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Autore: Klack94    19/07/2016    0 recensioni
2025: La crescita della popolazione mondiale raggiunge il picco del 200%.
2030: la microglaciazione riduce drasticamente le risorse primarie. Le carestie portano epidemie.
2032: il virus identificato come mutazione di un Lyssavirus, il virus della rabbia, miete le prime migliaia di vittime nell'epicentro di Nuova Delhi. "I morti vivevano coi vivi, e i vivi uccidevano i morti" - scriverà qualcuno.
2052: i vaccini sono placebo temporanei. La cura è il parto degli infetti: una generazione di portatori sani, immunizzati dalla nascita dai morti, sancisce la fine di una ricerca medica mai conclusa. I documenti bruciano, le fiale si distruggono, sopravvive ciò che resta sotto chiave: ordine delle Nazioni Unite. Per dimenticare. I due miliardi di superstiti si alzano in piedi, le nazioni abbandonate giacciono al suolo, insieme a concetti come memoria e passato.
2070: Il primo mercoledì di marzo cinque hacker sono assassinati contemporaneamente. Il secondo mercoledì di marzo, le loro famiglie cominciano a sparire. I responsabili non saranno mai trovati e gli assassinii cadono nell'ombra come il delitto più perfetto della storia.
2081: Oggi.
[ soft sci-fi | psicologico ]
Genere: Azione, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Rimase a fissare lo schermo, i pensieri che si accavallavano l'uno sull'altro, la mente incapace di dare un valore all'entità delle informazioni apprese. Se il mondo avesse saputo... no, senza "se". Il mondo avrebbe saputo. Rimase a fissare l'immagine sgranata, i pixel persi, la bocca dell'uomo immobile mentre il resto del viso si muoveva, un file audio pessimo e un file video peggiore, almeno i documenti criptati erano leggibili e intatti una volta inserita la chiave.
Nella mente aveva ancora stampata la data appena letta sull'ultima pagina di diario quando si mise a fissare quella a lato dello schermo del computer.
Quelle pagine risalivano a più di due anni prima del contagio. Non era possibile. Dovevano essere false, ma non aveva senso proteggerle a quel modo se fossero state false.

Sto facendo rimbalzare il segnale tra dieci ripetitori diversi, ma mi stanno tracciando rapidamente. Dobbiamo caricarlo in rete.

Stanno tracciando anche me. Merich?

Merich?

Merich sudava freddo, la chatroom era bloccata a quell'ultimo messaggio. Avrebbe semplicemente dovuto rispondere "sì", ma era ancora schiacciato da quella sconcertante verità. Anzi, dallo sconcerto. Perché quale verità si portasse dietro lui davvero non riusciva a capirla, sembrava tutta un'assurda teoria del complotto.


Carico i documenti e il file audio singolo. Merich pensa al resto.

Carico.

In pochi battiti di tasti dettati dalla monotonia dell'esperienza la finestra di caricamento occupò il centro dello schermo: 1%.

Si passò una mano sulla fronte, spalmando ovunque il sudore freddo che la impregnava.
Il silenzio consumava l'aria più delle parole.
 In digitale accanto all'orario, un calendario animato dei Looney Toones faceva sparire Beep Beep attorno all'ultimo zero di 2070, mentre il primo esplodeva ogni volta. Poi ricompariva. La testa di Willy il coyote che saltava fu l'ultima cosa che vide, in un'afosa sera di marzo.


 

2081, Italia.
 
 
Le persiane che riparavano dal sole cocente disegnavano a strisce uno stralcio di pomeriggio placido e ridente, laddove sulle distese di cemento non c'era stato tempo per costruire edifici. Né ce n'era motivo ora che, vuoti e senza padrone, venivano buttati giù ovunque.
-Dovresti andare a scuola.
Erano le tre, e un furgone mimetico faceva il giro del campo da gioco improvvisato dai dieci bambini degli isolati vicini,  scaricando quattro militari corpulenti mentre l'altro ripartiva.
Il pallone smise di rimbalzare sulle foglie che settembre seminava in giro, e la sua ombra sparì sotto il braccio del bambino più grande almeno otto anni del più piccolo, o forse di più: doveva essere grande ma le orecchie a sventola e il collo lungo gli davano un'aria tanto fragile che era difficile definirne un'età certa.
Ricordava borbottii di nonna che lamentavano tempi in cui i bambini non giocavano e gli anziani dormivano, ma a ogni generazione il suo tempo e quello dei nonni era finito, per un soffio quello dei fanciulli sopravanzava.
Uno dei cinque adulti si inginocchiò composto a braccia aperte - che erano più chiare nei punti in cui le maniche si arrotolavano: sfumature di colore che giocavano di genetica e d'ambiente - con un balzo sollevò in aria quello che poteva avere al massimo sei anni.
-Mi ascolti?
Un alito di vento in quella giornata afosa fece tintinnare il laccio della persiana, quel brontolio plastico era l'unica risposta che avrebbe ottenuto. Le risa echeggiavano, il tonfo del Super Santos era quasi uno scoppio, leggero, plastico. Il giocatore di calcio mancato aveva mandato metà della divisa a farsi benedire e ora si improvvisava allenatore mentre gli altri tre si posizionavano attorno al campo, la schiena dritta, i berretti spianati.
-Secondo te perché continuano a sorvegliarci?
Federico sospirò ma non si arrese, anche se fece il giro del tavolo in un moto esasperato e il frigorifero tremò brutalmente quando lo aprì per tirarne fuori una birra. Era ancora presto per una birra.
-Hanno paura che uno di noi si trasformi in un cannibale rabbioso? Siamo tutti vaccinati.
-Le persone si sentono al sicuro con loro. La scuola è cominciata una settimana fa, Dan. Chiameranno i tuoi.
Stavolta i suoi rimproveri sembrarono sortire un effetto, ma comunque non più di un paio di sopracciglia aggrottate. O forse era il fastidio del sole.
Federico non sapeva perché a scuola non c'era andata. Lui vedeva solo un labbro spaccato e un alone violaceo sullo zigomo, una meraviglia in confronto alle condizioni in cui aveva già versato, quando la sua faccia rischiava di rimanerci sul tappeto e gli occhi gonfi di lividi stentavano ad aprirsi; perché lei la resa non la conosceva, o vinceva o moriva in piedi, e non era morta ancora.
Aveva guidato fino al Santo Bono rischiando di svenire per strada, sbandare e schiantarsi con una moto che manteneva l'equilibrio per lealtà più che per legge fisica, a Federico non l'avrebbe detto mai.
Sarebbe dovuta andare giù al terzo round, era stata sconsiderata ma meglio morire che vendersi. La sua coerenza non era molto, ma era un principio morale cui non si sentiva di venir meno.
Si era fatta mettere a posto il buco nella gamba e per cinque giorni aveva aspettato che le costole nelle fasce restassero ferme per guarire. Un tempo troppo breve, però per quanto suo padre poteva crederla a un pigiama party?
Si era dimessa che ancora zoppicava, ma quel santo medico che ormai che le aveva risistemato ogni parte del corpo nei due anni passati aveva assicurato una quasi impossibilità che un polmone si perforasse, però doveva risposare. Aveva riposato, ed era l'unica cosa che Federico sapesse.
-Lunedì. Ormai la settimana è finita.
Fece anche lei il giro del tavolo di quella sala da pranzo che conosceva come le sue tasche e che era stata testimone di compleanni e Capodanni, studi per gli esami, e recava ancora i segni del suo girello impazzito nella parte interna di una gamba del tavolo di quercia.
Con uno scatto inaspettato svuotò le mani di Federico e attappò la bottiglia piena poco più che per metà, mentre all'interno la schiuma ribolliva.
Federico fece per protestare ma ottenne in risposta solo un -No- secco che lo zittì solo perché un pugno chiuso di lei si avvicinò pericolosamente al suo viso, ma per prendere le chiavi, che erano appese accanto alla sua testa.
-Vado a lavoro, salutami i tuoi.
E a lavoro si sciroppò l'altro cazziatone perché ovviamente neanche Mario sapeva perché non c'era stata, ma in fondo era la figlia di suo padre, primogenita e unica, quindi più di tanto non poteva prendersela.
Però poteva farle passare la giornata a spostare scatoloni pesanti come un mulo da soma, a sistemare catene e riempirsi di grasso, e lo fece.
A ogni peso sentiva la voce di ammonimento del chirurgo che le vietava categoricamente ogni sorta di sforzo.
Piegata su quel carrellino cigolante aveva paura di perforarsi un organo, a un tratto l'idea di farsi licenziare e vedersela poi con papà non era tanto male.
Mentre rimetteva a posto un telaio, le capitava a tratti di non respirare, e il panico le prendeva anche lo stomaco, poi però si rendeva conto che era solo il senso di claustrofobia del ritrovarsi sotto un'auto di una tonnellata.
Quando invece sembrava che tutto andasse bene, Mario interrompeva l'idillio:
-Porta quegli scatoloni di là - Monta quelle ruote - aiutami a cambiare il parabrezza. L'olezzo di grasso e acquaragia sembrò fare il nido direttamente tra le sue narici, la verità era che dopo una settimana di lontanaza dall'officina se n'era completamente disabituata ma, in un modo o nell'altro, la differenza netta tra l'ombra gettata dall'auto sopra di lei e la luce del giorno andò sempre affievolendosi, finché i neon si accesero e un paio d'ore più tardi si buscò la paga della giornata e un passaggio a casa.
Era tornata già la sera prima, ma giusto per risistemare le sue cose, prendere un cambio, gettando in lavatrice quello che teneva addosso e che aveva preso a casa di Federico, e chiudendo in un sacco nero quello sporco di sangue e mezzo a brandelli.
Coltelli, Dio. Non sapeva neanche come ne fosse uscita ancora in piedi.
Ricordava il buio. Quel silenzio opprimente che si estendeva per un chilometro e avrebbe coperto le sue grida se mai avesse urlato, il sangue che le era schizzato sul viso quando aveva affondato nel fianco denudato di uno dei suoi assalitori, viscido sulle mani, salato sulla lingua.
Ricordava il sudore negli occhi e il cuore che batteva come se volesse scoppiare mentre fuggiva, lasciandoseli alle spalle a terra; il cellulare senza pin rubato a uno di loro, le dita che scivolavano sui tasti mentre cercava di chiamare un'ambulanza perché li caricasse e li portasse via. Erano in tre, vivi o moribondi, uno forse non avrebbe più camminato: aveva sentito un orribile crack quando gli aveva affondato il coltello nella schiena. L'avrebbero cercata probabilmente, ma di sicuro non l'avrebbero trovata. Sapevano da quale paese venisse, ma non sapevano il suo nome, né tra quali facce cercare. E se mai l'avessero saputo avrebbero smesso immediatamente.
A porta chiusa e respiro pesante salutò la casa che sembrava vuota, se non per la tv accesa e il divano nascosto dietro il muro dal quale si levava un olezzo di sigaretta accesa, la luce in cucina era l'unica testimonianza della presenza di sua madre.
La telecronaca sportiva in sottofondo fu la sua risposta, mentre il Liverpool segnava un altro goal ed era chiasso generale in tutto lo stadio. Una macchinetta del caffé si chiuse stizzita, prima di schiantarsi bruscamente sul fornello, stridio di ferro contro ferro. Quella tensione silenziosa era ormai un membro della famiglia, non un amico immaginario ma suo fratello invisibile. Masochisticamente si sentì finalmente a casa.
- Vado a lavarmi.
- E' pronta la cena.
Era la voce di mamma e come ogni sua parola fu deliberatamente ignorata mentre entrava nella sua stanza per portarsi dietro il pigiama, ma ancora a luci spente decise di replicare perché a suo padre che non rispondeva non piaceva che non si rispondesse.
- Mangio dopo - fu la sua buonanotte. Non avrebbe mangiato, e non c'era altro verso che incrociasse uno dei due prima di andare a dormire. Tastò l'interruttore della luce mentre detersivo, ammorbidente e disinfettante si mescolavano in un'essenza chiusa e ospedaliera. Respirò tra le mani l'odore di pelle per non tossirci su e abituarsi con calma, poi aprì la finestra che dava sul balcone per far areare e la bolla di oppressione si infranse, lasciando che l'interno e l'esterno si mescolassero, che la vita di casa incontrasse i rumori del mondo e della strada, delle auto in corsa dagli stereo con il tasto del volume rotto su milleduecento decibel.
Ma mentre si avvicinava all'anta dell'armadio un brivido la fece trasalire e dovette reprimere la tosse che le costole doloranti le incitavano. Come il solletico di un sadico la voce di lui le provocava reazioni cui non poteva sottrarsi, ma invece di farla ridere le mozzava il respiro e le istillava il panico.
-Vieni a cena.
Inspirò a fondo perché una crisi era l'ultima cosa di cui aveva bisogno.
Perché la volesse a tavola era un mistero, ma esagerato era il terrore di quest'ignoranza.
Aveva bevuto, forse, semplicemente bevuto. Di colpo voleva sua figlia a tavola. Era plausibile voler mangiare con la sua famiglia.
Insolito ma plausibile.
Con i pantaloni sporchi e la maglia dell'officina, si sedette in cucina. Un'azione che sapeva d'antico e di disgusto e di impotenza.
La tovaglia con i fiori di puro cotone usurato che ogni giovedì la mamma lavava da anni, il piatto davanti a sé con una smilza cotoletta e l'attesa che papà prendesse per primo la forchetta - disgusto e impotenza, disgusto e impotenza.
Lui a capotavola, lei e la mamma due ali sottomesse ai suoi lati, Daniela a sinistra, in una posizione negativamente simbolica, come le sue mani lavate e strofinate ma ancora macchiate, come di un peccato che non poteva cancellare. Si sentiva sporca, sporca dentro, come solo quell'uomo poteva farla sentire senza che però in lei riaffiorassero i ricordi della benché minima colpa, perché era una colpa senza data, senza causa, senza contenuto, era colpevole, e non c'era da dire altro.
Pranzare a scuola all'americana le aveva impedito nei passati cinque anni di trovarsi in quella posizione a mezzogiorno, mentre Federico, i compiti e i venerdì e sabato sera avevano reso la cena a casa un evento occasionale. Che pure faceva male, ma questa sera era diversa. Lo sentiva.
Era come quando, tornando a casa, hai la sensazione di non arrivare mai. Però alla fine arrivi, e va tutto bene.
La sensazione di Daniela sembrava orientata a un altro esito.
La cotoletta non fumava più.
La peristalsi funzionava già al contrario cercando di tirare fuori quello che nel pomeriggio aveva messo dentro. Con lo stomaco chiuso, ingollare sarebbe stata una tortura. Ma tanto non avrebbe mangiato.
-Allora buon appetito - disse mamma con una voce così flebile che nessuno prese in considerazione. Ma effettivamente non lo avrebbero fatto neanche se si fosse messa a urlare, come fosse una bambina che parlava di mostri nei mulini a vento da trattare con una carezza sulla testa nei giorni buoni e da non trattare affatto in quelli cattivi. Che andasse a giocare, che mangiasse da sola. Daniela non avrebbe mangiato. Lui non avrebbe mangiato.
Mentre la sua unica forchetta tintinnava, si guardarono. 
La cena era solo uno scenario, il panorama familiare e perfetto per un incubo come un tradimento; e dunque, ora che il palcoscenico era allestito, l'incubo poteva cominciare.
Solo uno dei due ne sarebbe uscito senza segni, forse entrambi però non avrebbero dormito. Non sapeva il problema quale fosse, ma paradossalmente sapeva a quali conseguenze avrebbe portato e una mano coprì protettiva il punto in cui le bende fasciavano il fianco violaceo e le costole che non sapevano star ferme senza la sua attenzione.
- E' arrivata una lettera dalla scuola.
Era pronta a subire l'affondo, quindi per quanto sorpresa, non si scompose e continuò a respirare. Aveva poca importanza che non avesse senso, che prima di sette stramaledetti giorni nessun insegnante aveva motivo di chiamare casa. Ma in quella scuola del cavolo con otto studenti per classe non era una novità che un docente gasato inviasse in anticipo gli auguri ai genitori.
-Beh, in realtà da Sidney, la scuola si è premurata di recapitarla.
Sidney. A questo non era preparata.
-Perché la scuola e non tu?
Non rispose. Non fece assolutamente nulla.
-Perché non eri a scuola. - sentenziò con calma - Perché non eri a scuola?
La forchetta di mamma sfilò dalle labbra sottili, lucente e unta, come laccata.
A intervalli regolari i denti avevano infilzato un pezzo, come coltelli, come tenaglie, e l'avevano portato alla bocca. Un pezzo alla volta, un pezzo alla volta Daniela si sarebbe sentita annientare, come quella cotoletta, come quell'animale senza volto né nome che giaceva come pasto alla mercé di quell'uomo, impotente, fatto a pezzi, servito su un piatto.
Quanta empatia provava per quel pollo. Chissà se lui ne avrebbe mai provata per lei se fosse stato ancora vivo. Morto comunque in vano, finito nell'immondizia, cotto per nutrire quando non ce n'era alcun bisogno perché per nutrire suo padre bastava la violenza.
La forchetta di mamma sfilò dalle sue labbra screpolate come il deserto arido della sua figura stecchita, prima che sfilasse anche lei via dalla cucina a testa bassa cucciata già in preghiera, dentro il santuario della sua stanza chiusa a chiave.
Parò ogni colpo con i gomiti, con le braccia. Il viso venne tumefatto dai lividi, sangue purpureo si intesseva nelle fila delle sopracciglia e dei denti pallidi. La fede spaccava le ossa, le labbra, la resistenza.
C'era una specie di grazia in quella violenza, era forza bruta, senza tattica, ripetitiva, ritmica, senza fine, come il movimento di un orologio a pendolo. Così facile da spezzare e tuttavia impossibile.
Non aveva niente di Daniela, quella violenza, lei parava e colpiva e nessuno parava quando lei colpiva. Imprevedibile, veloce, Daniela non provava il gusto della ripetizione, per assaporare ancora e ancora il dolore inflitto. Daniela non era sadica.
Le costole alla fine ressero.
La sua voce no.
Rotta dal respiro, fu costretta a ripetere più volte contro il cellulare freddo le stesse parole. E poi tra un flebilo e l'altro pianse, solo perché trattenere lacrime le avrebbe squassato quanto ancora di integro le era rimasto.
Pianse silenziosamente, per non svegliare i mostri nel buio, ma dentro urlava e le sue costole urlavano contro di lei, e la sua coscienza anche.
Federico riattaccò e si sentì un verme a chiedergli sempre così tanto senza ricambiare mai niente, e il cellulare freddo contro la tempia era una consolazione. Freddo anche se era acceso da più di un giorno, freddo nonostante Sonic fosse in backround, freddo perché lei scottava di febbre.
Gemette quando le braccia fecero leva per risollevarla. Non poteva tossire ma ne aveva un gran bisogno e si limitò a grattare la gola con un'espirazione forzata che peggiorò la situazione.
Cambiarsi non era un opzione, però si rese conto che la cosa viscida che sentiva sulle mani era il sangue della ferita riaperta e allora si trascinò fino al cassetto della biancheria intima per tirarne fuori una canottiera. Asciugò quello che al buio vedeva e se la tenne premuta o le avrebbe prese ancora per come aveva ridotto il letto e il pavimento. Doveva essersi strappata i punti.
Cercò di sgattaiolare fuori dalla stanza senza farsi sentire. Fece quasi cadere un vaso, diede un calcio a una porta. Doveva avere istinti suicidi quella sera. Non avrebbe resistito a un'altra percossa, ma per fortuna papà dormiva tanto quando beveva.
Lui era lì di fronte sul divano in pelle al lato opposto alla tv a volume così basso che anche standoci accanto non riusciva a sentirla, coperta completamente dal suo respiro pesante come un macigno. Dietro di lei la porta d'ingresso di casa. Sudore freddo cominciò a colarle giù per la fronte.
Si avvicinò nella sua direzione senza avere appoggi, con la mano nella canottiera ancora premuta contro la gamba e un passo alla volta che era un tonfo di tallone ritmato.
Fece il giro del divano, un piede dopo l'altro e non incontrò più il freddo pavimento ma qualcosa di morbido, su qualcosa di duro, che rotolò via da lei battendo rumorosamente contro le mattonelle e la tv si spense.
Una bestemmia dialettale in un fiato solo. Un grugnito di maiale, il corpo pesante che si rivoltava sul divano troppo stretto.
E ci si ributtò giù a peso morto.
A Daniela girava la testa dallo spavento, dalla febbre, dal dolore. Si voltò e urtò la scrivania del computer, con una zampata impedì al portapenne di suicidarsi. Si voltò, ignara del disastro.
Si voltò, guardando in alto per prendere quello che sporgeva da una delle mensole. Alzò il braccio su, ancora più su, la sua faccia un ghigno di dolore, le sue dita evitarono chirurgicamente gli animaletti di ceramica. Afferrarono la carta, la tirarono via lentamente, fino a farla sfilare tra gli oggetti senza lanciarne giù nessuno. Quando finalmente ebbe la busta in mano, era pregna di sudore. Si voltò indietro per uscire, lentamente per evitare che la testa girando le facesse perdere l'equilibrio, e la vide: una macchia di orrore scuro era dipinta sul fianco della scrivania. Perdeva sangue, aveva rivolto il panno dal lato sbagliato mentre se lo premeva e rigirava tra le mani. Si chinò su un ginocchio, il cellulare nel pantalone di tuta pendeva fino a terra, fece attenzione perché non scivolasse via dalla tasca. Strofinò con una manica pulita contro il ferro, ma la macchia rimase. Bagnò con la saliva, la macchia rimase. Un po' alla volta cominciò a strofinare con le unghia mezzo spezzate. Il pavimento sotto il suo ginocchio cominciò a tremare.
Quel che non aveva quasi mai sentito ora sembrò un trattore. Picchiò, si prese a schiaffi contro la gamba sana e il pavimento tentando un po' come un cavernicolo di spegnere il cellulare in preda al panico. Federico l'aveva chiamata, Federico l'aspettava, doveva scendere. Non si premurò di rispondere, non poteva parlare, non le conveniva perdere tempo in messaggini.
Finì il lavoro cominciato ma stavolta non ripeté l'errore di prima. Si legò la canottiera alla gamba, mentre il cellulare vibrava di nuovo. Lo spense premendo sull'unico tasto dello smartphone in un momento di estrema lucidità e calma forzata. Raccolse una maglia di tuta da palestra dall'attaccapanni, non era sicura fosse sua o di sua madre, ma fuori era freddo e se la portò via sulle spalle lo stesso.
Per la terza volta il cellulare squillò, ma poco importava perché Federico era lì sul motorino con il suo schiacciato tra l'orecchio e il fianco del casco integrale. Bello come un angelo custode.
-Se attacco, non richiamare. Potevi farmi ammazzare.
-Ci riesci benissimo da sola.
-Appunto - replicò. O credette di averlo fatto, tutto ciò che sapeva dopo era che la maglia di tuta  non sventolava attorno a Federico sulle sue braccia tese ad anello e che l'aria nel casco bruciava. Più di tutto, le sue mani non stringevano altro che tessuto. La busta. La lettera. Sidney. Aveva rischiato di morire per niente. Sentì uno strillo, poi nulla.
 
Si svegliò in un letto d'ospedale, l'infermiera antipatica stava cambiando la flebo a un vecchietto malconcio, il sole penetrava la finestra con un'insistenza fastidiosa. Sentiva puzza di fiori.
Voltò il viso qualche grado sopra di lei dove sapeva esserci una specie di mensola mobile: la colazione dell'ospedale. E rose rosse.
Tentò di mettersi seduta ma si guadagnò una fucilata con lo sguardo da parte della quarantenne in camice bianco. La ignorò ma una minaccia la tirò di nuovo giù di colpo:
-Provaci.
Federico alle sue spalle la fece trasalire, ma neanche la stava guardando, leggeva un biglietto.
-Ti scopi il chirurgo?
Neanche una traccia di sorpresa nella voce, non era davvero una domanda.
-Perché, c'è la sua firma sopra?
-No, ma solo un medico può avere una grafia così terribile e spiegherebbe parecchie cose.
L'infermiera continuò a macinare con delle medicine accanto all'anziano dormiente che emetteva solo numerosi bip attraverso una macchina. Forse lo stava uccidendo.
-Abbassa la voce, non ti sente nessuno.
Pensò alla notte prima... Ricordava medici, una corsa in moto, coltellate.
Uno strano sogno, di lettere e botte da papà.
Tentò di tirarsi su ma si guadagnò una schicchera dietro la testa.
-Non puoi farmi male, sono malata.
Federico prese i fiori e li ripose ordinatamente sulla sedia dov'era prima lui, non sapeva se tale cura fosse da puro ambientalista o per ringraziamento a qualcuno che l'aveva presa per i capelli e riportata nel regno dell'aldiqua più di una volta.
Spostò il supporto che reggeva la colazione e gliela pose davanti, mentre premendo un tasto le sollevò il lettino. Lei lo fissava senza proferire parola mentre pian piano arrivava alla sua altezza, sentendosi come durante la preparazione per una tortura. Alla fine del tragitto osservò il vassoio della colazione per cercare qualcosa di commestibile e trovò con disappunto la carcassa di un contenitore di gelatina e un cucchiaino ripulito come l'osso di un mastino.
-Quella era la mia gelatina.
-Quello di ieri era il mio primo appuntamento dopo due mesi di assoluta astinenza.
Daniela alzò un sopracciglio o almeno credette di farlo perché si sentiva la faccia tumefatta.
-Okay, uno.
Tirò un sospiro, e avvolse le mani attorno al tè che una volta doveva essere caldo e sul cui fondo si erano depositate briciole di biscotti, però almeno qualcuno Federico gliel'aveva lasciato.
-Mi hai portato un cambio?
-Un cambio?
-Sì, un cambio. Dei vestiti. Oggetti di tessuto di vario genere che le persone usano per...
-Lo so cos'è un cambio, ma tu non ne hai bisogno.
Sapeva dove voleva andare a parare, ma alzò ancora un sopracciglio mostrando insofferenza per la sua preoccupazione. Fece un male del diavolo e rilassò il viso subito.
-Lo so che ti piaccio, ma pretendere che me ne vada in giro nuda mi sembra eccessivo.
-Rimani qui due settimane.
Risputò con eleganza nel bicchiere il te che aveva messo in bocca.
-Prego?
-Quanta finezza.
-Non ho i soldi per permettermi questo hotel di lusso e poi non sei stato tu a dire che dovevo tornare a scuola?
Le sue parole furono seguite da un ansimo pesante, l'affanno le ingrossava i polmoni e il dolore le accelerava il respiro in un circolo vizioso. Si sentiva davvero uno schifo. Deglutì, ma riprese come prima per circa un minuto.
Federico attese che si sentisse meglio prima di parlare.
Un tordo si intromise con la sua melodia, il vento lo cacciò dal sottile ramo su cui aveva posato le zampe. E poi il silenzio.
-Dovresti denunciarlo.
-Denunciare un uomo la cui foto è affissa accanto al Gesù Cristo della Chiesa patronale. Brillante.
-Hai bisogno di riposare, e sappiamo bene che a casa non puoi. La scuola comincerà tra un mese per te, ti preparo io le valigie nel frattempo?
Non capiva più nulla. Forse era la febbre, ma le parole di Federico non avevano senso. Non riusciva a rispondere, né effettivamente a pensare a una risposta. Si limitò a fissarlo in cagnesco.
-La lettera di ieri.
La lettera. La maglia. La busta. Non l'aveva dimenticata a casa, né l'aveva persa per strada. Un grido.
Ansimava, e più ansimava più Federico sbiancava.
Non era lì per l'aggressione ma per via di suo padre.
-Daniela?
La lettera da Syndey. Aveva rischiato di rimanerci secca per averla, dov'era? Dov'era l'aria?
-Daniela, chiamo l'infermiera?
Cercò di calmarsi. -No.
Federico era scettico, i suoi riccioli contornati di luce del giorno, sembrava un angelo. Il suo angelo custode, forse ce l'aveva lui la lettera.
-No. Odio quella troia.
-Buono a sapersi.
Trasalì e tossì ripetutamente per lo scossone al petto, ma quando entrambi si voltarono sulla porta non c'era più nessuno.
Silenzio. Respiro pesante. Lacrime per lo sforzo  di non tossire. Tanti bip. Silenzio.
-Ora ti odia anche lei.
La sua risata di risposta fu solo un soffio sommesso.
-Che c'era nella lettera?
   
 
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