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Autore: Sarah M Gloomy    22/07/2016    0 recensioni
Amabel è una normale sedicenne, ironica, non eccessivamente propensa allo studio e, a suo dire, una bugiarda patologica. Tutto nella norma, insomma, fino all'incontro con Ridley e un bambino misterioso, che le faranno comprendere quanto nella sua vita normalità e pazzia siano termini interscambiabili. E che lei, in fin dei conti, non è proprio una normale ragazza.
Genere: Commedia, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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            Il sole spruzza qualche raggio tra le nubi. La giornata si preannuncia afosa quanto la precedente, se non per la presenza delle nuvole ad oscurare il cielo. Sembra di essere in una serra. Invece di portare aria fresca e autunnale, quello zucchero sembra comprimere di più il cielo sopra alla testa e far pesare l’aria su noi poveri sventurati.
Ho preso l’ombrello, con la speranza di non doverlo usare, e non mi pento della scelta: la giornata si preannuncia dispettosa. Nell’autobus che prendo di solito i passeggeri sono schiacciati come sardine. Altra buona azione: di norma sarei stata in loro compagnia. Le auto mi passano vicine, suonando il loro disappunto per l’ingorgo mattutino. Alzo lo sguardo per intercettare gli autisti, tutti con la stessa espressione scocciata, inviperiti con chiunque sia davanti a loro. Come se l’essere il primo della colonna facesse scattare automaticamente il verde del semaforo. O se fosse colpa dello sciagurato tutta la coda.
Abbasso gli occhi appena in tempo per evitare il bisogno di un cane, schivo per un soffio lo scontro con un ragazzo, immobile davanti a me. Senza averlo sfiorato mi ritrovo a biascicare un «Scusa» frettoloso, lasciandomi perforare dal suo sguardo. Scusa tanto! Sarà stato anche carino, ma c’è un limite all’educazione. È vero che non l’ho toccato, è vero anche che mi sono scusata per qualcosa che non dovevo, è vero anche che gli sarei andata addosso volentieri pur di non pestare gli escrementi, al diavolo se portano fortuna, ma a parte un eccesso di zelo il mio comportamento è stato del tutto opportuno.
Più alto di me, occhi di un intenso verde, accenno di barba e capelli biondi. Ha il classico aspetto del “bello e dannato” e, da brava sedicenne, ne sono attratta come ape sul miele. Da una qualche parte, però, tutte le raccomandazioni dei miei si fanno sentire. Mai dare confidenza agli sconosciuti, fai attenzione alle persone che non conosci. Quindi, grazie genitori per non farmi rimanere a guardare un bel ragazzo! Continuo la mia camminata, aumentando il passo. Poco più avanti vedo la coda ballonzolante di Mary. La chiamo con la genuinità di una che non si rende conto che correre e sbracciare verso un’amica è un buon modo di attirare l’attenzione. «Mary!»
La mia migliore amica si gira. Mi sorride, prima di togliersi gli auricolari dalle orecchie e di infilarsi l’mp3 in tasca. Con soddisfazione la raggiungo zigzagando tra le persone a piedi che percorrono il nostro stesso tratto di strada, paragonando la corsa di qualche metro alla scalata dell’Everest con solo una bottiglietta di acqua e un paio di ballerine. Sono molto ottimista alla mattina.
   «Ciao! Come mai non sei in autobus?»
Mary ha le guance purpuree per l’allegra camminata, tanto che risalta ancora di più la pelle diafana e i capelli color carbone. Ai lati delle tempie delle goccioline di sudore scendono riottose. È magra come un chiodo, e la giacca nocciola evidenza notevolmente quelle braccia a zampa di ragnetto.
   «Ho dormito da mia nonna questa notte. È più comodo venire su a piedi.»
   «Ah! Ci sono novità?»
   «No.»
Consapevole del tema toccato, Mary abbassa lo sguardo per un secondo, per poi cambiare argomento. Lo fa sempre: quando qualcosa non va, distoglie un poco lo sguardo per parlare di altro. È la mia migliore amica anche per questo. «Ti ricordi il concerto che dovevamo andare? Mamma ha fatto la vacca e mi ha detto di no. Papà dice che le parlerà, ma sai quanto è cocciuta. Mi dispiace non poter venire.»
Concerto? Con la certezza di aver saltato quattro scalini senza rendermene conto, sbarro gli occhi. Il concerto! Io, Mary e Julia volevamo andare a vedere l’esibizione di un piccolo gruppo in un locale. Era un live per pubblicizzare gli Amantine, un gruppo formato da quattro ragazzi del nostro stesso istituto. Ovviamente musica chiassosa per vedere un solo ragazzo bello da paura: Jamar. Ero stata la prima a proporre quell’uscita ed ero stata l’unica a dimenticarla! La cosa positiva è che sapevo per certo che mamma non mi avrebbe permesso di stare fuori fino alle due di notte. Neppure se qualche genitore fosse stato lì fuori dal locale ad aspettarci. Neppure se ad aspettare fuori dal locale ci fosse stata mamma con un mitra in mano. «Neppure la mia credo che mi lascerebbe andare. Non ho avuto modo di chiederglielo ma sono quasi certa della sua risposta. Anzi. Togli pure il credo.»
   «Julia ci ammazzerà.» Mary si incammina cupa, mordicchiandosi il labbro. Già. E non potevo darle torto. Di tre che dovevamo uscire, ora si ritrova da sola! Distrattamente guardo alle mie spalle, per vedere il ragazzo dietro di noi procedere, apposta o per casualità, nella nostra stessa direzione.
  «… e non glielo abbiamo detto.»
Mi accorgo di aver perso parte del discorso. «Scusa?»
   «Stavo dicendo che Julia ci ammazzerà. Le avevamo detto che volevamo andare al concerto e ora, con poco preavviso, si ritrova a doverci andare da sola. Quando è? Domani se non sbaglio. Io ho provato a insistere con i miei, ma sono stati irremovibili.» Gioca con la cinghia dello zaino, nervosamente. «Voglio dire, lei non ha tutti questi problemi con i suoi. Basta che dica che è fuori per un concerto e tutto va bene. Si incazzerà, stanne certa. A volte la invidio.»
   «Lo penso anch’io.»
Io e Julia eravamo amiche da sempre, ma il mio rapporto non era mai stato come quello con Mary. Se con Mary ero incline alla confidenza, con tutte le virgolette che una frase del genere può comportare, con Julia ero sempre stata sul chi va là. Si era tutto fermato in una più che conoscenza e non eravamo la punto da rilasciare l’una all’altra delle intimità. Una cosa, tuttavia, so più di Mary. Per quanto Julia sia piuttosto incline all’ira, so che darebbe qualsiasi cosa pur di avere genitori meno accondiscendenti. Ho sempre sospettato che il divorzio avesse in un qualche modo isolato la mia amica e che i suoi le permettessero di fare il bello e il cattivo tempo solo per non sentirsi in colpa delle poche attenzioni a lei riservate.
Mary sospira. «Va beh. Meglio che diciamo tutto a Julia oggi. Via il dente via il dolore. Non oso pensare a come ci rimarrà male. E le avevamo detto che volevamo andarci! Come minimo ci dirà che non abbiamo insistito abbastanza, che potevamo chiedere prima, … per arrivare alla fine di tutto, ovvero che potevamo inventare qualche scusa con i nostri genitori. Io non me la sentirei di mentire ai miei. Almeno non per un concerto di un gruppo neppure tanto famoso! Tu lo faresti?»
   «Mm.» Non mi espongo troppo. A dire la verità, di bugie ne racconto parecchie.
Ci fermiamo al semaforo che crea tutto quell’ingorgo. È un crocevia di quattro strade, tutte a grande affluenza, che si incrociano in quel punto. Automobilisti nervosi suonano, gente in bici si avventura in manovre a rischio di suicidio, tagliando la strada ai mezzi sempre più insofferenti.
   «Come mai stamattina non c’è Carlos?»
Mi sono appena accorta della sua assenza. Mary sorride. «Mi ha detto che è grande, che può andare a scuola da solo e i miei hanno accettato. Strano, eh? Con me sono sempre stati iperprotettivi e quando un dodicenne dice di essere grande e di poter andare a scuola da solo non fanno storie. Robe da matti. Goditi ancora Ed!»
Edward, il mio fratellino di sette anni, è un bambino dolce e coccolone. Alla mattina vuole essere svegliato con un bacio sulla guancia e vuole sempre la sua sorellona a fare colazione con lui. Forse perché mio fratello, forse perché troppo buono per essere vero, non mi pesa averlo intorno. Probabilmente una volta cresciuto sarebbe diventato come Carlos. Magari, come Mary, avrei perfino dubitato di avere parte del patrimonio genetico in comune con lui.
Siamo ferme da un po’ al semaforo. La coda non accenna a estinguersi e, ad un’occhiata veloce, mi sembra che sia pure aumentata. Una signora vicino a noi continua a sbuffare, adirata per il ritardo. Guardo distrattamente l’ora. Volto appena lo sguardo, distratta dal ragazzo vicino a me.
   «Stai bene?» Ha la voce profonda e un rossore che non ha nulla a che fare con l’imbarazzo inizia a salirmi sul viso. Quindi veramente mi sta inseguendo. Non è solo una mia impressione.
   «Bel!»
Mary mi sta chiamando dal centro del marciapiede. È scattato il verde e io sono rimasta bloccata con un perfetto sconosciuto. Accidenti. Il semaforo inizia a lampeggiare, obbligandomi a fare uno scatto ferino per arrivare nell’isola sicura dall’altra parte della strada.
   «Si può sapere cosa diavolo stavi facendo?»
Mi giro a guardare il ragazzo. Le auto scattano rabbiose, travolgendo in pieno chi mi seguiva. «No!»
L’urlo mi si blocca in gola, Mary sbarra gli occhi per vedere cosa mi ha fatto tramortire. «Cosa … cos’è successo?»
I miei occhi non si allontanano dalla strada, ma nessuno rallenta per soccorrere il ragazzo. Perché? Capisco la frenesia della mattina, l’esigenza di andare a lavoro, di fare delle commissioni, ma perché nessuno tutta quell’indifferenza? Incuranti sembravano passargli sopra, schiacciandolo ancora di più nell’asfalto. Il mio cuore pulsa forte per la paura.
   «Bel, cos’è successo?»
Mi passo una mano in fronte, sbattendo ripetutamente gli occhi. Poi qualcosa mi attrae. Dall’altra parte della strada, vicino al semaforo ancora rosso, il ragazzo mi fissa con lo stesso sguardo sorpreso che ho io.
   «Amabel, si può sapere che cosa stai guardando? Mi stai facendo cagare sotto con i tuoi tiri da pazza.»
   «Io … niente, credevo di aver visto … scusa, mi sono sbagliata.»
I miei occhi mi stavano ingannando? Però sono certa di quello che avevo visto, eppure i dati reali non coincidono. A dispetto di tutto, mi sono sbagliata. Mary mi punzecchia un fianco. «Andiamo?»
Sì … sì, andiamo. Il ragazzo continua ancora a guardarmi, ma non accenna a volermi seguire. E come potrebbe, con l’ondata di auto che ci divide? Affretto il passo dietro a Mary quando sento l’orologio del campanile scoccare pericolosamente l’ora, sapendo che il suono di inizio delle lezioni è prossimo.
Seguendo il marciapiede, ci ritroviamo proprio in bocca al nostro istituto. Un ampio cortile permette nei periodi più idonei di passare la ricreazione all’aperto, con la possibilità di svolgere le varie attività scolastiche lì. Non mi ero mai preoccupata di non aver altri interessi oltre alla scuola, rimandando ogni anno l’ardua scelta di decidere cosa farne della mia vita. Purtroppo, o per fortuna, avevo già avuto un incontro con il consulente scolastico che mi aveva consigliato di svolgere un’attività sportiva al pomeriggio, visto i risultati che avevo ottenuto nella staffetta. Mamma aveva concordato che il mio estro sportivo doveva trovare una sua valvola di sfogo. O, come aveva interpretato nonna, tutta la mia energia dovevo pur sfogarla su qualcosa: il mio lettino subiva assalti paurosi ogni notte, non appena chiudevo gli occhi e mi agitavo nei miei sogni.
Guardo distrattamente in direzione del campetto da calcio, dove un gruppo di ragazzi più grandi di noi è intento a parlare. Il ragazzo più affascinante del gruppo, e della scuola, è Chase Lopez. Si trova proprio al centro, e che ci fossero in giro ragazzi o ragazze, tutti si disponevano intorno a lui. Anche in quel momento, con la campanella ormai prossima. Emana forza e attrazione da tutti gli angoli. Perennemente circondato da persone, affascina e nello stesso tempo intimorisce. Ha i capelli biondi e gli occhi verdi sono nascosti dagli spessi occhiali da sole. È a capo del club di calcio, rappresentante di classe e contemporaneamente di istituto. È quello che nella scuola ha il punteggio più alto ai test, già iscritto per l’anno prossimo all’università e sono certa che sia perfetto anche in qualunque altra attività extrascolastica. Uno di quelli che alla mattina si alzano dal letto e col cavolo che rischiano di pestare cacche di cani.
Sento il sospiro di Mary al mio fianco: neppure noi due eravamo indifferenti alla sua presenza. La tiro per il gomito, per aumentare il passo. Se Chase entra in ritardo a scuola, con i voti che prende, non ha nessun problema ma dubito che siano così accondiscendenti con noi.
Ci dirigiamo agli armadietti, dove riponiamo i libri che non ci occorrono, sgattaiolando in classe, al primo piano. «Non mi abituo mai a vedere Chase alla mattina. Non sembra sempre più carino?»
   «Mm.» Sto ancora pensando al ragazzo e a quello che ho visto. O per meglio dire mi è sembrato di vedere. Chase, siamo sinceri, è troppo al di fuori del mio radar.
   «Mi piacerebbe vederlo giocare a calcio.»
Un momento … «Credo che si alleni domani pomeriggio.»
   «Come mai così informata? Mi nascondi qualcosa?» Ha pure il tempo di incrociare le braccia al petto con fare malizioso.
Alzo le sopracciglia alla domanda. «Il martedì mi alleno e vedo un gruppo di ragazze che circonda il campo. O il calcio è diventato tutto ad un tratto popolare o Chase gioca.»
La campanella suona appena appoggio lo zaino al banco. E anche oggi è fatta.
Mi siedo al mio posto, mentre Mary si dirige alla sua postazione dall’altra parte della classe. Guardo verso la finestra. Da lì vedo il gruppo che circonda Chase muoversi all’unisono per entrare in classe. Vedo anche lui. Non è del tutto vero, quello che ho detto a Mary. Mentre riprendevo fiato mi è capitato di imbambolarmi a fissare Chase. Sono certa che lui domani si alleni. Chase è il ragazzo irraggiungibile, la cotta di ogni liceale. Perfetto. Fuori dal mio radar o meno, lo individuo sempre nelle vicinanze. E che lui mi noti o meno, il mio cuore ha più o meno la stessa reazione di quello degli altri, quella piccola speranza che prima o poi lui si accorga che esisto.
Ritorno alla classe. Mary ha già salutato Julia e, almeno dall’espressione di quest’ultima, so che non gradisce del tutto quello che sente. Non so esattamene quando io e Julia abbiamo deciso di essere poco più che conoscenti. Abbiamo fatto l’asilo insieme, i nostri genitori si conoscono da tempo, obbligate sin dalla culla a sopportare la presenza dell’altra. Forse, messa così, sarei diventata amica anche di un babbuino. Eppure ho sempre trattato con le pinze Julia, sia per il suo carattere sia, forse, per il mio. Alta un metro e cinquanta, ha forti capelli neri dritti e occhi color carbone. Sorride molto raramente, facile all’arrabbiatura. Anche in situazioni normali, tende raramente a mostrare la parte dolce del suo carattere, tanto che io ho iniziato a supporre che non ce l’ha affatto. Forse è così per il divorzio burrascoso dei suoi. Forse è un po’ stronza di natura.
Quando Julia guarda nella mia direzione alzo una mano in cenno di saluto, cosa che lei non ricambia. Non mi sarei mossa dalla mia postazione sicura per essere attaccata da lei. Poco ma sicuro. Vigliacca, forse; stupida no di certo! Il docente entra in classe, il consueto tramestio della ripresa dei posti decreta, ufficialmente, l’inizio delle lezioni.
 
                                                             † † †
 
            È appena scoccata la fine della mattinata, e già corro verso gli armadietti per prendere i libri. Ho detto a mamma che avrei fatto per lei delle commissioni e, come ogni volta che le prometto qualcosa, il tempo scivola dalle mia dita come sabbia. Non riesco ad afferrarlo, nonostante mi impegni con tutta me stessa. Non prendo l’autobus. Di certo ci metto meno a farmela a piedi. Corro lungo il viale e qualcuno saluta. «Ciao»
Mi giro appena, scoprendo che Chase ha salutato qualcuno nella mia direzione. Rallento il passo, accorgendomi che oltre alla mia persona, nessun altro passeggia per di lì. Esitante ricambio. «Ciao.»
Si muove verso di me. Strano. Io con lui non ho mai parlato, non ho nulla in comune se non frequentare casualmente la stessa scuola. Dubito perfino che abbia guardato i risultati degli altri studenti tanto da arrivare al decimo posto e scorgere il mio nome.
   «Sei Wright, giusto?»
Conosce pure il mio cognome! L’esserino piccolo del mio orgoglio alza la testa ballonzolante e scodinzola felice. Visto da vicino è molto più alto, più affascinante e stranamente meno irraggiungibile. Mi sorride, lasciandomi basita. Ci deve essere un limite al fascino di un ragazzo e, cosa inquietante, ho una strana sensazione di déjà-vu. Sarebbe utile ricordare che razza di sogni io faccia. Come sarebbe adatto rispondere alla sua semplice domanda: insomma, è il mio cognome! «Sì.»
   «Ti vedo sempre scappare a quest’ora come se avessi visto un fantasma. Curioso.»
   «No …» Strano uso di termini. Abbozzo un sorriso, portando i capelli dietro l’orecchio. Da dove cavolo sbuca quel tic nervoso? «Devo andare a prendere mio fratello da scuola alle cinque e prima devo fare delle commissioni per … per i miei. Nessun fantasma, ma se ne vedessi uno te lo dico. Recepito l’interesse.»
Annuisce. «Sì, ne sono convinto. È stato un piacere parlare con te, Wright.»
   «Anche per me, Lopez.»
Gli sorrido incoraggiante, sentendomi stranamente osservata da lui. Mi ha fermata per salutarmi? Il ragazzo più attraente della scuola, con una filza di ragazze ai suoi piedi, mi ha fermato per parlarmi? E conosce pure il mio nome! Anche in quel momento, i suoi occhi non si allontanano dai miei. Indecisa sul suo interesse, inclino la testa in avanti e prendo coraggio nell’andarmene da lì. Fare quei passi non è mai stato così doloroso. Scivolo nuovamente lungo il selciato, convinta che nessun altro mi avrebbe fatto perdere tempo. E nessun pensiero, Chase incluso, mi avrebbe distratto. Mamma mi ha scritto di fermarmi a prendere della pasta e della verdura per la sera al supermercato e ho un bollettino da pagare in posta piegato alla meno peggio dentro lo zaino. La priorità è, appunto, quel foglietto, da recapitare al luogo prestabilito prima della chiusura degli uffici pubblici.
Saltello nervosamente allo scattare del semaforo, guardando la strada trafficata. «Dai … dai … dai.»
Appena il verde lampeggia, attraverso la strada e mi infilo in un vicolo. Di lì a poco avrei raggiunto l’ufficio postale più vicino. Aumento la velocità quando mi accorgo della prossima chiusura degli uffici pubblici. Quando mi infilo nel freddo tepore del locale, sono una macchia di sudore paonazza per la corsa. Deglutisco a forza, prendendo dallo zaino il bollettino e i soldi. Nella mia mente segno la commissione dall’elenco della giornata.
All’uscita l’aria è piacevole, la maglietta si attaccata alla schiena sudata, le goccioline mi scendono alla tempia. Okay, mi ripeto cercando di prendere fiato, devo andare a prendere pasta e verdura. Sì, posso farcela.
Metto la ricevuta del pagamento dentro lo zaino. Alzo lo sguardo. Lì vicino c’è una piccola bottega che vende alimentari. Veramente, non mi conveniva affatto andare in un grande supermercato per quelle due stupidaggini che dovevo prendere.
Vicino a un lampione della luce, un bambino guarda distrattamente la recinzione di una casa. Mi fermo. Gli occhi del piccolo sono spenti, si tormenta le mani e non mi calcola neppure. Non ha freddo, non ha caldo. Gli abiti sono sporchi, vecchi, una macchia rossastra, simile sangue, si espande a ragno sul ventre. Faccio un passo verso il bambino, dimentica di tutto. Lui scosta lo sguardo verso di me e abbozza un sorriso birichino, prima di nascondersi dietro al lampione. Mi muovo per stanarlo da quel nascondino che mi piace poco. Dietro al nascondiglio, tuttavia, non c’è nulla.
 
   
 
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