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Autore: ValentinaRenji    23/07/2016    1 recensioni
[ One Shot : Hachimenroppi Orihara ]
Dal testo:
"Il primo bacio era stato a quattordici anni, labbra serrate come saracinesche ed occhi aperti simili ai fanali accesi dell’auto di papà. Aveva visto tutto, dal modo disgustoso in cui le sopracciglia dell’altro si corrucciavano alle spaiate lentiggini sparse sulle guance, accompagnato dal rivoltante schiocco delle loro labbra umide separate da quel breve contatto quasi fanciullesco. L’amore non è poi una gran cosa, fu l’unica cosa che riuscì a pensare in quel momento, prima di ficcare la testa fra le foglie giallastre di un cespuglio vomitando il pranzo disperatamente ancorato alle pareti della gola.
Avrebbe dovuto immaginarlo: l’amore fa davvero schifo. "
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Izaya Orihara
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Introduzione alla storia
One shot su Hachimenroppi Orihara molto personale. Com’era e perché è diventato il misantropo che è ora. Frammenti della sua vita, piccoli pensieri. 
Essendo un alterego di Izaya ho utilizzato l’avvertimento OOC, in ogni caso ogni autore delinea questo personaggio come meglio crede dato che non appare nella storia originale.
 
 
Frammento
 
 
 
Il primo bacio era stato a quattordici anni, labbra serrate come saracinesche ed occhi aperti simili ai fanali accesi dell’auto di papà. Aveva visto tutto, dal modo disgustoso in cui le sopracciglia dell’altro si corrucciavano alle spaiate lentiggini sparse sulle guance, accompagnato dal rivoltante schiocco delle loro labbra umide separate da quel breve contatto quasi fanciullesco. L’amore non è poi una gran cosa, fu l’unica cosa che riuscì a pensare in quel momento, prima di ficcare la testa fra le foglie giallastre di un cespuglio vomitando il pranzo disperatamente ancorato alle pareti della gola.

Avrebbe dovuto immaginarlo: l’amore fa davvero schifo.

Schifo come il saporaccio rimastogli sulla lingua, asciutta come spugna secca, un pezzo di legno nel palato tanto duro da impedirgli quasi di parlare. Si ripeteva costantemente che no, non era l’imbarazzo a paralizzargli le corde vocali, nemmeno il ribrezzo che provava verso quel ragazzino poco più altro di lui, gli occhi nocciola puntati sui propri rubini con adorazione, nemmeno fosse la prima volta che sfiorava con lo sguardo un essere umano. Era davvero tanto speciale? Gli era capitato di sentirsi realmente così. Unico al mondo, il solo ed inimitabile Orihara Hachimenroppi, un piede inabissato negli albori dell’adolescenza ed un altro collegato ad un arto zoppicante che preferiva mettere a tacere prima ancora di dargli una voce. Doveva ammetterlo, quell’energumeno non gli piaceva affatto ed il senso di colpa scaturito dall’eccessiva smielata gentilezza di tale creatura non facilitava certo l’ardua impresa di trovarlo quanto meno piacevole: odiava il modo in cui si mordeva le unghie, odiava il suo fottuto orologio nero e la smania con cui gli lanciava occhiate ogni minuto, quasi fosse più attraente del suo corpo di quasi quindicenne in fiore. Detestava l’arroganza con cui le lancette rosse si rincorrevano, ricordandogli che ehi, il suo amichetto presto sarebbe dovuto andare a lezione di nuoto ed il loro tempo insieme –gli Dei siano lodati- stava per terminare. Era così complicato fingere d’essere un giovane innamorato quando, in realtà, pensava solo con orrore alla forma presa dalle sue guance ogni volta che sorrideva e lui, da perfetto fidanzato, accennava un mugolio di conferma. O quando, ancora peggio, ripensava alla prima volta in cui aveva visto una sua foto e lo aveva pregato, allora, di fornirsi di occhiali da sole e berretto per il loro primo appuntamento perché oh, stai così bene, tanto stupendo da farmi desiderare di infilarmi le dita in gola fino a toccarmi l’ugola per rimettere anche il pranzo di Natale del mio primo compleanno.

L’interrogazione di sociologia del giorno successivo bussava alla porta dei pensieri quando, con disinvoltura, il neo fidanzato gli aveva preso la mano fra le proprie, incamminandosi come suo solito verso il parco esterno alle piscine; era un bel giardino, a dire la verità, circonvallato da alberi alti, le chiome frondose accartocciate dai colori delle primizie di un autunno vestito d’oro e marrone. Ed eccolo lì, il famoso cespuglio che aveva condiviso il pranzo di Roppi una settimana prima, sette giorni ammucchiati di intenso amore scandito da squilli e messaggi abbandonati a se stessi nella segreteria telefonica: se avesse potuto ospitare una famiglia di ragni, ora sarebbe piena di ragnatele, ne era assolutamente certo. Con disinvoltura aveva gettato uno sguardo disinteressato alle foglie cullate dal vento con inusuale dolcezza, la stessa che leggeva nelle perle color cioccolato dell’altro, ancorate alle proprie con fastidiosa insistenza. Ah , lo sapeva, ci aveva scommesso: un ti amo biascicato, un bacio scontato nato di conseguenza e diamine, perfino i bambini dell’asilo se ne davano di più profondi. Ma lui davvero non riusciva a schiudere le labbra, sulla pelle il solo desiderio di grattare via lo sporco invisibile di quelle mani amiche, un sudiciume capace di filtrare i pori ed annidarsi in profondità.

In ogni caso, l’interrogazione era andata bene. Aveva letto distrattamente gli appunti scribacchiati dalle slide poco prima di cena la sera precedente, riuscendo finalmente a ricordarsi come si respira, le dita strette all’evidenziatore verde che sembrava aver preso possesso dell’intera pagina. Era una campo radioattivo di smeraldi iridescenti, intervallati soltanto da qualche nome rosso, un po’ sbavato verso il margine destro. Non si era domandato nemmeno una volta in quale modo poteva ricambiare quell’amore che tanto gli comprimeva il petto, facendogli temere un arresto cardiaco o una lavanda gastrica: che differenza c’era? Erano entrambi nauseanti. Con il suo otto lampante sul diario scolastico, fissava silenziosamente le chiome ancora verdeggianti dei castagni, l’eco estasiato della voce di sua madre ancora ronzante nelle orecchie perché oh, piccolo Roppi, il primo bacio è qualcosa di speciale! Si era sentito uno sciocco a raccontarle di quelle farfalle, così le aveva denominate lei, che sentiva nello stomaco mentre aspettava il suo bel principe alla stazione degli autobus. Amore, aveva gridato la donna con entusiasmo, orrore, avrebbe ribattezzato lui la scoperta solo dopo qualche tempo.

Ma non aveva più importanza, ora contava solo il calore dei raggi di sole filtrati dalla finestra della classe ed il chiassoso suono della campanella. Un principio di fame si era affacciato al suo stomaco, per fortuna non erano previsti appuntamenti per quel pomeriggio.

 
***
 

A sedici anni aveva scoperto il sesso.

Quello vero, quello che ti lascia lividi e morsi e segni sul corpo quasi a dipingerlo come la tavolozza di un pittore ubriaco. Erano lontani i ricordi di quel ragazzino impacciato dalle sopracciglia folte a cui dispensava schiocchi di labbra, ora che la stessa bocca dispensava attenzioni più lascive al ventiduenne che fra le dita ancora stringeva le chiavi della Polo grigia, il motore ronzante nella foschia di dicembre. Sembrava che un telo grigio fosse stato adagiato nella notte, avviluppando le viti spoglie della campagna brulla nel volto scarno della nebbia, i vetri dell’auto appannati da gemiti troppo pungenti per non essere ridotti a nuvole di vapore acqueo, denso. Si sentiva spaccare in due, ma non poteva farne a meno. Non riusciva a rinunciare a quei palmi capienti, ampi, a quelle carezze perverse dispensate al suo corpo finalmente vivo, scosso da fremiti e singulti incapaci di ovattare il cigolio delle sospensioni scadenti. Era una macchina da buttare, faceva freddo fuori, ed era tardi, troppo per un ragazzino fuori casa il martedì sera a cui ancora importa di fare bella figura davanti ai professori, nascondendo con malizia le arcate dentali lungo il collo. Gli pareva di celare un tesoro, di essere il detentore di un segreto cui solo pochi eletti potevano accedere durante le colazioni improvvisate quando si decideva di andare a lezione un’ora dopo. A chi importava imparare il tedesco, in ogni caso?

Talvolta rideva. Rideva mentre i muscoli vibravano di piacere e la schiena si inarcava come quella di un gatto viziato, affamato di carezze. Tendeva le labbra in un sorriso, uno vero, quando accanto al sedile trovava un sacchettino di cioccolatini o un biglietto per il cinema; non ci era mai stato prima, ma non aveva il coraggio di dirlo. Cosa ne avrebbe pensato il suo maggiorenne dagli occhi verdi? Di sicuro, gli sarebbe apparso come uno sfigato e forse lo era sul serio. Ma quel ragazzo era troppo attraente, troppo irraggiungibile per non tentare almeno di sembrare un po’ più uomo ed affermare che certo, amava i film horror e conosceva quella sala come se fosse stata casa sua. Anche quella serata era terminata con il sudore scivoloso sulla pelle, la tensione della pellicola ancora sfumata nella mente, la lingua calda a solleticargli l’inguine sensibile ad ogni tocco. Se l’aspettava, ed adorava quella sensazione di proibito che andava intensificandosi come le note dei Cure e del loro Faith mugolate dal cd ormai consumato. Era la loro compilation d’amore e quando le ore a disposizione non bastavano, il corvino si calava volentieri le cuffie sulle orecchie, sotto le coperte a quadrettoni del letto addossato al muro, ripercorrendo con i polpastrelli il percorso di quelle mani che lentamente stava imparando a conoscere. Non riusciva a immaginare di essere realmente in una relazione con quel ragazzo, ma allo stesso tempo non poteva figurare il giorno in cui avrebbero dovuto dirsi addio.

Eppure le notti si moltiplicavano, e con loro il pallore della Luna riflesso sulle schiene nude, avvolte dalla tempesta di un acquazzone estivo o dalle prime nevi di dicembre. Era un sentimento affascinante, no, lui lo era ancora di più, con quella cascata di capelli biondi e le labbra increspate in una smorfia enigmatica. C’era tanta tristezza nei suoi occhi di smeraldo e Hachimenroppi cullava nel petto l’arroganza che solo un ragazzino della sua età poteva ostentare nella convinzione di salvare il mondo. Non si reputava un buon samaritano, ma un compagno abbastanza adulto da poter ascoltare i problemi altrui e trovare una perfetta soluzione per ogni genere d’incombenza. Così, se prima c’era il sesso, ora si erano aggiunte lunghe chiacchierate, spruzzate dallo scintillio delle braci che aveva al posto degli occhi pungolate da un brillio simile a quello di chi è innamorato davvero. Sentiva di nuovo le farfalle nello stomaco, poteva scommettere che stavolta erano vere e non avrebbero compromesso i pasti giornalieri. E questo singolo pensiero gli faceva sfornare espressioni di pura gioia puramente contrastanti al cipiglio che di solito gli dipingeva il volto chiaro.
Non credeva nelle favole, non più, ma ogni singolo gesto sembrava così nuovo, così desiderato da fargli dedurre che l’amore esisteva e non si dissipava in una sola manciata d’ore consumate fra gli steli d’erba accanto alla bonifica abbandonata, o sul letto di camera sua , l’emozione di vedere dove viveva per la prima volta ad arrovellargli la bocca dello stomaco.

Sembrava quasi che il suo mondo fosse rinchiuso fra le pareti di quella polo sgangherata, un piccolo universo escluso al resto del mondo, ritagliato su misura per loro due soltanto, uniche stelle di quel singolare ecosistema. Erano diversi, distanti, ma allo stesso tempo abbastanza vicini da sfiorarsi con la mente e con il corpo.

Una sera, mentre le gambe ancora tremavano e la schiena veniva morsa dai brividi , una stella cadente aveva percorso la volta ossidiana cullata dalla cantilena dei grilli e delle rane. Colto da un impeto innato aveva premuto il naso contro il finestrino umido, sgranando gli occhi di fronte tale tempismo, le mani a imprimere le loro impronte accanto le guance. Non aveva mai rivelato la sua richiesta, ma dal modo in cui gli angoli della bocca si erano inclinati non era difficile dedurre a chi si riferisse.

Ci si può pentire di un desiderio espresso?

 
***


A ventun' anni il riflesso nello specchio sfalsava l’immagine del ragazzino innamorato dagli occhi inebriati di speranza. Non sapeva dire con esattezza cosa fosse cambiato, non riusciva a trovare reali motivazioni per quei tagli che gli deturpavano le braccia e per le altre cicatrici sparse lungo le gambe, simili a tane di volpe. Erano concentriche, tondeggianti, un campo minato sfumato in non una espressione di dolore dipinta sul volto statuario, le iridi di lava fisse sulla lama del coltello. Quelle ferite erano diverse da quelle che apportava lungo i polsi durante la prima adolescenza, per il solo scopo di sentirsi alternativo come gli altri coetanei della classe: queste puzzavano di ferro, emanavano un calore pulsante capace di colare fino la punta delle dita pervase da un fastidioso quanto inebriante formicolio; non sapeva esattamente spiegare a se stesso il motivo di tanto dolore, riusciva soltanto a supporre che la sofferenza fisica fosse un mezzo codardo per alleviare quella interiore.

La televisione blaterava a volume esagerato nel soggiorno del micro appartamento in cui passava la maggior parte delle sue giornate, dalla finestra aperta non un refolo di respiro, l’afa estiva accollata alle pareti della stanza come una seconda pelle. Agli sgoccioli del proprio tirocinio formativo credeva che non sarebbe esistita cosa migliore se non trascorrere le ore a crogiolarsi fra le lenzuola fresche di bucato, ma il calore vermiglio lungo la braccia parlava una lingua diversa da quella dei suoi pensieri. Che delusione, aver riposto ogni risparmio ed ogni speranza in un lavoro che ora più che mai gli faceva soltanto venire voglia di vomitare e di affondare la punta del taglierino ancora un po’ più a fondo. A pochi passi dalla laurea contemplava gli esami rimasti come traguardi irraggiungibili, simili ad una storia scritta di getto cui mancano poche righe per completarla ma non si riesce a scrivere nemmeno una parola.

Si sentiva un po’ così, interrotto decise, spezzato nella vita di tutti i giorni, nella realtà di chi si trascina in studi che neppure gli piacciono dopo un anno di tirocinio scandito dal voltastomaco del lunedì mattina, relegato in segreteria, la fotocopiatrice e lo scanner i suoi compagni d’avventura fra le pareti stinte della struttura. Che schifo gli esseri umani, aveva iniziato a rimuginare quando non vedeva null’altro che numeri a cui telefonare, nemmeno fosse un aguzzino abusivo di qualche televendita locale.

Che schifo le persone, rifletteva quando tornando a casa trovava interi servizi di stoviglie rovesciati sul pavimento, in un angolo del divano sua madre dai capelli ingrigiti e l’ennesima sigaretta avvizzita fra le labbra. Non era più la donna energica che si era entusiasmata per il suo primo bacio, neppure la dittatrice autoritaria cui raccontava una miriade di frottole egregiamente architettate per nascondere il reale motivo delle sue uscite serali di qualche anno più tardi. Era un bozzolo vuoto, ripiegato su se stesso, un dipinto dai colori spenti che provocava un certo bruciore agli angoli degli occhi soltanto a guardarlo. Ed in lei leggeva lo stesso dolore che provava nel petto, moltiplicato negli anni e nelle rughe disegnate sul volto ovale.

Poi, il lutto.

Come in un girone infernale, percepiva i propri passi dirigersi in una discesa vertiginosa, ad ogni metro guadagnato un passo più vicino all’essenza del dolore.
Odiava la storia ed il susseguirsi degli eventi, ma quella data se la ricordava perfettamente; era il quattordici novembre, ed era appena rientrato a casa dalle ripetizioni del sabato mattina, unico rimedio per racimolare pochi spiccioli e potersi comprare i libri per quell’insensato esame di diritto privato. Il nonno è caduto ed ora è in ospedale, gli aveva detto quello che rimaneva di sua madre con una patina velata negli occhi. Il pomeriggio era stato speso davanti alla televisione, un documentario sulla fauna della savana a scorrere sullo schermo piatto, il telefono appoggiato sul ginocchio, eppure non si illuminava mai. Stava giocherellando con i ciuffi d’ebano della frangia quando sua madre rientrò in casa, posando il cappotto sulla sedia accanto alla porta ed annunciando che andava tutto bene e si stava riprendendo, per poi scoppiare in lacrime qualche ora dopo ammettendo che in realtà lui non apparteneva più a questa dimensione.

Era la prima volta che Roppi toccava con mano la morte, quella vera, diversa dallo straziante desiderio di sparire e dissolversi nel nulla acclamato e impresso in ogni cicatrice; non riusciva a riconoscerlo nella bara aperta, il volto smunto, il corpo nullo dentro agli abiti d’eleganza a vecchio stile che parevano ballargli addosso. Gli ricordava una persona diversa, non l’uomo che qualche giorno prima gli aveva domandato come procedevano gli studi per poi scoppiare a ridere con quella risata un po’ spelacchiata, graffiata dal vizio del fumo radicato negli anni.
Era un manichino con la faccia anziana, immobile, le mani congiunte attorno al rosario, proprio lui che neppure era credente. Cercava di districare il groviglio d’emozioni annidato nel petto, il puzzo dell’incenso a bruciargli le narici, o forse erano soltanto le lacrime che gli occhi si rifiutavano di rilasciare. Poi i singhiozzi, le corolle dei fiori sul coperchio color miele, il bianco delle rose e le mani luride delle persone che toccavano e macchiavano e prendevano, mentre sentiva se stesso via via più simile ad un fantasma.

Le notti successive furono insonni. Rivedeva le pieghe delle malattia inflitte nella pelle cinerea, percepiva il familiare calore viscido e salato bagnargli le guance ripetersi nei giorni seguenti al funerale, l’odore di cera e l’alone dei lumini dipinto nelle palpebre ogni qual volta tentavano di chiudersi. Quel giorno era venuto anche lui, il suo vecchio maggiorenne dagli smeraldi al posto degli occhi, una presenza silenziosa e flebile nel dolore della perdita. Gli aveva stretto la mano, ma Roppi riusciva a pensare soltanto alla porpora lungo i polsi che avrebbe versato quella sera.
 
Era quasi Natale quando i primi pezzi della sua seconda famiglia cominciarono a crollare. La prima si era rovinosamente distrutta da quelli che sembravano essere secoli, dal primo anno delle scuole medie, quando dopo un divorzio conflittuale si era ritrovato a frequentare un gruppo di coetanei un anno più anziani di lui, drogati fino al midollo e con ambigue tendenze sessuali. Li detestava tanto quanto i finti abbracci compassionevoli di suo padre, quello vero, ma la voragine creatasi attorno a lui lo spingeva giorno dopo giorno alla ricerca di un po’ d’attenzione. Preferiva non ricordare quegli eventi lontani, non ora che credeva di averli superati con il nuovo matrimonio di sua madre e l’apparente idillio seguito ai primi anni dalla nuova fortuna. Ma ben presto anche questa patina d’oro s’era ridotta ad un alone opaco e i perni portanti della sua vita si erano ridotti a marionette prive di senno, capaci solamente di recriminarsi a vicenda spartendosi il letto ed il divano, la cucina ed il soggiorno. Il giorno di Natale nessuno uscì dalla propria stanza, soltanto Roppi si azzardò ad inforcare la Punto vecchia di vent’anni per sussurrare gli auguri alla sua ancora di salvezza.

Cinque anni prima, quando quel corpo donava solo calore, cd consumati e baci umidi, non avrebbe mai pensato di bussargli alla porta con un sorriso sbilenco, cantilenando un Jingle Bells troppo strascicato per risultare piacevole, il cielo coperto da una coltre perlacea. Da mesi ormai non ricordava le sue mani. Quel giorno notò la loro assenza su di sé, l’ombra di una carezza sulla zazzera corvina a rivangare un disgusto affogato nello stomaco da troppo tempo per essere ben decifrato.

Una nausea acida gli stringeva le viscere, arrovellandole come un ferro bollente fino a fargli strizzare le palpebre e schizzare via dalla parte di divano dove era solito sbracarsi, le gambe penzoloni; non capiva il perché di quel muro invisibile costruito attorno all’anima dilaniata, non riusciva a racimolare il coraggio delle notti spese a sussurrare l’uno il nome dell’altro. C’era solo strazio, disgusto indefinito ed incontrollato, tanto da fuggire ai quei palmi che una volta elargivano con benevolenza le dolcezze della vita.

Si odiava.

Per essere una creatura tanto fragile, limitata, finita nel suo corpo esile ed imperfetto alla mercè di un destino amaro e beffardo.
Si odiava per non capire e capirsi, per provare disgusto davanti ad atti d’amore che una volta gli erano naturali come sorseggiare l’acqua da un bicchiere. Per allontanare con una facciata d’indifferenza chi credeva di volere invece accanto, senza saper distinguere l’inerzia dall’abitudine alle reali necessità. Si sentiva come un piccolo pesce sbatacchiato da una corrente troppo forte ed avviluppato dal nero appiccicoso del catrame infido come il veleno di una serpe.

Era un bozzolo privo di farfalla, aveva finito le parole, gettate in un vuoto di incomprensioni; si sentiva terribilmente sazio da poter scoppiare, ma allo stesso tempo temeva di venire fagocitato in un abisso creato da sé medesimo.

Ma ad una conclusione, una sola, Orihara Hachimenroppi era riuscito ad arrivare: detestava se stesso e gli esseri umani.

Così, ingobbito nel cappotto lungo fino ai piedi dalla folta pelliccia rossa, non era raro trovarlo intento a scartabellare fra cumuli di libri nella sala della biblioteca comunale, o seduto su una panchina a scrutare le forme della baia amalgamarsi alle ombre scure del crepuscolo, riflesse nelle iridi sanguigne.

Camminava lungo il viale di querce, il cellulare spento, il vento pungente del nuovo autunno a solleticargli le guance arrossate, le ghiande sparse fra gli steli d’erba orlati dall’oro del tramonto.

Era solo, ora.
E non era mai stato così felice. 
   
 
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