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Autore: Raffobaz    22/07/2016    0 recensioni
Vi siete mai chiesti come fosse il nostro mondo al contrario o cosa ci sia oltre uno specchio? Qui troverete la risposta
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA VILLA DEI BAMBINI VESTITI DI STRACCI
Lo straordinario viaggio di William Torrence
Controllai l’ora sul mio nuovo Rolex, che pochi giorni prima mi aveva regalato Claire: erano già le otto e un quarto! Non avevo intenzione di fare una cattiva impressione al mio datore di lavoro a partire dal primo giorno, ma non avrei potuto fare altro se non attendere che l’autobus giungesse a destinazione. Quella mattina era stata un disastro su tutta la linea: la sveglia non era suonata e io, invece di svegliarmi alle sette come avrei dovuto, mi ero alzato dal letto con mezz’ora di ritardo; mi ero vestito in tutta fretta, indossando il mio completo italiano che avevo tirato fuori dall’armadio ancora tutto impolverato e, uscito in strada, avevo corso fino alla fermata dell’autobus. Per fortuna ero ancora in orario. Quando ero in procinto di salire, mi resi conto di aver dimenticato la mia ventiquattrore sul pavimento della mia camera da letto, vicino al comodino, dove l’avevo lasciata la sera prima. Corsi in casa alla ricerca della valigetta; dopo averla recuperata, tornai in strada, ma con mio grande disappunto scoprii che l’autobus non era più alla fermata: era già partito. Aspettai una buona mezz’ora prima di poter prendere il successivo, ma alla fine riuscii a salire: mi sedetti nei posti in fondo, forse per scelta, forse per una strana casualità. Devo ammettere che quella mattina ero molto stanco, la rimpatriata della sera precedente con i miei ex compagni di università mi aveva stremato e il fatto di non avere nemmeno preso, nella fretta di quella mattinata, una tazza di caffè non era stato certo di aiuto. Dovevo assolutamente tenere gli occhi aperti, non avrei potuto addormentarmi e rischiare che mi rubassero la ventiquattrore. La mia volontà di stare sveglio servì a poco: nel giro di cinque minuti crollai nel sonno più profondo che avessi mai dormito in tutta la mia vita.
 Non saprei dire quanto tempo passò, ma posso affermare con certezza che non si trattò affatto di qualche minuto, forse di qualche ora. Ero l’ultimo passeggero rimasto sull’autobus, l’autista stesso era venuto a svegliarmi dicendomi di scendere poiché quella era l’ultima fermata. Mi guardai intorno: ero finito nel deserto. In ogni direzione mi voltassi non si vedeva altro che sabbia, l’unico segnale di civilizzazione era la strada di caldo asfalto su cui il bus viaggiava. Dove ero finito? Quella mattina sarei dovuto andare a casa del mio nuovo datore di lavoro, all’incirca a dieci chilometri dalla città, in aperta campagna, ma ora mi trovavo in quello che sembrava essere un deserto in piena regola. Chiesi all’autista dove fossimo; lui mi rispose che in quel momento ci trovavamo nella Desert Creek, una zona a trenta chilometri dalla città. Ribadì, inoltre, che quella era l’ultima fermata dell’autobus di quella linea e che io sarei dovuto scendere obbligatoriamente.   Alquanto sconcertato gli chiesi se ci fosse un altro autobus che da lì mi avesse potuto portare fino in città. Lui mi rispose che continuando per quella strada per circa cento metri avrei trovato la fermata di Desert Creek, da cui all’incirca un’ora dopo sarebbe dovuto partire l’autobus diretto in città. Senza fare proteste, malgrado la strana richiesta, scesi dalla corriera, salutai il conducente e andai alla fermata. Non faceva molto ben sperare: era costituita da un cartello arrugginito e non più molto leggibile, mi chiesi se davvero sarebbe passato un autobus da quella zona prima o poi. Iniziò a fare molto caldo, così cercai di ripararmi dal sole. In quel momento compresi che avevo dimenticato la ventiquattrore sull’autobus, sempre che non mi fosse stata rubata mentre dormivo: non ci avevo più fatto molto caso da quando avevo capito di trovarmi nel bel mezzo del deserto. Guardai l’ora sul mio Rolex, che fortunatamente avevo ancora al polso. Quello che vidi mi turbò profondamente: le lancette mancavano completamente, erano sparite senza lasciare traccia, e i numeri erano mescolati alla rinfusa (iniziavano dal nove e finivano con il quattro). La cosa che non seppi proprio spiegarmi era come, mancando le lancette, sentissi un incessante ticchettio, molto più forte di quello che qualsiasi orologio produrrebbe.

 Detti una rapida occhiata al cielo per cercare di dedurre l’ora dalla posizione del sole. Rimasi nuovamente sconcertato. Lo spettacolo che si profilava ai miei occhi era a dir poco inquietante: due soli risiedevano in cielo, non più uno solo. Pensai che dovesse essere un’allucinazione causata dal caldo torrido, uno di quelli che vengono definiti “miraggi”. Aspettai ancora per un po’ di tempo, non saprei dire quanto, l’arrivo dell’autobus, cercando di ripararmi come potei dietro al cartello della fermata. Stanco di aspettare mi girai nella direzione opposta. Notai che esattamente a partire da dove erano posizionati i miei piedi, incominciava una stradina, anch’essa di asfalto, circondata da sabbia, che oltrepassava la collina che si trovava a non molta distanza dalla strada principale. Mi chiesi come avessi potuto non vederla e se prenderla sarebbe stata una buona idea. Alla fine decisi che l’avrei seguita: sempre meglio che stare lì ad aspettare un autobus che non sarebbe mai arrivato. Mi dissi che se c’era una strada allora ci sarebbe dovuta anche essere qualche casa in quella direzione. Presi la strada e oltrepassai la collina. Davanti a me si presentò ciò che tanto speravo: quella che sembrava essere una vecchia villa, forse disabitata. Entrai nel giardino e, dal momento che la porta principale non era chiusa a chiave, la aprii e accedetti alla casa. Ispezionai il pian terreno in cerca di qualcuno che abitasse lì o di qualche provvista. Non trovai nulla, solo resti di quelli che una volta dovevano essere stati mobili. Salii al piano superiore, senza trovare nulla. Quando stavo per aprire la porta della soffitta sentii un vociare provenire dal giardino: sembravano canti angelici. In quel momento pensai di aver perso la testa, ma scesi comunque a controllare. Il rumore era prodotto da un piccolo gruppo di bambini. La prima cosa che mi saltò all’occhio fu che i giovani abitanti della villa erano coperti di vecchi stracci: sembravano dei senzatetto, ma bambini. Chiesi loro dove mi trovassi e per quale motivo fossero vestiti così. Ricevetti molte risposte ma tutte in lingue a me incomprensibili. Non riuscivo proprio a capire cosa dicessero. Cercai almeno di comprendere quale lingua parlassero, ma sembrava che ognuno si esprimessero in un idioma differente e alla fine rinunciai. Ad un certo punto uno di quei piccoletti mi tirò per la giacca e mi trascinò verso le scale che conducevano alla cantina, una delle stanze che non avevo ancora ispezionato. Tentai di chiedere cosa ci fosse là sotto, ma non ottenni risposte comprensibili. Seguii il bimbo giù per le scale e gli altri ci vennero dietro. Arrivati di fronte a una botola, il fanciullo che mi aveva condotto lì sotto la aprì. Io mi sporsi per vedere cosa vi fosse all’interno, ma, mentre cercavo di distinguere il fondo, i bambini mi spinsero dentro. Il coperchio si chiuse sopra di me. Iniziai a precipitare. Non sapendo cosa mi aspettasse di sotto, mi misi in verticale, sperando di atterrare in qualcosa di liquido, magari un lago sotterraneo. La caduta fu molto lunga, anche se precipitavo a una grande velocità. Mi tuffai in quello che sembrava essere un mare di latte con linee di inchiostro: interamente bianco con delle strisce blu che si incontravano al centro. Si potevano distinguere solo alcune chiazze nere molto distanti da dove io mi trovavo. Cercai di restare a galla meglio che potei. In quel momento un vortice iniziò a far girare lo strano liquido. Cercai di nuotare verso l’esterno, atterrito dall’idea di quello che avrei potuto trovare nell’occhio del ciclone. Quel mare candido si estendeva per chilometri e chilometri, sembrava non avere fine. Non avevo idea di dove fossi finito. Mi aggrappai a quella che pensai essere una zattera, tuttavia presto mi resi conto che si trattava di un grosso numero, un sei, e capii che le chiazze nere erano tutti numeri che andavano dall’uno al dodici come quelli di un orologio. Riuscii a mettermi in piedi su quella zattera improvvisata e iniziai a saltare di numero in numero per allontanarmi dal centro del maelstrom, così era chiamato il vortice, come appresi in seguito. Cercai persino di remare con le braccia, ma i miei sforzi furono del tutto vani: venni inghiottito dal gorgo insieme alla “zattera” numero nove. Uscii fuori da una botola, molto simile a quella da cui ero entrato, che però a differenza dell’altra, si trovava sul soffitto della stanza ed era interamente ricoperta d’oro. Mi aggrappai con tutta la mia forza alla maniglia del coperchio per non sfracellarmi a terra. Tra il soffitto, a cui ero appeso, e il pavimento ci dovevano essere almeno una decina di metri ed esattamente sotto di me si trovavano delle punte acuminate che immaginai fossero lance, anch’esse ricoperte d’oro, insieme ai numeri conficcati nel pavimento che erano stati risucchiati dal vortice prima di me. Di sicuro non sarei sopravvissuto a una caduta da quell’altezza. Incredibilmente non ero bagnato, nè macchiato di bianco, una cosa che ancora adesso non riesco a spiegarmi. Ad un tratto un grosso numero dodici attraversò  la botola facendo traballare la piccola porticina a cui ero aggrappato. Una cerniera cedette. La mia vita dipendeva dalla solidità dell’altra. Cercai di tirarmi su, ma invano. Vedendo che anche l’ultima stava cedendo, mi detti una slancio oltre la botola: almeno avrei evitato di essere infilzato dalle lance o dagli spigoli dei numeri. Precipitai nuovamente ma, questa volta, mi fermai a pochi centimetri da terra per alcuni secondi, dopodiché caddi sul pavimento: la fermata aveva evitato che mi sfracellassi a terra. Mi rialzai in piedi, cercando di capire dove mi trovassi: ero in un palazzo tutto rivestito d’oro e pietre preziose. Le pareti erano ricoperte da preziosi arazzi e bellissimi mobili molto antichi adornavano le stanze, c’era anche un trono, presumibilmente di un re. Appena atterrato compresi di essere sul soffitto: quelle che sembravano lance erano in realtà le punte aguzze di un lampadario molto prezioso. La gravità sembrava essere stata invertita in quel ricco palazzo, tranne che per un oggetto: quel trono che si trovava al centro del soffitto. Sentii i passi di alcune persone che stavano venendo in quella direzione e prontamente mi nascosi dietro un arazzo. Vidi arrivare un bambino vestito da re, il cui mantello era portato da altri giovani pargoli vestiti da paggi. Volli uscire dal mio nascondiglio, ma mi trattenni quando vidi arrivare una decina di bambini armati di lancia che immaginai dovessero essere la scorta del re. Li seguì un gruppetto di quelli che parevano essere proprio nani da giardino: nani parlanti! Doveva essere assolutamente un sogno, che ora tuttavia stava  prendendo più la forma di un incubo. Provai a darmi un pizzicotto, ma non mi svegliai. Il re si sedette sul trono al centro della sala e iniziò a impartire ordini ai suoi sudditi, che nel frattempo si erano radunati lì. Credetti di non capire il loro linguaggio, ma quell’idioma, che prima della caduta nella botola mi sembrava incomprensibile, divenne familiare come la lingua parlata nel mio paese. Il re si accorse dei numeri che erano rimasti conficcati nel pavimento; subito comprese che doveva essere entrato un estraneo all’interno del palazzo e ordinò alle guardie di cercarlo. Dopo alcuni minuti scoprirono il mio nascondiglio dietro all’arazzo, grazie a un cane in miniatura che avevano liberato e che aveva fiutato il mio odore. Con mia somma sorpresa scoprii di essere grande quanto il cane e i bambini. Mi guardai: il mio vestito mi calzava a pennello. Non riuscivo a capacitarmi di come mi potessi essere rimpicciolito.  Venni ammanettato e portato davanti al sovrano. Gli raccontai la mia storia: di come quella mattina sarei dovuto andare al mio nuovo lavoro, di come poi fossi arrivato nella casa abitata dai bambini vestiti di stracci e quindi nel palazzo. Il sovrano ordinò subito di liberarmi, comprendendo che io non avevo cattive intenzioni. Mi raccontò la loro storia: mi domandò se mi fossi mai chiesto cosa ci fosse oltre uno specchio. La mia risposta fu negativa, quindi lui mi spiegò che era quello il mondo oltre lo specchio: l’esatto contrario della realtà. La botola da cui ero entrato io era uno dei pochi punti di accesso a quel mondo incantato: lì i bambini governavano e gli adulti giocavano, gli animali parlavano e le carrozze volavano. Mi disse che ognuno degli abitanti del mondo da cui provenivo io ha un sosia in quel regno, le loro menti sono collegate telepaticamente; questo fa in modo che, quando uno del mio mondo si mette di fronte allo specchio, anche il suo sosia faccia lo stesso e imiti i suoi movimenti e le sue espressioni. Quando ogni essere umano posiziona la mano su uno specchio anche il sosia fa lo stesso e usa una forza uguale e contraria per non far andare l’umano oltre lo specchio e, allo stesso tempo, senza entrare lui stesso nel suo universo. Come quando si uniscono i polpastrelli delle dita di entrambe le mani e poi si esercita pressione. Se poi si distanziano leggermente le dita sembra che ci sia un vetro. In realtà non ce n’è alcuno: quando a noi sembra di toccare lo specchio in realtà stiamo toccando la mano del nostro sosia. Io gli domandai se ci fosse qualche modo di attraversare uno specchio. Lui mi rispose che se venisse riflesso qualcuno in uno specchio senza che lui sapesse di cosa si tratti, il suo alter ego sarebbe spaesato e confuso quanto la persona reale davanti alla propria immagine riflessa. Per questo motivo, se dovesse appoggiarsi al varco, il suo alter ego non eserciterebbe una forza uguale e contraria, visto che non saprebbe di doverlo fare, e riuscirebbe ad accedere al nostro mondo. Infatti sono già accaduti episodi in cui madri abbiano scagliato, in attacchi di rabbia, i propri neonati contro degli specchi e che essi siano giunti, per mezzo di questi, nell’Antimondo (così è comunemente chiamato quell’universo incantato). L’esistenza di quel mondo parallelo non è mai stata scoperta perché quelle madri, dopo aver denunciato la scomparsa dei figli negli specchi, furono rinchiuse in dei manicomi, giudicate folli. Chiesi al re per quale motivo i mobili si trovassero sul pavimento e loro sul soffitto. Lui rispose che molte generazioni prima i suoi antenati avevano inventato delle scarpe speciali che gli permettevano di salire sulle pareti e di camminare sul pavimento (che nell’antimondo era in alto, mentre il soffitto si trovava in basso). Mi spiegò inoltre che quel palazzo era l’esatto contrario della villa abitata dai bambini vestiti di stracci e mi chiese se avessi notato nella villa una sedia attaccata al soffitto della stanza della botola. Mi ritornò alla memoria il ricordo di quella stanza e mi venne in mente che, quando quel bambino mi aveva portato in cantina, scendendo le scale mi ero accorto di una piccola poltrona inchiodata al soffitto, ma non mi ero chiesto il motivo per cui fosse lì. Ora stavo iniziando a comprendere tutto. Dopo avermi fatto fare un giro del palazzo, il re mi condusse all’esterno. Lo spettacolo che si presentò ai miei occhi fu inimmaginabile: il tetto del palazzo era saldamente fissato al terreno soprastante e la base era adagiata sulle nuvole. L’esatto contrario delle case del mio mondo.

Strade di nuvole si diramavano a perdita d’occhio a partire dalla porta principale del palazzo. Tante case al contrario si vedevano per le vie dell’Antimondo. Il re chiamò una carrozza volante e mi fece fare un giro della città, raccontandomi di come i nani fossero usati in quel mondo come servitori invece che come abbellimenti da giardino. Quello era il reame perfetto: in quel mondo, essendo il contrario del nostro, non c’erano mai state guerre e i re avevano sempre governato con saggezza. Chiesi al sovrano il motivo per cui all’inizio non comprendessi il loro strano linguaggio. Egli mi disse che il motivo era molto semplice: loro parlavano al contrario. Giungemmo infine di fronte ad un palazzo che riconobbi come la casa del mio alter ego. Il re mi condusse all’interno e ci presentò. Era esattamente uguale a me, non c’erano differenze, in effetti era proprio come vedermi allo specchio. Parlai a lungo con lui e paragonammo le nostre vite e i nostri due universi paralleli. Alla fine, quando ci stringemmo la mano da buoni fratelli, lui mi disse che aveva una sorpresa per me. Mi diede una valigetta, una ventiquattrore, che sembrava identica in tutto e per tutto a quella che avevo lasciato sull’autobus all’inizio di questa bizzarra storia, io la aprii e al suo interno  trovai due lancette di un orologio. Guardai il mio polso e compresi a cosa sarebbero servite. Salutai il re, il mio alter ego e tutte le persone “al contrario” che avevo conosciuto quel giorno, ringraziandoli perché grazie a loro avevo capito cosa vuol dire tornare bambini e promettendo che ogni volta che mi fossi guardato allo specchio avrei pensato a loro . Posizionai le lancette nel mio orologio e queste iniziarono a girare al contrario vorticosamente, risucchiandomi all’interno. Mi ritrovai di nuovo nel vortice di latte e questa volta nuotai per raggiungere il centro. Mi risvegliai sull’autobus, la mia valigetta era al suo posto, il mio vestito non era sgualcito e, guardando l’orologio, mi accorsi che erano le otto e un quarto. Era come se non fosse successo niente; tutto era tornato come prima. Per le otto e trenta, puntuale come un orologio, giunsi davanti a casa del mio nuovo capo. Feci un bel respiro e, incoraggiato dalle avventure di quel giorno, entrai. Il primo giorno di lavoro andò benissimo, feci subito un’ottima impressione su Mr. Clark. Per ritornare in città presi nuovamente l’autobus; lì incontrai uno dei bambini vestiti di stracci, lo stesso che mi aveva condotto in cantina e che nell’Antimondo impersonava il re, con cui parlai un po’ e che alla fine decisi di adottare. La mia fidanzata e io lo accogliemmo in casa nostra e  lo allevammo come un figlio. Quando diventò adulto, intraprese anche lui la carriera di avvocato e ora dirige uno studio legale tutto suo. Non tornai più nell’Antimondo, ma tutte le volte che mi specchio, mi ritornano alla mente quei luoghi magici e quegli amici che, purtroppo per me, non rivedrò mai più in tutta la mia vita.
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