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Autore: Jawn Dorian    21/07/2016    3 recensioni
Lui e i sui bislacchi problemi.
Lui e la sua situazione politica grave ma mai seria.
A volte era pronto ad accettare a braccia aperte il ruolo di giullare di quella immensa corte che era il mondo, altre volte si incaponiva a tentare di spiegare che la colpa non era la sua. In Italia la colpa è sempre degli altri.
{ Raccolta. Un vano tentativo di riscrivere il personaggio di Lovino in chiave realmente satirica.
E un po' di Spamano. Quella non guasta mai. }
Genere: Comico, Drammatico, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai | Personaggi: Sud Italia/Lovino Vargas
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Italia, Roma, 1940
 
Era nato nazione e se ne era anche fatto una ragione. Uno nasce e sa già di esserlo, era così, era sempre stato così, e di sicuro lui non era mai stata un’eccezione al grande ed inappuntabile disegno delle cose. Anche perché tutti sapevano quanto l’Italia del Sud fosse sempre stata arrendevole. Ma poi arrivava la guerra e Lovino finiva per sognare non di non essere nazione, ma addirittura di non essere uomo. Durante la guerra sognava di sparire, di poter valicare le trincee e scappare lontano, cambiare pianeta o universo. Ma per quanto si scoprisse capace ancora di sognare, o sperare e non essere poi così accomodante nei confronti delle ridicole circostanze che la guerra gli imponeva, i sogni erano comunque cenere nel vento.
 Lovino Vargas era un uomo e una nazione e doveva comportarsi come tale.
“Come ti chiami, soldato?”
La divisa la portavano perché così non potevano distinguersi, perché di fronte alla guerra si era tutti uguali: ricchi o poveri, nazioni o umani. Lui la portava perché così nessuno lo poteva riconoscere come nazione. Non importava a nessuno se era Lovino, Romano, nipote del grande Impero, ora era solo Vargas. Il soldato semplice Vargas.
“Va-Vargas…”
“Non ti sento!”
“V-Vargas, signore.”
“Imbraccia come si deve quel fucile, Vargas, e togliti quell’espressione spaurita dalla faccia.”
Tremava, e voleva tanto non doversene vergognare così tanto. Aveva uno strano dolore, all’altezza del petto. La conosceva troppo bene, quella fitta. Qualcuno, da qualche parte, un italiano, forse un intero esercito di suoi compatrioti, era stato terminato.
“Sìssignore.”
“E smettila di piangere! Nel mio reggimento non si piange!”
“Io…sìssignore.”
“Mettitelo bene in testa: sei un uomo quando sai imbracciare il fucile. Sei un uomo vero quando sei un vero soldato. E’ la guerra che fa di te un uomo.”
 
La mafia uccide solo d'Estate
 

“A morte il disertore”

 
 
Belgio, Bruxelles, 2015
 
Belgio arrivò trafelata con un impermeabile rosso che la faceva spiccare tra la folla. Si era sistemata i capelli con un cerchietto dello stesso colore. Quando lo avvistò, accelerò il passo per venirgli incontro, con un sorriso ed il fiatone.  Era sempre così carina. Era l’unico raggio di sole in quel pomeriggio di Febbraio piovoso, a Charleroi.
 “Roma, petite!” chiamò alzando una mano. Lovino la raggiunse trascinandosi dietro il trolley malandato e piombandole addosso per regalarle un abbraccio travolgente.
“Ti ho già detto mille volte di non chiamarmi petite!” rise.
“Non riesco davvero a togliermi dalla testa di quando eri alto ottanta centimetri” con un sorriso raggiante gli posò due leggerissimi baci sulle guance e agguantò il trolley.
“Com’è andato il volo?”
“Tutto bene. Anche se il pranzo è stato disgustoso- oh, no lascia stare!”  Lovino provò a riprendersi il trolley allungando il braccio, ma Belgio lo scostò con delicatezza. “Lascialo a me, sarai stanco…vieni, ti porto a fare un pranzo decente. “
“Un pranzo decente a Charleroi?”
“Ehi!” protestò energicamente la ragazza “Che si era detto sul manifestare la tua superiorità sul cibo?”
“D’accordo, d’accordo” si arrese Lovi “decida lei, madame.”
“Ecco, così va meglio.”
 
 
 
 
“Spara!”
Il suo compagno, poco più avanti, con un rivolo di sangue che gli usciva dal naso, lo intimò con un ringhio. “Sparagli!”
Davanti a lui un soldato inglese, che ai suoi occhi non era un soldato, non era inglese, non era il nemico e nemmeno un bersaglio. Era nulla di più che un ragazzino appena maggiorenne – esile come suo fratello - , e arrancava con la gamba gravemente ferita, tentando di trascinarsi il più lontano possibile da lui. “VARGAS, SPARA!”
Il ragazzo inglese si era voltato indietro per gettargli un ultimo sguardo disperato. Piangeva.
Che mondo diverso sarebbe, quello in cui le lacrime cambiano le traiettorie dei proiettili.
Non era un soldato e non era un uomo. Era solo un ragazzino. Ma era come doveva essere.
E Lovino l’aveva ucciso.
 
 
 
 
 
Per arrivare nel centro della capitale, bisognava per forza prima passare a Charleroi.
L'aeroporto di Charleroi si chiamava così perché era un aeroporto che serviva la città di Charleroi, una cittadina minuscola nella parte Sud di Bruxelles che altro non aveva che il vanto di un aeroporto – giust’appunto - che collegava il mondo alla capitale belga. C’erano le abitazioni. Un parco. Molti alberghi piuttosto squallidi. E un ristorante. Un singolo ristorante. Minuscolo ma frequentato quanto bastava.
Un ristorante italiano.
Belgio irruppe dentro con al suo seguito un trolley e un ragazzo alquanto incazzato e bagnato.
“Roma, petite, ma quante volte te l’ho detto? Qui piove, non fa lo stesso tempo che da te!”
“Me l’hai detto più meno quante volte io ti ho detto di non chiamarmi petite-“
“Appena arriviamo a casa ti presto un impermeabile. Dio, quanto sei irascibile quando sei affamato!”
Lovino tacque. Non si poteva certo dire che Belgio avesse tutti i torti.
Si sedettero all’estremità di un lunghissimo tavolo di legno massiccio in vecchio stile, da cui dall’altra parte stava un padre con due bambini che scorrazzavano felici come quello fosse stato un parco giochi. Tutti e tre biondissimi e pallidissimi. L’uomo salutò Belgio con un sorriso.
“Marten!” rispose lei cortese “Comme on ca va?”
Fu l’ultima cosa che Lovino capì, prima che i due si mettessero a chiacchierare in francese in modo fin troppo veloce e concitato perché lui riuscisse a seguire. Non comprese nulla finchè Belgio non lo infilò nella conversazione: “Dico bene, Roma?”
“Che? Cosa?”
“Marten adora l’Italia, ti ha riconosciuto! Dice che adora la tua cucina! Gli ho detto che eri lusingato—“
“Ah!” si illuminò “Certo, certo—ehm- Merci, merci!”
L’uomo gli sorrise affabilmente, prima di tornare a concentrarsi sul tiramisù che purtroppo uno dei suoi bambini aveva già finito per spappolare nel piatto.
Ordinarono delle linguine al pomodoro che arrivarono dopo quella che a Lovi sembrò un’eternità. Non erano al dente come lui le prediligeva da sempre, ma non osò neppure accennare alla cosa e divorò tutto. Mangiò avidamente facendo la scarpetta col sugo alla fine.
“Non era così male, eh?” sorrise Emma, compiaciuta come non mai.
“Davvero niente male per un posto come questo.”
Non l’avrebbe mai ammesso, ma il fatto che l’unico ristorante in quel posto fosse proprio italiano lo lusingava da morire.
 
 
“E’ uccidere o essere uccisi, Vargas.”
Il suo fedele compagno di trincea che lo esortava sempre a sparare si chiamava Scaccia.
Scaccia - se lo sarebbe ricordato per sempre - era l’unico dei soldati semplici che lo chiamava con il suo cognome e non con il nome da nazione. Aveva gli occhi chiari e una cicatrice sul mento. Non si poteva dimenticare uno così consapevole della loro uguaglianza di fronte alla guerra.
Si chiamavano solo per cognome. Il suo nome, per un motivo o per un altro, non l’aveva mai sentito, mai chiesto e mai colto. Per lui Scaccia era solo Scaccia ed era solo il soldato che per qualche ragione lo faceva rialzare ogni volta. Non un amico, non un compagno, non un fratello.
Solo Scaccia.
“Ma tu non hai paura?” gli chiese, un giorno.
Scaccia aveva trent’anni e già quattro figli e un moglie stanca che lo aspettava a casa come tutti, e che come tutti non poteva permettersi il privilegio di sperare che sarebbe tornato.
“No. Gli uomini veri non hanno paura della morte.”
“Non della morte” lo interruppe Romano con stizza “ma del fatto che a conti fatti siamo tutti assassini.”
 
 
 
 
 
“Questo meeting è piuttosto importante. Sono felice che l’abbiano organizzato qui da me.”
Belgio entrò in casa con aria soddisfatta. America amava ancora riunire tutti per parlare dell’emergenza inquinamento, ogni tanto. E a Lovino andava benissimo, perché almeno non si trattava di un meeting europeo, e nessuno poteva girarsi verso di lui con sguardo indagatore e domandare “A che punto siete?”, “Che provvedimenti stanno prendendo, i tuoi capi?”, “Hai detto loro che ci state rallentando?”
Fortunatamente ogni tanto c’erano i meeting mondiali, in cui si poteva respirare.
“Tuo fratello dov’è? Non viene?”
Casa di Belgio aveva sempre quel vago profumo di pretzel e birra. Roma mollò il suo trolley di fianco al divano-letto – era lì che dormiva sempre quando era ospite – e ci si abbandonò sopra con un sospiro.
“Aveva del lavoro da sbrigare.”
Emma strinse le labbra con aria pensosa. “Avete litigato di nuovo?”
Romano tirò fuori un grugnito angosciato, pigiandosi un cuscino sulla faccia.
“Roma!”
“Cosa! Non abbiamo litigato, non ci siamo picchiati, né tirati niente addosso, te l’assicuro! E’ stata una semplice discussione come un’altra.”
Belgio sospirò. Si grattò la testa e senza insistere si chiuse in camera per cambiarsi.
“Ah, tra poco dovrebbe arrivare Antonio, gli apri tu?”
Ci mancava solo Spagna per completare la combriccola di gente che non sapeva farsi gli affari suoi. Lovino non fece in tempo a sbuffare scocciato, che il citofono squillò con prepotenza. Aprì, senza controllare chi fosse, perché d’altronde lo sapeva già benissimo. Socchiuse la porta d’ingresso e con aria rassegnata salutò.
“Ciao Spa—“
“Roma, mi querido, cuánto tiempo! Así que estoy feliz de que nos encontremos de nuevo, no puedo—“
“Spagna—“
Antonio gli buttò le braccia al collo. Tra loro due la diplomazia non era mai esistita e Lovino in tutta franchezza aveva sempre fatto a meno di chiedersi il perché. Finse di lamentarsi, ma lo strinse brevemente anche lui. “Ehi, Lovi, cosa avevamo detto? No me llames España, yo soy tu Antonio…”
“Non sono più tuo fratello piccolo da una vita, Antonio…”
“Oh, mi Roma! Sei cresciuto e sei indipendente, todavia te puedo amar!”
In tutto quel trambusto erano rimasti abbracciati. Come al solito non c’era verso di comportarsi da adulti, quando c’era Spagna di mezzo. Belgio uscì da camera sua giusto in tempo per beccarli mentre si staccavano. “Voi due siete imbarazzanti…lo sapete questo, vero?”
 
 
“Mangia.”
Scaccia era un soldato come lui, ma ogni tanto si dava delle arie da Comandante. Era un tipo decisamente indurito dalla vita. O dalla guerra. O da entrambe. L’accento romano lo faceva sembrare ancora più minaccioso. Spesso lo costringeva a mangiare. Lovino aveva questo vizio di digiunare, come in un vano e patetico tentativo di morire.
“Ho detto, mangia” gli ficcò il tozzo di pane rinsecchito in bocca con prepotenza, e Lovi a quel punto iniziò a masticare.
“Non so chi ti credi di essere, Vargas, ma così non impietosisci nessuno.”
Romano buttò giù il boccone e l’esofago bruciò.
“Allora perché mi stai dando da mangiare?” tossì, con aria inviperita.
Scaccia tacque. Un barlume di tenerezza affiorò nel suo sguardo di ghiaccio.
“Finisci e zitto.”
 
 
 
Lovino non ne aveva molti, di amici.
In quelle condizioni era difficile farseli, semplicemente. Se ne stava avvinghiato all’Europa con tutte le sue forze, sentendo ogni giorno sulle spalle il peso del debito pubblico come un macigno.
Il brutto dell’essere una nazione era che la crisi economica equivaleva ad un malanno fisico che poi si trasformava anche in uno mentale, specie se avevi un dannato fratello minore che finiva sempre per darti la colpa di tutto. Non si poteva neanche più litigare in santa pace in casa Vargas senza che Feliciano non gli rivolgesse qualche accusa travestita da innocente costatazione.
Molti pensavano che Lovino fosse una nazione a cui piaceva stare per conto suo. Beh, non era affatto così.
Per questo, quella notte, Lovi mandò al diavolo la sua idea di spazio personale e lasciò che Belgio abbandonasse lui e Antonio al loro destino nello stesso divano-letto.
Entrambi, poco abituati alla brezza notturna belga decisamente più ostile della loro, si tirarono su la coperta fino al naso e in un muta intesa si strinsero più vicini. Le cose erano sempre così naturali, tra loro due, senza il minimo imbarazzo. Lovino non ne aveva molti, di amici. Però aveva Spagna.
“Beh” ridacchiò lo spagnolo “come quando eri piccolo, visto?”
“Quanto sei scemo, Dio mio.”
“¿Por qué?”
“Vivi nel passato.”
“Lovi, guardami.”
Si girò, e anche nel buio della stanza, dove solo qualche raggio di luna illuminava l’interno, gli occhi di Antonio continuavano ad avere quella luce dentro.
“Non sono fermo al 1800, so bene che sei indipendente, adesso. E so bene che è giusto che tu lo sia. Per l’amore del cielo, sono passati secoli. Non è di quello che rivango. Non è quello che mi manca.”
Quel sorriso era ridicolo. Loro erano ridicoli.
“E allora cos’è che ti manca?”
“Tu.”
La sillaba si spense lasciando un sottile eco nella testa di Lovino. Cercò di nascondere lo stupore, passandosi una mano tra i capelli, ma non ci riuscì. Inevitabilmente finì per arrossire un po’, come quando era un ragazzino. Antonio aveva questo particolare talento nel farlo sentire più giovane ma allo stesso tempo più grande, più forte. Gli ricordava il modo in cui un tempo aveva avuto il coraggio di rivendicare la sua indipendenza, ma anche quanto era stato in grado di riscoprire che essere amati e protetti era ancora possibile.
“Ma dai, che cazzate dici?” ridacchiò l’italiano, visibilmente imbarazzato “Sono una delle nazioni più malcagate d’Europa. E non ricordo più quand’è che ho vinto una guerra.”
“Non siamo più in guerra.”
“Beh, se ce ne fossero non saprei affrontarle.”
“Beh, forse non sei fatto per la guerra!”
Lo colse impreparato. Spagna lo fissava dritto negli occhi e non sorrideva più. Non ricordava di averlo mai visto così serio. Gli posò un mano sul polso e strinse un poco, come a volergli donare vigore.
“Non sei fatto per la guerra. Nessuno dovrebbe più esserlo. Non è questione di cosa pensa di te l’Europa come nazione…tu come persona, Lovi, eres tu que yo quiero.”
Lo guardò confuso.
“Non ti preoccupare” sorrise rassicurante Antonio “adesso dormiamo.”
Gli schioccò un veloce bacio sulla guancia come faceva da sempre e posò la testa sul cuscino, mentre Lovi era ancora occupato a lambiccarsi il cervello tra l’eco di quelle parole.
“Buenas noches.”
 
 
 
“Basta.”
Talvolta, c’erano giorni in cui sentiva di non potercela fare. Erano i giorni in cui dovevano marciare e basta, quindi erano soli con i loro pensieri. I giorni  in cui gli tornava in mente che quella non era la prima guerra e che quindi non sarebbe stata l’ultima.  Erano i giorni peggiori, dove piangeva disperato e si vergognava di non vergognarsene. “Basta, non ce la faccio.”
Si accasciò per terra, lasciando che il fango lo insudiciasse, e pianse più forte.
Scaccia lo afferrò per il colletto, facendogli male. “Muoviti. Non ricominciare.”
“Mi manca Feliciano” singhiozzò “voglio tornare a casa.”
“Tuo fratello è al sicuro con Germania.”
“Mi manca Antonio. Non so neanche come sta, non so neanche—“
“Antonio?” gelò l’altro all’improvviso “Ma che ti prende, oggi? Chi è Antonio?”
A quel punto Lovino rifletté, seppure scosso dalle lacrime, se confidarsi o no con Scaccia, che non era esattamente il tipo di persona che amava ascoltare le storie altrui.
“Spagna” grugnì, tirando su con il naso.
“Tirati su, idiota.”
Come volevasi dimostrare. Lo tirò su per un braccio.
Ma poi a Romano si mozzò il fiato: Scaccia lo sorreggeva con entrambe le braccia.
 No, anzi…Scaccia lo stava abbracciando. Lo abbracciava.
“Lo rivedrai. Te lo prometto.”
 
 
 
 
 
 
Il fatto che il meeting fosse di una noia mortale non rappresentava certamente una novità. D’altra parte avevano già detto sull’inquinamento tutto il possibile da dire, in quegli anni. Era comunque doveroso prendervi parte, certo, ma nessuno ormai si vergognava più di sbadigliare. L’aria fuori era umida e fresca. Pioveva ancora, sebbene solo leggermente. La voce bassa di Germania che aveva preso parola ormai da venti minuti suonava quasi soporifera. Grecia non aveva dormito, si notava fin troppo dalle occhiaie, e dalla particolare attenzione che stava rivolgendo al foglio su cui qualche spiritoso aveva disegnato un salvadanaio rotto a forma di gattino. Lovino era seduto di fronte a Cina, e poteva vederlo perdersi nel contare le goccioline che sbattevano contro la superficie della vetrata alle sue spalle. Stava pensando di adottare anche lui quel passatempo, ma arrivò finalmente l’ora di pranzo.
Belgio aveva deciso di pranzare con Olanda e Lussemburgo, e lo aveva spudoratamente abbandonato alla compagnia di Germania – cosa per la quale Lovi non l’avrebbe mai più perdonata.
“Poteva andarti peggio” sbuffò Ludwig incrociando le braccia di fronte alla sua espressione ostile “potevi finire solo con Russia.”
“Russia non mi fa paura.”
“Ah, no?”
“No!” disse, quasi risentito “è il suo capo che mi terrorizza.”
Il tedesco sbuffò. “Almeno tuo fratello è bravo a nasconderla, la paura.”
Romano arricciò il naso nell’espressione più sinceramente offesa che riuscì a tirare fuori e sibilò: “Se ti piace così tanto mio fratello, perché non te lo sposi?”
Dato l’allarmante color porpora che avevano assunto le orecchie del tedesco, Lovino stava quasi per cantare vittoria, ma ancora una volta il crucco si rivelò essere un avversario più tosto del previsto, soprattutto sul fronte frecciatine: “Beh, in ogni caso non potrei, visto quanto da voi siano indietro con i matrimoni tra omosessuali.”
Proprio quando la tensione sembrava aver raggiunto le stelle, Spagna saltò fuori, provvidenziale come sempre: “Lo siento, ma voi due dovete piantarla con queste battutine passivo-aggressive o vi stresserete e vi cadranno tutti i capelli…posso aggregarmi?”
“Che dici” ridacchiò Lovino improvvisamente più di buon umore, rivolgendosi a Germania “lo facciamo entrare nel club esclusivo?”
“Quanto sei antipatico, oggi, Lovi!” lo ammonì Antonio scompigliandogli i capelli con un gesto vigoroso, che l’italiano non riuscì a trovare fastidioso o indesiderato, anche se ci aveva provato. “Che ne dici di una pizza? Per tirarti su.”
“Ma sei matto? Una pizza qui?
“Zuppa?” propose Germania con un sospiro rassegnato “quella qui è buona, no?”
“E zuppa sia.”
Scesero lungo una viottola che Ludwig sembrava ricordare. La guardava con aria nostalgica, un’aria per cui Antonio sembrò provare una particolare empatia. Camminavano a falcate e in silenzio. Nessuno di loro sembrava apprezzare particolarmente la pioggia, sebbene fosse leggera, e si infilarono nel primo locale appetibile senza dirsi nulla, in una mutua intesa forgiata istantaneamente per fuggire dal maltempo.
Li accolse un ambiente spoglio e piuttosto poco accogliente, ma ancora una volta la voglia di starsene al caldo prevalse, e si sedettero senza una parola.
“Ow, Italià!”
Lovino si girò di scatto, sorpreso, e trovò un viso asciutto e pallido che sorrideva gioviale, coronato da capelli biondissimi che non erano molti, per via della mezza età che iniziava a fare capolino.
“Ma…Marten?”
Sperò di aver azzeccato il nome e di non aver fatto una figura barbina. Fortunatamente l’uomo annuì con un sorriso e gli porse la mano. Romano la strinse, lasciandosi andare a sua volta ad un sorriso intenerito.
“Je suis heureux de vous revoir!”
Sono felice di vederti di nuovo.
“Merci!” rispose la nazione, cercando di tirare fuori il suo migliore accento francese. Impresa che si rivelò divertente per Marten, che ridacchiò. Non sembrava una risata per prenderlo in giro, e la cosa lo fece sentire estremamente sereno. “Ah!” si girò indicando Spagna e Germania che nel frattempo erano rimasti seduti “Ici, l'Allemagne et Antonio-“ 
Marten alzò entrambe le sopracciglia. Germania soffocò malamente una risata, mentre Antonio sobbalzò impercettibilmente sulla sedia. Decise di non girarsi per guardare il viso di Lovino che – ne era certo – era diventato di un rosso a dir poco inumano.
“…Espagne!”  si corresse velocemente Romano, ma ormai tutti i partecipanti alla conversazione sembravano aver colto quella scaglia di intimità con cui aveva pronunciato il nome proprio e non lo aveva presentato come nazione.
Proprio quando credeva che l’attenzione di tutti per i successivi minuti non si sarebbe concentrata altro che su quello, un uomo alle spalle di Marten, che era la sua copia più anziana e soprattutto più incazzata, sbraitò qualcosa in francese che a Lovino sembrò incomprensibile.
Marten assunse un’aria imbarazzata e si scusò. “Excusez-moi , est mon père-“
Scusate, è mio padre  tradusse mentalmente Lovi. E non capì il perché delle scuse fino a che non ascoltò più attentamente quel ciancicare ringhiato.
“Yuck, Italien!”  lo sentì berciare. E il resto ancora una volta gli sembrò confuso.
Colse un ‘voleurs’, ladri. Un ‘faible’, deboli.
Si creò istantaneamente un clima di imbarazzo e tensione. Marten biascicò immediatamente altre scuse. Roma indietreggiò verso il suo tavolo con un sorriso forzato. “Fa niente, fa niente” mormorò poco convinto. Germania si grattò la nuca indeciso su cosa fare, mentre Spagna era paonazzo in volto.
L’anziano continuò ad inveire in francese per un po’, nonostante i ripetuti rimproveri del figlio.
Lovino, per qualche motivo, si sentiva stranamente agitato e a disagio. Non era la prima volta che capitava una cosa simile, ma in quelle circostanze tutto sembrava più umiliante del solito. La poca clientela del locale aveva iniziato a notare il trambusto. Germania lo tirò piano per un braccio. “Ignoralo” lo sentì sbuffare “Non perdere la testa e non gli rispondere.”
Romano lo ascoltò. Non seppe come riuscì a non perdere il controllo, ma tirò un un lungo sospiro e fece per sedersi.  Voltò le spalle a Marten e a suo padre, spostando la sedia per prendere posto.
 Ma poi, un ultimo guizzo, un ultimo ringhio, un’ultima frase sibilata senza pietà lo raggiunse.
“Italien…mauvais soldats!”
Italiani pessimi soldati.
 
Lovino si girò e sorrise all’uomo. Un sorriso così bello, caldo e sincero che per un attimo sembrò illuminare la stanza.
“Merci pour le compliment.”
Grazie per il complimento.
 
Il signore si zittì all’istante. Marten prima di riuscire a portarlo via salutò Lovino con la mano, mormorando ancora una volta tutte le scuse esistenti nella lingua francese.
Romano finalmente si sedette a tavola, come se nulla fosse successo, sotto gli sguardi allibiti di Germania e Spagna. Ludwig sfoggiò un mezzo sorriso che per un attimo, solo un singolo attimo, sembrò quasi fiero.
Antonio, dal canto suo, sembrava innamorato, mentre lo fissava.
“Non guardatemi così. La guerra è finita, giusto?”
 
 
 
“Va tutto bene” mentì Lovino con le labbra che tremavano “va tutto bene, starai bene.”
Scaccia, abbandonato come un pupazzo tra le braccia della nazione, annaspava in cerca d’aria.
Continuava a sanguinare e a sanguinare. Il fianco, il petto, ora la bocca…non smettevano di riversare sangue.
“Scaccia, guardami. Stai con me, dimmi qualcosa—”
“Ti leggo il terrore negli occhi, Vargas.”
Lovino non riuscì a trattenersi oltre e lasciò che la prima lacrima gli solcasse il viso.
“Stai piangendo per me. Grazie” lo sentì mormorare.
Lo strinse più forte e iniziò a pregare a bassa voce.
“Credo che le tue lacrime valgano tanto. E credo che se hai paura allora vuol dire solo che tieni tanto a quello che hai lasciato a casa” rantolò.
“Scaccia—“
“Dio— Scusami se non te l’ho detto prima. Avevi ragione su tutto. Su ogni singola cosa. Ho sempre avuto paura. Anch’io volevo tornare a casa.
Questa guerra è insensata. Gesù—
Non è da uomini veri vantarsi d’aver ammazzato dei ragazzini che hanno gli occhi come quelli di tuo figlio.”
“Oh” pianse Lovino “Oh, Scaccia—“
“Antonio.”
“Co— che cosa?”
“Io mi chiamo Antonio Scaccia.”
Romano posò la fronte sul suo petto e pianse ancora più forte. Riuscì a soffocare  i gemiti di dolore solo dopo un paio d’attimi.
“Ti prego, dì ad Annuccia e ai bambini che li amo.”  
 
 
 
 
Un giorno, di sicuro, gli uomini veri sarebbero stati proprio quelli che si rifiutavano di imbracciare un fucile.
 
 
 

 
Scusami se diserto ma preferisco
preferisco ammazzare il tempo,
 preferisco sparare cazzate,
 preferisco fare esplodere una moda,
preferisco morire d'amore,
preferisco caricare la sveglia,
 preferisco puntare alla roulette,
preferisco il fuoco di un obiettivo,
preferisco che tu rimanga vivo!
{ Caparezza - Follie preferenziali }
 
 
 
Note dell’autrice (IMPORTANTI)
Credo di dovervi delle spiegazioni più che altro perché so quanto questa storia possa sembrare molto random e priva di un reale significato.
Lasciate che vi spieghi: mio zio (che si chiama Antonio e che – pensate un po’ – è felicemente sposato con una donna spagnola) lavora in una banca a Lussemburgo. Il Lussemburgo è una nazione incredibile (sul serio, se avete la possibilità di visitarla fateci un salto), dove ci sono un sacco di persone di nazionalità differenti e anche molti italiani. Mio zio un giorno mi raccontò che uno dei suoi colleghi lo apostrofò, uscendosene con qualcosa di molto simile a “gli italiani sono deboli, non sono dei bravi soldati!” e che lui per tutta risposta e con il suo migliore sorriso gli disse solo “grazie.”
Prendendo spunto da questo episodio la storia è venuta da sé, le dita sulla tastiera sono andate da sole.
Questo è il risultato. Un po’ pasticciato e decisamente privo di un vero senso se non puro affetto alla mia concezione di pacifismo. Sono riusciti a darmi dell’hippie in passato, vi dico solo questo.
Forse non rendo Lovino ruvido e scontroso quanto dovrebbe essere canonicamente, ma non riesco davvero a dipingerlo come uno stereotipo…come sapete punto più alla satira, e questo era il mio tentativo di esorcizzare quella parte di popolo italiano ancora convinta che la guerra sia necessaria.
Non so, forse sono io ad essere ottimista, ma mi immagino un Lovino stanco della guerra, stanco della figura di uomo-soldato. E ho fatto sì che fosse Spagna, il nostro Antonio, a tentare di tirarlo fuori dal suo guscio, perché…beh, perché è quello che fa mia zia con me.
Mia zia mi parla dolcemente e mi guarda come se fossi preziosa.
Poi uno mi chiede perché shippo la Spamano.
Non so come ringraziarvi per le recensioni e per i complimenti! Non ho mai il tempo di rispondere, ma se avete domande di qualunque genere sappiate che mi adopererò per bene per rispondervi come si deve.
Grazie a chiunque ha letto fin qua.
Spero davvero di avervi intrattenuto almeno un
po’.
  
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