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Autore: Harry123    20/07/2016    0 recensioni
[Evan Peters]
Ci sono storie che meritano di essere raccontate.
Molte vicende nella vita ci segnano, altre ci scivolano addosso come acqua, altre ancora invece ci cambiano.
Non ho mai raccontato la storia per intero, la Mia di storia.
Dopo sessant’anni, eccomi qui, davanti ad un foglio, impugnando la mia amata stilografica, tracciando parole che contrastano sul bianco della loro base vuota. Lettere nere, precise, sottili, a tratti anche difficili da decifrare. E’ la mia scrittura, ma dubito che i miei posteri andranno a cercare queste mie pagine.
Non nascondo però che mi piacerebbe. Insomma.. E’ bello poter essere ricordati per ciò che si è realmente.
Io non ho mai raccontato a nessuno la mia verità, eccetto a coloro che hanno strettamente fatto parte della mia vita, ma si contano sulle dita di una mano.
Conosco l’amaro prezzo della verità, purtroppo.
Tutti abbiamo infondo degli scheletri nell’armadio, e tutti, per un motivo o per un altro, ci nascondiamo da qualcosa che ci fa paura.
Anche io ho avuto paura in passato.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Ci sono storie che meritano di essere raccontate.
Molte vicende nella vita ci segnano, altre ci scivolano addosso come acqua, altre ancora invece ci cambiano.
Non ho mai raccontato la storia per intero, la Mia di storia.
Dopo sessant’anni, eccomi qui, davanti ad un foglio, impugnando la mia amata stilografica, tracciando parole che contrastano sul bianco della loro base vuota. Lettere nere, precise, sottili, a tratti anche difficili da decifrare. E’ la mia scrittura, ma dubito che i miei posteri andranno a cercare queste mie pagine.
Non nascondo però che mi piacerebbe. Insomma.. E’ bello poter essere ricordati per ciò che si è realmente.
Io non ho mai raccontato a nessuno la mia verità, eccetto a coloro che hanno strettamente fatto parte della mia vita, ma si contano sulle dita di una mano.
Conosco l’amaro prezzo della verità, purtroppo.
Tutti abbiamo infondo degli scheletri nell’armadio, e tutti, per un motivo o per un altro, ci nascondiamo da qualcosa che ci fa paura.
Anche io ho avuto paura in passato.
Ho avuto paura di me stesso, di ciò che ero e che.. sono.
Paura di un futuro a quell’epoca inesistente.
Paura delle semplici persone. Queste sono troppo brave a giudicare, a disprezzarti senza nemmeno conoscerti. Non tutte, fortunatamente.
Ci sono anche quelle che.. ti salvano.
Esattamente.
Salvano. Salvano te stesso, la tua anima, da morte certa.
E’ di loro che voglio parlare.
Ora ho ottant’otto anni, ma all’epoca ero solo un ragazzino quando la mia vita ha preso una svolta inaspettata.
Vivevo nell’Illinois, in un borgo proprio nell’esatto confine con il  Wisconsin.
Non ho mai goduto di grandi ricchezze fino al mio diciottesimo anno di età.
Trascorrevo le mie giornate nella campagna di famiglia in estate, insieme a mio padre, mia madre, mia sorella Candice e mio fratello Dylan. Io sono il maggiore, ma non mi è mai piaciuto esserlo, troppe responsabilità e quelle poche opportunità che avevo per far privilegiare una volta tanto la mia autorità su quella dei miei fratelli, mi veniva amaramente strappata via da Dylan, un ragazzo fin dalla nascita realmente furbo, sveglio e scaltro.
Lo adoravo, mi sentivo iperprotettivo nei suoi confronti. Non era come gli altri ragazzi. Non amava il caos, le feste, il fumo o quant’altro. Lui era migliore di me. Lo odiavo per questo. Odiavo e adoravo.
Candice invece, la minore di casa, era la preferita di Dylan e di mia madre. Guai a chi si avvicinasse a lei, diventavo peggio di uno di quei Mastini da guardia che utilizzano i boss di qualche città nota.
Sono sempre stato una persona gelosa. Ciò che è mio, difficilmente lo condivido con altri, e soprattutto, vedevo tutto ciò che avevo tra le mani così.. dannatamente fragile.
Come se qualcuno, da un giorno all’altro, avesse potuto strapparmi tutto via.
Sono stato un idiota a non averlo capito fin da subito.
A volte gli incubi possono trasformarsi in realtà, altre volte invece è la realtà a sentire la mancanza di un tuo carissimo e orribile sogno, tanto da pretendere di riprendersi questo dalle braccia di Orfeo e di piombartelo davanti, comprimendoti con il peso del dolore che questo si porta.
A soli quindici anni come potevo capire cosa avesse il destino in serbo per me?
Prima di incominciare a raccontarvi questa storia però, mi pare più che opportuno dirvi almeno chi sono.
Mi chiamo Evan Peters, e da quel borgo dell’Illinois è iniziato tutto.

Magari se andassi a chiedere a qualche cittadino della famosa New York o addirittura di città come Berlino o Mosca se andrebbe a vivere nella mia stessa città, nel mio piccolo borgo, storcerebbe sicuramente il naso, guardando altrove sviando la mia domanda. Fanno sempre così le persone quando non vogliono toccare la sensibilità dell’altro. Io però dopo che pongo una domanda, ho bisogno di una risposta concreta o davvero, non mi rassegno.
Il punto è che.. solo chi ha vissuto nel mio quartiere ne sentirebbe la mancanza in un’altra città. Solo chi vive in un posto può realmente capirne l’essenza, povero o ricco che sia. Ecco come faccio a riconoscere le persone superficiali da chi non lo è.
Così è accaduto con il mio ormai vecchio amico Tyler. Lo conobbi ad un bar, una chiacchierata di qualche minuto, una partita a biliardo e poi fine della conversazione per oltre tre anni.
Si trovava nel mio borgo per motivi di lavoro del padre, io ne ero meravigliato. Insomma.. chi andrebbe mai a cercare lavoro in un posto tanto isolato?
Evitai comunque ulteriori domande, sarei entrato nel personale e non era di certo mia intenzione, specie davanti ad un perfetto sconosciuto.
Mi offrì una birra, diceva che gli sembravo una persona estroversa e simpatica, una facile con cui legare insomma. Glielo lasciai credere, sempre meglio non distruggere le idee e immaginazioni degli altri.
<< Quindi sei qui già da un po’? non ti ho mai visto in giro, e questo è strano viste le grandezze del quartiere. >> Esordì io, con il mio solito sorrisetto sfacciato sul volto e le mie immancabili fossette. I miei ricci biondi spettinati come quasi ogni giorno mi ricadevano lungo la fronte e le guance, tanto che ero puntualmente costretto a passarci una mano su, tentando di allisciarli per quanto potevo con una passata di dita. Inutile tentativo, ovviamente. Forse una tagliatina non era poi una proposta tanto malvagia.
<< Sono qui in realtà da ieri notte, ho soggiornato in un motel fuori da questo borgo per il restante del mio viaggio. Era l’unico libero, forse è per questo che non ci siamo visti. >>
Avrei voluto rispondergli con un –non ci sono infatti motel o hotel o altro qui, nel mio quartiere. Ci credo che l’hai trovato fuori da qui, puoi accontentarti solo di qualche osteria sfigata, se ti va bene. Spesso sono chiuse anche quelle.- Evitai, però. Perché dare una cattiva impressione ad un povero villeggiante?
Finsi così un sorriso sorpreso, come se abitassi in un luogo pieno di turisti e quindi super assortito e sempre all’avanguardia.
<< Oh, capisco. Beh, almeno hai visitato due città con una botta sola. Figo, no? Qui alla fine c’è poco da divertirsi, meglio trovarsi un diversivo .>>
Ed ecco un esempio di un Evan quindicenne imbranato e disattento nel tenere la bocca chiusa e nell’evitare di parlare a sproposito. Tralasciando questo mio difetto che voi che prenderete in mano questi fogli ritroverete molte volte anche più avanti, riprendiamo la conversazione.
Mi aspettavo che Tyler si alzasse, pagasse il suo conto e se ne andasse disgustato. Tutti così facevano, certo non si facevano notare, ma sentirsi dire certe cose in un paese dove cerchi lavoro beh.. non è poi così tanto confortante. Il moro però mi sorprese.
Sorrise ampiamente, portandosi una mano sulla sua mascella appena storta rispetto alla norma, dalla quale poi come uno stupido non distoglievo il mio sguardo curioso.
<< Ho detto qualcosa di divertente? >> domandai, non ricevendo alcuna precedente risposta da parte di Tyler. Alzai appena un sopracciglio prima di riportarmi il bicchiere di birra alle labbra, guardando ora il suo volto, studiandolo quasi.
<< Mi piace questo posto in realtà. Non c’è nulla, non è come le grandi città chiassose. Qui tutto quello che avete è solo per merito vostro. Date voi vita alla vostra.. vita? >> Rise alle sue ultime parole, facendo spallucce e scuotendo appena il capo, gesticolando poi con la mano, sventolandola per aria senza una reale logica, prima di riposarla sul bancone in legno, inumidendosi velocemente le labbra prima di continuare a parlare, tornando serio in pochi attimi di secondo. Cosa che io mai riuscivo a fare, una vera sventura. Se mi prende la ridarella, anche tutt’ora, è realmente finita. La conversazione con me può dirsi conclusa se è mai iniziata in modo serio. Tyler invece aveva un grande controllo di sé.
<< intendo dire, non posso giudicare il vostro stile di vita qui, semplicemente perché non ci sono nato. Non posso di certo conoscere l’essenza di questo posto se non ci sono mia vissuto, no? >>
Lo guardai e sorrisi ampiamente, mostrando ora completamente le mie fossette, riuscendo solo ad annuire. Non sapevo che dire, ero ammaliato da quelle sue parole. Non pensavo esistesse veramente gente così, e invece.. mi sbagliavo di grosso.
Ordinai così un’altra birra ma, il barista che come tutti i paesani del luogo mi conosceva fin troppo bene, scosse il capo ridendo sommessamente, tenendo il panno con cui puliva sempre il bancone in una mano, portandoselo poi su una spalla, scuotendo il capo, guardando infine sia me che Tyler, il quale ad occhio e croce pareva essere mio coetaneo. Non gli chiesi l’età quella volta.
<< Scordatelo Evan, è già tanto una birra per voi due, tornate quando avrete l’età giusta per ridurvi come quegli ubriaconi che non si reggono nemmeno in piedi! >> Mi voltai e vidi in effetti lo stesso spettacolo di ogni giorno. “ubriaconi che non si tenevano in piedi” ovunque. Beh, sì, in un quartiere del genere l’alcol era l’unica scappatoia certa.
Feci spallucce, non mi importarono per quella sera le parole di Josh, il barista. Ero concentrato su Tyler.
<< Domani ti va di farci un giro? Potrei farti conoscere i miei fratelli, sono divertenti se li prendi nel modo giusto. >> Proposi io, speranzoso, picchiettando le dita sul bancone.
<< Mi piacerebbe, ma stanotte devo andare via, di nuovo.. >>
Annuì ancora. Per la prima volta non sapevo mai cosa rispondere, chissà che impressione gli avrò fatto quella sera. Sospirai, mordicchiandomi il labbro inferiore, prima di sussultare sentendo la porta del bar cigolare, vedendo una nuova figura adulta lì davanti. Doveva essere il padre di Tyler visto che non appena lo vide lo richiamò subito alla base.
Il ragazzino davanti a me scese dal suo sgabello fin troppo alto per lui con un piccolo saltello, salutandomi con un gesto della mano, prima di raggiungere il padre.
Io ricambiai il saluto, facendo un piccolo sorriso a labbra serrate, mostrando solamente le mie fossette. Gli occhi di quel ragazzo sembravano tutto tranne che felici. Non riuscì comunque a chiedergli qualcosa a riguardo e poi, come ho già detto, non sopporto l’idea di mettere il naso nei fatti personali degli altri.
Scesi così anche io dal mio sgabello, decidendo di tornare a casa, si stava già facendo buio e mia madre era molto severa riguardo il coprifuoco. Per tutto il tragitto però non smisi di pensare a quel ragazzo. Era interessante, mi sarebbe piaciuto averlo come amico.
Non era una persona superficiale, certe cose i ragazzini della nostra età mai le avrebbero dette e per me era la novità contro le monotonie di quella vita a cui ormai ero abituato.
Pensai di volerlo incontrare di nuovo, magari ci sarei riuscito in qualche modo, oppure sarebbe tornato visto che trovava il mio quartiere interessante.
Lui però non rimise più piede lì, o almeno non per quanto la mia memoria riesce a ricordare.
Quella fu l’ultima volta che lo vidi in quelle circostanze.



A sedici anni i miei genitori mi regalarono finalmente una macchina. Dovevo ancora prendere però le lezioni di guida, ma provare non mi veniva condannato.
Facevo piccoli giri con la macchina per uno o due isolati con mio padre accanto a me, sempre pronto a dirmi quando e come girare, la marcia giusta da mettere e la sgridata per la cintura di sicurezza non mancava mai.
Non ne capivo l’utilità, ma forse avrei dovuto farlo, anzi quel mio vizio di non legarla mai era purtroppo fin troppo comune tra i miei coetanei e non solo.
Per un ragazzino del borgo più sperduto la vita procedeva comunque molto bene.
Avevo una ragazza, Alaska, a scuola me la invidiavano tutti. Dolce, solare, dai grandi occhi azzurri e i capelli dorati che ricadevano in modo morbido sulle spalle.
Lei era una persona molto riservata, come me, ma non troppo timida, amava mettersi in gioco.
Passavo con lei e i miei fratelli praticamente tutte le ore delle mie giornate, eccetto durante le lezioni, quelle solo qualche volta le passavo con Alaska, Dylan e Candice frequentavano chiaramente corsi diversi per via della loro età.
Alaska era entrata nella squadra delle cheerleader, io in quella di football. Dicevano che avevo il fisico giusto. Strano, già, anche noi avevamo una nostra squadra, che poi credetemi, non era  affatto niente male.
Dylan giocava con me, ci allenavano insieme nei pomeriggi, mentre Candice si era fatta trascinare dall’entusiasmo di Alaska entrando nella sua squadra.
Durante le partire era emozionante per i miei genitori vedere la ragazza di uno dei figli e la figlia stessa esibirsi nelle coreografie più assurde in campo e poi subito dopo vedere entrare l’altro figlio con il fratello.
La cosa più bella era che eravamo tutti uniti. Una sorta di squadra, piccola ma funzionante.
Le estati che passavamo invece in campagna erano considerate le nostre vacanze personali. Qualche volta nostra zia, nonché sorella di mia madre, ci veniva a prendere per andare al mare fuori dal Paese. Quello era il nostro diversivo più ambito per tutto l’anno.
In inverno invece ci limitavamo, se così si può definire, a fare danni per le strade del nostro paesino, come fossimo bambini di appena cinque anni.
Quando capitava che facevamo i buoni, allora era un cattivo segno.
Ci intanavamo in qualche zona più appartata del quartiere, solitamente dietro un alto muro di cui ricordo ancora il profumo dei gerani. Ci inebriava sempre, tanto da farci prediligere quel posto su tutti gli altri.
Rimanevamo lì anche per intere ore, a parlare, chiacchierare e ridere come se non ci fosse un domani, tenendo qualche bottiglia di birra da sorseggiare con noi. (guai a chi se ne scolava una intera per due semplici motivi: 1. Chi lo avrebbe detto a mia madre? 2. Per gli altri non ne sarebbe rimasto a sufficienza e per noi era come l’oro. )
Per quanto riguarda il fumo, avevamo pienamente iniziato con le sigarette, e qualche volta ci era capitato di rollare erba e passarcela a vicenda,  sempre nel pieno della pace di quel nostro luogo sicuro e segreto.
Incidemmo una volta sulla roccia di quel muro i nostri nomi, giusto per far capire a tutti di chi era quel luogo. Mi piacerebbe tornarci ora come ora, anche se è alquanto difficile.
Dylan si era preso la passione per le moto, era convito di diventare un campione come quelli della televisione da grande.
Le domeniche le passava davanti una radio o uno schermo del televisore del nostro salotto per seguire le varie gare di moto.
Alaska metteva puntualmente il broncio, avrebbe voluto seguire i suoi programmi insieme a mia sorella. Avevano molti interessi in comune.
Io invece me ne stavo buono sul divano o ad aiutare mia mamma a mettere in ordine la cucina dopo il pranzo. Non ero un grande amante della televisione. Che grande ironia della sorte considerando poi il mio futuro.
Con mio padre avevo una grande complicità:  Con lui insieme a mio fratello organizzavamo vere e proprie partite improvvisate di pallone, ci aiutava con il football prima di una gara e ci insegnò anche il baseball. Alaska era piuttosto interessata a quest’ultimo sport, mentre Candice odiava le attività sportive in generale, le piaceva molto di più trascorrere il tempo libero in camera sua a sfogliare riviste di moda.
Invidiava le modelle non solo per il loro fisico perfetto che lei era fermamente convinta di non avere, ma anche per la loro fortuna di poter viaggiare per tutto il mondo, e come biasimarla? Quella è la bellezza di essere ricchi e fortunati. Noi non avevamo mai visto nulla oltre il mare e il nostro borgo, ma ci andava più che bene così.
Mio padre avrebbe voluto mandare i suoi figli al college, Alaska già pensava alla sua domanda di ammissione, ma io in realtà non ne ero molto entusiasta. Mi piaceva trascorrere le giornate lì, e non volevo nemmeno che tutto questo finisse in futuro. Avrei voluto intrappolare certi momenti per sempre, come fa una polaroid quando scatta una fotografia. Le foto in effetti non cambiano mai, se fotografi due volti sorridenti, quelli saranno sempre felici anche se il mondo finisse.
Motivo per cui ho ancora la foto della mia famiglia sul comodino della camera. Beatrice vuole sempre che le parli di avventure del mio passato, ne è sempre affascinata e a me piace ammaliarla con i miei discorsi, anche se ora entrambi abbiamo poco fiato per intrattenere discorsi di ore, ma ce la caviamo lo stesso.
Dopo il mio diciassettesimo compleanno, Dylan era ancora più convinto di voler imparare ad andare come si deve in moto. Io mi offrivo sempre di aiutarlo per quanto ne sapessi a riguardo, ma il vero genio era mio padre. Da giovane, ci diceva, amava anche lui le moto, proprio come Dylan.
Mia madre invece le odiava. Le vedeva come un potenziale pericolo, sempre. In realtà, tutto era un pericolo per lei, ma noi non ci lasciavamo frenare.
Molte volte se la prendeva addirittura con me perché incoraggiavo Dylan a migliorare e a seguire il suo sogno, rialzandosi ad ogni caduta che inevitabilmente faceva. <> mi ripeteva sempre, dal nulla, anche quando non toccavamo l’argomento da giorni, come se fosse un chiodo fisso per lei, e probabilmente lo era sul serio.

Mio padre smise di allenarci quando si ammalò qualche mese più tardi del mio compleanno.
Era inverno, le medicine scarseggiavano da noi come l’efficienza degli ospedali, ma ad ogni modo era una malattia incurabile da quanto capimmo.
Odiavo vedere mio padre in quel modo, ed è anche per quel motivo che aumentai la dose di fumo giornaliero e di alcol. Volevo stare più lontano possibile dalla realtà.
Alaska non sapeva più come prendermi, e nemmeno mia sorella e mio fratello. Tutti eravamo conciati male.
Tumore dicevano.
Di fronte a questo quali parole puoi aggiungere? Il silenzio era il prescelto ed era uno dei momenti migliori, sempre meglio che ascoltare il pianto straziante di mia madre intrappolato nelle quattro sottili mura della sua stanza.
Non sono mai stato un ragazzo coraggioso per queste cose, tendevo sempre ad allontanarmi dalla realtà quando questa mi crollava addosso ferendomi con i suoi pezzi taglienti peggio di una massa di cocci di vetro che si impossessano del tuo corpo.
La realtà fa male, a volte. Pochi la accettano. Io non ero tra questi.
Le sere ormai le risate erano rare, nessuno riusciva più. Era triste anche questo.

<< Tua madre è preoccupata, Ev. E’ da tutto il giorno che non sei tornato a casa e a scuola non c’eri. .>>
Mormorò la voce di Alaska una sera, prima che la sua minuta figura si sedesse accanto a me, con le spalle contro quel nostro muretto.
<< Sto bene. Tu come stai? >> Mentivo. Alaska non rispondeva mai, non c’era bisogno di altre parole e sinceramente, lo apprezzavo.
Poggiava solamente il capo sulla mia spalla e rimanevamo così, in silenzio, senza dire nulla, mentre con occhi lucidi fissavo la strada davanti a me.
<< Lui è forte, ce la farà .>>  Sussurrava poi, dopo ore di silenzio, come per auto convincere se stessa.

Mio padre morì poco dopo, durante la notte. La peggiore di tutta la mia vita. Sperai fosse l’unica, ma era solo l’inizio della fine dei miei tempi felici dell’adolescenza.
Quella stessa estate Dylan si iscrisse ad una gara con le motociclette.
Inutile star qui a descrivere le scenate di mia madre, ma lui diceva di volerlo fare per papà. Lo apprezzavo, e lo appoggiavo, come sempre.
Anche mia sorella, sebbene lei fosse un po’ sulla difensiva come mia madre. Forse le donne son fatte così, sono tutte un po’ come mamma chioccia.

<< Dylan Peters, emozionato? >> Domandò con voce allegra Alaska, la quale aveva accettato di accompagnare me, mia sorella e mia madre a vedere la gara di Dylan.
<< Mi tremano le gambe ad essere onesti .>> mormorò Dylan, guardando stavolta nella mia direzione.
Mi avvicinai così subito a lui, poggiando una mano attorno le sue spalle.
<< Andrà bene, sei un grande. Vinci o perdi, questa è solo una delle tante gare che hai già fatto .>>
<< Lo so Ev, ma questa è l’unica realmente importante. Se vinco questa posso gareggiare in Nazionale! >> Esclamò Dylan, passandosi una mano in modo nervoso tra i suoi capelli biondo cenere, che a differenza mia erano lisci e sempre ben sistemati.
<< 2. E’ il numero preferito di papà. >> Notai con un piccolo sorriso, leggendo il numero dietro la maglia di mio fratello, appena sopra il cognome Peters.
<< Sono fiero di te. >> Continuai poi, prima di stringerlo tra le mie braccia.
<< Ev, se dovessi perdere e non farcela? >>
<< Sarei comunque fiero di te. Che domande sono? >> Domandai con la fronte leggermente aggrottata, staccandomi dall’abbraccio per guardarlo meglio. Di statura lui era più basso di me. Io ero il più alto di casa, la cosa spesso mi imbarazzava, non mi piaceva.
Poggiai le mani sulle sue spalle prima di guardarmi attorno, notando l’auto di un certo tipo che tutti noi non sopportavamo. Un ragazzo di cui in quel momento non ricordavo nemmeno il nome. Non avevamo bei rapporti con lui, che poi, ragazzo si fa per dire. Era più grande di noi di almeno un sei, sette anni. Era il ricco della zona, non aveva nemmeno le origini nel nostro paese. Sempre scontroso, non faceva altro che chiederci di passare del tempo con suo nipote, un certo Jeremy che meglio di lui non era di certo, dava del filo da torcere a mio fratello e di conseguenza anche a me. Amava anche lui le moto, ma forse gareggiava più per soldi che per altro, prediligeva anche altri interessi a differenza di mio fratello che aveva solo la mente su quelle piste asfaltate che facevano salire la nausea a mia madre e quasi i capelli bianchi a mia sorella.
<< Deucalion, è qui per vedere Jeremy gareggiare. >> Disse Dylan, buttando una cicca di sigaretta a terra, spegnendola con il piede, rispondendo ai miei pensieri.
<< Ecco come si chiama, Deucalion. Lo dimentico sempre >> Risposi io con fare indifferente, facendo spallucce. Mancava poco all’inizio della gara, e l’ansia per mio fratello saliva anche a me ora. Di solito facevamo tutto insieme, come le partite di football, ma stavolta era diverso. Lui stava spiccando il volo da solo nel campo che più gli piaceva. Come potevo non essere fiero di lui?

Mi sedetti sugli spalti tra Candice ed Alaska, proprio sulle file davanti per guardare meglio. Gridavo di tanto in tanto il nome di mio fratello insieme alle due ragazze per dargli forza per poi ammutolirci tutti quanti notando Jeremy tentare un sorpasso non sicuro a Dylan.
<< Lascia perdere fratello. Continua per la tua corsia.  >> mormorai a denti stretti io, continuando a fissare attentamente la pista a qualche metro da noi.
E così fece. Lasciò perdere Jeremy, si sarebbe accontentato del secondo o del terzo posto ormai. Anche se Dylan era uno che lottava fino alla fine.
Prese così la curva con più velocità del solito, manovrando in modo anomalo i suoi freni.
Mi alzai con uno scatto insieme alle due ragazze e mia madre, portandomi le mani tra i capelli. Qualcosa non andava.
Un attimo. Una frazione di secondo tanto quanto basta per delle piccole scintille di fuoco fuoriuscire dalla pista. Una sgommata sorda di una ruota della moto, prima che questa si capovolgesse. I freni non andavano, forse mio fratello andava troppo veloce, eppure le moto vengono sempre collaudate prima di ogni gara.
Forse una distrazione. Mille domande a cui nessuno di noi riuscì a darsi in fretta una risposta.
Dylan era a terra.
Mio fratello era steso su quella dannata pista asfaltata. La gara venne interrotta all’istante. Accadeva solo per gli incidenti seri. Mia madre cadde in ginocchio tra le lacrime, Alaska corse subito a reggerla, tremando dalla paura.
Io senza pensarci due volte scavalcai le transenne insieme a mia sorella e raggiunsi la pista. Mi chinai vicino al corpo di mio fratello, gli toccai il polso.
<< E’ morto. Il ragazzo è morto sul colpo. Ci dispiace.. >> Sussurrò uno dei paramedici accorsi lì. Scoppiai per la prima volta in lacrime e singhiozzi davanti a tutti, chinato sul corpo di mio fratello. Ora non potevo più scappare dal dolore, e nemmeno dalle grida strazianti di mia madre che si avvicinavano sempre di più. Mia sorella mi strinse a se, sussurrando velocemente e in modo confuso un << non può essere vero, lui è vivo, fate qualcosa, dovete  >>.
Solo in quel momento capì che non si poteva scappare dalla realtà, bisogna accettarla per come viene e non si può far nulla per vincere il Destino, decide sempre lui, nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva sorte.


I mesi successivi furono un inferno per me, e in quella casa che prima amavo, non riuscivo più a starci più del dovuto. Alaska mi ospitava spesso da lei, sua madre sapeva la situazione.
La mia invece aveva perso la testa. Prima il marito e poi il figlio, cosa ci può essere di più doloroso?
Aveva iniziato a riversare la colpa su di me.
Io avevo incoraggiato Dylan a provare le moto. Io lo avevo spinto a iscriversi e ad inseguire il suo sogno.
Mia era la colpa. Io ci credevo. Nella disperazione tutti finiscono per attribuirsi le colpe di un fatto apparentemente inspiegabile, e il nostro era uno di questi.
Non misi più piedi in casa mia, Candice aveva provato più volte a parlare con mia madre, a farla ragionare, ma fu tutto inutile.
Venne portata per l’estate addirittura in un centro di cura, aveva subito un forte trauma psicologico. Non usciva più di casa, aveva chiuso i suoi rapporti con tutti, proprio lei che amava tanto la compagnia.
Il mio esatto opposto.
Alaska non faceva altro che ripetermi quanto dovessi essere forte, che tutto sarebbe finito, e che la colpa dell’incidente non era stata la mia.
Non riuscì nemmeno ad andare al cimitero e al funerale resistetti per una sola ora.
Non avevo accettato assolutamente nulla dell’accaduto per quanto mi ostinassi a nascondere sempre tutto.
Mi scuso per eventuali sbavature dell’inchiostro, comunque.
Mi trema la mano, succede sempre quando provo a scrivere qualcosa con forte senso emotivo, e purtroppo, le mie membra tremano più facilmente anche per qualunque cosa io faccia, ma posso controllarlo.
La ferita è comunque ancora aperta, è chiaro. Fa male rivivere certi ricordi, ma ne ho bisogno. Ho bisogno di rendere onore a tutto questo.


Lentamente io e Candice ci rialzammo da quella brutta caduta, lei andava a trovare nostro fratello ogni giorno, diceva persino di sentirlo vicino a se fisicamente.
Sciocchezze per me, lui era morto. Glielo ricordavo sempre, ma in realtà lo ricordavo più a me stesso, ma mi meritavo sempre una bella sgridata dalla voce acuta di Candice, la quale poi finiva per non parlarmi per tutto il giorno affermando che fossi diventato scontroso e chiuso del solito.
Per me non era così, non notavo più le differenze ormai.
Mancava solo un giorno al compleanno di Alaska, lei avrebbe fatto diciotto anni, avevamo deciso di andare al mare vista la stagione estiva. Lei lo amava, e mi era sembrata un’idea più che splendida.
Eravamo partiti presto quella mattina. Avevo dormito con Alaska la notte prima e ci eravamo svegliati all’alba, siamo riusciti a guardarla insieme, prima di partire.
Candice ci avrebbe raggiunti a casa della zia insieme alla madre di Alaska, tutto era pronto ed io non vedevo l’ora di trascorrere una giornata come si deve.
Ormai avevo preso la patente da un anno, a diciannove anni guidare era diventata una passeggiata, ci andavo comunque sempre piano anche se ho sempre amato la velocità.
Ricordo che Alaska aveva messo la musica a tutto volume, cantando con i suoi occhiali da sole addosso che aveva comprato qualche mese prima con tutta la voce che aveva in corpo, aprendo i finestrini e lasciando che il vento le scompigliasse i suoi lunghi boccoli biondi, allungando una mano fuori dal suo finestrino godendosi quel senso di libertà. Anche io lo amavo.
Mi misi a cantare anche io, tornando a ridere, finalmente. Scherzavamo, ci prendevamo in giro quando stonavamo qualche nota, e poi mi pregava di andare più veloce affinchè arrivassimo presto in spiaggia. Con quel caldo non vedevamo l’ora di buttarci in acqua.
Quel momento di incredibile felicità venne stroncato, ancora una volta.
Un grosso camion ci venne letteralmente addosso. Avrei dovuto mettere le cinture come aveva detto mio padre, avrei dovuto farlo.
Anche Alaska avrebbe dovuto.
Entrambi venimmo scaraventati fuori dall’auto, la quale presto divenne solo una massa infuocata.
L’asfalto era bagnato, aveva piovuto la sera prima. Io e Alaska ci eravamo divertiti a sentire i tuoni da casa sua, contando i secondi che passavano dal lampo al rumore, e quando questo arrivava la bionda si rannicchiava tra le mie braccia nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.
Ora era tutto finito.
Non ricordo più nulla da quel momento, solo un buio totale e poi un coma interminabile di nove lunghi mesi, dove al mio risveglio ritrovai la persona che meno mi sarei aspettato di vedere.
 
  
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