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Autore: Mikayla    23/04/2009    3 recensioni
Charles Van Ionerien era solito scomparire per lungo tempo nella propria piccola libreria; non era niente più che una stanza di sedici metri quadri, le pareti alte quattro metri e mezzo tappezzate da mille e più volumi, una porta per entrare e nessuna finestra. La luce filtrava pallida attraverso la cupola di vetro colorato che svettava sul soffitto.
Il pavimento di mogano -come tutto ciò che c’era in quella stanza- creava uno strano gioco circolare nella stanzetta. Nel centro esatto, poi, c’era una sedia rivestita di velluto rosso.
Il seggio era appartenuto ad un avo del signore della casa e quindi era stato ereditato da lui, ma poiché quello stesso antenato si era chiamato Charles Van Ionerien la servitù la chiamava la sedia di Charles Van Ionerien.
Ad ogni modo, il padrone di Villa Viola ricompariva sempre, prima o dopo. Capitava talvolta che saltasse il pranzo o la cena, tal’alta che dormisse perfino tra i suoi amati libri, ma alla fine tornava indietro con un bel sorriso ampio sul viso rugoso.
Era un vecchio molto amato, il conte Charles Van Ionerien, soprattutto nel suo villaggio. Veniva considerato un vero magnate, una grande persona.
Fu proprio per questo che l’intera Yornik vestì il nero del lutto per una settimana quando, un giorno come un altro, Charles Van Ionerien non uscì più dalla propria libreria.
[Prima classificata al concorso "La Sfera e... il Matto" indetto da Eylis]
Genere: Avventura, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sogno Invernale di una Notte Rosa.




L’Osteria Tre Monti era una vecchia fattoria in disuso rimessa completamente a nuovo dalla simpatica e burbera padrona: la vecchia Mila. Mila aveva solo una quarantina d’anni, dei capelli più candidi della neve che copriva Yornik d’inverno, e si comportava come un’amabile e severa mamma con tutti gli avventori.
Solitamente dopo una diffidenza iniziale non c’era una sola persona che resistesse al suo fascino carismatico, e chi più chi meno finivano per adorare tutti quanti Mila.
«Mi scusi, Signora Marion, la coperta in più che le avevo chiesto...?»
Mila finì di asciugare vigorosamente il boccale da birra che aveva appena lavato e lanciò uno sguardo esasperato verso l’uomo seduto davanti al bancone, con cui stava tranquillamente parlando fino a poco prima «Ritorno subito Miles».
Il sindaco fece appena un cenno d’assenso con il capo e osservò la donna posare tutto e andare con il suo passo ciondolante verso il distinto ospite.
Il giovane ventiseienne, arrivato lì da solamente una manciata di giorni, era l’investigatore che la nipote di Charles Van Ionerien aveva assunto per indagare la scomparsa del caro zio.
Clarisse De Blanchésse era la nipote preferita del conte, ben conosciuta nel villaggio per le frequenti visite che faceva da bambina; figlia della nipote minore di Charles Van Ionerien era stata designata come erede dall’uomo qualche anno prima.
Quando le era stata data la notizia della scomparsa dello zio la ragazza non ci aveva creduto neppure per un istante; aveva lasciato la città natale immantinente e con la prima carrozza era partita per Villa Viola. Si era premurata sì e no di lasciare scritte due righe con la sua elegante calligrafia rivolte alla madre e al maestro di musica.
Con lei, a Yornik, era arrivato anche quel ragazzo in doppiopetto, che ambiva a farsi chiamare Sir Cheérvot e a farsi dare del lei. In un paesetto come quello era subito stato additato a superbo e veniva già visto di malocchio. Solo la presenza della cara Clarisse gli aveva concesso piena collaborazione da parte degli abitanti.
«Sir Cheérvot, le ho già detto di chiamarmi Mila!» borbottò ruvida l’oste lanciando un’occhiata scocciata al ragazzotto di città che se ne stava tranquillamente in piedi davanti a tutti con il suo bel pigiama a righe bianche e blu.
Cheérvot storse le labbra in una smorfia contrita «Signora Marion, non amo prendermi simili confidenze con persone che conosco da poco, spiacente» ribatté prontamente il giovane.
Mila alzò le sopracciglia stupita «E andare in giro in pigiama…?»
Cheérvot arrossì un poco e scosse il capo «Non sarei sceso se non ci fosse stata necessità» disse sbrigativo, contando mentalmente quanti ospiti lo stavano fissando in quel momento «La coperta, Madame, il clima qui è decisamente rigido».
«Manderò Romies appena finisce con le stalle, sir» liquidò in velocità Mila. Se c’era una cosa che proprio non amava era il perdersi in simili chiacchiere superflue e sciocche. Preferiva di gran lunga sapere cosa usava Rosanne per avere delle aiuole di giaggioli così belle.
Strascicando i piedi Mila lasciò il ragazzo impalato nelle sue vaporose pantofole, con il moccolo di candela in mano. Riprese il proprio straccio e lanciò uno sguardo eloquente al sindaco.
«Clarisse si fida di lui, Mila».
L’oste annuì pensierosa e lasciò che la mente vagasse fino a Villa Viola, dove la sua piccola chérie ora stava sola, con il pensiero fisso del suo caro zio.
«Mi auguro che lo trovi davvero» sospirò riempiendo il boccale di Miles con dell’altro sidro, mentre elargiva un materno sorriso al piccolo Gustav che rubava un biscotto dal dietro al bancone.

**

Villa Viola era chiamata così per due motivi; il primo e più romantico era che fu costruita da Charles Van Ionerien per la propria amata, una fanciulla di nome Violet, quando il villaggio di Yornik era ancora niente più di una manciata di casupole diroccate e sparse per le colline adiacenti.
Ora veniva ricordata così poiché l’intera facciata principale della villa era ricoperta da del profumatissimo glicine che durante la fioritura colorava la villa di un tenue viola pastello e sprigionava una fragranza meravigliosa.
Clarisse De Blanchésse si era innamorata di quella villa il primo giorno che vi aveva messo piede. All’epoca aveva sei anni compiuti da qualche giorno, e il glicine aveva appena cominciato a sbocciare e nell’aria iniziava a respirarsi quel profumo particolare.
La bambina era arrivata nel cuore della notte, febbricitante, con il petto che si alzava e abbassava frettolosamente. Faticava perfino a respirare. I dottori avevano detto ai Signori De Blanchésse che necessitava di un cambio d’aria immediato, poiché gli odori della città non giovavano per nulla alla già cagionevole salute della bambina.
Rose De Blanchésse aveva immediatamente pensato a quel caro zio che andava a trovare da bambina e dopo aver avvisato con un corriere era partita con la carrozza per portare l’amata figlioletta a Villa Viola.
Clarisse si riprese in fretta sotto le cure della saggia Margareth, una signora ormai cieca ma molto esperta di erbe e agile come un cerbiatto. Rose era dovuta tornare in città, ma Charles le rimase accanto come un padre.
La prima cosa che vide per davvero quando finalmente guarì fu il glicine in pieno boccio; tra le braccia di Charles era stata svegliata dalla pungente fragranza del fiore, e gli aveva rivolto lo sguardo assonnato. Dapprima vide solo una macchia violacea, poi distinse i fiori. E se ne innamorò.
Ora però c’erano solo rami secchi a ricoprire la facciata.
Clarisse sedeva nel salotto accanto alla libreria dello zio, dov’era solita restare ad attenderlo giocando con qualche bella bambola, quando lui si rinchiudeva per i propri studi. Aspettava.
«Tornerà, ne sono sicura» sussurrava di tanto in tanto, stringendosi nello scialle di lana. Di una cosa era più che certa: lui non era morto. «Perché non puoi morire, no?»

**

«Volete forse dirmi che nessuno ha aperto la stanza, Madamoiselle De Blanchésse?» esclamò incredulo Cheérvot quando finalmente la ragazza lo portò davanti alla porta della libreria.
Clarisse annuì piano, e l’investigatore sbuffò «Mi avete detto che spesso restava nella stanza per qualche giorno, no? -lei annuì- E allora cosa vi fa supporre che così non sia pure questa volta?»
Scosse il capo affranta, posando la mano sul legno scuro «No, sir, no. Lo zio non restava mai così tanto tempo», spiegò accorata; la servitù non l’avrebbe mai chiamata se si fosse trattata solo di un ritardo nel suo ritorno.
Cheérvot sospirò irritato «Avanti, apriamo questa porta, con un poco di fortuna lo troveremo morto davanti a un libro» commentò. Il tatto non era una qualità del giovane investigatore; effettivamente Michael Andres Cheérvot non aveva molte qualità, se si escludeva l’incredibile fiuto investigativo che l’aveva reso famoso nel mondo.
La ragazza rimase muta. Infilò con attenzione la chiave nella serratura ed aprì la porta.
Tutto era immobile nella libreria, tutto era uguale a com’era sempre stato. Di Charles Van Ionerin neanche l’ombra.
«Sembra che abbiate avuto ragione, madamoiselle» ammise Cheérvot, entrando a passi misurati nel piccolo ambiente. Si osservò attentamente attorno e tornò a rivolgersi a Clarisse «Come faceva vostro zio a leggere senza una lampada ad olio o una candela?» Lei si strinse nelle spalle e scosse il capo «La luce filtra dalla cupola, sir» riferì indicando con la mano la bella vetrata colorata. Ma l’elegante gesto si fermò a mezz’aria, monco. Sul suo viso si formò un’espressione tra lo stupito e l’intimorito.
C’era qualcosa che non andava.
«Mademoiselle?» domandò educatamente Cheérvot «Avete notato qualcosa? Qualche particolare?»
Clarisse scosse il capo «Manca la Sfera» disse cupa, abbassando il braccio e stringendolo al petto «Qualcuno ha preso la Sfera di mio zio».
Il giovane investigatore alzò un sopracciglio scettico «Una sfera, mademoiselle?» chiese per nulla convinto, tornando ad osservare con maggiore attenzione la cupola e notando un filo che scendeva proprio dal centro. Di sicuro vi era stato appeso qualcosa, un tempo.
«Era di valore?»
La voce di Clarisse, nel rispondere, tremò appena «No, sir, era la Sfera. E non aveva null’altro che un valore affettivo». Fece due passi nell’abito sgualcito dalla nottata insonne e sedette stancamente sulla sedia di Charles Van Ionerien.
Cheérvot la guardò infastidito «Inquina l’ambiente così» la redarguì seccamente, infilandosi i guanti bianchi ed estraendo una lente d’ingrandimento dalla propria borsa tascapane. «Cos’altro sapete di questa sfera?»
Clarisse emise un flebile gemito sommesso «Sir Cheérvot, quella non era una semplice sfera, le ho detto; era la Sfera, Zio Charles mi raccontava che era stata fatta in cristallo e al suo interno era stato ricamato in fili d’oro un intero mondo» cercò di spiegarsi al meglio.
Non era facile per lei raccontare ad un estraneo alla famiglia quello che lo zio le aveva raccontato quando aveva vissuto lì. Erano segreti tramandati da generazioni, da Charles Van Ionerien a Charles Van Ionerien.
Ma non c’erano molte altre possibilità, per lei. Voleva ritrovare lo zio, e Sir Michael Andres Cheérvot era il candidato più adatto.
«Sir, cosa sapete dei libri?»

**

Quando finì di raccontare tutto ciò che sapeva Clarisse aveva la gola completamente secca e cercava invano di schiarirsi la voce in modo signorile e raffinato, come le avevano ripetuto mille e mille volte la madre e la balia.
«Mademoiselle, pensate davvero che io possa credere ad una simile storia?» domandò alterato Cheérvot, che l’aveva lasciata concludere quei deliri senza mai fermarla. «Vi rendete conto che state sostenendo solamente delle assurdità? Come potete credere che in quella Sfera fosse contenuti il nostro mondo, e contemporaneamente essa stessa fosse contenuta in sé? È al di fuori di ogni legge fisica e logica!»
La ragazza scosse il capo mestamente, e qualche boccolo castano scappato alla severa crocchia le finì davanti agli occhi «Sir, è così. Mio zio––»
«Suo zio era indubbiamente pazzo.» concesse Cheérvot interrompendola senza riguardi. Si voltò ancora nella piccola stanza e afferrò un volume a caso «Mi stupisce invece che lei si sia fatta coinvolgere in una simile paranoia senile. Ad ogni modo quella sfera aveva certamente un valore inestimabile se, come raccontate -sempre che sia attendibile la vostra testimonianza-, era in cristallo e con degli intarsi in fili d’oro.»
Sfogliò svogliatamente alcune pagine e poi richiuse il libro rimettendolo al suo posto; passò ad osservare il libro successivo e storse le labbra in una smorfia irritata «Mademoiselle, in che assurdo ordine suo zio ha messo questi testi? Argomento? Alfabeto dell’autore? Alfabeto del titolo dell’opera? Sono sicuramente stati messi a soqquadro.»
Clarisse spalancò gli occhi sconcertata «Sir, sono in ordine di data
«Data? Che bizzarro modo di classificarli.» constatò aprendo due libri affiancati «Ed è la data di pubblicazione dell’edizione? O quella della pubblicazione della prima edizione? O magari la data di stesura?»
La ragazza scosse nuovamente il capo. «No, sir, quelle che vedete qui sono solo opere originali, in lingua originale. Nella parete dove si apre la porta vi sono i libri più giovani, la parete destra contiene i tomi di pubblicazione d’anni pari, quella di sinistra degli anni dispari; quelli preferiti dallo zio, invece sono nella parete dietro, quella che affaccia sulla sedia, sir. Sono le opere degli anni bisestili.»
Clarisse non si era mai stupita per quella particolare disposizione, poiché da bambina Charles Van Ionerien stesso le aveva spiegato accuratamente per quale motivo essi erano similmente disposti. Lo zio le aveva spiegato che i libri potevano essere classificati in mille modi diversi, perfino per altezza e larghezza, com’anche per la sfumatura del colore delle copertine rilegate.
“Ma la verità, ma chérie, è che sono disposti così per via della luce: la cupola filtra la luce bianca e la divide in mille colori, ognuno dei quali viene assorbito dalla Sfera che poi li riflette sui libri. Ogni tomo, ogni singola pagina, necessita di una e una sola sfumatura di luce. È per questo, Clarisse, che i libri sono disposti così.”
«Mi sembra di capire che non ci sia nient’altro da fare qui, Mademoiselle De Blanchésse. Potrebbe per caso riprodurmi su carta la sfera come se la ricorda, cosicché possa continuare le mie indagini?»
Lei piegò appena le labbra all’ingiù e annuì. “Ricordati, Clarisse, che la Sfera è unica; e tale deve restare.” Con la mente rivolta ancora allo zio uscì dalla biblioteca e recuperò carta e penna, dove schizzò con una precisione artistica l’apparenza della Sfera come lei la ricordava da bambina, quella volta che l’aveva osservata per ore in camicia da notte.

**

«Quindi lei non ne sa nulla?» domandò Cheérvot al sindaco. Quando aveva scoperto che proprio il sindaco in persona aveva consigliato al conte di far stimare la preziosa sfera aveva seriamente pensato d’essere sulla strada giusta.
Ma era stato duramente deluso dall’inutilità del rubicondo uomo. «La lascio al suo lavoro, sindaco» si congedò freddamente, lasciando la stanza in velocità.
Era oltremodo seccato di trovare tutti quegli impedimenti alla risoluzione del caso; Cheévrot non era uno di quegli investigatori che si dilettava nel risolvere i misteri propostegli, no, lui amava solo risolverli al meglio e velocemente. Mirava alla fama.
Ad ogni modo non l’avrebbe raggiunta se prima non si sarebbe riposato come si conveniva.
«La Sfera di cristallo,
canta ancora il Gallo,
non la troverà nessuno
perché già c’è l’uno!
Se poi il due arriverà
niente di tutto resterà.
Aspetta il cavaliere
rispetta il mestiere
trova l’altro Gallo,
scova la Sfera di cristallo!
»
Cheérvot storse il naso quando un ragazzotto di poco più giovane di lui gli si presentò davanti saltellando da un piede all’altro cantando quell’assurda filastrocca infantile.
«La Sfera di cristallo! La Sfera di cristallo!» cantilenò il ragazzo, ed ogni volta che lo ripeteva spostava il peso da un piede all’altro «La Sfera di cristallo!» sghignazzò portandosi in equilibrio sulla mano destra «La Sfera di cristallo!», cambiò la mano al volo senza mai posare i piedi «La Sfera di cristallo!», ed era ancora sul piede destro.
La vecchia Mila sulla porta della propria osteria osservava il ragazzo con un sorriso bonario sulle labbra «Lo scusi, sir, perse del tutto il senno dopo un brutto incidente con dei gatti», spiegò la donna senza essere stata interpellata.
Non era un mistero nel villaggio che lei gli permettesse di dormire nel fienile con i cavalli, che sembravano trovare di loro gusto la strana compagnia del matto.
«Perché non lo mandate in un ospedale mentale?» chiese infastidito dalla sola presenza del giovane «Sono riusciti a curare gravi casi di pazzia, sa?»
Mila scosse il capo e si accucciò a terra mimando l’avere qualcosa tra le mani «Chat! Chat, vieni dalla vecchia Mila», lo richiamò dolcemente.
E a richiamare il nome affibbiatogli il ragazzo si mise a quattro zampe e miagolando raggiunse la donna; con il capo si strusciò contro le sue gambe e attese pazientemente che gli dicesse cosa fare o dove andare.
«Andiamo a mangiare, Chat?» gli propose materna, tornando ad alzarsi in piedi e precedendolo lungo la strada per la cucina.
Ma Chat rimase indietro. Alzò lo sguardo su Cheérvot e lo fissò intensamente con quei suoi occhi verde giada, lo squadrò da capo a piedi, ferino. Poi strinse gli occhi e sorrise scoprendo i denti giallognoli «La Sfera di cristallo, canta ancora il Gallo! » miagolò prima di seguire Mila all’interno.
Cheérvot rimase fermo dov’era per qualche minuto, poi scosse il capo ed entrò anch’egli nell’osteria.

**

Cheérvot sedette pesantemente nella comoda poltrona del salottino antistante la misteriosa libreria e si premette gli indici contro la tempia fino a farsi sbiancare le nocche.
«Deve esserci una soluzione», mormorò a se stesso, riflettendo febbrilmente su tutto quello che aveva saputo. Ma la verità era che non aveva saputo nulla.
O almeno, nulla che interessasse il caso.
Scoprì che Marion l’oste aveva i capelli bianchi a causa del suo primo e ultimo parto; che il suo bambino era morto e lei si rifaceva con i clienti; seppe che il sindaco era vedovo da una decina d’anni, e che faceva la corte serrata a Marion; venne a sapere che Chat era un bambino normalissimo prima di un brutto scherzo fatto dagli altri monelli, che l’avevano rinchiuso in uno stanzino in compagnia di quattro grossi gatti; apprese le vicende dell’intero villaggio, nessuno escluso. Perfino Clarisse non era stata salvata dai pettegolezzi bonari delle vecchie signore.
Il profumo di vaniglia preannunciò l’ingresso di Clarisse «Mi spiace, sir, ma c’era solo vaniglia, spero che le piaccia ugualmente…» si scusò la ragazza, posando la tazza di tè bollente sul tavolino basso proprio davanti a lui.
Si sedette sul divanetto lì accanto e lasciò andare un sospiro. «C’è qualcosa che mi sfugge, mademoiselle».
Lei alzò lo sguardo su di lui e annuì piano «Mi dica ogni cosa, sir» disse in un alito, leggera come la brezza mattutina. Ogni giorno che passava Clarisse diventava sempre più pallida e sciupata. Sembrava quasi che dovesse sparire da un momento all’altro.
«La storia del Conte Charles Van Ionerien non calza, ci sono troppi vuoti. Per esempio, sappiamo che ereditò nome e titolo dal precedente Conte Ionerien, che si diceva fosse il nonno. Ma il Conte non si sposò mai ne ebbe figli. E lei, Mademoiselle De Blanchésse, come potete esserne imparentata?»
«Le avranno sicuramente parlato di Violet, al villaggio» rispose pacata la ragazza, bevendo del suo tè «Violet non era figlia unica, e anche se lei e Charles non ebbero figli la sorella di Violet ne ebbe. Io discendo da quella famiglia, sir, e da quella famiglia discendono tutti i successivi Charles Van Ionerien».
Sembrava quasi un contratto, così detto. Cheérvot ebbe pienamente quell’impressione, e fu certo che ci fosse dell’altro, che non voleva essere rivelato. Indeciso se pensare che quell’omissione fosse voluta oppure fosse obbligata si alzò ignorando palesemente il tè fumante.
«Vorrei che lei mi mostrasse cosa faceva suo zio in quella libreria. E vorrei restare qui da solo, questa sera; lei potrà alloggiare nella mia stanza».

**

«Signora Marion, saprebbe dirmi dove posso trovare Chat?»
Un bicchiere cadde a terra sul pavimento e si frantumò in schegge affilate e piccolissime. Con sguardo stupefatto la donna cercò la voce per rispondere «Vuole interrogare anche Chat, sir?»
La vecchia Mila amava quel ragazzetto magrolino come un figlio, come avrebbe amato il suo vero figlio. Davanti all’intero villaggio lo trattava come un animale da compagnia per evitare pettegolezzi, ma era comunque solita sedere nella stalla con lui a raccontagli le favole finché quello non cadeva addormentato, accoccolato su di sé. Solo allora lo copriva con una calda coperta e gli sfiorava la fronte con un bacio, per poi lasciarlo solo.
Cheérvot annuì «L’ultima volta che l’ho incontrato a cantato una strana filastrocca, volevo sapere dove l’aveva sentita».
Mila si morse il labbro inferiore ma poi cedette, abbassando il capo «Vi porto da lui, sir» disse rassegnata, salendo con la propria andatura ondeggiante le scale. La camminata della donna aveva qualcosa di ipnotico e tranquillizzante.
Il giovane la seguì, domandandosi per quale motivo lo portava di sopra, quando il ragazzo in questione veniva considerato in tutto e per tutto un gatto domestico -aveva scoperto le pettegole mentre gli facevano le coccole e gli grattavano ridacchiando dietro le orecchie.
«Prego» lo invitò gentilmente ad entrare in quella che Cheérvot riconobbe la stanza di Merion.
«Come mai…?» non completò la domanda, notando Chat seduto ad un tavolo intento a scarabocchiare con una cera un foglio di carta bianco. «Voi lo istruite, madama» constatò seccato «Perché mi avete tenuto nascosto un simile particolare? Può essere che il Conte Van Ionerien stesso avesse questa abitudine?»
Marion spalancò leggermente gli occhi e il giovane seppe di aver fatto centro. «Esca, devo parlare con Chat»
«Sir, la prego, sia gentile».
Egli scrollò le spalle con noncuranza «Ho già trattato con squilibrati mentali, madama, so come comportarmi» asserì con forza. Senza delicatezza la spinse fuori dalla propria stanza e si chiuse all’interno assieme a Chat, che lo osservava ferino.
Ogni volta che lo osservava Cheérvot si stupiva sempre di più della somiglianza tra quel ragazzo e i veri gatti. Eppure ora doveva farlo tornare uomo, per poter sapere ciò di cui aveva bisogno.
«Chat, chi ti ha insegnato quella filastrocca?» domandò avanzando minacciosamente di qualche passo verso di lui, cercando di mostrarsi più grande e potente di quanto in realtà fosse. Solo spaventandolo avrebbe ottenuto quello che voleva.
Ma lo sguardo del ragazzo si fece più vacuo, e lo oltrepassò senza neppure guardarlo.
Cheérvot gli si affiancò sovrastandolo «Chat, cosa canta il gallo? »
Lui sorrise, mostrando i canini bianchissimi «C’è una scimmia sul balcone!» miagolò a voce bassissima, come stesse confidando un segreto preziosissimo. «La notte è rosa», disse poi annuendo con vigore.
Il giovane investigatore lo guardò stralunato rimettersi a scarabocchiare sulla carta. Inspirò a fondo, cercando di mantenere la propria calma e il controllo di sé. Un gentiluomo era sempre padrone di se stesso, in qualunque situazione.
«La sfera di cristallo, Chat, sai dove si trova?» domandò con tono accondiscendente «Dov’è adesso il Conte Van Ionerien?»
Chat lo ignorò palesemente, colorando cerchi concentrici di un verde brillante. Con un movimento lento e misurato continuava, concentrato, a fare cerchi su cerchi, sempre più grandi, sempre più perfetti.
Cheérvot batté le mani una volta, attirando la sua attenzione «Charles, sai dove si trovano il Conte Van Ionerien e la sfera di cristallo?» Sperò vivamente che nella sua mente disturbata ci fosse ancora un briciolo di conoscenza legata a quel nome che un tempo aveva portato. Gli ci era voluto più tempo del previsto per scoprire il vero nome di Chat, e non era rimasto per niente stupito della coincidenza che legava il Conte a quel ragazzo.
Il ragazzo alzò lo sguardo sull’investigatore e sorrise «Il Gatto ha mangiato la lingua al povero Charles!» ghignò con tono sadico «Il Gallo dal becco blu ha rubato lo zolfo all’angelo di cartapesta!»
Cheérvot lo guardò malamente, e Chat in tutta risposta scese con un balzo dalla sedia e si accovacciò sul pavimento. Si leccò un paio di volte la mano sinistra sul dorso senza mai distogliere lo sguardo dal ragazzo. Poi passò il pugno chiuso sull’occhio e ammiccò «La Principessina svanirà. Bianca sparirà».
Il giovane si trattenne dal prenderlo per il bavero della camicia e farlo sbattere sulla parete ripetutamente, finché quella sua mente malata non fosse tornata quella di un normale essere umano. Invece fece un profondo respiro e gli lanciò uno sguardo malevolo «Non sei neanche capace di essere un vero gatto, Charles, sei solo un ibrido che suscita disgusto e patetiche risate».
Chat si mise diritto e impettito sulle proprie gambe, una perfetta e pomposa imitazione di Cheérvot. Così serio sembrava proprio una persona normale, e per il gusto di Cheérvot addirittura interessante.
«Se volete scusarmi, sir» disse con tono professionale Chat. Fece un vago inchino e gli voltò le spalle avvicinandosi alla finestra «La Principessa Bianca mi attende» continuò mostrandogli un sorriso giallognolo e i canini affilati «Il Gallo le fa paura!»
Prima che Cheérvot avesse la possibilità di muovere un passo Chat si era già gettato fuori dalla finestra. Quando il giovane raggiunse le imposte per vedere se era ancora vivo lo notò tutto arruffato di fieno che zoppicava in direzione della stalla.
Non gli era servito a nulla.

**

«Sir, la cena è pronta, se desidera accomodarsi…»
Clarisse, vestita per l’occasione con un grazioso grembiule tutto a balze e orletti -sicuramente un dopo per una bimba che desidera fingersi padrona di casa, valutò Cheérvot- fece il proprio ingresso nella sala dove il giovane investigatore rileggeva per la decima volta il taccuino.
Si stiracchiò e chiuse il libricino con l’indice a fargli da segnalibro «Vi raggiungo immediatamente, mademoiselle» le disse gentilmente nascondendo lo sgarbo che provava per la continua presenza della cliente.
Aveva cercato in tutti i modi di mandarla via da Villa Viola, ma sembrava che l’unico modo per farle lasciare la villa fosse portarla via con la forza. Così si era rassegnato ad averla intorno, lei e i suoi piccoli e continui pasticci.
«La aspetto di là, sir» annuì Clarisse, donandogli un sorriso tirato. Cheérvot notò che la ragazza appariva ogni momento più stanca e provata, come se stesse disperdendo le proprie energie in qualche lavoro particolarmente complesso.
Aprì il taccuino una seconda volta e finì di annotare le frasi sconclusionate dette da quel moccioso. Cheérvot era sicuro che gli stessero nascondendo qualcosa, e che volessero tutti indifferentemente ostacolarlo il più possibile.
Scuotendo il capo ripose i propri appunti e si apprestò a raggiungere la padrona di casa nella sala da pranzo. Ad accoglierlo trovò la vecchia Mila e Chat.
La prima aiutava Clarisse a portare in tavola le pietanze -molto probabilmente preparate da lei stessa- mentre il secondo se ne stava accoccolato sul tappeto, accanto al fuoco scoppiettante nel camino. Aveva una benda che gli copriva tre quarti della gamba destra e un’altra che gli immobilizzava il polso.
«Sir, prego, si accomodi» lo invitò gentilmente Clarisse. Cheérvot annuì severo e prese posto, senza mai distogliere lo sguardo dal ragazzotto.
Ma quando anche Clarisse si sedette la vecchia Mila lasciò la stanza e con lei il fedele Chat.
La ragazza sorrise tristemente «Non trovate che sia stato crudele ferire a quel modo Chat, sir?» domandò in tono colloquiale, assaporando la zuppa calda che aveva nel piatto.
Poiché la risposta tardava ad arrivare Clarisse riprese a parlare «È arrivato qui, zoppicando, sa? L’ho fasciato e poi è rimasto a riposare sul divano nella saletta d’attesa, sembrava davvero stremato…»
«Mademoiselle, è possibile che qualcuno da bambina vi chiamasse Principessina? Magari Principessina Bianca?» le domandò d’improvviso l’investigatore, ignorando completamente il suo discorso e bloccandola con il boccone in bocca.
Clarisse scosse il capo e deglutì velocemente «No, sir, mi chiamano tutti chérie» rispose zelante «Perché volete saperlo?»
Cheérvot non si diede pena di risponderle e finì celermente la propria cena «Ora vorrei che lasciaste la casa, Mademoiselle De Blanchésse, vorrei andare nella libreria di vostro zio il conte».
La padrona di casa spalancò gli occhi per qualche secondo, ma poi si piegò all’ordine ricevuto. Per lei non vi era nulla più importante del ritrovo dello zio. Niente.

**

Cheérvot, prima di entrare nella libreria, si era assicurato che la villa fosse sigillata e completamente vuota, eccettuato se stesso. Voleva pace assoluta per pensare.
Fiero del proprio lavoro estrasse la chiave dalla propria tasca e aprì la saletta. Aveva fatto in modo che nessuno potesse entrarci senza il proprio permesso: Clarisse aveva confermato che vi erano solo due chiavi, una delle quali sparita con il conte. Così lui aveva confiscato la seconda e aveva mantenuto intatto il luogo del crimine.
Fu perciò con estrema rabbia che accolse il ritrovamento di alcuni libri sulla poltrona, e qualche altro gettato a terra. Eppure la porta era chiusa.
Infilò i propri guanti bianchi e recuperò i libri, controllando che non vi fosse qualche altro indizio, qualcosa che smascherasse colui che aveva fatto tutto ciò. Ma si trovò per la seconda volta nel giro di qualche minuto a pensare qualcosa di impossibile: «O il conte è vivo ed è tornato qui, o i libri si spostano da soli», rifletté a voce alta.
Sedendosi al posto del conte poi sorrise, domandandosi se la troppa vicinanza di Clarisse e Chat non lo avesse influenzato negativamente. «Ovviamente è stato il criminale: è tornato sulla scena del delitto usufruendo della chiave del conte».
Soddisfatto della propria deduzione logica afferrò il primo libro e ne controllò la data. Un testo di medicina, constatò. Sicuramente lì non avrebbe trovato la filastrocca di Charles.
Il secondo era un libro in greco, sulla legge a quanto capiva. Era una specie di codice giuridico stilato per governare giustamente le polis. Il terzo era una raccolta di Haiku giapponesi, in ideogrammi. Questa volta non riuscì neppure ad intuire di quali argomenti parlasse. «Dubito che Charles sia capace di leggere il giapponese» si consolò Cheérvot, rimettendo al loro posto i tre libri.
Dei successivi riconobbe le lingue e gli argomenti, alcuni dei quali erano semplici favole per bambini, che però non parlavano di galli o di sfere di cristallo. Quando ripose l’ultimo libro, di giardinaggio e apicoltura, il giovane investigatore si sedette sulla sedia infastidito.
Era mai possibile che fosse stato solo uno scherzo? Che qualcuno si fosse divertito ad entrare in quella libreria solo per estrarre qualche libro a casaccio e metterli in disordine?
Cheérvot osservò attentamente gli scaffali, alla ricerca di qualche altro tomo fuori posto. Solo quando arrivò allo scaffale più basso, proprio in angolo, notò che c’era uno spazio vuoto, che non aveva notato prima a causa della posizione sfavorevole: il buio dell’ombra aveva creato l’illusione che fosse tutto al proprio posto.
Invece mancava un libro.
Non poteva avere più di una trentina di pagine, dato lo spazio che occupava. Cheérvot controllò attentamente tutti gli angoli più bui, ma del libricino mancante non ce n’era neanche l’ombra. Sembrava essere svanito insieme al conte.
Poi il rumore di una chiave che gira nella toppa lo riscosse. Velocemente andò a nascondersi alla bell’e meglio dietro lo schienale della sedia, invocando che la propria buona stella lo aiutasse.
Si sentiva pronto per risolvere il mistero e incastrare il colpevole; attendeva trepidante di sentire i passi dell’assassino, di vederlo.
Ma non successe nulla.
Cheérvot uscì dal proprio nascondiglio con attenzione ed il cuore ancora in gola. Eppure davanti a sé non vide nulla di diverso dalla solita porta. Porta che, per la precisione, era chiusa.
Alquanto infastidito per l’essersi lasciato sfuggire tra le dita il colpevole l’investigatore raggiunse la porta e con un colpo secco tirò la maniglia.
La porta, però, non si aprì.
Tentò nuovamente, ma non cambiò nulla. «È ancora chiusa» constatò con tono monocorde, scioccato. Non era possibile, non era logico. Ci doveva essere un errore nel ragionamento.
«Non devo aver sentito nulla» concluse deciso Cheérvot, annuendo con il capo. «La porta è chiusa a chiave perché nessuno l’ha mai aperta».
Lieto della propria sagacia Cheérvot tornò a concentrarsi sugli scaffali colmi di libri. Passò in rassegna un’ultima volta gli angoli più nascosti e poi si diede per vinto, lasciandosi cadere sulla comoda sedia. Eppure subito si rialzò.
Abbassò lo sguardo e, sul cuscino rosso sangue, vide un libricino. Bianca la copertina, di piccola fattura, poche pagine.
«Prima non c’era» alitò il giovane, indeciso se doversi ritenere fortunato per l’averlo trovato o sfortunato per aver assistito ad un evento senza logica alcuna. Chiuse gli occhi e li riaprì.
Eppure il libretto era ancora lì.
Con mano esitante lo raccolse. Lo rigirò tra le dita e dedusse fosse un librettino senza alcun valore.
Sedette sul seggio, troppo spossato da quegli eventi inconcepibili per reggersi sulle proprie gambe. Giocherellò ancora un poco con il libretto, poi abbassò lo sguardo per leggere la data e scoprire di che parlasse.
Lo aprì.

**

«Chi sei?»
Quando Cheérvot rialzò lo sguardo dalle pagine stranamente vuote del piccolo libro bianco incrociò due occhi color dei lapislazzuli. Si fece serio e il fastidio che aveva provato fino ad allora scoppiò in dure e iraconde parole «Avevo specificato che non doveva venire nessuno!» sbottò arcigno.
Come poteva risolvere quel caso se veniva costantemente interrotto?
La proprietaria della voce e dei begl’occhi non si scompose e sorrise «Io sono Erien, e tu? Tu chi sei?»
Cheérvot si concentrò su colei che gli stava di fronte, e si stupì d’essere più alto di lei anche se ancora seduto. Solo allora notò che Erien nient’altro era che una bimba; ad occhio e croce doveva avere sei anni. Si presentava a lui con i capelli biondissimi completamente arruffati, un cencioso vestitino strappato il cui colore un tempo doveva essere stato verde ramarro, gli occhi azzurrissimi e un sorriso genuino sulle labbra fini.
Con ogni probabilità era una sguattera della Villa che lui non aveva notato a causa della statura -però era strano, Mademoiselle De Blanchésse aveva assicurato che non v’era più personale alla villa, dacché il conte era sparito.
Cheérvot alzò lo sguardo sopra la spalla della bambina e si aspettò di vedere un adulto al suo seguito. Ma quello che trovò fu solo la porta completamente spalancata e una tenue luce rosa che imperniava soffusamente il corridoio e l’attigua saletta d’attesa.
Spalancò gli occhi stupefatto e si alzò. Come poteva, nel cuore della notte, esserci una luce rosata?
Cheérvot uscì dalla libreria per andare ad assicurarsi con i propri occhi dello strano fenomeno -era più che certo dell’impossibilità di vedere un’aurora boreale alla latitudine cui si trovavano- e non si accorse della piccola presenza al suo fianco. Erien, con quel suo sorriso perenne sul volto, lo seguiva facendo attenzione a non lasciarlo mai solo; nei suoi occhi il brillio del desiderio di prendergli la mano.
«Cosa… cosa significa questo? » sbottò irritato il giovane investigatore, puntando minacciosamente il dito contro l’esterno e un cielo color rosa confetto.
Erien accentuò il sorriso «È solo la notte» rispose diligente come un brava bambina «E tu chi sei?»
Cheérvot si portò le mani alla testa e sbatté velocemente le palpebre tre o quattro volte di seguito. Azzardò nuovamente a guardare fuori un’altra volta, ma non essendo cambiato nulla tornò a posare il proprio sguardo su quell’insignificante bambina.
«Sono un sir, bimba. Gradirei che ti rivolgessi a me con il lei».
La bimba spalancò gli occhi facendoli sembrare più grandi del normale e lo guardò stranita «Ma tu sei un ragazzo! Non posso chiamarti lei, non è giusto!» protestò vivacemente.
Il giovane investigatore storse il naso, e prontamente la bimba lo imitò arricciando il proprio « Sir Michael Andres Cheérvot, marmocchia. Portami rispetto» le intimò. Qualcuno doveva insegnare a quella sguattera come comportarsi con gli adulti e i nobili.
Erien si guardò le mani leggermente intimorita «Io sono solo Erien» mormorò contrita. Ma quando tornò ad alzare lo sguardo su di lui il suo sorriso splendeva ancora «Però sono felice di poter essere Erien; è bello, non trovi Michael?»
Esasperato dal comportamento della bambina Cheérvot -che mai né in vita né in morte avrebbe permesso ad un estraneo di qualunque età di chiamarlo per nome a quel modo- alzò di scatto la mano, pronto a darle generosamente una lezione.
Il colpo però non partì. Una mano salda e potente tratteneva il giovane per il polso.
«Spero che non vogliate mancare di rispetto ad Erien, signore. Nella Sfera nessuno vi potrebbe mai perdonare».
La voce era melodiosa e bassa; apparteneva ad un uomo dai capelli brizzolati e l’espressione severa. Cheérvot lo conosceva molto bene, ormai.
«Siete il conte» disse senza indugio, voltandosi verso di lui e ignorando completamente la bambina che assisteva a tutta la scena con il solito sorriso stampato sulla faccia scarna. Era ormai chiaro che non sorridesse perché era felice ma solo perché era solita fare così.
Charles Van Ionerien annuì solennemente e con lui annuì un curioso galletto dalla cresta rossa come il fuoco e le piume arruffate che se ne stava comodamente appollaiato sulla spalla sinistra del conte.
«Voi siete un cavaliere, Sir Michael Andres Cheérvot?»
Il giovane investigatore si eresse in tutta la propria statura e annuì soddisfatto «Discendo da valorosi cavalieri, conte, e lavoro come investigatore. Attualmente sto risolvendo il vostro caso: vostra nipote Mademoiselle Clarisse De Blanchésse mi ha incaricato di ritrovarvi».
Van Ionerien assentì compiaciuto «La mia piccola chérie» gongolò dolcemente «Orbene, adesso è il caso che mi seguiate e risolviate questo misterioso caso, caro Michael!»

**

Cheérvot non credette ad una singola sillaba che venne raccontata dal Conte Van Ionerien. Lo ascoltò diligentemente come si ascolta un pazzo particolarmente sagace e benvisto nella società, ma non considerò vera neppure una parola.
Van Ionerien gli stava raccontando una storia, una bella storia degna di un libro di fantascienza, ma niente più che una storia. Chi poteva credere a quelle parole? Principesse perdute ed angeli senza fantasia? Cavalieri e missioni pericolose, nemici ostici e d’ingannevole aspetto? Sfere incantate e incantesimi mal riusciti?
Cheérvot ascoltò, ma alla sua domanda non poté altro rispondere che un laconico «Non vi credo». Doveva semplicemente esserci uno sbaglio, la sua logica non poteva fallire. La logica non falliva mai, e lui con lei. Infallibili.
Van Ionerien scosse il capo in un segno di diniego, ma Erien gli sorrise bonaria e si mise in piedi, facendo notare al giovane che oltrettutto era scalza. «Devi parlare con Charels, Michael, devi assolutamente!» squittì gioiosamente, saltellando sul proprio posto «Lui è il più saggio!»
«No, io devo solo ricondurre il conte da sua nipote, questo è ciò che devo fare» rispose sbrigativo, alzandosi a sua volta dalla poltrona. Il cielo rosa si era leggermente scurito da quando lui era lì, si disse, ora tendeva di più ad un fucsia molto acceso. Un colore che feriva gli occhi.
Il conte rise di gusto «Perfetto!» esclamò compiaciuto, come se avesse ottenuto dal ragazzo il consenso ad avventurarsi in quel mistero. Cheérvot non ebbe il tempo di chiedere nulla che il conte già si era avviato alla porta, dal lato opposto della libreria «Allora andiamo da Charles».
«Si fermi!» ruggì inviperito il ragazzo. Puntò il dito verso la libreria «Io vi ho già trovato, ed ora torniamo subito. Niente deviazioni» precisò, picchiettando con il piede il pavimento di legno.
Erien sorrise ad entrambi, lanciando sguardi incuriositi dall’uno all’altro, mentre Van Ionerien scuoteva il capo allegro «Siete passato attraverso il libro, Michael, non c’è modo per tornare di là attraverso di esso: è necessaria la Sfera».
Cheérvot lo guardò sospettoso. Erien invece annuiva convinta «Aspetta il cavaliere rispetta il mestiere», canticchiò a voce alta, stonando qualche nota della filastrocca.
L’investigatore le lanciò un’occhiata penetrante «Conosci quella filastrocca? Cosa significa?»
La bimba raggiunse il conte e affondò la propria manina in quella dell’uomo, per poi rivolgere al giovane un largo sorriso «Charles me l’ha insegnata!» rispose allegramente «Significa che il cavaliere -tu, Michael- tanto atteso sarebbe arrivato e che avrebbe dovuto concludere il proprio lavoro -ovvero la tua investigazione, Michael» continuò incapace di restare ferma per l’eccitazione che sentiva in corpo.
Cheérvot li guardò malamente entrambi. Si voltò senza dire una parola e recuperò il libro dalla sedia di mogano. Si sedette e riaprì il libro alla prima pagina; sfogliandole le trovò tutte bianche, proprio come le ricordava prima di aver visto la bimba.
Soddisfatto alzò lo sguardo e incontrò nuovamente quei due occhi color dei lapislazzuli. Erien non era scomparsa.
Lei gli sorrise «Vieni con noi Michael?»
L’investigatore chiuse il libro con uno scatto e li mise nella borsa tascapane assieme al blocco degli appunti. Era tutto, maledettamente, assurdo.

**

Charles era un gatto. Aveva un pelo fulvo, color delle foglie in autunno, lungo e folto; due occhi gialli come i giaggioli in boccio e i baffi grigio perla.
Se ne stava comodamente accoccolato su una comoda poltrona all’Osteria Tre Monti, gestita da una giovane ragazza dai lunghi e boccolosi capelli biondo cenere. Marion, così si chiamava la ragazza, li aveva accolti con un bellissimo sorriso e aveva offerto loro da bere. Poi i tre si erano accomodati accanto a Charles e ora Cheérvot aspettava che succedesse qualcosa. Qualsiasi cosa.
Charles si stiracchiò e si accomodò meglio sulla poltrona, rivolgendosi con sguardo intelligente ai tre interlocutori. Erien azzardò una carezza timorosa, ma il gatto schivò la manina e le lanciò uno sguardo offeso.
«Van Ionerien, qual buon vento vi porta entrambi qui?» domandò serio il gatto.
Cheérvot spalancò gli occhi esterrefatto e poi li richiuse in fretta. Quando li riaprì Charles lo stava fissando e la sua bocca era tirata in un inquietante sorriso -i gatti non erano decisamente fatti per sorridere, si trovò inconsciamente a pensare l’investigatore. Non si rese conto dell’assurdità del proprio pensiero.
Il gatto accennò maggiormente il sorriso «Noi ci conosciamo, Cheérvot» riferì pacatamente. Il ragazzo avrebbe voluto dirgli che no, non annoverava tra i suoi conoscenti gatti parlanti, ma aveva la gola secca e quindi non uscì una sola parola quando la aprì per rispondere.
Ma Charles sembrava aver intuito la cosa «Oh, non ti preoccupare, mi hai conosciuto sotto altro aspetto, nel mondo della Sfera» precisò. Cheérvot capì ancora meno.
Erien sorrise al gatto «Michael non sa niente della Sfera! Canta la filastrocca, cantala!» supplicò cantilenante la bimba, battendo le mani un paio di volte a dare enfasi alla propria richiesta.
Charles storse il naso ma si mise in posizione eretta e fece un piccolo inchino. Con lo stesso ritmo cantilenato di Erien e la voce leggermente più acuta il gatto miagolò.
Fu un minuto infernale per l’investigatore, costretto a sentire un miagolio acuto e stonato, come quello dei gatti in calore, senza capire una sola e singola parola di quello che diceva -sempre che qualcosa dicesse.
Charles poi l’aveva fissato a lungo, aspettandosi che dicesse qualcosa. E Cheérvot era rimasto in silenzio, mordendosi la lingua per non sputare tutto il veleno che sentiva in corpo.
«Comprendi, ora?»
Cheérvot batté il bicchiere sul tavolo, facendo tintinnare le ceramiche e voltare qualche testa «No» riferì irritato. Ma i gentiluomini non perdono mai la calma, quindi non si alzò per andarsene di punto in bianco, lasciandoli lì con un palmo di naso «Il Charles che conosco io è un pazzo, ma noto che anche tu non sei molto diverso. Anzi -aggiunse guardando scetticamente Van Ionerien ed Erien- nessuno di voi sembra avere la testa a posto, qui».
Quella sfuriata sortì il solo effetto di far scoppiare in lacrime la bimba, che si rifugiò tra le braccia del conte facendo così scappare dalla sua spalla il bel galletto.
Gatto e gallo si osservarono, ignorando volutamente il ragazzo. Poi il gatto fece un inchino e il gallo lo prese letteralmente sotto la sua ala.
«Charles, non prendertene a male per queste dure parole. Appartiene al mondo della Sfera e ancora non comprende appieno ciò che accade» disse con tono rassicurante il gallo.
Gli occhi sporgenti dell’animale si rivolsero a Cheérvot e poi al conte «Caro ragazzo, quello che tu dici è vero: Charles è pazzo. Ma non come tu intendi», specificò saggiamente. «Successe un incidente e il Charles che appartiene al mondo della Sfera e quello che appartiene al mondo nella Sfera si fusero malamente. Per questo motivo sono pazzi, perché sono continuamente nell’uno e nell’altro mondo, nello stesso tempo».
Cheérvot scosse il capo rabbrividendo «Parli di un mondo di e di un mondo in questa maledetta sfera. Spiegati!» inveì irritato il ragazzo. Non poteva accettare tutto quello che stava accadendo, non poteva.
Si sentiva costantemente preso in giro da loro. Sapevano qualcosa in più di lui e raggiravano la sua logica con concetti astrusi e confusi, completamente impossibili.
Il gallo annuì appena «La Sfera, mio caro ragazzo, è tutto. La Sfera in sé e di se stessa, la Sfera si contiene e contiene. La Sfera è semplicemente tutto».
Si fissarono negli occhi, e il giovane fu il primo a distogliere lo sguardo. Non capiva, nulla di tutto quello era logico, nulla di tutto ciò che gli stava accadendo poteva essere spiegato in altro modo che non fosse un incubo dovuto a qualcosa che aveva mangiato.
Però non si sarebbe permesso di fallire.
«Fatela smettere, che è irritante» sbottò lanciando un’occhiata alla bambina che ancora piangeva. Si portò le mani alle tempie e le massaggiò lentamente, incurante degli sguardi incuriositi che aveva addosso. Doveva pensare, solo pensare.
Riflettere.
Due più due faceva sempre quattro. La logica non poteva essere stata abbattuta da una stupida sfera e un gatto pazzo che si credeva un uomo.
Si accorse che aveva un solo modo per andarsene da quel luogo, ed era intenzionato a metterci tutto se stesso per la buona riuscita «Bene, risolviamo questo caso» riferì risoluto.
Alzò lo sguardo verso il conte e velocemente tra le proprie mani comparì il taccuino e una penna. «Cosa significa il gallo dal becco blu ha rubato lo zolfo dell’angelo di cartapesta? » interrogò senza nemmeno chiedere il permesso. Che fosse il conte, in quel momento, non gliene importava proprio nulla. Avrebbe risolto quel caso, si sarebbe svegliato, e tutto sarebbe finito.
Van Ionerien posò un bacio sui capelli della bimba, che li ascoltava rapita come se loro le stessero narrando una bella e avvincente favola. «Qualcuno ha rubato la fantasia di Erien» tradusse velocemente.
Cheérvot lo guardò scettico, ma non commentò «Chi è la Principessa Bianca?»
Il conte scosse il capo «Chi era. È morta anni fa, purtroppo. Ora Erien ha preso il suo posto».
«Mentite. L’altro Charles ha detto che stava svanendo».
Van Ionerien alzò un sopracciglio stupito «Vi assicuro che non ne so niente».
L’investigatore scoccò la lingua scocciato. Charles gli rivolse un sorriso smagliante e ammiccò «Parli di Clarisse, non è vero?» cinguettò allegramente. Il suo carattere scontroso si era dissolto.
L’espressione del ragazzo non cambiò «Cosa insinuate?»
Il gatto saltò giù dalla poltrona e scodinzolò un poco. «Andiamo a fare una visita alla Principessina».

**

Cheérvot si era immaginato d’andare in un cimitero.
Aveva camminato immerso nei suoi pensieri affiancato da quella strana compagnia, e era più che certo che per visitare un morto fosse necessario andare in un cimitero.
La notte era diventata violacea, il vento freddo li sferzava senza tanti complimenti. Erien camminava mano nella mano con il conte, mentre l’altra mano stringeva spasmodicamente l’ala del gallo. Charles invece precedeva tutti con il suo passo tra il ferino e l’umano, la coda che dondolava da un lato all’altro.
Lui li seguiva qualche passo indietro, ben attento a non sembrare accodato alla loro compagnia.
Non si era accorto che stavano andando alla chiesetta che faceva angolo con il fruttivendolo e la strada che portava a Villa Viola. Quando si trovò davanti un maestoso arazzo che riproduceva in tutto e per tutto Clarisse De Blanchésse in ogni infimo particolare -escluso il regale abito che non aveva mai avuto occasione di vederle indosso- non poté fare a meno di trasalire.
Erien corse vero l’arazzo e lo sfiorò delicatamente con la punta delle dita, sorridendo gentilmente.
Il conte, il gatto e il gallo s’inchinarono ossequiosamente; Cheérvot si sarebbe inchinato così solo, forse, ad un’ipotetica sovrana della Terra intera. Quei tre mostravano devozione per quell’arazzo, che per quanto bello e raffinato fosse era e restava un cumulo di fili intrecciati -magari abilmente intrecciati, ma sempre fili.
Cheérvot non amava l’arte. Effettivamente Cheérvot non amava niente che non fosse se stesso o il risolvere casi complicati -sempre e comunque finalizzati al proprio autocompiacimento.
Attese impaziente qualche altro secondo, ma poi sbuffò «È un arazzo, e allora?»
Charles soffiò e inarcò la schiena. I denti che si scoprirono erano piccole e affilate zanne. «Non offendere la Principessa Bianca, ragazzo!» lo ammonì scontroso il gallo, facendo placare l’amico ferino.
Il gatto si rimise sulle due zampe e scosse il capo rassegnato «Da quando è stata rubata la Sfera dal mondo della Sfera ogni cosa nel mondo nella Sfera è cambiata» cercò di far comprendere con tono greve «Il mondo nella Sfera è quello intarsiato d’oro nel cristallo, dove ora ti trovi. Il mondo della Sfera è quello che tu conosci, quello che protegge la Sfera stessa».
Cheérvot capiva sempre meno. Non c’era logica in quello che veniva detto, una sfera che contenesse tutta se stessa e che contemporaneamente fosse contenuta in se stessa… non aveva senso. Neppure un punto aveva questa proprietà.
Era una presa in giro, come il fatto d’essere andati in una chiesetta per incontrare un arazzo. Non c’era utilità in quello che stavano facendo, stava solo sprecando il suo tempo.
«Cosa volete dirmi?»
«Che da quando la Sfera è tornata qui ogni cosa si è modificata. Essa è unica e tale deve restare; se ne esistesse un’altra l’equilibrio si romperebbe» spiegò il gatto, leccandosi con perizia la zampa e le orecchie. Soffiò al suo indirizzo ed inarcò nuovamente la schiena.
«Quello che vuole dire Charles è che rubando la fantasia di Erien l’asse dell’equilibrio si è spostato e tutti i libri hanno iniziato a scolorirsi e di questo passo le pagine torneranno ad essere bianche come la neve» continuò il gallo per lui.
«Senza la luce filtrata dalla sfera i libri non possono più nutrirsi, ed ogni cosa scomparirà».
Van Ionerien annuì compito, rivolgendo uno sguardo malinconico alla bambina che continuava ad accarezzare il tessuto «Un tempo quell’arazzo era vivo, mantenuto tale grazie alla fantasia di Erien».
Charles miagolò un consenso e si accucciò sul pavimento freddo «Una volta la Principessa Bianca camminava per questi luoghi, donando il proprio tepore alla notte rosa e il verde giorno. Era grazie a lei che molti libri sono stati scritti».
Erien accarezzò nuovamente con dita leggere l’intricato disegni dei fili; gli occhi cerulei attendevano speranzosi di ricevere risposta, magari di vedere la mano bianca della principessa uscire dall’arazzo per posarsi sui suoi capelli e lisciarli appena.
Il conte sorrise mestamente alla bimba, sembrava fargli molta pena «Ora che l’arazzo è muto la mia chérie scomparirà».
Un singulto scappò alle labbra serrate di Cheérvot, che si voltò verso di lui e lo additò accusatorio «Avevo immaginato bene! La Principessa Bianca è mademoiselle Clarisse!»
La mano del conte andò ad accarezzare la propria barba «Non vi ho mentito: la Principessa non può scomparire, poiché ha già lasciato definitivamente questo mondo. Clarisse invece sì, poiché è stata separata dalla propria controimmagine presente qui».
L’investigatore si morse la lingua. Non voleva sapere se anche lui aveva una controimmagine in quell’assurdo posto. Principalmente non voleva accertarsi di essere un pesce rosso, poiché si era ormai rassegnato a capire che il gallo era la controimmagine del conte. E il gatto quella di Chat.
«Vi pregherei di non venirmi a raccontare che qui vi sono nani ed elfi, conte» eruppe sarcastico, cercando di mantenere intatta la propria psiche. Perché se solo gli avessero confermato queste magiche presenze non poteva assicurare il proprio comportamento.
Il conte lo guardò malamente e scosse il capo in segno di diniego «No, mio caro ragazzo! Quelli sono solo personaggi della fantasia» spiegò grossolanamente.
Cheérvot alzò un sopracciglio scettico «Perché gatti e polli parlanti sono normali?» Far notare loro che tutto quello che gli avevano raccontato fino ad allora si basava completamente sull’importanza di una mocciosa di sei anni che si aggirava per Yornik come una comune sguattera e non colei che doveva succedere una principessa come quella nell’arazzo. Dov’era la logica e la normalità in tutto quello?!
Charles ghignò nella sua direzione e l’investigatore intuì che dovesse essere un’aria di sfida a contraddirlo; con ogni probabilità aveva capito quello che gli passava per la mente e non aveva detto.
«No, noi siamo frutto del ripiegamento della Sfera in sé» spiegò il gallo, facendo segno col capo all’altro di lasciare la chiesetta. Fingendo d’aver capito quell’ennesima, vaga, spiegazione Cheérvot osservò il gatto andarsene impettito, scoccando occhiatacce al suo indirizzo. Di sicuro l’antipatia era ricambiata.
Gallo e conte lo osservarono intensamente, mentre Erien aveva cominciato a parlare con l’arazzo muto come ad una sorella maggiore. «Cosa volete?» sbottò irritato.
«Idee? Per trovare la Sfera, intendiamo».
Cheérvot annuì «Ci basta trovare un gallo dal becco blu» rispose con nonchalance, come fosse stata la cosa più ovvia e semplice da dire e fare. «Qui sono molto comuni?»

**

Avevano girato Yornik in lungo e in largo, per quanto il paesetto permettesse. Inoltre l’avanzare dell’inverno complicava maggiormente gli spostamenti.
Più volte Cheérvot si era domandato, stringendosi le braccia al petto per proteggersi dalle sferzate di vento, se davvero quel gallo dal becco colorato si trovava ancora a Yornik o se non se ne fosse andato via da lì.
Andare di casetta in fattoria, sempre più lontani, sempre più stanchi, con una mocciosa che faticava a camminare ma pretendeva di essere portata con loro. E di galli dal becco blu ne trovarono decisamente troppi.
Cheérvot aveva sperato di concludere in fretta, ora che sapeva perfettamente cosa stava cercando, ma aveva sottovalutato quello strano mondo. Dopo aver incontrato cani dallo splendido pelo verde e mucche a fiori l’investigatore aveva iniziato a disperare della riuscita della missione.
Non ne poteva davvero più di quella situazione insopportabile. Inoltre la presenza del gallo, del conte e della bimba non giovava a nulla, anzi, forse peggiorava solo il tutto: essi infatti continuavano a tormentarlo con le loro preoccupazioni, come se il fatto che la notte si tingesse di blu e non di rosa fosse qualcosa di catastrofico.
L’investigatore, invece, ne gioiva segretamente: anelava il ritorno alla normalità più di qualsiasi cosa, perfino più della risoluzione del caso e lo scurirsi della notte lo rassicurava moltissimo.
L’unica cosa che, paradossalmente, sembrava rimanere costantemente normale era l’assurdo comportamento del gatto. Cheérvot ebbe la conferma della sua pazzia quando si sistemò sulle sue gambe a fare le fusa una sera che era tornato a Villa Viola distrutto per l’ennesima indagine finita in un buco nell’acqua.
Dopo aver inseguito un gallo dal becco blu per più di tre ore in un bosco intricato e, per l’occasione, colmo di rovi aveva scoperto che non era niente più di un gallo. Sia in quel mondo che nel proprio.
Frustrato e stanco l’investigatore non aveva voluto nessuno tra i piedi, e si era accomodato nella poltrona per godere di un po’ di riposo. Egli non aveva lasciato che Charles si addormentasse sulle sue gambe, ma il gatto si era affabilmente imposto.
Sotto lo sguardo stupito del ragazzo rimase lì per un’oretta, poi soffiò adirato, inarcando la schiena come una furia, e saltò giù dalle sue gambe inveendo con quanto fiato aveva in gola contro la porta chiusa della villa.
Cheérvot non ci aveva dato poi tanto peso, ma aveva accarezzato per qualche minuto l’idea di annegare il gatto ed essere così magnanimo da far finire le sue pene. Erien però era intervenuta e l’aveva bloccato scoppiando a piangere quando l’aveva finalmente afferrato per la collottola.
Aveva dovuto dare la propria parola di cavaliere che non l’avrebbe più fatto per riuscire a far smettere quello strazio infinito per le sue orecchie. Così si era conquistato l’affetto della bambina, e una dose sostanziale di rancore dal gatto.
L’investigatore aveva concluso che qualunque cosa avesse mai fatto, non sarebbe comunque andata per il verso giusto. Non in quel mondo.

**

«Michael, Michael!» chiamò la voce di Erien in un bisbiglio, proprio dentro l’orecchio del ragazzo.
Cheérvot la scacciò infastidito con la mano, girandosi dalla parte opposta, ma quando lei gli mise le manine gelide sul viso fu costretto ad alzarsi dalla propria coltre.
«Erien! Stavo dormendo» palesò l’ovvio, seccato. La bimba aveva preso la malsana abitudine di non riuscire a dormire la notte a causa del buio, e dunque cercava in ogni modo d’infilarsi nel letto del ragazzo -che puntualmente la cacciava dal conte, molto più comprensivo di lui. Era in quelle sere che il giovane investigatore rimpiangeva non solo il proprio mondo, ma anche il chiarore rosato dell’inusuale notte di quel mondo.
Gli occhioni di Erien si riempirono di lacrimoni trasparenti, ma stranamente non ne cadde nemmeno uno. Si passò con decisione i pugnetti chiusi sul viso, premendo forte, e afferrò saldamente la mano del ragazzo costringendolo a seguirla per i corridoi bui di Villa Viola.
Il giovane investigatore, altrettanto stranamente, non oppose resistenza. C’era qualcosa di diverso, quella sera. «Sta per piovere» mormorò a se stesso, sentendo l’elettricità nell’aria.
Ma era troppo freddo per la pioggia che con ogni probabilità si sarebbe mutata in neve prima di scivolare lentamente giù dal cielo e ricoprire tutta Yornik con i suoi candidi fiocchi. L’indomani avrebbero davvero fatto fatica a raggiungere il casolare sotto la collina.
Erien strattonò maggiormente il ragazzo e affrettò i passetti, facendoli risuonare sinistramente sul marmo del corridoio. Era agitata, la bimba, e il suo perenne sorriso si era oscurato, nascosto da un velo di terrore e preoccupazione.
Qualcosa la opprimeva.
Lo scalpiccio echeggiò vacuo, provocando un brivido all’investigatore. Quella villa, con la notte ormai nera come la pece, era diventata ancora più inquietante di quanto paresse ad una prima vista. Solo tre persone e due animali in una villa così grande non rassicurava per nulla.
Villa Viola sembrava pronta a ripiegarsi su se stessa, protetta dalle ombre, per inghiottire i suoi ospiti. L’investigatore si trattenne dal pensare irrazionalmente che, in quel mondo, quella possibilità fosse reale.
Erien fece di corsa gli ultimi metri che la separavano dalla porta che dava all’esterno.
Cheérvot aveva avuto ragione: usciti dalla villa con quel passo trafelato aveva visto cadere i primi radi fiocchi di neve, e in quella che si apprestava ad essere una tormenta vera e propria vide Charles, in piedi, sospeso a mezz’aria.
«I gatti non volano» precisò piccato, infastidito da quella palese incongruenza con tutto quello che conosceva.
La bimba aveva annuito seria e l’aveva spinto in avanti. In realtà non l’aveva smosso di un centimetro, ma essendo arretrata lei riusciva a dare quell’effetto, visto dall’esterno. Aveva poggiato le mani sulle sua ginocchia e lo premeva con la forza della disperazione che nutriva «Sta morendo, Michael, sta morendo!» squittì spaventata.
Gli occhi color dei lapislazzuli scattavano dal gatto alla neve che cadeva attorno. La bambina aveva evidentemente paura dei fiocchi bianchi che ricoprivano tutto, ma la preoccupazione per la vita del gatto era più grande e palese.
«Aiutalo, Michael! Sta morendo!» ripeté terrorizzata, cercando di spingerlo ancora.
Tralasciando il fatto che non c’era nessuno nei dintorni ad esclusione di loro tre e dei miliardi di fiocchi di neve Cheérvot dovette ammettere con se stesso che Charles stava soffocando -anzi, che lo stavano soffocando.
La logica gli suggeriva che non poteva davvero soffocare con il nulla, ma non ci si soffermò su. Intervenne impavido, lottando contro mani che non cerano a stringere la gola del gatto, contro braccia e gambe che non esistevano. Lottò contro il nulla, e parve vincere.
Charles, rantolante, giaceva inerte tra le sue braccia. Cheérvot lo analizzava con occhio critico, convenendo che sì, delle mani invisibili gli avevano stretto il collo del gatto con chiara intenzione omicida.
Il caso si stava sdoppiando, ora. Aveva per le mani anche un tentato omicidio.
Ma chi mai avrebbe voluto morto un gatto pazzo?
Erien lo raggiunse immediatamente, mentre l’investigatore era ancora perso nelle proprie ipotesi. Si alzò sulla punta dei piedi, raggiungendo così un’altezza sufficiente a vedere Charles, debilitato e malconcio; glielo strappò dalle braccia senza tante cerimonie e gli lisciò il pelo dolcemente.
Con il sorriso ritrovato lo strinse al petto e lo cullò con delicatezza. Rassicurandolo con parole sussurrate lo riportò in casa per curarlo. Era ancora in pericolo di vita.
Cheérvot invece restava fermo sotto la neve.
I suoi occhi non vedevano il manto bianco che andava a formarsi; pensava febbrilmente. Rivedeva il libro bianco, Erien, il conte, il gatto, Yornik e l’arazzo. Poi si osservò i palmi: lui aveva davvero stretto tra le proprie mani le braccia dell’assassino. Le aveva avute lì, tra le proprie. Ne aveva sentito la forma e la forza, saggiato la consistenza.
Eppure… l’investigatore si riscosse e tornò all’interno della villa, ma invece di raggiungere la bimba e il gatto si avviò per il corridoio verso la sala d’attesa della libreria, dove tutto sembrava essere cominciato.
Entrò con passo veloce e sicuro. Poi si fermò.
Rimase immobile, in piedi, lo sguardo che vagava perplesso per la stanza. Aveva tralasciato un particolare in tutta quell’assurda storia; un solo, singolo, stupido, fondamentale dettaglio.
«Io ho sentito Erien che girava la chiave» si disse, chinandosi in avanti per osservare meglio la porta della libreria e la toppa della chiave. «Ma non solo -continuò analitico, assaporando con le dita lo stipite- tutta Yornik è uguale».
Lasciò che quella consapevolezza si sciogliesse sulla sua lingua come un dolce cioccolatino. Il sapore della logica era inebriante per il ragazzo, l’avere ragione era peggio di una droga.
Finalmente ogni cosa sembrava seguire un filo unico e preciso, anche se in quanto a coerenza e logicità lasciava decisamente a desiderare. Però c’era, quel filo. E sicuramente conduceva alla soluzione, ora che tra le mani Cheérvot era certo di tenerne un capo.
Abbandonò l’analisi dello stipite e lasciò la libreria, tornando nella saletta d’attesa. Recuperò frettolosamente il taccuino e la penna dalla borsa tascapane e sospirò.
Scarabocchiò qualcosa su un foglio e lo strappò, posandolo sul tavolino al centro della stanza. Aspettò, con la poca pazienza di cui era fornito. Attese.
«Vieni» continuò a mormorare come un mantra, fissando ossessivamente il foglietto abbandonato sul tavolino.
Ma non succedeva niente.
Il foglio restava inerte, con la sua calligrafia frettolosa sopra. Non cambiava nulla, e intanto il tempo passava inesorabile.
Era sicuro di aver fatto centro, ne era certo; più che certo. Mordendosi leggermente un labbro chiuse gli occhi e si disse che ciò che stava per fare serviva a risolvere il caso, un sacrificio assolutamente necessario.
Lasciò andare il respiro e si mosse in avanti.
Afferrò in un istante, con entrambe le mani, un vaso raffinato in ceramica cinese che aveva la sfortuna di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato; non ci pensò due volte e lo scagliò a terra, frantumandolo, con tutta la forza che aveva. Ci mise anche un po’ della propria frustrazione per la situazione in cui l’avevano messo.
Ora la preziosa porcellana giaceva in schegge sul pavimento, ai piedi dell’investigatore che la osservava indifferente. Era un bel vaso, sì, ma niente di inestimabile, dopotutto.
Soddisfatto di sé si acquietò, e non dovette aspettare poi molto, poiché un rumore di tacchi sul marmo si fece sentire. Leggero, quasi inudibile a chi non sapeva che doveva esserci.
E lui lo sapeva che ci sarebbe stato. Ne era certo, anche se colei che calzava quelle scarpe non era visibile ai suoi occhi.
Cheérvot si lasciò scappare un sorriso soddisfatto e posò lo sguardo sul tavolino; sul foglietto, sotto la sua frase scarabocchiata ne comparve una nuova.
«Sir, che cosa succede? Dove siete? Avete trovato mio zio? -al ragazzo parve di sentire quella voce preoccupata, e ringraziò il cielo di non essere costretto a farlo- Qui sembra andare tutto storto!» lesse a voce alta Cheérvot. Riconobbe immediatamente l’elegante e aggraziata calligrafia di Madamoiselle De Blanchésse. Quei fronzoli degni di uno spocchioso artista, i tratti signorili, la penna stilografica -la stessa che aveva usato per riprodurre la sfera giorni addietro.
Era inoppugnabile, era lei.
Il sorriso del giovane si ampliò, diventando un ghigno compiaciuto.
«Mistero risolto!»

**

Cheérvot in tutti quegli anni in cui aveva fatto l’investigatore privato aveva sempre sognato di risolvere un caso come nei grandi romanzi gialli: convocando tutti i sospettati e i testimoni così da poterli incriminare davanti a tutti, sciorinando seducente le ipotesi e i fatti, fino a far cadere in ginocchio il colpevole.
Certo, quello che aveva davanti non era un caso d’omicidio -sempre che non si considerasse l’attentato al gatto, ma lui non era un animalista e più di tanto non gli importava- e non c’erano sospettati, però il concetto rimaneva quello. Almeno per lui.
Così nella stanza del gatto aveva raggruppato il conte, il gallo ed Erien. In realtà si trovavano lì per loro spontanea volontà, tutti preoccupati per Charles.
Ma Cheérvot sembrava convinto di averne il merito; li guardava sornione, mentre sedeva su una comoda poltrona. Era tranquillo e sicuro di sé, e si notava.
Van Ionerien ricambiava lo sguardo con pacata soddisfazione, come qualcuno che sa di essere in buone mani; o che perlomeno spera sia così.
Quando l’orologio a pendolo nella stanza batté le cinque in punto Cheérvot si alzò e sospirò teatralmente «Ho scovato il colpevole» iniziò audace, attirando su di sé gli sguardi di tutti. L’unica che lo ignorava era Erien, accoccolata accanto al letto dove riposava il gatto.
Poi l’investigatore si zittì e aspettò. Van Ionerien restava fermo, mentre il gallo controllava continuamente le condizioni di Charles, ancora addormentato e dal respiro irregolare. Erien sorrideva.
«Chi è?»
Cheérvot annuì attento, le labbra arricciate in un sorriso sardonico «Non lo so».
Gallo e conte lo trafissero con uno sguardo omicida. Non potevano permettere un simile oltraggio alla loro persona, soprattutto quando di mezzo -secondo loro- c’era l’esistenza stessa dei due mondi. Alla minima, successiva provocazione gli avrebbero fatto ben capire con chi avevano a che fare.
L’investigatore voltò loro le spalle, prendendo a camminare tranquillamente per la stanza, incurante del loro turbamento «Non ho la più pallida idea di chi si nasconda dietro il misterioso “gallo dal becco blu”. Purtroppo il ladro e la propria controimmagine non si trovano più qui. Anzi, per essere precisi, dacché hanno rubato quella maledetta sfera si trovano di là, nel mio mondo» spiegò dosando le parole e drizzando le orecchie ad ogni minimo suono.
Lasciò vagare le mani in un ampio gesto teatrale. Attendeva.
Emanava un senso di sospensione, di aspettativa. In bilico nel tempo indugiava.
«Caro ragazzo, che cosa…?»
Infastidito dall’interruzione, con un gesto stizzito, Cheérvot lo mise a tacere e puntò il dito verso il gatto «Lui è contemporaneamente qui e là, dunque lui anche da qui può vedere il “gallo dal becco blu” di là e ci ha provato ad avvertire con i suoi scatti improvvisi -ma è pazzo, e noi non potevamo capirlo, non riuscivamo. Poi lui, il gallo dal becco blu, capito ciò che noi non potevamo comprendere, ha provato a eliminarlo» illustrò concitato, fiero della propria logica superba.
Aveva capito tutto, già.
Era riuscito ad arrivare all’altro capo del filo, percorrendolo palmo a palmo. Era riuscito a risolvere il caso, a compiere “il suo mestiere”.
Soddisfatto si passò una mano tra i capelli «Tra poco il nostro nemico entrerà in questa stanza, e si siederà proprio su quella poltrona -indicò il luogo da dove si era appena alzato- e noi lo cattureremo».
Erien sorrise «Michael! Michael, voglio aiutare anche io!» esclamò allegramente, battendo le mani tranquilla, lasciando il capezzale del gatto.
Lui le scoccò un’occhiata malevola. «Io e lei, conte, lo immobilizzeremo. Il gallo recupererà la sfera», chiarì il piano in un attimo, stroncando sul nascere la vana speranza di Erien. Volutamente tralasciò di informarli che Clarisse avrebbe fatto lo stesso nell’altro mondo, così da riuscire -forse- a far piegare la sfera di nuovo.
Era un piano perfetto. Degno di sé, si complimentò Cheérvot.
Ora c’era solo bisogno di coordinazione. Sarebbe bastato solo un minimo sforzo per far capitolare il loro nemico, poiché non solo non poteva sapere della loro presenza ma neppure si poteva aspettare un simile lampo di genio da parte sua. Cheérvot era pienamente fiero di sé.
Nel silenzio scandito dai respiri e il fruscio della gonna di Erien l’investigatore attendeva il momento giusto.
L’eco del rintocco di un tacco sul marmo lo mise all’erta.
Un segno verso il conte, due secondi di scarto.
Poi, come se vedesse il gallo dal becco blu proprio sulla poltrona come aveva previsto si slanciò in avanti e afferrò il vuoto, immediatamente imitato dal conte e dal gallo. L’attacco finì in un capovolgersi della poltrona, seguito poi dall’infrangersi del vetro della finestra, che distava da loro almeno due metri. Palesemente un buco nell’acqua.
Cheérvot maledisse mentalmente la cosa e spostò lo sguardo dalla poltrona rovesciata al gallo appollaiato scompostamente sul suo ventre.
Scostò in malo modo l’animale e si tirò in piedi il più velocemente possibile. Osservò la stanza facendo qualche rapido calcolo, «Alla finestra!» esclamò adirato, precipitandosi poi in quella direzione con le braccia tese in avanti; ed afferrò nuovamente l’aria. Eppure lui sapeva che era lì.
Il rumore dei tacchi, già flebile, era ormai sommerso dagli improperi e da Erien che batteva le mani al ritmo di una musica che solo lei sentiva. Sorrideva allegra, la bimba, osservando il tutto con distaccata indifferenza.
Cheérvot calciò con prepotenza il comodino accanto alla finestra e si strinse il piede dolorante con ambo le mani, mentre parole indegne di un gentiluomo fluivano irruente dalle sue labbra. «Svegliate il gatto, subito!» impartì l’ordine meccanicamente.
Posò a terra l’estremità che pulsava dal male e protese nuovamente le mani in avanti, spaziando con le braccia l’aria che lo circondava, saggiandone la consistenza. Sperava di sentire qualcosa, di imbattersi in qualcosa di invisibile e impercettibile.
Voleva, pretendeva di sentire tra le sue mani il braccio invisibile che aveva cercato di soffocare il gatto dormiente. «Charles, abbiamo bisogno di te!» richiamò imperioso.
Solo il gatto poteva individuare il nemico, solo lui sapeva dov’era; e con ogni probabilità era anche l’unico capace di afferrarlo in quel mondo e renderlo tangibile. Perché era impossibile cercare d’afferrare con foga un essere che non si trovava in quel mondo.
«Charles, svegliati! Ti prego!»
Al canto angosciato del gallo il gatto si destò. Sfoderò gli artigli, ancora mezzo addormentato e con il respiro irregolare. I suoi occhi appannati dal sonno e dal dolore scivolarono sulla stanza, ignorando Cheérvot e il suo balletto improvvisato.
Per qualche istante si fermarono accanto al tavolino. Lo sguardo si addolcì, triste e colpevole. Charles vedeva qualcosa , che era invisibile a loro.
Con uno scatto poi quegli occhi ferini si levarono, lanciando frecciate astiose accanto alla poltrona riversa al suolo. Individuato quel movimento Cheérvot si mosse abbastanza agilmente, afferrando per l’ennesima volta il vuoto accanto a sé.
Niente, senza quel sacco di pulci Cheérvot non sarebbe mai riuscito ad acciuffarlo, non c’era speranza. Era necessario che il gatto intervenisse di persona. «Charles, devi bloccarlo tu! Altrimenti ci sfuggirà, e la prima a pagarne le conseguenze sarà Clarisse!»
Spronato da quelle parole il gatto si mise in piedi. Traballò incerto sulle zampe posteriori e inspirò a fondo. «Comportati da gatto, per l’amor di Dio!» lo riproverò immediatamente l’investigatore.
Quella pazzia doveva finire.
Soffiando Charles si acquattò sulle quattro zampe e prese lo slancio; lo raggiunse con pochi balzi calcolati e, con un balzo particolarmente potente, si appese con un morso all’aria.
Per la seconda volta nel giro di poche ore l’investigatore poté vedere un gatto che volava.
Ma non era quello il momento per perdersi in quelle assurde constatazioni.
«Finalmente!» esultò Cheérvot, affiancando il gatto che graffiava l’aria con foga. L’investigatore poté stringere per la prima volta quell’essere invisibile che gli aveva causato tutti quei problemi. Gli avrebbe fatto pagare con gli interessi tutti i disagi che gli aveva provocato portandolo in quell’asurdo mondo.
Si voltò irritato verso Van Ionerien e il galletto, «Non state lì impalati, conte!» li richiamò al loro dovere. Ci stava prendendo gusto a comandare tutti quanti a bacchetta.
Tutti e quattro insieme riuscirono a bloccare il nemico, ricevendo beccate invisibili e impietosi calci negli stinchi. Accasciati a terra stringevano quello che doveva essere il corpo di un uomo di mezz’età, e quello di un gallo delle stesse dimensioni della controimmagine di Van Ionerien.
Ansimavano, attendendo che succedesse qualcosa.
«Ora?» domandò il gallo con il fiato corto.
L’investigatore alzò lo sguardo e incrociò gli occhi color dei lapislazzuli di Erien, e la vide sorridere tranquilla.
A Cheérvot non servì guardare fisso il gatto «Prendi quella maledetta Sfera! » gridò soffocando così il gemito di dolore provocato da qualcosa che si conficcava imperioso nel suo fianco.
Cheérvot non seppe mai se Charles l’aveva davvero capito o aveva agito di sua iniziativa, ma non gli importò neppure; tutto quello che seppe era che, d’improvviso, dopo un semplice ed innocuo sbattere di palpebre quegli occhi e quel sorriso erano spariti; e un corpo umano era comparso sotto di sé.

**

Tutta Yornik applaudì Sir Cheérvot, quando questi si presentò davanti al sindaco con il colpevole ed il conte Charles Van Ionerien, accompagnato dalla nipote, accanto a sé.
Il giovane era palesemente malconcio, uscito da quello che nel paese sarebbe diventato uno scontro leggendario e grandioso. Margharet gli aveva curato il fianco trafitto da un fermacarte e aveva rammendato con perizia tutte le ammaccature che si era procurato. Il conte invece era completamente illeso, mentre Clarisse portava i capelli sotto un fazzolettino per nascondere il bernoccolo che si era formato quando era caduta sul tavolino.
Chat non si era unito a quel piccolo corteo, invece. Se ne era rimasto a Villa Viola, spaparanzato sul divano più comodo, pregustandosi di già la futura compagnia del Gallo dal becco blu, ormai pazzo quanto lui.
Quella che venne fu una settimana di giochi ludici, di spettacoli e di divertimento. Tutti a Yornik volevano solo festeggiare, ballando sulla piazza principale ripulita dalla neve per l’occasione.
Ma il giovane e brillante investigatore Sir Michael Andres Cheérvot non vi prese parte. Stranamente lasciò il villaggio il giorno stesso, partendo di fretta e furia; si prese i propri meriti ma si rifiutò categoricamente di rivelare alcunché di ciò che era accaduto. Non un solo dettaglio sfuggì mai alle sue labbra, sigillate e vogliose di restare tali.
Cheérvot non avrebbe mai dimenticato quel caso, no. Ma era più che ben intenzionato a classificarlo come sogno assurdo, qualcosa dovuto alla cucina o un colpo di freddo.
«Che modesto» aveva sospirato Mila nella sua osteria.
Alla fin fine anche lei si era dovuta ricredere su quel ragazzo, così tanto scortese ma che era stato capace di riportare il conte alla sua chérie. Avrebbe voluto fare qualcosa per lui, magari regalargli una bella vacanza lì a Yornik quando mai ne avesse avuto voglia.
Riempì fino all’orlo il boccale del conte e del sindaco, sorridendo sorniona «Offre la casa» specificò allegramente.
«L’avevo proprio giudicato male» confessò un po’ rammaricata, osservando di sottocchi Clarisse che giocava con Chat e degli altri bambini. Era una gioia averla nuovamente lì, sana e felice. La vecchia Mila sperava vivamente che non se ne sarebbe andata via tanto presto.
Alzò in aria il proprio boccale colmo di birra scura, attirando l’attenzione di tutti gli avventori al solo gesto. «A Sir Michael Andres Cheérvot!» ruggì con il proprio vocione potente. Lanciò un ampio sorriso materno a tutte le persone riunite all’Osteria Tre Monti.
«SALUTE!»




Ringrazio ancora mille e mille volte Eylis per aver indetto questo splendido concorso; mi sono davvero divertita a scrivere questa storia!
   
 
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