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Autore: thebrightstarofthewest    20/07/2016    5 recensioni
Bloccata in soffitta per una sfortunata serie di eventi, Patti ripercorre, grazie a delle foto, la sua storia con Bruce. Nel bene e nel male, nell'amicizia e nell'amore, nei litigi e nelle riappacificazioni.
Sì, sono tornata a scrivere di questi due, alla fine. Impossibile resistere.
"In quella foto c’era lei. Di spalle, girata verso l’obbiettivo, sorrideva, appena imbarazzata… conosceva quello scatto. Non si trattava di uno qualsiasi. No, quel ritratto lo aveva fatto Bruce. Il suo petto fu come riempito da una strana sensazione, un nodo a cui non riusciva a dare un nome: che fossero i ricordi? Quasi si commosse, in quella polverosa penombra. Si concesse di lasciare che quelle lontane memorie fluissero…"
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Prologo - Dance with Me
 
"Dance with me to this song
Dance now darling let your hair run down
Dance with me all night long"

 

Casa Springsteen, New Jersey, 2015, ore 9:32
“Hai capito?”, domandò per l’ennesima volta la voce roca e gracchiante dall’altra parte della cornetta. Per l’ennesima volta, Patti sospirò.
“Sì che ho capito, Bruce”, rispose, leggermente scocciata, “Me lo hai solo ripetuto tre volte nel giro degli ultimi due minuti”. Seguì qualche istante di silenzio. Nella sua mente, Patti poteva immaginare il volto del marito come se lo avesse davanti agli occhi: serio, con le sopracciglia corrugate e le labbra carnose serrate, in un’espressione di apparente calma che, in realtà, aveva molto di più l’aspetto di un non troppo virile “broncio”.
“Senti”, proseguì lei, rompendo il silenzio, “Salgo in soffitta, ti prendo queste foto e la facciamo finita, okay?”. Dall’altro capo della comunicazione, lui grugnì quello che si intuiva essere un assenso. Patti alzò gli occhi al cielo, ma ne aveva davvero abbastanza di discutere, per cui si limitò a grugnire qualcosa a sua volta e chiudere la conversazione. Sbuffò. Certe volte era davvero difficile essere sposata con Bruce Springsteen.
Era un uomo tanto dolce e comprensivo quanto cocciuto e intrattabile, quando lo desiderava, ed anche quel giorno aveva pensato bene di darne prova: quella mattina, molto presto –almeno molto presto per i suoi standard di cantante-, era dovuto uscire, diretto a New York, per lavorare sul nuovo cofanetto che sarebbe uscito a dicembre. Soltanto, si era scordato di un “piccolo dettaglio”: non aveva portato con sé delle fotografie da inserire nel box set. Ed adesso toccava a lei cercarle, ed in fretta: Bruce stava sfrecciando in autostrada verso casa ed intendeva prendere le foto al volo per ripartire immediatamente alla volta di New York. Di per sé, a lei non sarebbe affatto scocciato aiutare suo marito, non fosse stato che non aveva la minima idea di dove si trovassero queste foto e, inoltre, aveva pianificato di andare a trovare sua madre in mattinata.
Ovviamente, qualsiasi impegno avesse preso, adesso era stato sostituito da quell'incombenza. E questo l’aveva fatta sbottare: gli aveva detto per telefono, forse con fin troppa durezza, che se ancora a sessantacinque anni era così distratto, non poteva aspettarsi che gli altri fossero perennemente a sua disposizione.
Lui si era limitato a ripeterle quel che doveva fare, come se non l’avesse udita. Lei sapeva però di aver toccato un tasto dolente: Bruce non aveva mai accettato del tutto le proprie debolezze. E se c’era una paura che non lo abbandonava mai era quella di prendere molto dagli altri ed essere incapace di restituire altrettanto.
Patti si passò una mano tra i lunghi capelli rossi, scuotendo appena il capo. Ne avrebbero parlato il prima possibile, adesso doveva pensare alle maledettissime foto. Socchiuse gli occhi e si morse il labbro inferiore, tentando di ricordare dove si potessero trovare. Niente, proprio non le pareva di averle mai viste in casa.
Ad un tratto, un’idea le balzò nella mente: dove finiva tutto ciò che spariva? Ma ovvio, nella soffitta. Si affrettò ad imboccare le scale, prendendo amaramente coscienza della lunga ricerca l’attendeva.
Al lento e cigolante schiudersi della porta, una densa nuvola di polvere si innalzò. Patti portò istintivamente una mano davanti agli occhi, per proteggersi, poi, tossendo sommessamente, si diede uno sguardo incuriosito intorno: la soffitta era esattamente come l’aveva lasciata, mesi prima. Mesi? No, forse si trattava addirittura di anni.
Nel piccolo locale dal tetto pendente non c’erano finestre, ma una fioca luce trapelava dall’uscio semiaperto, lasciandole intravedere le sagome di scatoloni ed altri ricordi, che sembravano ormai appartenere ad una vita passata: ecco la culla di Evan, là, in fondo, sulla destra. C’era ancora attaccato una sorta di orrendo giocattolo pendente e peloso dalla forma indefinita che il bambino aveva visto in una stazione di servizio sull’autostrada e di cui non si era più voluto liberare. Sorrise, a quello sbiadito ricordo. Più avanti, in un angolo, c’era un cumulo di vestiti sgualciti, molti dei quali appartenevano agli anni Ottanta e Novanta. A piccoli passi si avvicinò, osservandoli: giacche in pelle, pantaloni strettissimi, canottiere di jeans strappate… davvero si vestivano così? Scosse la testa, ironica, prendendo tra le mani una camicia bianca piena di buchi che all’istante le riportò alla memoria un fiume di ricordi.
Sì, aveva bene in mente quell’indumento. D’altronde, Bruce si era ostinato ad indossarlo per anni, nonostante le tarme sembrassero apprezzarlo tanto quanto lui. Una volta avevano addirittura litigato, per colpa di quella stupida camicia. Quando era successo? Poco prima della nascita di Jessica, forse? Quella sera Bruce aveva deciso che voleva metterla per uscire, nonostante l’enorme buco all’altezza della spalla destra, e Patti aveva pensato bene di contraddirlo. Dopo qualche minuto di urla, insulti e minacce, lui l’aveva presa tra le braccia ed avevano semplicemente deciso di rimanere a casa a guardare un film. L’ennesimo abbozzo di un sorriso si dipinse sui lineamenti della donna: avevano sempre litigato, loro due e, nonostante tutto, avevano sempre finito per far pace. Certe volte lo aveva sbattuto fuori di casa, altre se ne era proprio andata, ma alla fine era proprio tra le sue braccia che voleva tornare.
Si riscosse dai propri pensieri e fece mente locale su quel che doveva cercare: le foto, le foto, le foto. Dove potevano essere? Attraversò a passi incerti la stanza buia, cercando invano di scorgere qualcosa di ben definito nella penombra. Mise le mani avanti, per farsi spazio tra alcuni scatoloni impilati in precario equilibrio, ma commise un errore che non aveva calcolato: non tenne conto di tutta la spazzatura ammucchiata sul pavimento.
Prima che potesse rendersene conto, un piccolissimo pattino a rotelle di quando Sam aveva otto anni le finì sotto il piede. Subito, perse l’equilibrio. In un ultimo tentativo di tenersi in piedi si aggrappò ad uno degli scatoloni ammassati che, per tutta risposta, cadde con lei.
In una manciata di istanti si trovò distesa a pancia all’aria, con sulle labbra qualche imprecazione di troppo e sulla pancia, a toglierle il respiro, il grosso contenitore, il cui contenuto era ormai del tutto riverso per la stanza. Maledicendosi per la propria disattenzione, fece per mettersi in piedi, ma si rese immediatamente conto di non potere: la caviglia destra, infatti, rispose al tentativo con una lancinante fitta di dolore. Imprecò nuovamente, riuscendo quantomeno a mettersi seduta.
Perfetto. Si trovava bloccata in soffitta, sola, senza smartphone, con a malapena un raggio di luce a illuminare l’ambiente circostante. Affranta ed arresa a quel destino, si guardò intorno, stringendo gli occhi per penetrare l’ombra, e solo allora si rese conto di cosa la scatola che aveva fatto cadere contenesse: foto. C’erano foto ovunque. Sperando si trattasse di ciò che stava cercando, cominciò a prenderne alcune pile, legate tra loro da un elastico, e se le mise sulle ginocchia. Ne afferrò una tra le dita sottili e la fece illuminare dalla luce che penetrava dalla porta, soltanto per rimanerne delusa: quella vecchia polaroid non aveva nulla a che fare con le foto di cui Bruce aveva bisogno. In quella foto c’era lei. Di spalle, girata verso l’obbiettivo, sorrideva, appena imbarazzata… conosceva quello scatto. Non si trattava di uno qualsiasi. No, quel ritratto lo aveva fatto Bruce. Il suo petto fu come riempito da una strana sensazione, un nodo a cui non riusciva a dare un nome: che fossero i ricordi? Quasi si commosse, in quella polverosa penombra. Si concesse di lasciare che quelle lontane memorie fluissero…


Studio di registrazione, New Jersey, 1983, ore 12:23
C’era una sola cosa che Patti amava più di cantare, ed era suonare il pianoforte: con le mani quasi tremanti, sfiorò delicatamente i tasti bianchi di fronte a sé, che risposero al suo tocco morbido con un suono dolce. Preso coraggio, cominciò a muovere le dita a tempo, ordinatamente, improvvisando un giro di blues. Suonare, d’altro canto, la faceva rilassare… E lì, in quello studio di registrazione, quel giorno aveva senza ombra di dubbio bisogno di rilassarsi.
Aveva già inciso con alcune band, certo. Quello di per sé non rappresentava un problema, anzi: provava un recondito senso di soddisfazione nel leggere il proprio nome sulla copertina di un disco. No, non era quella la questione, ma un’altra: era con Bruce Springsteen e la E Street Band che doveva registrare, quella mattina. Non esattamente gli ultimi arrivati sul mercato musicale.
Era stata una sorpresa, per lei: aveva incontrato quasi tutti i membri del gruppo, almeno una volta –tutti conoscevano un po’ tutti, sulla costa del New Jersey-, ma da quello ad essere personalmente richiesta per cantare sul nuovo album a cui stavano lavorando… come era potuto accadere?
La melodia del piano continuava a riempire l’ambiente, ancora vuoto: si trovava, al momento, nella stanza d’attesa davanti alla sala d’incisione. La band le aveva dato appuntamento lì alle undici ed ora, a mezzogiorno e mezzo, ancora non si era presentato nessuno. Non che la cosa la stupisse più di tanto: si trattava di musicisti, probabilmente erano ancora a dormire con una buona quantità di bava alla bocca. Cacciò via quell'immagine non proprio poetica.
Proprio in quell’istante, udì appena un rumore ovattato: la porta si era aperta, ma con delicatezza. C'era qualcuno con lei, ma non fiatava: che il nuovo arrivato non volesse disturbarla mentre suonava? Nel dubbio, Patti continuò a improvvisare quello scalcinato blues: d’altronde, ancora aveva un bel po’ di tensione da sfogare. Lo sconosciuto, dal canto suo, sembrò approvare quella sua scelta: lo sentì richiudere piano dietro di sé la porta ed avvicinarsi, in punta di piedi. Probabilmente si aspettava di essere stato abbastanza silenzioso da non essere udito.
Patti percepì la sua presenza ed il suo respiro dietro di lei, come se stesse guardando come muoveva le dita, che accordi stava suonando, con quale ritmo.
“Posso unirmi?”, la voce giunse inaspettata alle sue orecchie. E non perché credeva che l’uomo misterioso se ne sarebbe stato zitto per sempre, ma perché quella voce gli era tutt’altro che nuova: calda, profonda come l’oceano che si faceva più blu verso l’orizzonte, forse un po’ roca. No, non c’erano dubbi, quella voce era di…
Non fece in tempo a rispondere, né tanto meno a pensare ad una risposta intelligente da dare che Bruce si sedette alla sua sinistra, trascinando una sedia davanti il piano, e mettendosi a suonare i bassi con una invidiabile capacità d’improvvisazione. Sì, il punto è che quello non era un “Bruce” qualsiasi”: quello che aveva accanto era Bruce Springsteen in persona. Cercò di mantenere la calma, ma non era facile: erano passati anni da quando lo aveva incontrato l'ultima volta e, da allora, non avevano più parlato. Nel frattempo, lui aveva fatto uscire uno degli album folk più belli ed intensi che avesse mai ascoltato… No, non si poteva proprio dire fosse un “Bruce qualsiasi”. Deglutì, nascondendosi quasi inconsciamente dietro alla folta chioma rossa.
Bruce, da parte sua, sembrava molto rilassato. Patti lo guardò di sfuggita, vedendo poco o niente, ma si rese conto di quanto fosse cambiato, in quel tempo in cui non lo aveva più incrociato: aveva le spalle più larghe, si era tagliato le basette ed indossava una semplice maglietta al posto delle camice a righe che gli piacevano tanto una volta. Cominciò, con fare allegro, a canticchiare “Johnny B. Goode” sulle note della loro improvvisazione.
Patti rise, di una risata genuina e cristallina. Solo allora osò guardare verso l’uomo… e, per una sfortunata coincidenza, nel medesimo istante, lui guardò lei: non fu facile reggere lo sguardo di quegli occhi marroni. C'era qualcosa in loro che la attraeva con forza: sembravano già conoscerla nel profondo e, al tempo stesso, racchiudere segreti intimi, impossibili da riportare in superficie. Un mistero moderno in un mondo in cui tutto era dato per scontato. La vita, la musica, le persone. Ma no, due occhi così non potevano essere dati per scontati.
La donna era così presa da quelle iridi scure che le sue dita scivolarono, suonando un accordo dissonante. Merda. Imbarazzata, chiuse le mani a pugno, e blaterò una scusa. L'uomo, però, non parve affatto prendersela. Anzi, non aveva mai smesso di osservarla, assorto.
“Patti Scialfa, giusto? Piacere, Bruce”, mormorò lui, con voce calda, ed allungò la mano verso di lei, sorridente. Patti l’afferrò, inarcando ambedue le sopracciglia, in un’espressione forse un po’ troppo sorpresa. Per tutta risposta, lui si mise a ridere.
“Ho detto qualcosa di strano?”, domandò, piegando appena il capo di lato. La luce del sole di mezzogiorno filtrava tra i suoi riccioli castani.
Per tutta risposta, lei si passò la lingua sulle labbra. Doveva trovare qualcosa di intelligente da replicare, ed in fretta. Non poteva fare una figuraccia con lui... Perlomeno non subito. “No, cioè…”, farfugliò, “Beh, sì, in realtà”. Si stupì immediatamente delle sue parole: era una donna decisa, ma con quell’uomo, finora, si era trasformata tutto ad un tratto in una completa imbranata. Non fare cazzate, Patti, le ricordò una vocina interiore.
Bruce, però, parve al tempo stesso stupito e divertito da quella risposta. “E sarebbe? Cosa avrei detto di tanto strano?”, le chiese, punzecchiandola.
“Tu sei…”, cominciò Patti, interrompendosi per trovare le parole più adatte per spiegarsi, “Diamine, tu sei Bruce Springsteen. E noi ci siamo già incontrati, tra l’altro”, concluse, gesticolando forse un po’ troppo animatamente.
Bruce rise sommessamente. Era un piacere, vederlo sorridere, con quella sua bocca carnosa e dai denti leggermente irregolari, perché sembrava sempre molto sincero, molto vero. Non c'erano ombre di falsità o menzogne. “Lo so”, ribatté lui, scrollando le spalle, “Ma potevi pur sempre esserti scordata di me”.
Ecco, quella era davvero buona. “Scordata di te?”, sbottò Patti, “Come potrei essere così sciocca? Me lo ricordo bene, il nostro primo incontro. Eravamo ad Asbury, io cantavo. E tu eri nel pubblico, che guardavi. Io non lo sapevo, ovviamente, ma quando sono scesa dal palco mi hai presa per il braccio ed abbiamo parlato: di musica, di politica, di vita... Mi sentivo capita. Non sono cose che si scordano. A prescindere dal fatto che tu sia Bruce Springsteen”. Arrossì, rendendosi conto di aver detto sin troppo. “E certamente anche le due volte in cui ho tentato di entrare nella band e mi hai sbattuto la porta in faccia hanno avuto un certo impatto su di me”, soggiunse infine, per dare un tocco di ironia a quella sua sviolinata senza ritegno. Non voleva sembrare ruffiana... O, perlomeno, voleva tentare di non sembrare una fan urlante davanti al suo artista preferito, anche se era piuttosto sicura di star fallendo miseramente.
Stavolta, anche la granitica sicurezza di Bruce parve barcollare. Sembrò riflettere qualche istante, prima di rispondere, aggrottando appena l'ampia fronte. “Ti farà piacere sapere che sono cambiato da allora, dato che sono stato io a volerti qui, oggi”, concluse.
Di tutte le cose inaspettate sino a quell'istante, quella certamente era quella più inattesa. Insomma, non immaginava lui avesse un ricordo di lei così chiaro. “Perché?”, domandò, “Se posso chiedere...”. Cambiò posizione sulla sedia, curiosa.
Lui fece un vago cenno con testa e mani, come per spiegarsi meglio. “La tua voce è... beh, è unica. Avere i tuoi cori in una canzone sarebbe forte. Sono venuto qui prima della band appositamente per dirtelo e metterti a tuo agio”. Si leccò le labbra, poi le lanciò uno sguardo che Patti faticò a decifrare. “E poi ricordo anche io quella chiacchierata. Mi piacque”.
Un piccolo brivido le attraversò la schiena, anche se non sapeva perché. Non sapeva neppure come diamine rispondere a quel faccione angelico, che continuava a sputare complimenti come fossero nulla... Che fosse lui, alla fine, il ruffiano? Allungò la mano verso di lui e gliela strinse appena. “Amici?”, domandò semplicemente.
Bruce le fece l'occhiolino. “Amici”, confermò, ricambiando la stretta, poi proseguì, sfregandosi le mani, “Allora, hai sentito la canzone che devi cantare?”.
Patti fece cenno di no col capo. “Non ho avuto occasione”.
L'uomo si alzò, senza smettere di sfregarsi le mani, con una nuova luce negli occhi: la luce della musica, forse? Si avvicinò ad una borsa appoggiata disordinatamente allo stipite della porta e ne estrasse alcune cassette, che poi inserì in un registratore. Inizialmente un fruscio confuso avvolse la stanza e Patti trattenne il respiro, in attesa; poi il suono di pennate forti, quasi rudi, su una chitarra acustica proruppe, in una melodia al tempo stesso malinconica ed energica. Ed eccola, infine, quella voce. Quella voce che cantava di svegliarsi alla sera ed andare a dormire la mattina, di stanchezza, frustrazione e balli nell'oscurità.
“Questa è la versione acustica”, spiegò, avvicinandosele e sussurrandole in un orecchio, “Quella che dobbiamo suonare oggi sarà elettrica, o qualcosa del genere. Ancora dobbiamo lavorarci... So che non è bello da dire, però non è detto che la registrazione che faremo assieme finirà sul disco... è complicata, ecco. La mia visione musicale, intendo. Non so mai prima cosa voglio, ma soltanto a lavoro finito... Quindi spero tu non te la prenda se... Se non finisci nell'album”.
Era troppo concentrata sulla musica, stregata da quella melodia così orecchiabile, per dare alcun peso a quelle parole. “A me basta essere qui”, rispose, tenendo il tempo con la testa. Ed in fondo era persino vero. Stimava Bruce, stimava il suo lavoro ed essere lì, in quell'istante, era già un premio oltre ogni immaginazione: Bruce aveva chiesto di lei, voleva parlare con lei. E c'era della magia, in quello. Una magia che andava oltre la celebrità di quell'uomo, ma dritta alla sua anima, al tempo stesso oscura come la notte e luminosa come l'aurora. Un'anima che sentiva affine alla sua.
Bruce, allora, con un sogghigno, le porse il braccio. “Una ragazza così bella senza un compagno di danza? Inaccettabile! Mi concede questo ballo, signorina?”, scherzò.
Patti abbassò la testa, per nascondere il rossore. Inutile. Bruce l'aveva notato. “Guarda che non ti mangio. Sono un coglione, ma non un cannibale”. Doveva farsi forza: perché si sentiva così intimorita da lui? Era così gentile... forse sin troppo.
Alzandosi lentamente posò la piccola mano bianca sull'ampia spalla dell'uomo, saggiando per i primi istanti il tessuto appena sudato della sua maglietta e il muscolo contratto che vi era sotto. Subito dopo, lui fece intrecciare le sue dita callose in quelle morbide di lei e, sorridendole complice, coi fianchi cominciò a tenere il tempo. Lei lo seguì, dapprima timorosa, poi sempre più sciolta, sempre più presa... Cosa diavolo le stava succedendo? Non ne aveva idea, anche se le sarebbe davvero piaciuto saperlo. Aveva ragione, prima: c'era una sorta di magia, intorno a Bruce. E, cazzo, le erano bastati venti minuti assieme a lui per cadere sotto il suo incantesimo.

Casa Springsteen, New Jersey, 2015, ore 9:43
Sì, Patti la ricordava bene, quella foto. Bruce gliela aveva scattata subito prima che arrivasse il resto della band. “Sarà un bel ricordo”, le aveva detto lui, “Di questo giorno e del nostro ballo”. Avevano scherzato, ma lo era davvero.
La versione di Dancing in the Dark che aveva registrato quel pomeriggio non era mai finita sull'album, era vero, ma alla fine Bruce era rimasto abbastanza stupito da lei da farla entrare nella band, l'anno dopo. Ed era stato un grande risultato. Chissà se c'erano altre foto simili? Ancora incapace di rialzarsi, Patti prese tra le mani la seconda polaroid della pila e la osservò alla pallida luce della soffitta.


Angolo dell'autrice:
Dopo secoli, rieccomi a scrivere di Bruce. In questa sezione avevo cancellato tutte le mie storie (o almeno, sia Kingdom of Days e l'altra a capitoli), perché non sapevo come continuarle. Adesso, faccio un nuovo tentativo, sperando che qualcuno apprezzi. 
Un abbraccio,
thebrightstarofthewest
  
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