lei poteva sentirgli il respiro, inizialmente grosso, rallentare e alleggerirsi.
“La prossima volta non verrò.” disse infine l’uomo, voltando le spalle alla bambina. Con lunghe e calme falcate si allontanò, lasciandola lì.
Sola.


***


“Mafé! Che stai facendo?”
La ragazzina scattò in piedi, allontanandosi dal margine della terrazza dove s’era seduta, le gambe ciondoloni.
“Amar!” lo richiamò. “Non puoi venire qui!”
Il bambino, appostato sulla soglia della porta, la guardava indispettito. Sotto di lui una serie di pioli metallici portavano al pianale, anch’esso metallico, che costituiva la terrazza di controllo H – una postazione inutilizzata da decenni, ch’era servita, nel passato in cui quella nave era davvero una nave militare, per le vedette di turno.
“Nemmeno tu!” squittì il bambino.
“Io posso! Vattene!”
“Bugia! Bugia! Se puoi tu posso anch’io!”
“No!”
Una folata di vento la investì, rischiando di destabilizzarla: Mafè strinse i muscoli, piegando le gambe e rinsaldando la presa sul pianale. Amar inspirò tutto d’un fiato, convinto che sarebbe caduta giù: “Attenta!”
Ma la ragazzina sapeva bene quel che faceva: resistette senza fatica all’aria che la spingeva, avvicinandosi poi alle scale a pioli che risalivano verso il ponte della nave. Afferrò il corrimano e, levato il capo verso il bambino, urlò: “Vai via!”
Amar non se lo fece ripetere: fuggì, lasciando la porta aperta; Mafé poteva sentirne i passi scomposti percorrere il corridoio sopra la sua testa.


***


Un cigolio leggero tradì i movimenti silenziosi del ragazzino, che quasi trattenendo il respiro si affacciò all’uscio.
Mafé, seduta al solito sul limitare della terrazza, manteneva lo sguardo fisso sul libro: i capelli neri, tagliati a caschetto, le ondeggiavano al vento – ma la ragazza non pareva curarsene.
Amar la guardò a lungo, ben sapendo che se non s’era voltata era solo perché voleva finire il paragrafo. Lui non capiva perché le piacessero tanto i libri – insomma, avrebbe potuto almeno utilizzare uno schermo, o, meglio, un oloproiettore, e comunque, in sé, leggere non gli sembrava la più attraente delle attività. Specialmente da delle pagine, in battuta di vento, che scappano e volano e si strappano sotto le sferzate dell’aria.
“Dimmi.” disse, d’un tratto, la ragazza.
Amar inspirò, appeso alla porta.
“Tra un’ora si mangia.”
“Va bene.”
Mafé riprese a leggere, ma Amar non si mosse.
“Mafé?” la richiamò, masticando le sillabe.
La ragazza mise l’indice in mezzo alle pagine, e si voltò verso il ragazzino, levando il capo verso di lui: Amar, dapprima, non riuscì a spiccicar parola – troppo preso a contemplare il volto dell’altra, su cui si abbattevano i ciuffi scuri dei suoi disordinati capelli, continuamente mossi dal vento.
“Sì?” lo incalzò lei, vagamente irrequieta.
“Che leggi?” chiese il ragazzino.
“Un libro.”
Amar strinse le labbra, interdetto.
“Certo che sei proprio figlia di tuo padre.” mugugnò: il Generale Morar era a sua volta parco di parole – ben più di lei. Poteva tacere per giorni, da quel che sapeva Amar.
Mafé continuò a fissarlo, il volto serio. “Sarà.” disse poi, facendo spallucce.
“Mi dici che libro leggi?” riprovò Amar, sporgendosi ulteriormente dalla soglia, oramai quasi in cima al primo gradino delle scale.
Dal basso, Mafé rispose con un’altra stretta di spalle.
“Sono canti di Canos.”
“Ah.”
Cadde il silenzio.
“E cosa sono?” insistette Amar.
Mafé lo scrutava, vigile e attenta, come in cerca delle sue intenzioni.
Era sempre stata sulle sue, lei – Amar la rincorreva da quando aveva sei anni, e ancora non era riuscito a farsela amica, a includerla in un solo gioco, a scambiarci parole che andassero oltre al quotidiano vivere sulla nave ed esser commensali alla tavolata dei bambini. Ancora un anno e Mafé l’avrebbe abbandonata, quella tavolata. Amar, incantato e inquietato allo stesso tempo da quella bambina, ragazzina, ragazza imperscrutabile, s’era dato l’obbligo di tentare il tutto per tutto, a costo di farsi odiare. Per capire, anche solo da lontano, cosa frullasse in testa a Mafé.
A cosa pensasse.
Che cosa volesse.
L’unica certezza su di lei era che, quando la Solaris tramontava e quando la Solaris albeggiava, l’avrebbe trovata alla terrazza H – a leggere, o a guardare i banchi di nuvole che sfilavano, eterni, sotto la nave.
“Sono i canti della gente di Canos.” disse, d’un tratto, Mafé.
L’uno appollaiato in cima alle scale, l’altra seduta al limitare della terrazza, parevano due uccellini che s’incontrano su di un ramo e, perplessi, valutano quanto sia possibile una pacifica convivenza – prima di spiccare il volo ed andarsene ognuno per la sua strada.
“Sono come le nostre canzoni?” chiese Amar, sperando di riuscire a far parlare l’altra.
Mafé scosse il capo.
“... no?” Amar non mollava.
“No. Sono diversi dai nostri.”
“Ah.”
Mafé non aveva staccato un istante gli occhi dal ragazzino: ne osservava ogni movimento – degli occhi, delle labbra, delle mani che stringeva alla maniglia della porta e al corrimano.
Amar deglutì.
Gli stava venendo fuori il pomo d’Adamo, notò allora Mafé.
“Me ne canti uno?”
La ragazza fece di no con la testa.
“Perché?” chiese Amar, sempre più insistente.
“Non conosco la melodia.” rispose lei, placida.
“Allora inventala.”
Mafé arrossì, abbassando improvvisamente gli occhi. “Non so inventare le melodie. Non so fare musica. Né cantare.”
“Ah, scusa...”
“Ma posso leggertene una, se vuoi.”
Ad Amar s’illuminò il viso: sorrise, annuendo entusiasta.


Oíche, fada, teacht
ní féidir linn eagla an dorchadas
oíche fhada, síocháin, síocháin
deontas dúinn sosa agus obair
cradle ár súile, saor sinn
i rith an lae.[1]


“E’ Canossese del nord-est. Noi siamo a nord-ovest. Non ci sono nuvole, da loro. Lo sai?”
“... no.”
“Vuoi che te la traduca?”
Amar la guardò sconvolto. “Conosci i dialetti canossesi?”
Mafé sorrise.

 

Notte, lunga, vieni,
noi non temiamo il buio,
notte lunga, quiete, pace,
concedici il riposo e il lavoro
culla i nostri occhi, salvaci
dal giorno.


 

 

 

 


________

[1] Il testo è in realtà in irlandese ed è stato barbaramente tradotto da google translate a partire dalla versione italiana, che ho abbozzato io. Abbiate pietà.

Ciao; è da parecchio che non partecipo a contest e questo mi ha, in qualche strano modo, “chiamata”. Dovrei cavarmela in 5-6 capitoli, sperando di non sforare il limite imposto dalla giudice (chiedo venia).
Il contest (che trovate qui http://www.freeforumzone.com/d/11259305/Poker-d-immagini/discussione.aspx ) richiede di utilizzare quattro immagini (volendo, meno, ma a me piacevano tutte e quattro quelle scelte) che illustrano un personaggio, un luogo, una situazione e un oggetto. Le mie scelte sono visibili sulla pagina del contest, ma per adesso non voglio metterle qua – le metterò solo alla fine –, se no mi danno l’idea di render vane e inutili le descrizioni. :)

   
 
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