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Autore: Clockwise    23/07/2016    4 recensioni
Chiudono gli occhi, entrambi, uniti e lontani ad un tempo. Lo stesso sospiro – tornare a casa.
[...]
«Mi dispiace, John.»
Scosse la testa.
«Di esserti innamorato di me?»
Sherlock non rispose; lo fecero i suoi occhi, trasparenti come acqua.

Amanda ha diciannove anni quando va a Londra per la prima volta in cerca di suo padre, in cerca di risposte, costringendo John e Sherlock, ormai estranei, a fare i conti con loro stessi.
"Nostos": in greco, "viaggio di ritorno", "ritorno a casa".
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Molly Hooper, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Star to every wand’ring bark
 

 
But you know he'll always keep moving
You know he's never gonna stop moving
'Cause he's rolling, he's the rolling stone
And when you wake up, it's a new morning
The sun is shining, it's a new morning
And you're going, you're going home.
Gerry Rafferty, Baker Street
 
 
 
Amanda si scuote la coperta di dosso.
«Ho detto che sto bene! Sono cintura nera di karate, per la miseria, non basta uno sgambetto a mettermi fuori gioco!»
Il giovane paramedico che la assiste arrossisce e raccoglie la coperta.
«Per favore, signorina, lo shock…»
«Quale parte di “cintura nera di karate” non ti è chiara? Non sono in shock, sto benissimo.»
Il paramedico inclina il capo in segno di velato rimprovero. Amanda incrocia le braccia sul petto e dondola i piedi avanti e indietro, seduta sul lettino dell’ambulanza.
«Una tazza di tè mi farebbe molto piacere, se proprio vuoi renderti utile. Sospetto sia un effetto placebo, ma sembra essere veramente d’aiuto in queste situazioni, forse voi inglesi non avete tutti i torti…»
Le orecchie del ragazzo diventano scarlatte mentre ripiega la coperta.
«Niente tè, mi dispiace. Ma è sicura di non volere nient’altro per quell’ustione? Posso chiedere qualcosa perché non rimanga la cicatrice…»
Amanda agita una mano con noncuranza.
«Non importa, che rimanga pure. E poi non è tanto grave, su. E c’è sempre un qualcosa di affascinante nelle cicatrici, non trovi? In fondo, raccontano tutte una storia, per quanto dolorosa possa essere.»
Fa spallucce, saltando giù dal lettino.
«E poi, sono troppo carina perché una cicatrice mi sfiguri… Anzi, potrebbe addirittura aumentare il mio fascino…» chiacchiera con nonchalance, mentre le guance del paramedico si ricoprono di violente chiazze rosse. Scende dall’ambulanza sventolando la mano in segno di saluto e si guarda intorno alla ricerca di John e Sherlock in quel mare di poliziotti. Perché ne siano venuti tanti, poi, non riesce a spiegarselo. Che ogni volta che Sherlock Holmes chiama, accorrano a frotte, abituati a chissà quali situazioni impossibili in cui il detective si è cacciato negli anni? Probabile.
«Signorina?»
Un uomo, dall’aspetto poco più giovane di John e Sherlock, le tende una mano.
«DI Dimmock, Scotland Yard, devo chiederle di seguirmi in centrale per rilasciare una dichiarazione…»
Amanda si sente improvvisamente troppo stanca per stare a sentire ordini e il solo pensiero di dover raccontare tutta la storia in una squallida centrale di polizia le è intollerabile.
«Oh, è davvero indispensabile? Sono sicura che possiate aspettare domattina, in fondo il prete l’avete preso, e sono certa che se lo interrogate per bene, vi rivelerà qualunque sporco affare di cui sia a conoscenza, è piuttosto scosso, per cui…»
L’uomo raddrizza la schiena e le indirizza un’occhiata niente affatto amichevole.
«Signorina, non è nella posizione di discutere, io sono un ufficiale di polizia…»
«Fino a prova contraria, io sono la vittima! Ho diritto a un po’ di riposo, no?»
«Non mi costringa a trasformare una richiesta in un ordine…»
«Oh, andiamo…»
«Mi segua in centrale senza fare altre storie, non abbiamo tutta la notte…»
«EHI TU!»
Si voltano entrambi per trovarsi una Harry Watson piuttosto arrabbiata che marcia verso di loro. Punta l’indice contro il petto dell’ispettore, sovrastandolo di buoni cinque centimetri.
«Lascia in pace mia nipote, sono stata chiara?»
Dimmock rimpicciolisce nel suo impermeabile scuro. Amanda, dietro Harry, sogghigna divertita e nota, nel frattempo, John e Sherlock che si avvicinano a loro.
«Signora…»
«Signorina, per te, grazie tante!»
Dimmock indietreggia di qualche passo. Harry fa un passo di lato e circonda le spalle di Amanda con un braccio.
«E ora, se vuoi scusarmi, mia nipote ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lei!»
John e Sherlock si accostano al gruppo in quel momento, entrambi con le stesse espressioni al contempo perplesse e divertite, giusto in tempo perché Harry li noti e diriga la sua violenza verso di loro.
«…Visto che questi due idioti troppo cresciuti sembrano non esserne capaci!» continua a gridare, mentre Dimmock, non visto, si dilegua. John indietreggia, istintivamente; Sherlock si limita a sollevare un sopracciglio.
«Fino a prova contraria, padre Jefferson è riuscito a rapire Amanda mentre lei si trovava alla tua festa di compleanno ed era venuta a cercare te. Inoltre, non sono stato certo io ad invitarlo…»
John chiude gli occhi non appena Sherlock tace. Riconosce fin troppo bene i segni di una sfuriata imminente, Harry non è cambiata affatto da quando aveva sedici anni e John rubava le sue cassette o i suoi dischi, possibilmente è solo peggiorata. 
«Non provare nemmeno ad accusare me, damerino che non sei altro! Se non fosse stato per te e per il tuo caratteraccio, a quest’ora voi tre stareste cenando come una normalissima famiglia felice, dopo esservi inventati una scusa qualsiasi per saltare il mio compleanno come tutti gli anni! E se non fosse per la tua brutta abitudine di ficcare il naso dove non dovresti e di non imparare quando è il caso di chiudere la bocca, non ti troveresti affatto in situazioni del genere!»
Sherlock apre la bocca per protestare; ci ripensa; la richiude. Harry sembra soddisfatta del risultato che ha ottenuto. Si aggiusta la giacca con una mano, stringe le spalle di Amanda con l’altra e raddrizza la schiena, impettita.
«E ora, se volete scusarci, noi due andiamo a prenderci un tè come si deve e a fare due chiacchiere. Lei resta da me, voi due avete fatto abbastanza per una sola serata. Non voglio vedervi né sentirvi fino a domattina, e non prima delle nove.»
Fa per girare sui tacchi, Amanda salda nella sua presa, ma la ragazza esita. Harry le lancia uno sguardo inquisitorio, a cui l’altra replica con uno di scuse e di muta richiesta, accompagnato da un’alzata di spalle. La donna rotea gli occhi e la lascia andare.
«Va bene. Ti aspetto in macchina, sono lì giù.»
Punta un dito contro John, che smette di ridacchiare e si fa serio tutto d’un tratto.
«Con te faccio i conti domani.»
Si allontana impettita, senza ulteriori saluti.
John si volta verso Sherlock. Lontana dalla vulnerabilità di poco prima, la sua espressione è così simile a quella di un bambino a cui abbiano ingiustamente rubato la merenda che non può fare a meno di scoppiare a ridere – una risata liberatoria che parte dalla pancia e lo sconquassa tutto, come non succedeva da anni. Amanda lo segue a ruota. Sherlock volta lo sguardo dall’uno all’altra, senza sapere bene come interpretarli.
«Oh, Dio... Non dovrei ridere, è una scena del crimine...»
Anche Sherlock sogghigna, allora, intrecciando le mani dietro la schiena.
«Tua sorella è riuscita a mettere in fuga Dimmock in meno di due minuti. Avresti dovuto farmela conoscere anni fa, John, sarebbe potuta tornarci utile, pensa solo a tutto il tempo perso a discutere con Dimmock, Anderson, Donovan o Lestrade nei suoi momenti più testardi quando sarebbe bastato sguinzagliare Harry.»
John scuote la testa, smettendo di ridacchiare. Si volta verso Amanda, sollevandole il mento con una mano per controllarle la guancia.
«Tutto bene, qui? Cosa ti hanno dato?»
La ragazza scrolla le spalle, senza sottrarsi dal suo esame.
«Ci ha messo una pomata, ora non ricordo… Ma sto bene, tranquillo.»
«È una karateka, John, e una discreta ginnasta, non hai mai notato la struttura delle spalle e i muscoli delle braccia e delle gambe? Ci vuole ben altro per metterla a tappeto.»
John aggrotta la fronte, perplesso, mentre Amanda ride. Sherlock solleva un sopracciglio.
«Non male come scelta, fra parentesi, ma il judo è molto più utile nel corpo a corpo ed abitua a una maggiore disciplina.»
La ragazza rotea gli occhi.
«Spero proprio di non dovermi più servire né dell’uno né dell’altro, grazie tante.»
Lo sguardo di John si fa preoccupato, le stringe un braccio.
«Non saresti mai dovuta finire in una situazione del genere, io… Che razza di padre–»
La ragazza ricambia la stretta, sorridendogli fiduciosa.
«Va tutto bene. Ce la siamo cavata, no?»
«Non sei venuta fin qui per finire in ostaggio ad un…»
«Io direi che la serata è stata un successo, invece.»
Padre e figlia si voltano a guardarlo, rivolgendogli pressoché identiche smorfie basite. Sherlock non si scompone.
«Amanda ha dimostrato ottimi riflessi e ammirevole sangue freddo, capacità di lavorare in squadra – per una volta, la tua empatia ti è stata utile – e trarre vantaggio da una situazione sfavorevole. Se fossi ancora nella posizione di farlo, ti assumerei.»
La ragazza ridacchia, incrociando le braccia al petto. Si rivolge a John, i cui occhi sono fissi sul detective, indecifrabili.
«Che dici, la paga è buona?»
John scuote la testa, deglutisce, impacciato. Incrocia le braccia a sua volta, sulla difensiva.
«Se sei disposta a… beh…»
Gli occhi di Sherlock sono fiduciosi, divertiti, ma nascondono una domanda, un dubbio. John prende un grande respiro e raddrizza le spalle, sciogliendo le braccia.
«Non vedresti una lira. Ma ne vale la pena.»
Il sorriso di Sherlock guizza rapido come un pesce fra le onde, ed è sparito. I suoi occhi scintillano ancora, tuttavia, quando si rivolge ad Amanda.
«Verremo a salvarti domattina alle nove in punto. Cerca di resistere.»
Lei ridacchia.
«Farò del mio meglio.»
Abbraccia per primo Sherlock, forte e a lungo. Il detective ricambia la stretta, e per un istante il suo viso torna vulnerabile e stanco, seminascosto nella spalla di Amanda. Lei sembra percepirlo, perché lo stringe più forte. Quando lo lascia andare, la ragazza ha gli occhi leggermente lucidi, che si affretta a mascherare rintanandosi fra le braccia di John.
«Grazie» mormora, sciogliendo l’abbraccio; John si stringe nelle spalle e scuote la testa.
«Grazie di avermi trovata e avermi spiegato e aiutato a capire» continua lei, rivolgendosi a Sherlock; lui sorride.
«Grazie a te» risponde, anche per John. Lei annuisce, sbattendo rapidamente le palpebre, improvvisamente commossa – c’è molto di più nella voce di Sherlock, nello sguardo di John. Senza altre parole, si volta e si allontana rapidamente, agitando una mano in segno di saluto.
John e Sherlock rimangono a guardarla sparire fra gli agenti, senza parlare. Si sentono improvvisamente esposti, indifesi – è la fine dei giochi.
Lo sguardo di Sherlock si china sull’altro, e parla senza rifletterci troppo.
«Mi è mancato, tutto questo.»
Gli occhi di John scintillano nel suo viso segnato. A Sherlock sembra di essere tornato indietro nel tempo, a quando c'erano solo loro due, il detective e il suo blogger, e nulla aveva ancora turbato la loro armonia.
«Tu mi sei mancato.»
Il cuore di John salta un battito – per la miseria, non lo credeva ancora capace di certe cose. Sherlock fa un passo verso di lui, senza curarsi di paramedici, poliziotti e curiosi che si affannano intorno a loro. In fondo, è sempre stato questo il loro posto, il posto in cui si sono trovati e ritrovati centinaia di volte – il caos, fra le lampeggianti delle volanti e delle ambulanze, sotto i lampioni e con l'eco della corsa nelle orecchie.
«Che cosa sono per te, John? Che cosa sono stato?»
Il sorriso di John si tinge di malinconia e di una consapevolezza profonda – è il momento del tutto per tutto, il dito premuto sul grilletto, un unico colpo.
«Sherlock.»
Gli posa le mani sulle braccia, gli si fa più vicino.
«Tu sei stato il mio inizio, innumerevoli volte: mi hai preso per mano e mi hai mostrato la vita, quando pensavo che tutto fosse un cimitero, sei stato la stella che ha guidato i miei passi. E pian piano ti sei infiltrato dentro di me, ti sei scavato un angolo nel mio petto, hai scavato e scavato finché non è diventato una caverna, finché non hai raggiunto le orecchie e le dita dei piedi, ti sei preso tutto lo spazio. C’erano momenti in cui soffocavamo, Sherlock, e io ho creduto invano di poter continuare a vivere, una volta che ti avessi estirpato dal mio petto – sono solo sopravvissuto, ma tu mi ricordi cosa vuol dire vivere, di nuovo, veramente. Sei il mio inizio, Sherlock, e la mia fine.»
Non dice nulla di tutto ciò ad alta voce, non può – è un sentimentale, è vero, ma quando si tratta dei suoi sentimenti, delle sue emozioni, diventa un soldato di stagno – inarrivabile. Ed è per questo che Sherlock si è allontanato da lui.
«Ti amo.»
Lasciarti andare via da me era la mia punizione – non era giusto che io fossi felice con te se Mary non c’era più e non sapevo nulla di mia figlia.
Gli occhi di Sherlock sono morbidi, vibrano di luce soffusa.
Non era giusto che noi fossimo felici, non ne avevamo il diritto, se entrambi avevamo mancato alle nostre promesse, John.
A John sembra di poterli finalmente decifrare: come se, per tutto questo tempo, si fosse sforzato di riprodurre una melodia ad orecchio, e solo ora riesca a leggere lo spartito.
Per questo non sono mai riuscito a lasciarmi del tutto a te, per questo mi sono impedito di amarti come meritavi – non eravamo completi, Sherlock.
Il sorriso di Sherlock è squillante come un flauto, straziante come un violino.
Portavamo addosso ancora troppe tare e troppe ferite non rimarginate, John, ferite che non potevamo curarci a vicenda.
Il viso di Sherlock è un allegro vivace e un andante cantabile.
Non eravamo pronti.
John alza le spalle e le scuote appena, mentre gli occhi gli si riempiono di lacrime. Sente come una crepa, all'altezza del petto – scoppia dalla voglia di parlare, dire, spiegare, ma non riesce a ripetere che quelle due parole.
«Ti amo, Sherlock.»
Sherlock riesce a sentire tutto quello che non ha detto, lo legge nei suoi occhi e nelle sue rughe,
e il suo viso si illumina di una meraviglia e di una felicità tanto a lungo dimenticate e insperate da sembrare un miracolo. Sembra avere dieci, venti, venticinque anni di meno – è la parte di lui più segreta e intima che John vede nel suo sorriso, nei suoi occhi stellati, nelle sue mani tremanti, una parte di lui che temeva di aver perso per sempre.
«Avrei dovuto dirtelo tanto tempo fa.»
«Avrei dovuto capirlo.»
John sbuffa appena, sorridendo, il corpo vibrante di serenità, di un sollievo che lo fa sentire leggero, coraggioso. Ha un sorriso antico come il mare e giovane come la stella del mattino – rifulge.
«E sei famoso per le tue doti deduttive.»
«Mi occupo solo di cadaveri e serial killer, per fortuna.»
Ridono di nuovo, ma piano, per timore di svegliarsi da un momento così bello che sembra un sogno. Le loro dita si cercano, si trovano, si intrecciano.
«Andiamo» suggerisce John, senza staccare gli occhi da quelli luminosi di Sherlock, la voce morbida, la testa leggera. Sherlock annuisce, posandogli l’altra mano sulla guancia in una carezza vellutata, per assicurarsi che sì, è veramente John quello sotto le sue dita.
«Andiamo a casa.»
 
 
 

 

Grazie, come sempre, a chi mi ha seguito fin qui :) 
Il titolo è un verso dal sonetto 116 di Shakespeare.
A presto,
-Clock
  
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