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Autore: high_functioningsociopath    21/07/2016    4 recensioni
-Le cose che voleva dire e che non ha detto...
-Si?
-Le dica ora.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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"The stuff that you wanted to say but didn't say it..."

"Yeah"

"Say it now."

"well... I'm sorry, I can't."

-Sherlock BBC, The Reichenbach Fall

 

 

 

 

 

 

 

-Il mio migliore amico, Sherlock Holmes, è morto. 
John Watson se ne sta seduto sulla poltrona della sua terapista e, nel momento esatto in cui pronuncia quelle parole, chiude gli occhi, come se davanti a lui si potesse materializzare quella scena che non vuole assolutamente rivivere. 
Sherlock Holmes si era buttato giù dal tetto del St. Barts Hospital appena un mese prima e John ancora riviveva quella scena giorno dopo giorno, notte dopo notte. 
Si svegliava agonizzante e in ansia, mormorando senza fiato il nome dell'amico. 
Sherlock, quel geniale detective che in pochi anni era entrato nella sua vita rivoluzionandola totalmente. 
La sua terapista lo fissa dalla poltrona di fronte. 
È già almomenti. te di ciò che è successo al famoso detective e sa che pronunciare quelle parole è costato al suo paziente molto più dello sforzo visibile sul suo viso. 
Gli occhi chiusi e la bocca contratta, l'espressione sofferente che ha John in quel momento sono niente in confronto al dolore psicologico che sta provando da giorni. 
Lei sa quanto lui e Sherlock erano legati, lo sa perché ogni volta che John andava a trovarla, per "ricaricarsi", come diceva lui, le raccontava di quello strano uomo che a tutti sembrava fenomeno da baraccone cinico e bastardo ma che per lui era la cosa più preziosa che avesse a questo mondo. 
John scrolla le spalle e apre gli occhi e nei suoi occhi ora c'è il luccichio di una commozione e di una tristezza infinita. 
-Sono fiera di lei, John. Ha preso subito consapevolezza di ciò che è successo. 
Consapevolezza. 
Per John Watson quella parola non aveva un senso. 
Certamente era consapevole della morte di Sherlock, la riviveva ogni notte da un mese. 
Si era buttato davanti a lui. 
Lui aveva visto il corpo slanciato del suo amico saltare dal tetto dell'ospedale e atterrare sul pavimento del marciapiede sottostante. 
Quando si era fatto largo tra la folla, stordito come se a buttarsi fosse stato lui stesso, aveva visto il viso e i capelli di Sherlock coperti di sangue e i suoi occhi aperti che lo fissavano, vuoti, senza più vita. 
John non voleva crederci. 
Era riuscito a prendergli il braccio, tastargli il polso ed era stato strappato via da lui. 
Non c'era più battito. 
E John non voleva crederci. 
Lui è consapevole della morte di Sherlock Holmes. 
Lui sa perfettamente che la loro casa al 221B di Baker Street rimarrà vuota e silenziosa senza di lui. 
John Watson è consapevole che Sherlock Holmes non tornerà mai più. 
Ma John Watson non vuole crederci. 
Non vuole perché quella consapevolezza lo sta uccidendo. 
Per questo guarda la sua terapista con l'espressione più triste di cui un essere umano è capace. 
Ma resta in silenzio e non osa dire ad alta voce niente di ciò che ha pensato. 
Non osa contraddirla e farle notare che il non voler accettare la morte del detective è una sua libera scelta. 
Dopo qualche minuto di silenzio, la terapista fa un sospiro, getta uno sguardo al suo taccuino. 
-Posso immaginare come si sente, John...- inizia a dire. 
John Watson scuote la testa e la interrompe con il gesto secco di una mano. 
Una risata amara gli sfugge dalle labbra. 
-No, lei non lo sa. Nessuno sa cosa significa perdere Sherlock Holmes.-
La terapista non sembra offesa per essere stata interrotta. 
John Watson ha perso tutto il suo mondo, perdendo Sherlock Holmes. 
-John, io so cosa significava, per lei, il signor Holmes.- gli dice, piano. 
John fissa lo sguardo alla finestra e osserva le gocce di pioggia che si abbattono sul vetro e scivolano giù in grossi rigagnoli d'acqua. 
Sorride, ricordando quante volte Sherlock aveva fatto lo stesso gesto che fa lui ora. 
Sherlock, che fissava le gocce di pioggia dalla finestra del loro appartamento ogni singola volta che pioveva. 
John non aveva mai capito se quel gesto lo aiutasse a pensare o semplicemente se le gocce di pioggia esercitassero su di lui e sul suo animo infantile qualche strana attrazione. 
Ma sapeva soltanto che amava quei momenti

-Il mio migliore amico, Sherlock Holmes, è morto. 
John Watson se ne sta seduto sulla poltrona della sua terapista e, nel momento esatto in cui pronuncia quelle parole, chiude gli occhi, come se davanti a lui si potesse materializzare quella scena che non vuole assolutamente rivivere. 
Sherlock Holmes si era buttato giù dal tetto del St. Barts Hospital appena un mese prima e John ancora riviveva quella scena giorno dopo giorno, notte dopo notte. 
Si svegliava agonizzante e in ansia, mormorando senza fiato il nome dell'amico. 
Sherlock, quel geniale detective che in pochi anni era entrato nella sua vita rivoluzionandola totalmente. 
La sua terapista lo fissa dalla poltrona di fronte. 
È già al corrente di ciò che è successo al famoso detective e sa che pronunciare quelle parole è costato al suo paziente molto più dello sforzo visibile sul suo viso. 
Gli occhi chiusi e la bocca contratta, l'espressione sofferente che ha John in quel momento sono niente in confronto al dolore psicologico che sta provando da giorni. 
Lei sa quanto lui e Sherlock erano legati, lo sa perché ogni volta che John andava a trovarla, per "ricaricarsi", come diceva lui, le raccontava di quello strano uomo che a tutti sembrava fenomeno da baraccone cinico e bastardo ma che per lui era la cosa più preziosa che avesse a questo mondo. 
John scrolla le spalle e apre gli occhi e nei suoi occhi ora c'è il luccichio di una commozione e di una tristezza infinita. 
-Sono fiera di lei, John. Ha preso subito consapevolezza di ciò che è successo. 
Consapevolezza. 
Per John Watson quella parola non aveva un senso. 
Certamente era consapevole della morte di Sherlock, la riviveva ogni notte da un mese. 
Si era buttato davanti a lui. 
Lui aveva visto il corpo slanciato del suo amico saltare dal tetto dell'ospedale e atterrare sul pavimento del marciapiede sottostante. 
Quando si era fatto largo tra la folla, stordito come se a buttarsi fosse stato lui stesso, aveva visto il viso e i capelli di Sherlock coperti di sangue e i suoi occhi aperti che lo fissavano, vuoti, senza più vita. 
John non voleva crederci. 
Era riuscito a prendergli il braccio, tastargli il polso ed era stato strappato via da lui. 
Non c'era più battito. 
E John non voleva crederci. 
Lui è consapevole della morte di Sherlock Holmes. 
Lui sa perfettamente che la loro casa al 221B di Baker Street rimarrà vuota e silenziosa senza di lui. 
John Watson è consapevole che Sherlock Holmes non tornerà mai più. 
Ma John Watson non vuole crederci. 
Non vuole perché quella consapevolezza lo sta uccidendo. 
Per questo guarda la sua terapista con l'espressione più triste di cui un essere umano è capace. 
Ma resta in silenzio e non osa dire ad alta voce niente di ciò che ha pensato. 
Non osa contraddirla e farle notare che il non voler accettare la morte del detective è una sua libera scelta. 
Dopo qualche minuto di silenzio, la terapista fa un sospiro, getta uno sguardo al suo taccuino. 
-Posso immaginare come si sente, John...- inizia a dire. 
John Watson scuote la testa e la interrompe con il gesto secco di una mano. 
Una risata amara gli sfugge dalle labbra. 
-No, lei non lo sa. Nessuno sa cosa significa perdere Sherlock Holmes.-
La terapista non sembra offesa per essere stata interrotta. John Watson ha perso tutto il suo mondo, perdendo Sherlock Holmes. 
-John, io so cosa significava, per lei, il signor Holmes.- gli dice, piano. John fissa lo sguardo alla finestra e osserva le gocce di pioggia che si abbattono sul vetro e scivolano giù in grossi rigagnoli d'acqua. Sorride, ricordando quante volte Sherlock aveva fatto lo stesso gesto che fa lui ora. Sherlock, che fissava le gocce di pioggia dalla finestra del loro appartamento ogni singola volta che pioveva. John non aveva mai capito se quel gesto lo aiutasse a pensare o semplicemente se le gocce di pioggia esercitassero su di lui e sul suo animo infantile qualche strana attrazione. Ma sapeva soltanto che amava quei momenti perché poteva osservare Sherlock senza timore che lui se ne accorgesse. 

Non aveva la minima idea del perché preferisse osservarlo quando Sherlock non lo poteva vedere, sapeva solo che gli sembrava più giusto così. 

Che tra loro c'era sempre stato questo strano legame, questa strana attrazione che spingeva il dottore a voler osservare ogni gesto che compiva il suo amico. 

-John? 

La sua terapista lo guarda con aria professionale, sebbene l'espressione degli occhi tradisca la compassione che prova verso di lui. 

Lei sa. 

John Watson è convinto che lei sappia tutto, tutto ciò che lui non ha mai avuto il coraggio di dire neanche a se stesso, quasi. 

-John, perché è venuto qui ora? L'ultimo appuntamento sarebbe dovuto essere diciotto mesi fa. Perché ora? 

John sembra confuso da quella domanda. 

Il motivo gli sembra ovvio: ha appena perso il suo migliore amico. 

-Mi sembra chiaro, le ho detto quello che è successo.- le risponde, con tono incerto. 

-Si, ma io la conosco, lei ha subito molte perdite, durante la guerra. Ha visto molti dei suoi amici morire. Ma quando è venuto qui la prima volta non mi è mai sembrato turbato dalla morte. 

John pare afferrare il punto del discorso. 

Accenna un sorriso amaro prima di rispondere. 

-È vero, la guerra mi ha lasciato delle brutte cicatrici, ma so essere dannatamente razionale davanti alla morte.

Lascia andare quelle parole quasi come una riflessione. 

Si è incastrato nel punto esatto in cui voleva farlo incastrare la sua terapista. 

Lo può capire dallo sguardo che gli lancia. 

-Esattamente, quindi perché ora è qui?

John viene colpito immediatamente da quella domanda. 

Se la aspettava, ma sentirla a voce alta ha tutto un altro effetto. 

-Io penso che lei sia qui perché ha bisogno di dire qualcosa, qualcosa che forse non ha mai avuto il coraggio di dire. 

La terapista sembra conoscerlo troppo bene, per averlo visto solo due mesi e qualche giorno, se si contano le sedute sporadiche a cui si sottoponeva di tanto in tanto per ridarsi un tono. 

John è sorpreso. 

È davvero così evidente il peso che mi porto dentro? 

Fa un sospiro, prima di lasciare che le parole scivolino fuori dalle sue labbra. 

-In realtà c'è... C'è qualcosa che ho sempre voluto dire e che non ho mai detto. 

La terapista annuisce, prendendo nota nel suo bloc-notes. 

-E queste cose che non ha mai detto...

-Si?

-Le dica ora. 

John Watson si irrigidisce, quasi smette di respirare. 

Non può. 

Come può? 

Quel semplice invito gli ha portato alla mente un turbinio confuso e rumoroso di scene e di parole, che ora gli danzano davanti agli occhi e nelle orecchie, mostrandosi con tutto il dolore che portano.

Rivede se stesso correre per i corridoi bui di una scuola, alla ricerca di un pazzo appena conosciuto che aveva deciso di mettere a rischio la sua vita confrontandosi faccia a faccia con un serial killer. 

Si rivede impugnare la sua pistola, urlarne il nome e sparare contro una finestra, contro un uomo che per poco non ha ucciso quel pazzo appena conosciuto. 

Si rivede uccidere un uomo soltanto per salvare Sherlock Holmes. 

Senza pensarci due volte. 

Senza nessuno scrupolo. 

E si rivede in ogni giorno passato al suo fianco, a volte semplicemente seduti nel loro salone uno davanti all'altro, in silenzio, ognuno immerso nel proprio da fare, godendo della compagnia reciproca. 

Si rivede lanciare qualche occhiata sbieca al ragazzo davanti a lui, spinto dalla curiosità di conoscerlo meglio e capire i meccanismi contorti di quella brillante mente. 

Rivede l'espressione incredula che Sherlock aveva fatto la prima volta che John gli aveva detto che lo trovava brillante e geniale. 

L'espressione di una persona che non è stata mai capita e apprezzata e non sa come reagire davanti a quelle parole. 

E che finalmente ha conosciuto qualcuno che la ammira e la considera. 

E si rivede in tutte le volte in cui, osservando il viso di Sherlock, si è trovato sulla punta della lingua delle semplici parole, facili apparentemente da dire  ma che non avevano mai trovato voce. 

Quante volte John Watson avrebbe voluto dire a Sherlock Holmes che era la cosa migliore che gli fosse mai successa. 

Che lo aveva salvato. 

Che era sempre stato così solo e che gli doveva moltissimo. 

Lo aveva guarito, non solo fisicamente ma anche emotivamente. 

Avrebbe voluto sedersi accanto a lui sul loro divano, in una notte di pioggia, portandogli una tazza di tè e sorridendogli. 

E guardandolo negli occhi chiari, gli avrebbe voluto dire che da quando era andato ad abitare con lui in quella casa, i suoi incubi erano spariti. 

Sherlock Holmes aveva preso la sua vita e la aveva completamente capovolta. 

Aveva preso il suo cuore, il suo spirito malato dalla guerra, la sua mente confusa e apatica, li aveva stretti tra le mani e se ne era preso cura. 

E John non ha mai saputo dire se Sherlock si fosse accorto di quello che aveva fatto. 

Non ha mai saputo dire se avesse una minima idea di quanto contasse per lui. 

E ora che Sherlock Holmes aveva trovato la morte gettandosi dal tetto del St. Barts, John Watson passa ogni singola ora di ogni singolo giorno a maledirsi per non avergli detto tutte quelle cose. 

Per non avergli detto quelle semplici parole. 

Io ti amo. 

John Watson guarda la sua terapista e sospira. 

Sa già cosa farà, quella sera.

Appena uscirà da quella stanza, farà quattro passi sotto il temporale. Andrà verso il cimitero, si siederà sulla terra umida e poggerà la testa contro la lapide di marmo nero. 

Come ogni giorno. 

Lascerà che le lacrime si confondano con le gocce di pioggia. 

Piangerà, in silenzio, ascoltando solo il rumore del vento tra gli alberi e dei tuoni. 

E parlerà con Sherlock. 

Come ogni giorno. 

Gli racconterà la sua giornata, facendo finta che l'amico sia davanti a lui, seduto sulla sua poltrona. 

E allora finalmente lo dirà ad alta voce. 

Gli dirà che lo ama, che lo ha sempre amato e che ha paura che lo amerà per sempre. 

Ma per il momento.. 

-Beh, non posso...- dice, con un filo di voce. 

Se la schiarisce, per apparire più sicuro. 

La terapista emette un sospiro di sconfitta. 

-Mi dispiace, non posso.

 

 

   
 
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