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Autore: Ornyl    20/07/2016    0 recensioni
Ogni contrada è patria del ribelle, ogni donna a lui dona un sospir,
nella notte lo guidano le stelle, forte il cuor e il braccio nel colpir.
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
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Ogni contrada è patria del ribelle, ogni donna a lui dona un sospir
Nella notte lo guidano le stelle, forte il cuore e il braccio nel colpir


 
Questa cella è fredda, umida e puzza di piscio. E io il freddo l'ho provato sulla mia pellaccia, e la puzza di piscio non è certo un odore che sento per la prima volta. Ma questa cella è molto più fredda e molto più puzzolente di tutti gli immondezzai che ho conosciuto in vita mia, e se è molto più fredda e più puzzolente è perchè si trova in una delle basi di quei bastardi in camicia nera e giacca grigia, sorridenti con i loro denti appuntiti e i loro occhietti allungati. Ma giuro che da qua ci esco, ci devo uscire, e certamente tirare tassi contro queste pareti non mi aiuterà.
Ero il cecchino migliore della landa. Anzi, lo sono ancora. E se prima mi limitavo a lanciare i sassi contro le ruote delle automobili della polizia, adesso lancio piombo e laser contro quei bastardi. Sono il cecchino migliore della landa e lo so, lo so benissimo, altrimenti la Brigata Fulmine non mi avrebbe aperto le braccia così facilmente e io non mi sarei consegnato docile alle loro mani, soprattutto in un momento di difficoltà. Perchè quelli della Brigata Fulmine li odio, odio loro e i loro cazzo di ideali di libertà e uguaglianza per cui imbracciano il fucile quando io lo cullo solo per vedere fiorire papaveri insanguinati ai miei piedi e davanti ai miei occhi, ma se c'è qualcosa che mi accomuna alla Brigata Fulmine non faccio a meno di riconoscerlo: li odio tanto quanto odio quei bastardi in camicia nera e giacca grigia, quegli stronzi che con le loro promesse serpentine hanno avvelenato di bugie noi Puri e sterminato quei poveracci degli Ibridi. Forse li odio più della Brigata Fulmine, perchè anche se sono un lupo solitario non sopporterei mai di vedere qualcuno morire a causa del colore dei suoi occhi, della sua pelle o della forma del suo naso.
O almeno, non ancora.
E questa cella puzza. Puzza quanto le anime di quegli stronzi neri e grigi, puzza quanto tutto il piscio e tutto il sudore che ho annusato in vita mia. E non riesco nemmeno ad appoggiare la testa senza sentire quella pietra grigia e dura che mi terrorizza come non mi ha mai terrorizzato il sangue sparso davanti a me, il pallore dei visi dei soldati che ho lasciato stecchiti e gravidi di piombo, la durezza delle membra irrigidite dalla morte che lasciavo lungo la strada o che curavo come una madre quando le sistemavo nelle loro bare di compensato. Forse perchè il sangue sparso presto sarà il mio, forse il pallore prenderà il mio viso e la morte stringerà nella sua rigida morsa il mio corpo.
Danilij Martinovich, dritto come un fiume in piena dalla S-Zone. Col cazzo che ci finisco dentro pure io, in una bara di truciolato scadente.      
         Appoggio la schiena contro il pavimento sudicio e chiudo gli occhi: Dio, com’era – com’è – bella Pravda. Forse è proprio per lei che ho imparato ad odiare meno la Brigata Fulmine.
-Hai da accendere?- mi aveva chiesto, ed io ero rimasto immobile con lo sguardo ficcato dentro all’ottica del fucile. È cretina, pensai. Quand’ero appostato non lasciavo il bersaglio nemmeno per pisciare e me la facevo nei pantaloni, e lei mi chiedeva se avessi da fumare?
-Stai zitta o la bocca te la chiudo io col fucile.-
Credo che sia iniziata lì la nostra storia d’amore perché, effettivamente, il fucile poi lo pretese eccome. Nascosti come due ladri, al buio, dietro ai casermoni dove dormivano gli altri Fulmini. E lei muta. 
Ora sto qui a trastullarmi coi ricordi melmosi dell’amore abbandonato; sto qui, quando invece dovrei essere fuori da queste quattro mura spalmate di merda. Fuori a piantare rose rosse sui petti di quei figli di puttana.  
È cominciato tutto con il giorno di Marinella. Nonostante ci fosse sentore di guerra, in città si doveva festeggiare. E la santa patrona. E le botteghe. E gli sconti alle tessere razione. E la gente. La Vita. Tutto quanto per strada come un carosello da macelleria. Perché questo è stato, quel giorno di Marinella. Macelleria pubblica.   
Ricordo che stavo a tagliare le gomme delle auto parcheggiate quando suonò la prima sirena. Lasciai la lama conficcata nel copertone e schizzai in piedi come se mi avessero piazzato una granata nel culo. Alzai gli occhi al cielo: niente. Non un caccia, non un misero elicottero per sbaglio. Nulla. Estrassi il coltellino. Seconda sirena.  
Dalla via principale cominciò ad irradiarsi una folla di gente in corsa, urlante, nera e viscida dalla paura: formiche. Sì, formiche, quando distruggi loro il formicaio infilandoci dentro un giunco. Cominciai a correre. Terza sirena. E alla terza sirena capii che il cielo era vuoto poiché non si trattava di un bombardamento a tappeto, ma di nucleare.
Nucleare.
Ora come ora, con la testa in bilico sulla pietra ghiacciata, rimpiango i corpi caldi dei bunker popolari. Li rimpiango, sia i morti che i vivi. Soprattutto i morti, ché non si lamentano quando ti ci stringi contro fino ad asfissiarti. Fino a lasciargli i segni delle tue unghie sulla carne. Fino a fingere che ti siano parenti per sentirti meno solo quando, chissà dove, i tuoi sono finiti morti ammazzati.
Ammazzati perché ospitali.   
Puri ed Ibridi. Conterranei ed estranei. Giusti e sbagliati. Vivi o morti. Tutti morti.
Ti avevo scritto una canzone, Pradva. Pradva, sì, l'unica verità rimasta a questo stronzo orfano e mercenario, la Pradva mia con la gonna lunga e la camicia sporca di olio di motore che balla mentre zio Gregorij suona la fisarmonica e ScemoJoe batte le mani a tempo.
La canzone tua, Pradva mia, non la scordo come non scordo il tuo viso. E nemmeno le freddi pareti di questa cella del cazzo lo scorderanno, incido la loro superficie col tuo nome e la tua canzone, e il mio coltellino è solo un pennello su questa ardesia mortale, l'unico pennello che mi rimane prima di morire o scappare.
 
 
 
 Racconto scritto con la collaborazione dell'autrice e mia carissima amica e compagna Jultine Reese.
   
 
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