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Autore: Johnatan    21/07/2016    3 recensioni
Un altro capitolo della serie da me inventata!!!
questa storia parla di un evento capitato prima dei primi tre capitoli, e ci aiuta a conoscere meglio il protagonista Oranneg, la cui personalità non ha avuto molto spazio nelle precedenti storie.
A differenza delle altre storie, questa non ha molta azione.
Si accettano recensioni e correzzioni.
Buona lettura!!!!!
Genere: Dark, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Rising: The series'
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RISING: PROLOGUE


 

Sara si era sempre domandata il perché aveva scelto quel lavoro. Durante il suo lungo percorso scolastico aveva avuto tante opportunità : insegnante, direttrice, medica, infermiera e tanto altro ancora, ma alla fine si era decisa a fare la psicologa. Non sapeva perché, ma aveva sempre visto i folli e gli psicopatici come persone recuperabili, persone che, con il giusto impegno, sarebbero potute tornare normali un giorno. Questa era la sua missione: qualunque paziente si sarebbe trovata davanti, avrebbe dedicato anima e corpo per curarli la loro condizione, e questo suo modo di lavorare le aveva portato ottimi risultati: molti dei suoi ex-pazienti erano infatti tornati normali e si erano reintegrati nella società dopo qualche tempo.

Per questo era lì.

Si trovava nella prigione di massima sicurezza di Mohun, pianeta nella quale viveva, pronta per quello che, probabilmente, sarebbe stato il paziente più importante della sua carriera, almeno secondo le parole del direttore.

Ora si trovava per un corridoio del manicomio: era lungo, poco illuminato e decisamente lurido, con tanto di topi che uscivano di tanto in tanto dagli angoli bui per scappare.

Assieme a lei vi era una guardia: era alta,muscolosa e armata di mitragliatrice laser, oltre che pesantemente corazzata.

Dopo aver camminato per diverso tempo, si fermarono davanti ad un ampia porta di metallo, la quale si aprì da sola non appena si fermarono: questo, secondo Sara, doveva essere dato dal fatto che , in un angolo, vi era posizionata una sofisticatissima telecamera, grazie alla quale erano stati visti e avevano ottenuto il permesso, in quanto.

C’era troppo silenzio secondo Sara: lei e il soldato non avevano palato minimamente durante il tragitto, ma adesso pretendeva delle spiegazioni.

“Perché lo avete rinchiuso qui sotto?” chiese la donna, rivolta alla guardia.

Questa volto lo sguardo verso di lei lanciandole uno sguardo impassibile.

“È troppo pericoloso per lasciarlo con gli altri detenuti” si limitò a dire. “Si potrebbe dire che possiede … delle … capacità molto particolari” disse lentamente: non doveva essere molto abituato a dare delle spiegazioni agli altri.

Alla fine, però, arrivarono alla cella del detenuto : era formata da una spessa lastra d’acciaio, mentre la porta sembrava essere simile a quelle utilizzate nelle casseforti delle banche, pesantemente corazzata.

“Lei è sicura di non voler entrare con una scorta, signora?” le chiese la guardia, la quale era perplessa riguardo la decisione della donna.

“No.Generalmente preferisco che i miei pazienti non si sentano minacciati, quindi preferisco andare da sola” concluse sorpassando velocemente il soldato e dirigendosi verso la porta, la quale si era appena aperta automaticamente qualche attimo prima.

Entrò: la stanza era buia e l’unica luce accesa era al centro. posizionata sotto di essa vi era un uomo: era pallido, con i capelli neri arruffati e pareva avesse una trentina di anni.

Ciò che la inquietava di quella persona erano gli occhi i quali non avevano nulla di umano: erano scuri, e l’unica cosa in grado di dar loro vita erano due iridi, due iridi rosso sangue.

Era pesantemente incatenato, e muoversi doveva risultargli parecchio difficile, ma ,nonostante tutto, il suo sguardo era apparentemente sereno.

Si sedette sulla sedia posizionata davanti all'uomo, il quale la guardò, sbuffando.

“È un altro test di valutazione psichiatrica?” chiese visibilmente annoiato , girando gli occhi. “Quante volte devo ripetervelo: io non sono pazzo! Sono solo … diversamente sano!!!” disse ad un certo punto, mutando improvvisamente di umore e lasciandosi andare ad una frenetica quanto folle risata.

Sara fu un po’ inquieta, ma riprese presto il coraggio di parlare.

“Sono qui per aiutarti” disse lei, sperando che il paziente di fronte a lei diventasse prendesse le cose seriamente .

“Aiutarmi … dubito sia possibile” disse con un ghigno in faccia.

“Non è vero ,credimi. Con la giusta cura si possono risolvere molti casi come il tuo” ribadì la donna con tono serio.

Il paziente mutò nuovamente espressione, e stavolta sembrava che quella che manifestasse fosse curiosità.

“E tu ... pensi di ... curarmi” disse, incuriosendosi ancora di più.

“Certo. Credo che potremmo cominciare con il sapere qualcosa sulla tua infanzia, che ne dici?” chiese gentilmente, sperando nella sua collaborazione.

Il paziente davanti a lui rimase fermo per diversi secondi prima di rispondere. “La mia infanzia … beh, perché no? Si prepari i fazzoletti ''piccola miss''” disse lui.

Sara si preparò carta e penna: qualunque dettaglio sul suo passato sarebbe stato importante.

“Vede dottoressa, io, come avrà senz’altro notato, non sono come le persone normali, anzi sono sempre stato … diverso. Al contrario di voi, che siete stati accolti calorosamente dai vostri genitori e siete stati coccolati e viziati da questi, io sono nato in un freddo laboratorio, sotto gli studi di decine di brillanti scienziati. Ero stato concepito come un arma vivente, come uno strumento da usare al momento giusto ... ma non tutti i dottori mi trattavano in maniera tanto fredda e distaccata, no. C’era un uomo, un dottore, un tale Francis, che mi voleva bene veramente, poichè aveva sempre voluto un figlio, ma purtroppo non ne aveva avuto la possibilità a causa della prematura morte della moglie.

Parlavamo, ci aiutavamo a vicenda e , nel mentre, mi insegnò tutto sulla scienza e sulla robotica.Progettavamo di fuggire insieme, in modo da diventare una vera famiglia. Ma purtroppo non fu possibile.” disse il paziente, fissando il pavimento con sguardo triste, immerso nei propri pensieri: doveva essere la prima volta che raccontava questa storia a qualcuno.

“Perché?” chiese la donna, che si rattristava nell'ascoltare la storia dell'uomo, una storia che, cominciava a capire, era fatta solo di sofferenza e morte, proprio come … Lei.

“Perché lo uccisero” disse lentamente. “Gli altri dottori avevano scoperto il nostro progetto, e quindi uccisero Francis una settimana dopo. Io cercai di protestare, ma loro si misero a ridere dicendo che ero una loro proprietà e che non avevo alcun diritto di decidere. Mi sentivo indignato … la rabbia scorreva in me come un fiume in piena. Non riuscivo più a trattenere nulla, vedevo solo la vendetta e poi …” si interruppe un attimo, chiudendo gli occhi e versando una lacrima.

Sara lo compativa: rivivere quei dolorosi ricordi non doveva essere affatto piacevole per lui.

Cominciò a sentire i suoi piccoli singhiozzii, e si sorprese di quanto fossero simili a quelli di un bambino, un bambino che aveva appena assistito a qualcosa di orribile.

Ma qualcosa cambiò dopo qualche attimo: quei singhiozzi stavano mutando in qualcosa di peggiore. Non capiva che cos'era ma sembrava … una risata. Una risata che aumentava di volume di secondo in secondo.

Guardò inorridita l'uomo davanti a lei, impotente e spaventata da quella reazione, chiedendosi se non sarebbe stato meglio per lei chiamare una guardia.

“E poi ...” riprese a parlare. “Mi sono lasciato andare! Li ho uccisi tutti. Tutti. Dal primo all'ultimo, godendo del loro sangue caldo che schizzava a fiotti sulla mia faccia, godendo del loro dolore e ascoltando le loro inutili scuse e urla di terrore come se fosse una musica dolce e melodiosa! È stato … bellissimo” concluse con gli occhi socchiusi, e con uno sguardo apparentemente rilassato, il quale, però mutò dopo qualche attimo, facendolo tornare serio.

“E allora ho capito.” disse lentamente, quasi come se stesse riflettendo. “Non è stato Dio a crearmi. Non è stato il destino a farmi compiere quegli orrori, non è stato il fato a darmi un padre né il diavolo a togliermelo e a farmi cadere nel peccato dell'omicidio uccidendo i suoi collaboratori. Se Dio ha visto quello che gli era successo non gli importava. E quindi da quel momento compresi una lezione.” disse alzando lo sguardo verso la dottoressa e guardandola dritta negli occhi. “Dio non fa il mondo in questo modo, dottoressa.” disse abbassando lo sguardo e guardandosi le mani incatenate. “Lo facciamo noi”.

Basta. Sara non avrebbe sopportato altro ancora. Si alzò lentamente, riuscendo a tenere a stento il libretto che aveva tra le mani, dato che queste tremavano.

“Bene” disse lei terrorizzata.“Direi che per oggi può bastare. Il prossimo incontro e alla settimana prossima.”

concluse prendendo la borsa che si era portata appresso e dirigendosi verso l'uscita.

Il dolore la consumava.


 

***

Due settimane dopo


 

Sara aveva riflettuto per tutte e due le settimane se continuare a tenere il suo paziente: nel loro ultimo incontro aveva percepito qualcosa di … simile tra la sua storia e quella di lui, e ciò non era affatto piacevole.

Entrò e si sedette proprio come aveva fatto le ultime due volte, determinata come non mai.

Il suo paziente era nell'esatta posizione in cui l'aveva lasciato l'ultima volta, tranne che per un particolare: se la prima volta era stata accolta in modo piuttosto freddo, ora davanti a lei vi era un uomo con su dipinto in faccia un ampio sorriso-a tratti folle- che la accoglieva calorosamente, cosa che, dopotutto, aveva fatto anche la settimana prima.

“Sera dottoressa” disse l'uomo con un tono perfettamente rilassato. “La stavo aspettando. Mi farebbe vedere di nuovo quelle macchie d'inchiostro? L'ultima mi ricordava il parrucchino di uno degli scienziati che mi aveva dato vita, mentre l'altro mi ricorda … un gatto morto!” disse sbellicandosi dalle risate, tanto che anche la sedia su cui era seduto cominciò a tremare leggermente.

Lei rimase impassibile.

“Non sono qui per fare altri test con le macchie. Volevo provare con un approccio più … diciamo … diretto.” disse, sistemandosi e cominciando a tirar fuori il proprio libretto. “Vorrei che mi parlassi di altre parti della tua vita. Questo potrebbe aiutarti non poco secondo me”.

I' uomo la squadrò sorridente, quasi come se ciò che aveva appena detto lo divertisse.

“Perché invece ...” cominciò a chiedere. “Non parliamo un po' di lei, dottoressa?” chiese. Sara si sorprese: nessuno dei suoi pazienti le aveva mai chiesto una cosa del genere!

“Di … me?” ripeté, non trovandosi preparata per quello che le era stato detto. “Beh, non c'è molto da dire” disse timidamente, cercando di essere il più naturale possibile. “Nel nostro primo incontro le ho parlato della mia … chiamiamola ''infanzia''” disse lui. “Adesso mi parli lei della sua”.

Della … sua infanzia? La cosa la terrorizzava: non aveva mai raccontato a nessuno della sua vita di quando era piccola, e questo per un valido motivo … non intendeva raccontarla, eppure c'era qualcosa in lei che le diceva che doveva farlo, quasi come se si sentisse obbligata.

Preparandosi mentalmente al suo racconto, cominciò.

“Sono nata in inverno, più precisamente a dicembre: appena nata mi ritrovai senza padre, in quanto se ne era andato prima che nascessi, dicendo a mia mamma che non era pronto a diventare padre. Nessuno ha più saputo nulla di lui, o almeno lei non ne ha più saputo nulla. Per noi la vita si dimostrò subito difficile: i miei nonni mi detestavano considerandomi una vergogna, mentre a scuola i miei compagni mi prendevano in giro a causa di mia madre, che,pur di guadagnare soldi per mantenermi ,si era data alla prostituzione e alla pornografia, grazie alla quale potevamo vivere in un appartamento decente” disse abbassando lo sguardo e versando una piccola lacrima.

“Sarebbe stata una vita orribile se non fosse stato per … lui.” disse, pronunciando a fatica l'ultima parola, quasi come se la stesse sussurrando.

“Lui chi?” chiese il suo paziente con tono calmo e pacato, visibilmente interessato al racconto.

“Si chiamava Ronald” disse lei tra mille lacrime. “Lui e mia madre si conobbero per caso in un bar : aveva un lavoro prestigioso, un lavoro che gli garantiva di guadagnare molto denaro, e fra loro due fu un colpo di fulmine immediato. Uscirono per diversi mesi,dopodiché decisero di sposarsi. Ero … felice insieme a lui, perché con quel matrimonio la nostra vita era migliorata” concluse, sempre con le lacrime agli occhi, ma al contempo sorridente.

Un sorriso falso” pensò lui. Il fatto che mentisse era palese.

“C'è altro” ribadì lui. Non si trattava di una domanda, ma di una vera e propria affermazione, quasi come se lo sapesse già.

“No … non c'è altro” disse lei. “Si invece”ribadì lui, freddo come il ghiaccio.“È solo che non vuole parlarne” disse lui, con un ghigno che cominciava a dipingersi in faccia.

La donna rabbrividì: non poteva aver avuto modo di scoprirlo veramente … forse era solo un bluff ... forse stava solo cercando di spaventarla … o … o forse no?

Ciò nonostante, non intendeva rimanere lì un secondo di più: era la seconda volta che quel colloquio cominciava a prendere una piega spiacevole.

Di scatto prese la borsa vicino a lei e non si prese neanche la briga di prendere il suo libretto, che rimase posato sulla sedia.

“Oggi finiamo prima” disse lei con sguardo e un tono freddi come il ghiaccio. “E la prossima volta ...” disse ormai già diretta verso l'uscita “La prossima volta si ricordi chi è il paziente e chi il dottore” concluse uscendo a grandi passi dalla cella.

“No, dottoressa” disse sottovoce.

“È lei che dovrà ricordarselo”.


 

Una settimana dopo


 

Sara era seduta sul divano di casa sua. Le finestre erano chiuse, le luci spente e l'unica cosa che emanava luce era la televisione che stava guardando in quel momento, mentre cercava di mangiarsi una busta di patatine, cercando di pensare il meno possibile al colloquio che una settimana esatta prima avuto col suo paziente, e cercando anche di non ricordarsi della fine del suo racconto, parte che non aveva avuto il coraggio di narrargli.

Ma la sua quiete fu presto interrotta dal suono del cellulare, il quale era posizionato proprio sul divano, accanto a lei.

Esitò prima di rispondere, ma alla fine, proprio come era successo una settimana prima, qualcosa in lei la convinse che doveva rispondere. “Pronto?” disse tranquillamente, aspettandosi che fosse una delle sue amiche che, come al solito, cercava di convincerla a venire con lei o con loro da qualche parte.

Peccato che si sbagliasse.

“Buonasera, qui è il manicomio di Mohun. Lei è la dottoressa Sara Flecher?”. La voce la conosceva troppo bene: si trattava del direttore del manicomio, con il quale aveva già parlato prima di cominciare ad avere degli incontri con il suo paziente. “Si. C'è qualcosa che non va?” chiese tranquillamente, pregando se stessa che non fosse niente di troppo grave. “Purtroppo non c'è tempo per le spiegazioni. Venga qui è le dirò tutto” e detto questo staccò. Sara rimase incollata al cellulare per diverso tempo: e se fosse evaso? Sarebbe stato un guaio : uno instabile come lui liberato nel mondo reale sarebbe stato un enorme pericolo.

Spense la televisione con il telecomando, accese la luce e prese la giacca.

Doveva fare in fretta.


 

* * *

“Lei comprende” disse il direttore. “Che uno come Wrath non può girare libero. È completamente fuori, per quanto mi riguarda. Se incontrasse qualcuno, questi non potrebbe fare una fine molto bella.” concluse, girandosi verso la finestra del proprio ufficio e osservando il cortile per i detenuti. “Fosse per me questi pazzi andrebbero tutti giustiziati per quello che fanno”.

Sara si trovava dall'altra parte della scrivania, osservando la foto dell'uomo che stava cercando: si trattava di un energumeno alto si e no due metri e mezzo, con muscoli a non finire, un abbondante giubbotto di pelle nero e degli occhiali da sole in faccia. La cosa che più inquietava in quella foto erano le mani: nel momento dello scatto queste erano coperte di sangue, mentre per terra vi erano una lunga distesa di cadaveri semi-mutilati.

Che orrore.

“E io cosa dovrei fare?” chiese lei. “È la prima volta che vedo questo tizio”.

Nel sentirla parlare il direttore si giro, per poi sedersi sulla propria sedia. “Vede Sara” disse l'uomo “Il motivo per cui l'abbiamo chiamata è che Oranneg- il paziente che lei ha visitato- potrebbe conoscere la sua attuale ubicazione.” disse.

La donna spalancò gli occhi: Oranneg? Era questo il suo nome? Perché non glielo aveva detto prima? Ma soprattutto:cosa volevano da lei? Ci rifletté sopra per qualche momento, ma la risposta si presentò da sola.

“E lei vuole che lo faccia parlare” disse lei lentamente, sperando di sbagliarsi.

Ma purtroppo aveva fatto centro.

“Si” disse lui, pronunciando quella parola quasi come se si stesse sforzando. “La prego. Ne va del bene della società.” concluse. Sara notò che non sembrava una richiesta o un ordine quello che le stava dicendo il direttore.

La stava implorando.

Chiuse gli occhi è tirò un profondo respiro: quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrebbe incontrato quell'essere, e poi sarebbe finita. Doveva compiere questo sforzo, per il suo bene e per quello di chiunque fosse finito nelle mani di quel Wrath.

Si alzò dalla sedia e guardò dritto in faccia il direttore.

“Portatemi da lui”.


 

* * *

Entrò nella cella,la quale, notò lei, era molto cambiata: la luce era ora presente in tutta la stanza, mentre Oranneg era posizionato al centro della stanza, ma in una posizione relativamente più comoda rispetto a prima, e con un libro aperto davanti a lui.

La cosa che le fece spalancare gli occhi, però era un particolare.

Il libro era sospeso a mezz'aria.

“Oh, dottoressa!” disse Oranneg voltando lo sguardo e guardandola negli occhi, con un volto tranquillo e sereno.

“Ciao Oranneg” disse lei, fredda come il ghiaccio. “Sono qui per farti una domanda”. Oranneg le sorrise radiosamente. “Mi dica pure” disse lui con tono calmo e pacato, voltandosi nuovamente verso il libro e riprendendo la lettura.

Sara cominciò a girargli attorno. “Vorrei sapere la posizione di un tuo amico” disse lei, cercando di imitare il tono del proprio paziente per apparire controllata.

“E sarebbe?” chiese lui, senza smettere di leggere.

“Un certo Wrath”.

Ci fu un minuto di silenzio, un minuto che parve un eternità.

Dubito mi abbia sentito” pensò la dottoressa, dirigendosi accanto al suo paziente per vedere la sua espressione.

“Sapresti dirmi dov'è?” chiese,cercando di apparire il più naturale possibile.

Sentì l'uomo tirare un profondo respiro, un respiro identico a quello che aveva fatto lei nell'ufficio del direttore, per il suo stesso motivo: cercava di rilassarsi.

“Glielo dirò” disse infine. La dottoressa non poté fare a meno di sorridere: presto quell'agonia sarebbe gunta al termine.

Peccato che la frase non fosse finita.

“Se” disse lui, freddo come il giaccio. “Mi racconterà la fine della sua storia”concluse con lo stesso tono.

Sara non poteva credere alle proprie orecchie: Aveva sperato con tutta se stessa che se ne fosse dimenticato, ma purtroppo non sembrava avesse pensato ad altro per tutta la settimana. Era inutile: più a lungo sarebbe continuato quel loro discorso, più si correva il rischio che Wrath uccidesse qualcuno.

Con tutta la pazienza del mondo, la donna si sedette sulla sedia come faceva durante le sedute terapeutiche, preparandosi a narrare la storia.

“Passarono gli anni è, proprio come le avevo detto, il mio padre adottivo Ronald e mia madre erano felici insieme … così come lo ero io. I miei compagni avevano smesso di prendermi in giro, mentre i miei nonni cominciarono finalmente a parlarmi. Tutto andava bene fino a quando ...” si interruppe improvvisamente.

“Fino a quando … ?” chiese Oranneg, la cui curiosità era probabilmente alle stelle.

La dottoressa alzò lo sguardo, disperata e con gli occhi lucidi, mentre si sforzava di andare avanti.

“ … Fino a quando capitò qualcosa a Ronald. Non so esattamente che cosa fosse, ma mi pareva fosse stato licenziato da quel che avevo capito. Sta di fatto che ci ritrovammo peggio di prima: Ronald minacciava mamma in continuazione, cominciò a bere e ad ubriacarsi, e quando si annoiava picchiava mamma e a volte anche me. Non c'è la facevo più a vivere in quel modo, così come mamma, che però aveva le mani legate in quanto il marito la minacciava di morte se solo fosse scappata. Un inferno, fu tutto un inferno … ma non dimenticherò mai quella notte ...” disse interrompendosi nuovamente, posando le ginocchia per terra e cominciando a piangere a dirotto, con le mani poste sopra la faccia in modo da non far scendere le lacrime che, comunque, scorrevano a fiotti sopra il pavimento.

“Quella notte” ripeté tra i mille singhiozzi. “Quella notte Ronald aveva bevuto più del solito … mia madre lo aveva provocato e … lo ricordo ancora … RICORDO ANCORA MIA MADRE CHE VENIVA PUGNALATA! RICORDO IL SANGUE CHE SI ESPANDEVA SUL PAVIMENTO MENTRE IO ERO Lì A GUARDARE!!!RICORDO!!! RICORDO TUTTO!!!!” urlò la dottoressa, fissandolo in faccia per poi guardare il pavimento.

“E cosa ha fatto quella sera, dottoressa?” chiese lui: la sua voce non era mutata, era infatti rimasta calma e pacata, senza un filo di cambiamento.

La donna rifletté su quello che aveva detto, ma soprattutto su quello che avrebbe dovuto dirgli.

“Quella notte” ripeté lei con un filo di voce. “Quella notte ho aspettato che si addormentasse, per poi prendere il coltello, avvicinarmi a lui e … ucciderlo.” concluse lei, con un tono che sembrava un misto tra il folle e il teatrale.

Adesso aveva capito! Aveva capito quello che la sua storia e quella di Oranneg avevano in comune: entrambi erano nati sfortunati e, proprio quando sembravano aver trovato la felicità, la fonte di quest'ultima gli veniva in qualche modo sottratta e loro, infuriati, si vendicavano verso coloro che gliela avevano portata via per sempre, uccidendoli a sangue freddo.

“Se cerca il suo amico” disse lui, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia. “Mi ha detto che è al Luna park abbandonato. Le consiglio di dire ai poliziotti di sbrigarsi, ho anche saputo che un elicottero arriverà a prenderlo domattina” concluse. La donna rimase stupita di quello che aveva detto ma ,soprattutto, di come Oranneg le avesse detto tutto senza fiatare una volta raccontata la sua storia.

“Grazie” disse lentamente lei, asciugandosi le lacrime.

“No” disse altrettanto lentamente lui. “Grazie a lei.”


 


 

* * *

Sei mesi più tardi.

“Come sarebbe a dire che è scappato?” chiese il direttore.

“ È evaso durante la notte, e per poco non radeva al suolo mezzo manicomio” disse il soldato, asciugandosi la ferita al braccio destro che gli era stata provocata dal demone durante la sua fuga. “Ha rubato una dimensio-nave ed è fuggito dal pianeta. Se non è in un altra dimensione, al momento, sarà senza dubbio molto lontano.” concluse immergendo il proprio panno rosso nell'acqua fredda.

“Dubito si possa fare qualcosa”.

Il direttore, esausto, si distese sulla propria sedia, sfinito: chi avrebbe fermato quel demone? C'era qualcuno con il fegato ed il potere necessario per farlo?

Lo sperava proprio.


 


 

* * *

“Oh andiamo, vieni!” disse Laura tirando per mano l'amica che, nel frattempo, restava immobile, visibilmente annoiata.

Eh si, alla fine aveva ceduto: dopo una lunga serie di tormenti, Sara era stata costretta da Laura ad andare al centro commerciale del paese per comprarsi qualche vestito.

Dio, se c'era una cosa che la donna odiava era lo Shopping!

Il fatto che odiasse andare in giro a comprare vestiti e preferisse restare a casa aveva sempre fatto in modo che le altre ragazze la considerassero strana, sin da quando era un adolescente.

“Perché non entri prima tu?” chiese lei con finta gentilezza. “Io ti aspetto qui”.

L'amica chiuse gli occhi e abbassò la propria testa,sbuffando. “Fa un po' come ti pare” disse mentre si girava, e si diresse verso il negozio.

Sara aspettò che la ragazza entrasse all'interno per sedersi sopra una sedia arancione vicino a lei, tirando un profondo respiro.

Erano ormai mesi che non la smetteva di pensare a Oranneg, e in particolar modo alla storia che gli aveva raccontato : non aveva mai svelato a nessuno di aver ucciso il suo padrino, e non intendeva farlo mai … ma allora perché lo aveva detto a lui? Chi o che cosa l'aveva costretta?

Avrebbe tanto voluto saperlo.

D'un tratto le suonò il cellulare, e se lo tirò fuori dalla borsa: il numero era a lei sconosciuto … chi poteva essere?

C'era solo un modo per scoprirlo.

Premette il pulsante per rispondere e si mise il telefono vicino all'orecchio. “Pronto?” disse lei, aspettandosi una risposta, risposta che, tuttavia, ci mise molto ad arrivare: primi attimi della chiamata furono di silenzio, un silenzio placato solo da quello che le pareva un respiro.

“Salve Sara”.

Rabbrividì, perché aveva riconosciuto la voce: si trattava della stessa voce che aveva tormentato i suoi incubi per due lunghi mesi, una voce che, per quanto si sforzasse, non riusciva a dimenticare.

“Oranneg?” chiese con una voce che pareva un misto tra lo spaventato ed il sorpreso. “Come va?” chiese l'uomo dall'altra parte. “Avete trovato il vostro amico?” chiese rivolgendosi a Wrath.

Ci furono diversi attimi di silenzio.

“Dove si trova?” chiese lei, chiedendosi se l'avesse pedinata. “Purtroppo non posso rivelarglielo mia cara” gli disse lui. La sua voce era calma e modulata. “verrebbero a cercarmi”.

Doveva approfittare di quell'attimo, doveva approfittarne per dirgli quella cosa che avrebbe voluto riferirgli da mesi.

Una sua scoperta.

“Lei mi ha ingannata” disse lentamente, con tono serio.

“Si” disse lui. “Si, l'ho fatto. Come l'ha scoperto?” chiese lui.

“Le nostre storie avevano molto in comune” disse lei. “Ho pensato che fossero troppe”.

Sentì una risatina provenire dall'altro capo del cellulare. “Ebbene si. Le ho mentito. Quella che ha sentito non è la mia storia.” gli riferì lui con grande sicurezza.

“È la sua”.

La dottoressa spalancò gli occhi: come diamine faceva a conoscere la sua storia prima che la raccontasse? Questo era possibile solo tramite accurate ricerche o magari- ma questa era la teoria più improbabile- tramite …

“Telepatia” disse lui, facendo sorprendere la donna ancora di più. D'un tratto si ricordò delle parole dette dalla guardia il suo primo giorno.

Si potrebbe dire che possiede … delle … capacità molto particolari”.

Era forse quello che intendeva? Poteri mentali?

“Hai letto la mia mente … è … hai creato una storia ...ma allora perché?” chiese. “Perché hai voluto che te la raccontassi?”.

Non poteva vederlo, ma le parve scontato che in quel momento l'uomo sorridesse.

“Per dimostrare una mia teoria” disse lui. “E cioè che non importa di quale grado militare si sia, quale lavoro si faccia o di quale sesso si sia … no, non importa” gli disse l'uomo.

“Perché alla fine, sotto quella vostra gentilezza … siete tutti come me” concluse sottolineando l'ultima parola. “Abbiamo gli stessi valori”.

Silenzio. Ecco cosa c'era, perché non vi era nulla da ribadire, perché aveva ragione: alla fine erano entrambi assassini ed entrambi avevano problemi mentali.

Alla fine erano uguali.

“Scusi dottoressa, ma ora devo andare. A presto!”.

“NO! Aspetti” disse lei. “Dove ...” ma non ebbe il tempo di finire: aveva staccato la linea.

Perché alla fine siete tutti come me. Quelle parole continuavano a ronzarle in testa mentre si dirigeva verso la finestra: questo non per vedere il panorama, non per vedere i palazzi costruiti davanti agli edifici, ma per dare un occhiata a qualcosa che aveva visto prima: si trattava di una donna, una donna che veniva brutalmente picchiata da un teppista di strada. Non intervenne, non avvertì nessuno, non fece assolutamente nulla. Oranneg aveva ragione: la gente comune e le persone comuni alla fine erano dei mostri.
 alla fine erano come lui.


 

Mi chiamo Sara Flecher, e sto guardando in basso.

E volete sapere cosa vedo?

Vedo qualcosa.

Qualcosa costruita prima del manicomio.

Prima della città

Prima che fosse costruita anche la prima delle città.

La follia.

Essa ci sarà sempre, perché è parte dell'uomo

Essa ci sarà sempre, perché non può essere repressa.

Perchè non esiste una cura, nessuna cura.

Solo l'umanità.

 


 

FINE


 


 

Si dice che la gente diventi pazza perché non ha capito qualcosa, Io penso che siano pazzi proprio perché hanno capito tutto.”


 

ANGOLO AUTORE:

Piaciuta? Spero di si!!!!

Ho deciso di scrivere questa parte della serie per esplorare più a fondo la personalità di Oranneg, il quale, almeno secondo me, non riuscivo a descrivere bene nelle altre storie.

Quindo lo avete capito: ha un atteggiamento calmo, tiene sempre tutto sotto controllo ed è soggetto a diversi sbalzi d'umore, oltre a essere chiaramente pazzo.

È voi che ne dite? Vi piace Oranneg? Secondo voi il nostro amico ha la stoffa per diventare un grande cattivo? Fatemelo sapere nelle recensioni!!!!!

A presto

Johnatan


 

   
 
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