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Autore: Kary91    19/07/2016    3 recensioni
[Flash Fiction | Pre-Saga | Alec!centric | Accenni Jalec (one-sided) | Introspettivo]
Spesso, la sera, sera attendeva irrequieto il momento in cui il migliore amico si sarebbe arrampicato sul suo letto per chiacchierare, intontendolo con le sue stupidaggini. In quei momenti il suo cuore si contraeva - nervoso e speranzoso al tempo stesso - al pensiero che forse, anche quella volta, Jace avrebbe concluso per addormentarsi lì.
E quando succedeva, quando sentiva il suo respiro regolarizzarsi e la sua fronte premuta contro la schiena, il panico incominciava a stuzzicarlo.
“Mi dispiace” sussurrò all’improvviso, le mani a tormentarsi i capelli. “Mi dispiace, Jace, mi dispiace.”
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Lightwood
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'A thousand times over;'
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Questa flash fiction partecipa alla Corsa delle 48 ore, indetto dal forum “Torre di Carta, con il prompt “Sentimento non corrisposto”.

 

 

«Somehow I feel I should apologize

Cuz I'm just a little shaken

By what's going on inside.»

I should go; Levi Kreis

 

I should go;

 

 

Alec riaprì gli occhi con un sospiro, alzandosi a sedere: non riusciva a prendere sonno.

Con delicatezza cercò di allontanare Jace, che si era appoggiato a lui nel sonno.

Non poté trattenere un sorriso, notando la differenza di spazio che occupavano nel letto.

Era sempre stato così, fin da quando erano bambini: anche nel sonno, le volte in cui crollavano addormentati nello stesso letto, ad Alec veniva istintivo rannicchiarsi. Jace, invece, non si era mai fatto problemi a prendersi tutto lo spazio di cui aveva bisogno.

Ogni tanto, Alec era stato costretto ad assestargli qualche calcio per conquistarsi un po’ di materasso.

Quella sera, tuttavia, non ebbe la forza di farlo. Non voleva rischiare di svegliarlo, non quando stargli accanto era già difficile così.

Avere Jace a un soffio di distanza, addormentato e vulnerabile, lo mandava in confusione.

Spesso, la sera, sera attendeva irrequieto il momento in cui il migliore amico si sarebbe arrampicato sul suo letto per chiacchierare, intontendolo con le sue stupidaggini. In quei momenti il suo cuore si contraeva – nervoso e speranzoso al tempo stesso – al pensiero che forse, anche quella volta, Jace avrebbe concluso per addormentarsi lì.

E quando succedeva, quando sentiva il suo respiro regolarizzarsi e la sua fronte premuta contro la schiena, il panico incominciava a stuzzicarlo.

Il suo corpo s’irrigidiva, conteso fra il desiderio di abbracciarlo e quello di scappare.

Proprio come stava accadendo in quel momento.

“Mi dispiace” sussurrò all’improvviso, le mani a tormentarsi i capelli. “Mi dispiace, Jace, mi dispiace.”

La rabbia si fuse alla vergogna, mentre si stringeva le ginocchia al petto.

Si sentiva in colpa, e si odiava – lo odiava – per il modo in cui il suo corpo reagiva ai suoi sorrisi, alle pacche sulla spalla, al tocco delle sue dita quando lo marchiava.

Gli dispiaceva di non riuscire a stargli accanto come un tempo, non senza sentire l’ormai familiare stretta allo stomaco.

Gli dispiaceva di non riuscire più a dormirgli vicino. Non senza avvertire il bisogno istintivo di guardarlo, di toccarlo.

Aveva il cuore gonfio di battiti in eccesso, conteso fra la paura e la meraviglia.

Una mano sfuggì al suo controllo; si arrischiò a sfiorargli una guancia, i gesti esitanti di chi non sa come muoversi, né dovrebbe permettersi di farlo.

Il contatto morbido con la sua pelle lo spinse a salire, per accarezzargli i capelli. Si accorse con vergogna che le sue dita tremavano, ma non le ritrasse fino a quando Jace non si mosse nel sonno, mormorando qualcosa di incomprensibile.

A quel punto si allontanò di scatto, come se fosse stato sorpreso a fare qualcosa di terribile.

Devo andare, ordinò a se stesso, scivolando fuori dal letto.

I piedi nudi lo guidarono impacciati verso la porta, dimenticandosi di fare silenzio.

Devo andare, devo andare, devo andare.

La genuinità del loro legame, la serenità delle ore trascorse a riposare l’uno accanto all’altro, andavano corrompendosi ogni giorno.

Il loro rapporto si stava disgregando: ed era solo colpa sua.

 

«I should go

Before my will gets any weaker

And my eyes begin to linger

Longer than they should

I should go

Before I lose my sense of reason

And this hour holds more meaning

Than it ever could

I should go.»

I should go; Levi Kreis

   
 
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