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Autore: _Frame_    24/07/2016    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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Questo capitolo è dedicato a Fantom94 e a sua sorella che mi hanno deliziata con le loro splendide fanart ispirate a questa fan fiction.

Sono talmente belle (molto meglio della storia stessa XD) che sento di non meritarmele! *Si asciuga una lacrimuccia*.

Di nuovo grazie infinite a entrambe, mi avete fatta sentire l’autrice più fortunata e felice del mondo.

Vi lascio i link qua sotto – cliccate sulle parole in grassetto – in modo che possiate tutti ammirarle. Sono davvero spettacolari, garantito!

Godetevele e correte a complimentarvi con loro!

 

Italia e Germania stretti nell’abbraccio a Berlino, ambientato in uno dei primissimi capitoli. Il loro primo incontro dopo la fine del Primo Conflitto. Vederli raffigurati assieme mi fa sempre stringere il cuoricino, e notare che le mani di Italia sono rappresentate fedelmente alla mia descrizione mi ha fatto davvero arrossire di gioia. ^_^  

 

Francia sulla spiaggia mentre le navi stanno salpando da Dunkerque. La sua espressione è malinconica proprio come me l’ero immaginata io! E adoro i colori di contrasto che ci sono fra cielo e mare. Rendono davvero l’idea di una speranza che tramonta assieme al sole.

 

Grecia e il gattino pezzato (super coccolosissimo sotto la giacca del padrone!) nel primo capitolo dedicato alla campagna ellenica. Adoro alla follia la posa così combattiva di Grecia e la prospettiva dal basso! Dà proprio l’impressione che la pioggia arrivi addosso a chi guarda.

 

Italia sul balcone durante la dichiarazione di guerra del 10 giugno, mentre porge la mano a suo fratello. È riuscita perfettamente a farmi provare una seconda volta le emozioni che volevo trasmettere quando ho scritto la scena, ed è assolutamente identica a come l’avevo formulata nella mia mente.

 

Inghilterra nel mezzo della tempesta al porto di Reykjavik, subito dopo la sconfitta al Nord. Visto di profilo è davvero bellissimo, poi il particolare della nave sullo sfondo e la preponderanza del colore grigio rendono tutto più coinvolgente.

 

Italia e Germania nel boschetto al Passo del Brennero. L’ultima giornata passata assieme prima della campagna di Grecia. I colori degli alberi sono splendidi, fanno venire una gola matta di autunno, e il gioco di ombre trasmette davvero il senso di soggezione che avevo in mente. (C’è addirittura il muretto dove Italia si era arrampicato per raccogliere le foglie dai rami!)

 

Inghilterra trascinato negli abissi dalle alghe. Questo era il capitolo ambientato tutto in acqua assieme all’ondina, un intermezzo dell’arco sulla campagna aerea. Davvero suggestiva, mi piace da impazzire! Sembra davvero di affogare assieme a lui e di allontanarsi dalla luce che batte in superficie.

 

Inghilterra e Germania (più l’immancabile Flying Mint Bunny!) in una scena tratta dalla campagna aerea. Adoro i giochi di luce, il passaggio del vento, e la vista da dietro Inghilterra. La figura sfocata di Germania rende davvero l’idea della sua pericolosa presenza che sta per abbattersi su Arthur.

 

I cinque nordici con i rispettivi soprannomi in uno scatto durante la Guerra al Nord. Fin è troppo tenero! E amo la posa di Isla che dà davvero l’impressione di essere il freddo e impassibile cecchino che avevo immaginato io. Se ci fate caso, ogni calligrafia è diversa, come se avessero firmato davvero loro! L’effetto “fotografia vecchia e bruciacchiata”è qualcosa di speciale.

 

Russia (davvero meraviglioso! Non ho mai visto il suo sguardo rappresentato così bene) e l’immancabile bicchiere di vodka. Era una scena ambientata durante una conversazione con Prussia. Inquietante, solenne e intimidatorio come solo Ivan sa essere. I miei più vivi complimenti! ^_^

 

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89. Cambio di strategia e Inversione di ruoli

 

 

15 novembre 1940

 

 

Una leggera nebbia di pallida condensa aleggiava nell’ambiente racchiuso fra i teli della tenda da campo. Umido e tiepido, il sottile strato di vapore si era incollato alle pareti. Si era condensato imperlandone la superficie e rendendo l’aria più densa e faticosa da ingoiare. Fuori nevicava. Lo strato bianco depositato sul soffitto ovattava la luce del sole grigio e smorto nascosto dietro i nuvoloni forati dalle cime delle montagne. Pochi passi scricchiolavano al suolo, si univano al clangore dei cingolati che frantumavano il ghiaccio, al brusio di voci soffuse dall’ululato del vento e dall’aria fredda. Rompevano il silenzio che si stendeva lungo la valle.

Grecia incrociò le gambe e spinse il fianco contro il tavolo messo al centro della tenda. Si appoggiò all’orlo di legno umido, chinò il capo, e fece una leggera pressione con le dita sui fogli dei bollettini che reggeva fra le mani. Si accigliò. Restrinse le palpebre, mettendo in ombra il pallore degli occhi pesanti e assonnati, e rilesse le righe battute a macchina. Spostò il pollice, scoprì una frase dall’inchiostro sbavato e macchiata da una goccia di neve sciolta.

Lo sguardo di Grecia tornò fermo, smise di scorrere attraverso le righe. Grecia rimase a fronte bassa, spalle chine, e sollevò le estremità delle sopracciglia in un movimento lento e pigro. Sfilò una mano dagli orli delle pagine, e posò la punta dell’indice sul labbro inferiore leggermente arricciato in un’espressione meditabonda. Gli occhi freddi, sfiorati dalle ciocche di capelli scivolate da dietro le orecchie. 

“Taranto, uhm?”

Tre ombre sfilarono dietro una delle pareti della tenda e svanirono nell’ambiente grigio e soffocato dal nevischio che fioccava lento e pesante. Si portarono dietro il rumore soffuso di qualcosa che scivola e scricchiola, il borbottio delle loro voci, e il macinare dei passi pesanti in mezzo al ghiaccio.

Passi più limpidi e secchi camminarono davanti a Grecia, schioccando i tacchi nell’ambiente chiuso e umido della tenda. Il comandante abbassò lo sguardo, sciolse una delle mani che teneva strette dietro la schiena, e allentò la stoffa della giacca chiusa fin sotto il mento, aprendone la chiusura. Aveva le guance rosse di freddo, la fronte imperlata di sudore, il fiato affaticato dall’umido che gli appesantiva il respiro. “L’attacco è avvenuto durante la notte fra l’undici e il dodici novembre,” spiegò, e una nuvoletta di condensa gli soffiò fuori dalle labbra.

Il comandante sfilò la mano dal bavero e la ficcò in tasca, estrasse un foglio piegato in quattro, sgualcito agli angoli e macchiato d’acqua sbavata di inchiostro blu. Lo aprì. Aveva le mani gonfie, rosse e screpolate dal freddo, e sotto quel tocco la carta fece il rumore della plastica che scricchiola. Il comandante si fermò davanti al ripiano occupato dalle valige contenenti gli apparecchi radio, e mostrò il fianco a Grecia. Gli occhi stanchi rivolti alla pagina di appunti. “Non abbiamo una resa dei danni totali,” sospirò, “ma sappiamo che gli attacchi degli aerosiluranti inglesi hanno preso di mira navi da guerra, corazzate e incrociatori,” abbassò l’estremità superiore del foglio e lanciò un’occhiata a Grecia da dietro l’orlo di carta, “e che almeno una delle corazzate italiane è stata resa inutilizzabile.”

Grecia restrinse di poco le ciglia, increspando piccole ombre attorno agli angoli degli occhi. Batté delicatamente l’indice che aveva posato sul labbro inferiore e rimase a sguardo basso, la mano ben salda attorno ai bollettini siglati in data dodici novembre.

Il gattino pezzato zampettò sul tavolo, passò dietro i fianchi di Grecia poggiati sull’orlo, inarcò la schiena impennando la coda e facendo vibrare le fusa lungo tutto il corpicino peloso. Si strofinò contro il padrone, “Miau!”, trasmettendogli il calore del suo corpicino.

Grecia fece scendere l’indice dal labbro, aprì la mano e gli carezzò la testolina, sfregando la peluria in mezzo alle orecchie. Il gattino chiuse gli occhi, le fusa aumentarono, e arricciò il musetto in un’espressione di goduria.

Il comandante abbassò il foglio imbrattato con i suoi appunti di inchiostro blu, e rivolse lo sguardo arrossato di freddo e fatica a Grecia. Le dita ancora strette all’estremità della pagina ebbero un leggero fremito, fecero scricchiolare la carta.

“È stato un attacco molto importante,” disse il comandante. “Le perdite che ha subito la marina italiana potrebbero sicuramente volgere a nostro vantaggio, e contribuirebbero a tenere lontano gli italiani per lo meno dai nostri arcipelaghi.”  

Grecia inarcò un sopracciglio e gli scoccò un’occhiata che scintillò in mezzo all’ombra che gli aveva velato il viso. La mano tuffata in mezzo alla pelliccia del gattino si fermò, smise di sfregare soffici carezze sulla sua testolina. “Intende che...”

“Sì.” Il comandante annuì prima che Grecia potesse finire la frase. Tornò ai suoi appunti, chiuse di nuovo il foglio in quattro, lisciandone gli orli fra pollice e indice, e lo sguardo riacquistò un alone di vita. “Questo ci terrà certamente protetti di fronte a un’ipotetica offensiva su Creta.” Rinfilò la pagina piegata nella tasca della giacca, tornò a unire le mani dietro la schiena, e riprese a camminare su e giù davanti a Grecia, riempiendo l’aria umida della tenda con lo schiocco dei suoi stivali.

Il gattino pezzato sollevò la punta del nasino, e gli occhietti finirono sepolti nel palmo di Grecia che era rimasto aperto in mezzo alle sue orecchie. Si lamentò, “Miau!”, e spinse due volte la fronte contro le sue dita, reclamando altre carezze.

Grecia sfilò le dita dalla sua pelliccia, piegò il braccio e lo raccolse nell’incavo del gomito, portandoselo in grembo, davanti ai fogli ancora stesi davanti a sé. Il micio gli sfregò il muso contro il petto, si appese con le unghie alla sua maglia, e il nasino salì a fare umide fusa contro il suo collo. Grecia riprese a carezzargli la curva della schiena, lisciando il pelo pezzato e infoltito dal freddo, ma gli occhi rimasero incollati ai fogli sciupati che teneva stretti fra le dita.

Rafforzò la presa sulla carta, sollevò di poco gli occhi – il mento era tenuto alto dalla testolina del gatto che spingeva sotto la sua gola – e lo sguardo si animò di una scintilla di realizzazione. Le labbra socchiuse, le estremità delle sopracciglia leggermente impennate.

Tornò al giorno dell’ultima telefonata. Le sue gambe che ciondolavano dal tavolo, il ricevitore della radio schiacciato fra la spalla e l’orecchio, la voce di Turchia che sviscerava profondi brividi di irritazione dallo stomaco alla schiena, e il tocco del medico che accompagnava i movimenti dell’ago che entrava e usciva dalla sua carne, ricucendo la ferita.

Quindi era questo che Turchia intendeva quando mi ha detto che Inghilterra aveva in mente qualcosa di grosso.

D’istinto, Grecia sfilò le dita dalla testolina del micio, facendole correre in mezzo alle orecchie dritte, e si strinse la spalla dentro il palmo. Il rilievo della benda emerse da sotto la stoffa appiattita, l’intreccio dei punti tirò la carne, lo punse con una sottile scossa che gli arricciò una smorfia di dolore sulle labbra.

Il ricordo della voce di Turchia parlò direttamente nella sua testa, e il sentimento di irritazione cancellò il dolore che gli formicolava sul braccio.

“Tutto quello che ti posso dire è di stare attento perché non so fino a che punto Inghilterra possa spingersi, questa volta.”

Il lampo che gli aveva abbagliato lo sguardo sbiadì, ritirandosi come la luce di una fiamma investita da una folata di vento.

Grecia strinse di più le dita contro la spalla cicatrizzata, un breve e fastidioso brivido gli corse sotto il palmo, risalì il braccio, e pizzicò nel petto.

Aggrottò le sopracciglia, la fronte divenne più buia.

Radere al suolo un porto per mezzo di aerosiluranti, per di più mentre il nemico si trovava nel mio territorio.

Il gattino pezzato sollevò il muso e strofinò il nasino sul collo di Grecia, agitando i baffi sulla pelle e ronfando un basso suono di fusa che gli fece vibrare tutto il corpicino appeso alla sua maglia. I vivaci occhi gialli guardarono intristiti e preoccupati la buia espressione pensosa del padrone.

Grecia sciolse la presa della mano dalla spalla, la capovolse regalando al gattino una soffice carezza con le nocche, ma la piega del viso non mutò. Rimase grigia e rigida, rivolta ai bollettini che stringeva fra le dita.

Che gli è saltato in mente?

Visualizzò l’immagine di Inghilterra: in piedi a gambe divaricate davanti al cielo notturno, abbagliato di lato dal fascio argentato della luna piena che brillava sul ghigno rabbuiato dai capelli che sventolavano davanti alla fronte. Le mani strette al petto, i modellini di aerei che uscivano dalle dita, e i vapori delle esplosioni che galleggiavano attorno alle gambe. Gli occhi accesi che guardavano il porto come fari.

Di nuovo Grecia sentì il cuore fremere di sdegno. Le dita si strinsero leggermente, increspando la carta dei bollettini, e la foschia appannata che aleggiava in mezzo alle sue palpebre gonfie di sonno si fece tagliente come la punta di un coltello.

Cosa sperava di dimostrare con questo attacco?

Girò la mano e grattò il gattino in mezzo alle orecchie con le punte delle dita. Il calore del suo pelo lo calmò.

Il comandante piegò il capo di lato, lanciò una rapida occhiata a Grecia e al suo sguardo che si era ingrigito come il cielo gonfio di neve che fioccava sopra di loro. Gli rivolse lo stesso sguardo apprensivo che era stampato sul musetto del gattino, ma non disse nulla. 

Grecia arricciò un angolo delle labbra. Tamburellò le dita sui fogli del bollettino, sollevò una pagina tenendola per un angolo, sbirciò quella dopo, a palpebre strette e fronte china, e sfogliò il piccolo fascicolo.

Emise un lungo sospiro che gli rilassò i muscoli e distese le pieghe del viso, come se si fosse appena lasciato cadere addormentato su un materasso di piume, con la nuca sprofondata nell’imbottitura del cuscino. Le palpebre basse e pesanti, il tono sconfortato che gli fece eco nella testa.

Suppongo che ormai sia inutile restare a pensarci.

Scartò un altro foglio, mettendolo dietro agli altri, e il gattino rimbalzò sul tavolo. Ricominciò a strofinarsi sul suo braccio sano con la schiena inarcata e facendo le fusa quando premeva la fronte contro la spalla. 

Grecia spinse di più con i fianchi contro l’orlo del tavolo, gli occhi corsero in mezzo alle dita che avevano spostato la pagina.

Forse l’intervento di Inghilterra potrà averli indeboliti, aggrottò di nuovo la fronte, ma non devo fare troppo affidamento sul suo aiuto. 

Sfogliò un’altra pagina e rivelò una cartina tagliata da una spessa linea tratteggiata su cui avevano scritto ‘Linea di contatto’. Sul lato sinistro della linea, contro la frontiera albanese, erano ammassate le divisioni italiane spinte lontane dal territorio greco. Sul lato destro, i greci avevano disposto i reparti fra la linea tratteggiata e una linea continua dello stesso spessore. ‘IB’ si leggeva a ridosso del secondo confine disegnato a mano. 

Grecia sollevò il pollice lungo il bordo della pagina, lo fece strisciare percorrendo la lunghezza della Linea di contatto, toccando ogni divisione italiana in ritirata. Fiancheggiavano il fiume Devoli. La Divisione Julia, al centro, era racchiusa nell’angolo formato dai rami della Vojussa e del Sarandaporos, come inghiottita dalle lame di una forbice. Grecia fermò lì il pollice, e sfiorò la divisone alpina con l’unghia.

Il pericolo per me non è finito.

Un brivido lo scosse, come se l’aria di montagna, carica del gelo della neve appena caduta, fosse scivolata nello spacco della tenda e gli avesse soffiato addosso, cristallizzando piccoli fiocchi di ghiaccio bianco in mezzo ai capelli sventolanti.

Grecia fece scorrere l’unghia del pollice via dal rettangolo sbarrato da una croce – due crocette più piccole sul lato superiore – che contrassegnava la Julia, e seguì il rigagnolo nero del fiume Vojussa che si srotolava sul territorio. Somigliava a una vena di linfa che si arrampica sulla corteccia di un albero.

Adesso che gli italiani si sono piazzati a Konitsa...

Fermò l’unghia sulla prima insegna a ridosso del fiume, a un centimetro più su del rettangolo sbarrato della Julia. ‘Premeti’. Grecia lesse il nome e trattenne il fiato, l’espressione grigia e piatta.

Premeti è dietro l’angolo, si disse, e c’è il rischio che stabilizzino uno stallo in attesa dei rinforzi tedeschi.

In quella piccola fossa d’ombra che si era incavata nella carta attorno all’insegna della città, Grecia sentì tuonare gli scoppi dei fucili, delle mitragliatrici, udì scrosciare le frane di roccia piovute dalle montagne: massi aguzzi arrotolati nel filo spinato e incrostati di neve che crollano in mezzo alle strade, sollevando nebbie di polvere dietro le quali brillavano i lampi delle esplosioni. In mezzo ai riccioli di fumo dissolto, il corpicino ferito e tremante di Italia, con la divisa macchiata di sangue e il fucile caduto ai suoi piedi, che si teneva aggrappato al braccio di Germania, nascosto dietro la sua spalla. E gli occhi freddi di Germania che lo fissavano dall’alto, stretti come lame di ghiaccio pronte a conficcarsi nella sua carne.

Grecia irrigidì i muscoli, un soffio di brividi gli si era arrampicato su per la schiena.

Questo non deve succedere. Scavalcò con lo sguardo l’insegna di Premeti e fece scivolare gli occhi verso il confine bulgaro e albanese. E devo riuscire a rispedire gli italiani ancora più indietro prima che Germania possa intervenire.

Una ventata di neve sbatté contro una parete della tenda, fece inclinare i teli, fischiò fra le cime di corda, e trascinò una nube grigia davanti ai pallidi raggi di sole che riuscivano a bucare la coltre. Il gattino rizzò il pelo per lo spavento, impennò le orecchie, e schizzò a ripararsi dietro la schiena di Grecia, accucciandosi sotto il suo gomito.

Grecia non si scompose. Un lieve fremito delle sopracciglia, una piccola scintilla attraverso gli occhi che si spostarono sulle disposizioni greche a destra della Linea di contatto. L’unghia tamburellò sulla parte sinistra, contro le nuove disposizioni italiane, e una bolla di silenzio si gonfiò attorno a lui, a isolargli i pensieri.

La mente fredda come l’aria di neve che vorticava attorno alle cime delle montagne.

Ma come posso...

Il comandante si schiarì la voce tossicchiando contro il pugno stretto davanti alle labbra. “Ci sono...” Compì un timido passo in avanti. Gli stivali schioccarono e il fischio del vento si ritirò. “Ci sono ordini, signore?”

Il gattino pezzato sollevò il muso da sotto il gomito del padrone e rivolse gli occhi verso lo sguardo di Grecia, aspettando anche lui una risposta.

Grecia studiò un’altra volta la disposizione italiana.

Venezia, Arezzo, Parma e Piemonte raggruppate a nord, sugli argini del fiume Devoli, nel settore del Corciano.

Abbassò gli occhi.

La Julia isolata fra le montagne, a ridosso del fiume Vojussa. E Ferrara, Centauro e Siena intrappolate in Epiro, spinte lontane dal Nodo di Kalibaki.

Grecia fece scivolare lo sguardo sulla linea IB, tracciata sulla destra della mappa, e guadagnò un sospiro, increspando le sopracciglia già inarcate sopra le palpebre socchiuse dal sonno.

“Cambiamo gli schieramenti.”

Il comandante sgranò gli occhi, sbatté le palpebre, socchiuse le labbra senza far uscire nemmeno uno sbuffo di fiato bianco, e restò rigido come un ramo secco. Lo sguardo acceso da un barlume di confusione si spostò dall’espressione piatta di Grecia ai fogli che stringeva fra le mani. Squadrò di nuovo quel viso disteso e rilassato, incredulo.

“Cambiarli, signore?”

Anche il gattino piegò la testolina di lato. La coda ondeggiò per aria, si curvò quasi a formare un punto di domanda.

Grecia era impassibile.

Il comandante si strinse nelle spalle e abbassò lo sguardo per incrociare quello di Grecia ancora assorto in mezzo ai fogli. “Ma la difesa procede bene, signore, non ce ne sarebbe motivo.”

Grecia annuì. “Sì, ma è un po’ troppo,” storse un sopracciglio, “uhm, come si dice,” tornò a posare l’indice sul labbro inferiore, sollevò gli occhi al soffitto della tenda, lasciando scivolare via i capelli dalla fronte, e tamburellò il polpastrello, “lineare,” concluse. Un alone di vivacità rischiarì gli occhi appannati dal velo di sonno. Grecia li incrociò con quelli ancora strabuzzati del comandante. “Forse sarebbe meglio pensare a qualcosa di diverso e meno prevedibile. Forse.”

Le labbra del comandante restarono socchiuse, la carne increspata dai tagli del vento e sbiancata dal gelo di montagna. Le sue spalle si rilassarono, la stoffa dell’uniforme frusciò, allentando la pressione, e la tensione che gli ghiacciava lo sguardo si sciolse in un tiepido sentimento di fiducia.

“Ha già qualche idea, signore?”

Fuori dalla tenda, il vento ululò in mezzo alle pareti dei monti, una zaffata di neve scricchiolò contro i teli tenuti insieme dalle cime di corda.

Grecia sollevò la mano che non impugnava le carte e si strofinò i capelli dietro l’orecchio come se stesse scaldando gli ingranaggi del cervello. Increspò un angolo della bocca. “Mhm. Vediamo.” Fermò le dita, smise di sfregare. “Forse potremmo...” Abbassò la mano, sfilandola dalle ciocche di capelli umide e fredde di neve sciolta, e stese l’indice in un movimento pigro e molle. Lo poggiò sul lato sinistro della Linea di contatto fra italiani e greci. “Concentriamoci sull’ala sinistra italiana.” Il polpastrello partì da nord, su confine jugoslavo, e scese lungo la frontiera albanese. Le divisioni italiane seguivano una disposizione verticale. “Venezia, Arezzo, Parma e Piemonte sono state fatte arretrare,” si fermò nel punto in cui il fiume Devoli scavava il terreno verso sud, sotto l’insegna ‘Corciano’, e diventava il Kalamas, “e colpendo proprio queste potremmo spingerle a uscire dal territorio. Spianando queste divisioni, potremmo aprirci la strada per la Conca di Coriza, raggiungere il Ponte di Perati e...”

Le palpebre si appesantirono, i pensieri sfumarono come sbavati da una nebbia lattea, le ciglia si unirono, sbatacchiarono, il capo si inclinò, sempre più basso. La vista sempre più nera. Grecia tirò su la fronte di scatto, riaprì gli occhi, e scosse la testa, scrollandosi di dosso la polvere di sonno che gli bruciava le palpebre.

Tornò a grattarsi la nuca, lo sguardo basso sulla carta, e sospirò, sconsolato.

Perché devo pensarci così tanto? Sfilò la mano dai capelli, piegò le dita e usò la nocca dell’indice per stropicciarsi l’angolo dell’occhio destro, come un bambino appena svegliato. Non ho voglia di stare a pensarci.

“Forse è troppo complicato,” biascicò. La voce fioca ma profonda. “Troppo faticoso.”

Il comandante ammorbidì lo sguardo, sembrò capire. “Procediamo in linea, signore?” gli domandò. Un pallido sorriso di rassicurazione infossato nelle guance rosse di freddo. “Usiamo una tattica di attacco francese, quelle sono sempre state molto efficaci.”

Grecia tenne le labbra piatte, la fronte bassa. Gli occhi lucidi di stanchezza riflessero le insegne, i rettangoli e le increspature dei confini, delle catene montuose e dei fiumi che attraversavano il terreno raffigurato sulla mappa. Il mento abbassato sfiorò il bavero della giacca tirato fin sotto la gola. Grecia strinse il colletto e lo tirò fino a ripararsi le guance con la stoffa dell’uniforme. Il piacevole tepore nato dal suo respiro che si condensava dentro al tessuto gli solleticò il viso, espanse una sensazione di assopimento che aveva il dolce sapore del latte caldo sorseggiato prima di andare a dormire. Grecia sbatté le ciglia. Sciolse il velo di sonno che gli aveva appannato la vista e aveva rallentato il respiro, e prese un sospiro.

Rimuginò. “Vediamo...”

Il gattino pezzato strusciò la schiena contro quella del padrone, tornò a sedersi nel punto di prima, contro il suo fianco e con la testolina riparata dal gomito, e si leccò la zampina maculata.

Grecia sollevò tre dita – indice, medio e anulare –, stese il braccio, e le mostrò al comandante. “Formiamo tre corpi.” Mosse un dito alla volta. “Utilizziamo lo stesso schieramento che gli italiani avevano disposto prima dell’offensiva di ottobre.” Stese anche l’altro braccio, ruotò il polso della mano che reggeva la cartina, e la rivolse al comandante. Un indice si posò sulla parte sud, sopra la Divisione Centauro, e vi batté due volte. “Un primo corpo in Epiro,” lo spostò al centro, “un secondo sul Pindo a cui si unirà anche una divisone di cavalleria,” il polpastrello scivolò nella parte nord, fermandosi poco più sotto della Jugoslavia, “e il terzo nel Corciano.”

Il comandante levò gli occhi al soffitto della tenda, farfugliò qualcosa fra le labbra, schiuse un dito alla volta dietro la schiena, come stesse tenendo il conto, e scosse la testa. Tastò le tasche della giacca, aprì un lembo, estrasse una penna e il suo taccuino foderato di stoffa beige. Sfogliò un paio di pagine grigliate divise da quadretti di inchiostro blu, trovò uno spazio libero, e appuntò gli schieramenti dettati da Grecia. Le dita rosse – viola all’altezza delle nocche –, screpolate e irrigidite dal freddo si chiudevano a fatica attorno alla penna che stava scivolando leggermente verso il basso.

Grecia tornò a voltare la cartina, e la guardò con aria scettica. Un sottile lampo di ostilità a balenargli fra le palpebre ristrette. Inquadrò la Divisione Alpina e la porzione del fiume Vojussa che serpeggiava verso nord ovest.

Italia e Romano sono sicuramente a Konitsa, sempre ammesso che si siano ricongiunti.

Si massaggiò una tempia. Il rumore delle dita che sfregavano la testa in mezzo ai capelli riempì la tenda, ricordando il suono di una miccia che tenta di accendere la lampadina sopra la sua testa.

E di loro devo occuparmi io di persona, quindi...

“Io guiderò il Primo Corpo e mi occuperò della Divisone Julia.”

Il comandante fermò la penna, premendone la punta contro la carta – non aveva terminato di scrivere l’ultima parola – e ruotò lo sguardo su Grecia. “Verso Konitsa, signore?”

Grecia storse un angolo della bocca. “Più o meno.” Abbassò l’indice e lo posò nella parte centrale della cartina. “Suddividiamo il Primo Corpo in posizione centrale affidandogli tre direttive.” La sua unghia corse verso il basso e sfiorò la città di Gianina: due rettangoli uno dentro l’altro tagliati da una croce. “Una sul basso Kalamas,” sollevò l’unghia, “una verso Kakavi,” la alzò di più, andando oltre la Linea di contatto, “e una verso Konitsa che avrà come obiettivo il Ponte di Perati.” Assottigliò gli occhi, facendoli luccicare, e batté due volte il polpastrello sulla mappa. “Io proseguirò con quest’ultima.”

Il comandante annuì, voltò pagina, e continuò a scrivere, senza distaccare gli occhi dal taccuino foderato di beige.

Lo sguardo di Grecia si spostò verso nord ovest seguendo il rivolo ondulato della Vojussa. “Devo impedirgli di attraversare il ponte e di raggiungere Perati, perché è qui che andranno.” Seguì ancora il profilo del confine albanese. Le labbra si mossero lente sfiorando il bavero della giacca, il tono di voce pacato e trascinato. “Il Secondo Corpo si occuperà della Dorsale di Ersekë, quindi attraverserà il Monte Grammos, nel settore del Pindo, e occuperà l’intera linea. Il Terzo Corpo, invece, avrà come obiettivo la Conca di Coriza.” Coriza toccava l’estremità sinistra della Linea di Contatto, ed era intrappolata nello schieramento italiano minacciato da sette rettangolini blu sbarrati da croci: le divisioni greche. “La Conca,” continuò Grecia, “è un punto ideale per lo stallo e per proteggersi in attesa dei rinforzi.” Sollevò gli occhi, scuri e profondi, due spazi verdi in mezzo all’ombra delle ciglia, e li rivolse al comandante. “Non dobbiamo permettere che diventi il loro rifugio.”

Il comandante annuì deciso, “Capisco”, e premette il punto alla fine dell’ultima frase scarabocchiata in fondo alla pagina di taccuino.

Il gattino pezzato si alzò sulle quattro zampe, spinse il musetto sotto il gomito di Grecia, gli mosse il braccio che reggeva i documenti, miagolò contro il suo fianco. Grecia ruotò il busto e posò le carte sul tavolo, raccolse il gattino già seduto sulle zampe posteriori per darsi la spinta, e lo strinse al petto. Il micio si accoccolò nell’incavo del braccio, la coda penzolante, il muso premuto contro la spalla di Grecia, e la mano del padrone che gli massaggiava la pelliccia sul collo.

Grecia alzò i fianchi dal tavolo e fece un passo in avanti, continuando a coccolare il gatto. “Dobbiamo spingere gli italiani nei luoghi più angusti,” spiegò, “dove né il gelo né la fame avranno pietà di loro.” Si fermò dando la schiena al comandante, e posò le labbra fra le orecchie del micio. “Una volta sfiniti e logorati, saranno loro stessi a decidere di andarsene.” Voltò il capo, lanciò un’occhiata al comandante da sopra la spalla, e sollevò un sopracciglio. “Tutto chiaro?” La luce racchiusa negli occhi verdi trasmise una sensazione dura ma calda. Protettiva.

Il comandante abbassò penna e taccuino, stese le braccia contro i fianchi e si impietrì sull’attenti. “Sissignore.” I tacchi schioccarono sul pavimento della tenda. Fuori, il vento soffiò in un ululato lungo e acuto che fece vibrare le pareti. Il corpo dell’uomo rigido come una statua, gli occhi accesi e brillanti di determinazione. Il vento non aveva spento la fiamma. “Cominciamo a organizzare i reparti e a preparare il trasferimento nel Primo Corpo d’Armata.” Senza aspettare risposta, si voltò verso lo spacco sigillato della tenda da campo, affondò il braccio fra i due lembi, li scostò facendo entrare una risacca di nevischio trasportato da un vento pungente che odorava di ferro e ghiaccio, e uscì. La sua ombra sfilò lungo la parete di stoffa e svanì assieme al suono dei suoi passi che scricchiolavano contro il suolo innevato.

Il gattino stretto fra le braccia di Grecia mosse il muso contro la sua spalla, gli fece le fusa contro la gola protetta dal bavero della giacca, e chiuse gli occhietti, cullato dalle carezze. Grecia si portò di un passo davanti allo spacco della tenda. Scostò anche lui con una mano uno dei lembi, e aprì uno spicchio di cielo. Era grigio, trapuntato dal bianco della neve che fioccava danzando e trascinata dal vento. L’aria gli punse il viso, arrossò le guance e la punta del naso.

Grecia sollevò lo sguardo sulla cima delle montagne immerse fra le nubi plumbee e spumose. Uno sguardo severo circondato dal vapore del suo respiro.

Ti sto offendo più di una possibilità per andartene, Italia. Adesso sta solo a te decidere.

Il soffice alito di vento scompigliò le ciocche di capelli davanti al suo viso. Gli diedero un’aria tenebrosa.

Ma non pensare che mi fermerò solo perché ho compassione di voi.

Sfilò una mano dal pelo del gattino rannicchiato contro il suo petto, gli raccolse delicatamente la testolina nella mano a forma di coppa e gli fece posare il muso contro la sua guancia.

Scoprirai tu stesso...

Lo sguardo divenne di pietra. Freddo e grigio, ma gli occhi accesi.

Che non c’è niente di più pericoloso di una nazione a cui hai minacciato di portare via la casa.

 

 

.

 

 

Italia e Romano strabuzzarono gli occhi, spalancarono le labbra. Si gettarono entrambi contro il tavolo, vi spinsero le mani sopra, e si sporsero in avanti premendo la spalla di uno schiacciata contro quella dell’altro. “Una nuova suddivisione?” esclamarono all’unisono.

Il comandante aprì le mani davanti al petto, volgendo loro i palmi, e arretrò di un passetto per portarsi lontano dai loro visi sgranati che gli avevano quasi sfiorato la punta del naso. Un sorrisetto sbilenco a torcergli le labbra. “P-più che nuova, signori,” farfugliò, “è una riproposta rivisitata dell’attacco che abbiamo sfer – ehm...” Gettò lo sguardo in disparte, contro il pavimento della tenda incrostato della neve che avevano portato dentro le suole degli stivali, e si rimangiò le parole mordendosi il labbro. Le guance si imporporarono di imbarazzo, e il comandante infilò due dita sotto il bavero della giacca, schiudendone la chiusura, per arieggiare la pelle investita da un’ondata di sudore. Tossicchiò. “Che abbiamo tentato di sferrare in data cinque novembre.” Gli occhi lontani dai due fratelli.

Italia e Romano incrociarono gli sguardi e le loro fronti si avvicinarono fin quasi a toccarsi. Gli occhi di Italia inumiditi dal timore che gli fece vibrare le labbra, e quelli di Romano accesi da una scintilla di scetticismo che brillava sotto la ruga delle sopracciglia inarcate.

Romano spinse i palmi aperti contro i documenti, facendo scivolare due fogli sul tavolo, e sporse di più le spalle verso il comandante. Aggrottò la fronte, inacidì il tono di voce. “Ehi, ehi, frena un po’.”

Il comandante gli rivolse lo sguardo ancora intimidito e sulla difensiva.

Romano girò attorno al tavolo. I suoi passi scricchiolarono frantumando il ghiaccio che si era cristallizzato a terra, nuvolette di fiato bianco soffiarono fra le labbra storte in un sottilissimo ringhio che esponeva la luce di un canino. Si piantò davanti al comandante, lo agguantò per il bavero con entrambe le mani, strappandogli un gemito, e lo tirò contro di sé. Un reflusso di rabbia ristagnò nel petto, bruciando come fuoco.

“Non vorrete per caso tornare a dividerci, mi auguro!”

Italia sobbalzò, portandosi una mano davanti alle labbra. “Oh, no,” esclamò, gli occhi gonfi di ansia, “questo non può succedere.”

Il comandante si sentì tirato da uno strattone di Romano, salì sulle punte dei piedi, e piegò un tremolante sorriso di circostanza. “C-certo che no, signori.” Una scossa di timore attraversò gli occhi rivolti a terra, lontani dal fiato condensato di Romano che gli batteva sul collo facendogli salire la pelle d’oca.

Romano strinse di più le dita. Le nocche sbiancarono forzando la presa verso l’alto, le unghie affondarono nella stoffa del colletto, e girò la guancia, lanciando a Italia un’occhiata ancora furente ma incrinata da una piega di dubbio.

Il comandante tastò terra con la punta del piede, flesse il tallone impennato ma non riuscì ad appiattire la suola. Sospirò, e le sue spalle si rilassarono sotto la morsa di Romano che lo teneva sollevato. “Dopo tutti gli sforzi per riunirci,” disse, “sarebbe da stu – eh-ehm...” Tossicchiò, fece ricomparire quella sbavatura di imbarazzo che gli tinse le guance di rosso. Scosse il capo. “Non... non sarebbe cosa buona ricadere negli stessi errori.”

Romano digrignò i denti, gli scagliò addosso un’occhiataccia rovente e appuntita che gli fece diventare il viso nero. “Lo spero per voi,” gracchiò.

Italia sospirò e si mise una mano sul cuore. “Fiuu, meno male.” Addolcì lo sguardo, lo rivolse a Romano stendendo un piccolo sorriso di rassicurazione che fece riprendere un po’ di colore alle guance. “Romano, puoi lasciarlo, adesso.”

Romano ruotò lo sguardo all’indietro. Gli occhi fumanti e ristretti sotto la piega delle palpebre nere, le mani tremanti arpionate sul bavero della giacca e spinte sotto la gola dell’uomo.

Il sorriso di Italia fu fresco come un balsamo spalmato sul suo cuore palpitante d’ira. “Il signor comandante ha dato la sua parola,” lo rassicurò.

Romano sbuffò storcendo un’arricciata di naso e levò gli occhi al cielo.

Fece un passo all’indietro, sciolse la morsa delle dita, le sfilò dalla stoffa del bavero, e le suole del comandante tornarono piatte a terra. L’uomo barcollò, si massaggiò la gola e trasse un sospiro.

“La ringrazio.”

Le ginocchia ballonzolarono sotto l’ultimo brivido di timore che sgusciava fuori dal suo corpo.

Romano si lisciò le maniche della giacca, piegò il risvolto sul polso sinistro, e si bloccò con ancora le dita strette all’orlo e l’unghia del pollice premuta sul bottone. Spalancò gli occhi, una scintilla di realizzazione balenò fra le pupille. “Un attimo.”

Sia Italia che il comandante puntarono gli sguardi su di lui. Italia piegò il capo di lato e sbatté le palpebre, confuso.

Romano lasciò stare il risvoltino e immerse la mano nella tasca, sollevando un fruscio cartaceo, come se avesse la giacca imbottita di foglie secche. “Per ‘nuovo schieramento’ intendi forse questo?” Estrasse il foglio piegato in quattro e sciupato agli angoli da neve sciolta e inchiostro sbavato. Lo sventolò davanti al viso. “Il ‘Primo Epiro’?”

Il comandante si inchiodò in un attenti, le gambe unite e il petto all’infuori, e annuì. “Sissignore.” Il viso rigido e austero aveva perso ogni briciola di esitazione. L’uomo camminò verso il tavolo sparso di documenti – le mani di Italia ancora premute sui fogli – e passò di fianco a Romano. “Ma lasciate che spieghi per bene il ruolo dei settori che andremo a occupare.” Allungò una mano verso il tavolo, strinse le dita sull’orlo, appendendosi, e tese il braccio libero verso i documenti. La mano si irrigidì a mezz’aria. I polpastrelli a sfioro della carta e l’espressione scattata in una luce di allarme come era capitato prima a Romano. “Però...” Sollevò gli occhi, incontrò lo sguardo di Italia che serbava ancora quella nota di confusione, con capo piegato di lato e le labbra socchiuse.

Il comandante tornò a ruotare gli occhi verso Romano, lo guardò da sopra la spalla, e lui lo fulminò, spingendolo ad allontanare gli occhi.

L’uomo chinò la fronte, trasse un breve sospiro dalle narici, e distese i lineamenti del viso. “Signori,” disse, “dati i recenti, uhm,” staccò la mano dall’orlo del tavolo e la fece mulinare per aria, “avvenimenti che ci hanno colpito, desidereremmo mettere la vostra salute al primo posto,” sollevò di nuovo lo sguardo, ma questa volta lo rivolse solo a Italia, “piuttosto che dare precedenza a un eventuale riscatto nei confronti dei greci.” Lo disse con tono più mogio, umile, in qualche modo triste.

Italia sollevò un sopracciglio. La sua espressione tremante riflesse quella timorosa del comandante. “In che senso ‘recenti avvenimenti’?”

Fuori dalla tenda, una zaffata di vento fischiò un ululato e spazzò un getto di neve contro la tenda. Il comandante sollevò le spalle, girò lo sguardo verso Romano, ignorando i suoi occhi ostili, e l’ombra di una nuvola più scura si stese all’interno delle pareti di tela. Freddo e buio calarono nell’ambiente del rifugio, sparsero profondi brividi che penetrarono sotto la pelle sia di Italia che di Romano.

Il comandante inspirò, sollevò le sopracciglia, trattenendo l’aria nel petto, e mantenne lo sguardo fisso su quello di Romano. “Signore, lei...”

Romano restrinse di colpo le palpebre, gli lanciò un’occhiataccia affilata che brillò nel buio come una lama, e arretrò di un passo. Sapeva già dove voleva arrivare.

Il comandante gettò il viso a terra e si strofinò la nuca. “Voglio dire,” tornò il tono impacciato che lo fece balbettare, “mi perdoni se mi permetto,” le dita sfregarono in mezzo ai capelli, il peso delle gambe si spostò da un piede all’altro, “ma se la sente di proseguire dopo quello che è capitato a...” Si morsicò il labbro, divenne rosso in viso. “A...” Senza riuscire a finire la frase.

Italia sussultò. Uno spasmo di dolore gli ammosciò l’espressione intontita che era rimasta incollata alle labbra socchiuse, l’ansia scavò fitte ombre attorno agli occhi colmi di angoscia che tremarono assieme alle ginocchia. Allontanò lo sguardo e si portò un pugnetto davanti al cuore gonfio della paura di incontrare gli occhi di Romano.

Scese il silenzio. Lo interrompevano solo lo scricchiolio del ghiaccio che si cristallizzava contro le pareti di roccia, il fischio del vento, e i lontani brontolii provenienti dalle valli di montagna.

Il buio del cielo in tempesta si trasmise sul volto di Romano. Le nubi cariche di neve e gelo si condensarono dentro i suoi occhi, le guance impallidirono, le labbra socchiuse si congelarono, e il vento gli entrò nelle ossa, stritolandolo in una morsa di ferro.

Tremò. Un violento brivido scaricato direttamente alle corde del cuore.

Si voltò di fianco, si strinse la spalla massaggiandosi il braccio, anche se non provava dolore, e divenne nero in volto.

“Sto benissimo.”

La voce buia e fredda come una notte senza luna, il tono rauco e profondo come le esplosioni che avevano inghiottito Taranto. Romano sollevò gli occhi, i fili di capelli scivolarono dalla fronte, rivelarono le pieghe di rabbia e frustrazione scavate dai ricordi, gli sfiorarono le guance increspate e arrossite in quel mezzo ringhio che strideva fra i denti. Nelle iridi bruciavano ancora gli incendi di quella notte.

“Per chi mi hai preso, eh?” abbaiò, rivolto al comandante. Pestò un passo in avanti che fece arretrare l’uomo, e la sua ombra lo investì, dilatandosi sulla parete di tela. Romano alzò la voce, schiacciò i pugni ficcandosi le unghie nei palmi. “Credi sul serio che non sia in grado di trovare la forza di combattere per difendere il mio paese?”

Il comandante tornò a sollevare i palmi per ripararsi il busto e lanciò un’occhiata intimidita dietro di sé. “C... certo che no, signore.”

E allora?

“Romano.”

Il tono fermo ma preoccupato di Italia fece voltare tutti e due, sedò la sfuriata di Romano che ritornò ingoiata nello stomaco.

Italia abbassò gli occhi velati di colpevolezza e restrinse il labbro inferiore che aveva ripreso a tremare. La mano ancora posata in mezzo ai fogli sul tavolo si strinse, le unghie stridettero sulla carta e si ritirarono contro il suo palmo. Italia si chiuse nelle spalle, si fece piccolo, le ginocchia si toccarono e si flessero verso l’interno, facendolo sembrare ancora più basso e raggomitolato. Quando socchiuse le palpebre, sembrò che il viso si stringesse nel dolore.

“Romano, se tu...”

Romano esitò, tornando di un passo all’indietro e facendo scivolare la sua ombra lontano dal comandante che era andato a rintanarsi contro la parete della tenda. Il fuoco che bruciava nei suoi occhi sbiadì, rinfrescato dalla voce del fratello.

Italia girò attorno al tavolo tenendo la testa bassa, gli andò vicino e gli raccolse le mani nelle sue. Sciolse i pugni che Romano aveva serrato e che ancora vibravano sotto l’afflusso del sangue, districò le dita rigide e le intrecciò alle sue in una presa e delicata. Le mani di entrambi erano fredde, smagrite e bianche, ma all’interno dei palmi si creò un piacevole tepore che formicolò attraverso la pelle.

Italia portò Romano in disparte e abbassò la voce. Non si fece sentire dal comandante.  “Se tu non te la senti puoi dirmelo.” Le dita strinsero, trasmisero una scossetta di paura alle mani del fratello. “Ti prego,” Italia chiuse gli occhi per non far fiore le lacrime, “non rischiamo troppo in questa maniera se sappiamo di non farcela. Abbiamo già visto che...” Irrigidì. Tornò a nascondersi nelle spalle, soffocato da quel nodo di dolore che si formò in gola e attorno al cuore. “Che cosa succede a sopravvalutarsi.”

Romano esitò. Quelle parole non lo rincuorarono come avrebbero dovuto, lo fecero sentire offeso. Schioccò la lingua in mezzo ai denti, inacidito da quella punta di rabbia. “Io sto bene.” Strappò via le mani da quelle di Italia, facendolo sussultare, e si voltò. Annodò le braccia al petto e piantò il broncio, tamburellando le dita contro gli avambracci. “Voi fate quello che volete, ma non sarò io a tirarmi indietro solo per questo.”

Italia annuì debolmente, si strofinò il braccio e tenne la fronte bassa, un po’ ferito. “D’accordo.”

Romano sbuffò e diede le spalle a tutti e due. Il broncio basso e scuro sotto l’ombra della frangia, le dita che battevano le unghie sugli avambracci incrociati, e le spalle strette. Inarcò un sopracciglio, sciolse una mano dall’intreccio e agitò le dita contro il palmo, tastando l’aria.

Si calmò. Però è vero. Girò la mano, espose il dorso, strizzò le dita un paio di volte, e si tastò tutto il braccio fino alla spalla, stringendo all’altezza della scapola. Non sentì dolore. Non me l’aspettavo nemmeno io, ma sto recuperando molto più in fretta rispetto a quando è capitato l’incidente nel Kalamas. Ruotò la coda dell’occhio, squadrò Italia dall’ombra. Che sia perché sono tornato assieme a Veneziano?

Italia era tornato di un passo più vicino al comandante. Si schiarì la voce e posò fermo e attento, le gambe unite e le braccia distese sui fianchi. “Qual è il piano?” Il tono di voce lievemente traballante tradiva il costante sentimento di preoccupazione che stagnava nel suo cuore.

Il comandante avanzò facendo scivolare giù la sua ombra dalla parete della tenda e strinse un pugno davanti alle labbra. Anche lui emise un tossicchio simile a un borbottio. “Sì, dunque, come dicevo...” Sciolse il pugno e sollevò un indice rivlgendolo al soffitto scuro per le nubi cariche di neve. “È facile prevedere che l’esercito greco si schiererà seguendo tre direttrici principali. Ossia Corciano,” mostrò anche il medio, “Ersekë-Leskoviku...”

Italia increspò le labbra, storse un sopracciglio e guardò in alto. Mhm. Si grattò dietro l’orecchio, e un rossore di imbarazzo si impadronì delle sue guance. Questa dovrò scrivermela.

“E infine nel basso Epiro,” concluse il comandante, esibendo anche l’anulare. Ritirò la mano, la strinse dietro la schiena, e camminò avanti e indietro con lo sguardo rivolto in mezzo ai suoi stivali incrostati di fango ghiacciato. “Ora, la nostra difesa sarà più basilare, considerando che i battaglioni ancora in grado di combattere e forniti di sufficiente materiale sono pochi.” Si fermò, rivolse lo sguardo solo a Italia e gli mostrò le dita a forma di V. “Così propongo di suddividerci in due ali.” Fece ondeggiare l’indice. “Creiamo un’ala destra costituita dall’Undicesima Armata,” e sventolò anche il medio, “e un’ala sinistra costituita dall’Armata Nove.”

Romano si girò di profilo, tornando a mostrare il volto all’uomo. Socchiuse la bocca, ma Italia parlò prima di lui.

“Dovremo attaccare anche con così pochi battaglioni?” domandò. L’espressione scettica, un luccichio di paura che tornò a brillare negli occhi.

Il comandante abbassò la mano sul fianco e scosse il capo. “Non si tratterà di un vero e proprio attacco, signore. Chiamiamola...” Roteò lo sguardo e fece mulinare la mano che aveva appena ritirato, come stesse sparpagliando parole invisibili in aria per trovare quella giusta. “‘Difesa strategica’,” concluse. Compì un passo solo, unì le gambe facendo schioccare le suole degli stivali, e le rughe sul suo viso si incresparono in un’espressione abbattuta e rassegnata. Si strofinò la nuca, la mano scese e massaggiò il collo facendo scricchiolare un paio di vertebre. “Dovremo ripiegare, signori,” sospirò.

Gli occhi di Italia caddero al suolo. Una pesante ombra di vergogna in mezzo alle ciglia spense la scintilla di paura.

Il generale si rivolse a entrambi i fratelli, e la sua voce riacquistò il tono forte e determinato. “Ma allo stesso tempo dovrà essere un ripiegamento lento e sicuro, dato che le strade sono ancora in pessime condizioni e i sistemi di comunicazione sono saltati.” Aprì un palmo e vi batté sopra con il dorso della mano, imitò il taglio netto di un’accetta. “Dobbiamo assicurarci una ritirata solida in modo da stabilizzarci presso Premeti, e lì attendere l’invio delle nuove divisioni, come avevamo previsto.” Il dorso della mano scivolò sul palmo e tagliò l’aria guidato dal braccio del comandante. “Una volta a Premeti,” i suoi occhi seguirono il movimento della mano che disegnò una scia invisibile, “occuperemo la linea che va da Coriza a Perati.”

Gli occhi di Italia si illuminarono, tornarono alti. “Oh!” Batté le mani, sorrise orgoglioso. “Perati quella del ponte?”

Il comandante annuì. “Esattamente.” Le pareti di tela ondeggiarono per il forte vento che sbatté un’ondata d’aria e neve contro il riparo, e il comandante guardò il soffitto oscurato dalle nubi che tappezzavano il cielo di montagna. Gli occhi vivi ma freddi di chi è già con i piedi in mezzo ai fumi del campo di battaglia. “È proprio il ponte il nostro obiettivo, signori.”

Italia e Romano si scambiarono un’occhiata fugace. Italia strinse le dita che aveva unito davanti al petto, Romano socchiuse le palpebre e tornò a far tamburellare le unghie contro gli avambracci. Un fastidioso formicolio a pizzicargli il petto.

Il comandante abbassò lo sguardo su di loro, camminò portandosi davanti a Italia. “Attraversiamo il ponte prima che siano i greci a farlo saltare,” ora i suoi occhi ardevano di determinazione, “impossessiamoci del rispettivo nodo stradale, e stabilizziamoci.” Scrollò le spalle e per un attimo il fuoco sbiadì. “Certo,” sospirò, “l’ideale sarebbe stato tentare un nuovo attacco sempre seguendo questi schieramenti, ma...”

“I soldati non possono farcela,” finì Italia per lui. Il volto basso e scoraggiato, la mano che aveva ripreso a strofinarsi sul braccio, le spalle strette, un velo di vergogna e pentimento a mascherargli il volto ingrigito.

Il comandante annuì. “Le condizioni dell’esercito sono molto fragili,” il suo tono paterno e apprensivo, “ed è meglio puntare a una ritirata sicura rispetto a un attacco azzardato.”

Romano guardò prima Italia, la sua aria sconfortata che sembrava circondarlo come una nebbiolina di sabbia nera tutt’attorno al suo corpo, e scoccò un’occhiata al comandante. Tenne le braccia strette al petto, sulla difensiva. “Rimarremo nella Julia?”

Il comandante ricambiò lo sguardo. “È consigliabile, signore.” Sollevò una mano e la rivolse alle pareti della tenda gonfiate dalle risacche di vento. “Una divisione di alpini è la scelta più sicura in queste condizioni. Combatteremo su un suolo montuoso, dopotutto.” Prese un breve sospiro che gli allargò le spalle ed espose il petto all’infuori. “Schiereremo rispettivamente il Battaglione Centotrentanove di fanteria, il Nono di alpini, il Battaglione Cividale, un battaglione del Quarto Bersaglieri e uno di carri leggeri.”

Gli occhi di Italia tornarono lucidi di insicurezza. “Ma greci sanno del ponte e del...” Le labbra e il respiro vibrarono, le guance impallidirono come le montagne fuori dalla tenda. Dovette deglutire un amaro boccone di saliva. “Del nodo stradale?” Un brivido gli fece ballare le ginocchia.

“Sì, signore,” rispose il comandante. “Sicuramente i greci sperano di riuscire ad annientare le nostre divisioni proprio presso Perati, in modo da impedirci di arretrare e di stabilizzarci, e soprattutto per non farci recuperare i materiali presso Ersekë.”

Italia spalancò gli occhi, sentì un tuffo allo stomaco che lo fece impallidire. “Ci vogliono far morire di fame?”

“In poche parole: sì, signore.”

“Quindi...” Italia chinò lo sguardo, si concentrò sul cuoio sciupato dei suoi stivali, sulle incrostazioni di fango secco sotto le suole, sulle cristallizzazioni di ghiaccio che si erano incuneate fra i nodi dei lacci, e sulle scure sbavature del sangue che non era riuscito a lavare via. Le labbra tremarono. “Quindi è una specie di gara a chi arriva per primo a Perati.” Si portò un pugnetto sul cuore. Sentì il muscolo accelerare e battere forte contro le dita strette e vibranti. “E se Grecia arrivasse prima di noi...” Il fiume di fango e sangue che scorre in mezzo ai piedi, il vento che graffia la pelle, il viso che brucia, gli spari che esplodono nel petto, lacerano la carne, mandano le ossa in frantumi, il calore che scoppia e sparge fiori di sangue contro le rocce, il respiro che si accorcia, il dolore che preme sui muscoli, la vista che diventa buia, il corpo che diventa freddo.

Italia strinse anche l’altra mano al petto. Le tenne chiuse davanti allo sterno, dove sentiva il rilievo della croce di ferro spingere contro la stoffa della giacca e trasmettergli un senso di tepore che scioglieva la fredda sensazione di panico.

Romano guizzò un sopracciglio all’insù, se ne accorse.

Le sue dita strinsero sulle braccia incrociate, lui inspirò e i muscoli si irrigidirono, la voce uscì rauca e fredda come il soffio del vento ghiacciato. Liberò uno sbuffo di condensa.

“Ci lasci soli.”

Sia Italia che il comandante lo squadrarono. Italia sbatté le palpebre due volte, lo sguardo del comandante si irrigidì e le labbra caddero schiuse.

Romano scagliò addosso all’uomo un’occhiata affilata. “Mi hai sentito o sei sordo?” sbottò. Gettò il capo di lato, indicando l’uscita. “Va’ fuori di qui.”

Italia increspò un sottile sguardo di rimprovero, anche se Romano non lo guardava.

Il comandante richiuse le labbra. “Uhm.” Si voltò. Rivolse un’ultima e umile occhiata a Italia da sopra la spalla e annuì debolmente. “Sissignore, agli ordini.”

Uscì.

Passato un alito di vento, il lembo della tenda si richiuse, appiattendosi come le labbra di una bocca che si riuniscono, e l’ambiente si riempì di un silenzio denso e ovattato.

Italia si voltò verso Romano, gli rivolse uno sguardo intristito a sopracciglia aggrottate. “Non devi trattarlo così, Romano,” gli disse. “È un ufficiale, si sta impegnando per noi, e anche se...”

“Ricordi...” Romano si girò, dandogli le spalle. Il tono accusatorio come quello di Italia ma più rigido, borbottante come le nubi che fioccavano, sospinte e inspessite dalle raffiche di vento. “Ricordi la riunione di ottobre?” Snodò un braccio dal petto e sventolò la mano per aria. La voce divenne aspra e sprezzante. “Quella organizzata dagli idioti che hanno avuto la grandiosa idea di spedirci a marcire in questo buco di culo?”

Gli occhi di Italia tornarono indietro nei ricordi, il suo sguardo sbiadì rievocando l’immagine delle sue mani giunte in preghiera mentre implorava Romano di seguirlo. I sensi di colpa lo accoltellarono al cuore, strozzandogli la voce. “Sì.” Allontanò gli occhi da quel giorno, quando la cartina del territorio ellenico appesa al muro non faceva ancora così paura. Sospirò, sconsolato, e si strofinò il braccio. “Sì, so che avrei dovuto darti retta, ma ormai è tardi e io –”

“E ti ricordi anche cos’hanno detto prima di dividerci in due parti opposte dello schieramento?”

Italia esitò per un istante. Sentì il suo respiro bloccarsi, la voce rimanere incastrata in gola, le orecchie tapparsi e riempirsi delle parole che gli avevano rivolto quel giorno.

“Signori, non dobbiamo vedere questa nostra situazione di dualità come uno svantaggio, ma come un’arma a nostra disposizione. E, come tutte le armi, va usata al massimo delle potenzialità.”

Italia rimase con le labbra socchiuse. “Sì, hanno detto,” inspirò, sollevò il mento, e abbassò le palpebre, ricordando, “‘Siamo l’unico paese che può permettersi un simile sdoppiamento, non facciamoci sfuggire questa preziosa occasione’.”    

Romano annuì. “Infatti.” Poggiò un’anca all’orlo del tavolo, schiacciando l’angolo di un documento che stava scivolando giù. “Sai che l’avevo trovata una stronzata fin dall’inizio,” sbottò. I suoi occhi scivolarono sulle carte sparse sul tavolo e Romano tese un braccio, ne sistemò due, pareggiandole con deboli colpetti delle dita. Anche lui emise un breve sospiro che gli ammorbidì il tono di voce. “Poi però ci ho riflettuto e...” Sfilò le dita dai documenti e si strofinò la nuca, a fronte bassa. “Ed effettivamente potrebbe non essere un ragionamento del tutto falso.”

Italia sgranò gli occhi. Sorpresa e paura scintillarono fra le orbite. “Vuoi dire che...”

“Hanno ragione.” Romano lo disse fra i denti. “Un’arma può essere potente quanto si vuole, ma è come la si usa che fa la differenza.” Strinse le palpebre. Il suo viso fu attraversato dall’espressione crucciata di chi ha lo stomaco chiuso in un groppo di fuoco prima di ammettere di avere torto. “Adesso l’ho capito.” Riaprì gli occhi, li e rivolse a Italia. Lo stomaco bruciava ancora, ma di un fuoco combattivo. “Ma ho anche capito il modo giusto di usarla.”

Italia lasciò sfuggire un flebile “Oh” di ammirazione.

Romano staccò l’anca dal bordo del tavolo. “Ascoltami bene.” Si lisciò la giacca contro i fianchi dando piccoli colpi alla stoffa impolverata di terra e umida di ghiaccio. Raddrizzò la schiena tenendo il mento alto e fiero. “Perché ho un piano che forse potrà definitivamente portarci fuori da questa merda una volta per tutte.”

 

 

♦♦♦

 

 

18 novembre 1940, Perati

 

 

 

Grecia spinse il piede nel terreno, spremette la pianta dello stivale contro le rocce aguzze che emergevano dal suolo sbriciolato e polveroso, incrostato da venature di ghiaccio azzurrino infilato fra le rientranze delle pietre chiare, di fiume, ma appuntite come enormi denti aguzzi. La terra somigliava a una bocca spalancata cariata che alita nebbia e polvere fuori dalla gola. I massi schiacciati dalla suola emisero il suono di un morso dato una fetta di torrone, quelli più piccoli rotolarono via, sgusciarono in mezzo a un rotolo di fili spinato che strisciava fra le rocce come un roveto abbandonato, e sbatterono contro una placca d’acciaio carbonizzata – ciò che avanzava di un pezzo di artiglieria dato alle fiamme.

Fu lo scrosciare dell’acqua di fiume a fargli sollevare lo sguardo da terra.

Grecia staccò la mano stretta attorno alla cinghia del fucile caricato sulla spalla, premette il braccio davanti alla fronte, riparandosi, e socchiuse le palpebre. Assottigliò la vista che penetrò nella fitta nebbia composta da polvere, residui di zolfo e vapore acquoso emerso dagli argini del fiume. Dietro la foschia, una lunga ombra si stendeva fra due sponde, dove il bianco delle nubi si infittiva e galleggiava sopra una curva di fiume color fango che scrosciava in mezzo agli spuntoni di roccia sui cui la schiuma grigia si squagliava.

Grecia storse il naso.

La puzza dello zolfo bruciava la gola. Quell’intenso odore di uova marce e polvere da sparo si univa a quello dell’acqua di fiume, a quello putrido delle rocce bagnate, e a quello ferroso delle carcasse d’artiglieria affumicate e contorte dentro i rotoli di fili spinato. Bestie intrappolate nell’abbraccio di serpi acuminate.

La massa del battaglione si mosse alle sue spalle. Il fragore dell’acqua di fiume che si rimestava fra i due argini si unì al rumore dei passi dei soldati che calpestavano rocce, le facevano rotolare contro lamine, rovi di filo e casse di munizioni lasciate a marcire nell’umido. Le ruote dei carri e delle artiglierie macinavano il terreno. Ogni tanto si sentiva qualche tonfo, un carico sbattuto che traballava sopra i carri, borbottii profondi, cupi come il cielo sopra di loro, e le imprecazioni tenute strette fra i denti che accompagnavano gli ansimi di fatica e gli annaspi per il freddo.

Alcuni uomini superarono Grecia, aprirono due file che si schiusero attorno a lui come ali, e proseguirono lungo la strada di sassi e nebbia. Si immersero nella foschia più fitta che celava dietro di sé il budello di fiume srotolato nello scavo di terra e massi. Alcuni guidavano i muli tirandoli per le briglie, e uno degli animali fece resistenza con la bocca tirando la testa all’indietro. Il carro che trasportava si era incastrato fra due rocce. Un soldato ne chiamò altri tre con un gesto del braccio e tutti spinsero contro le ruote del carro, tirandole fuori dalla morsa dei sassi a forma di denti cariati.

Grecia sollevò lo sguardo al cielo. Alzò un piede e strisciò di un passo all’indietro. Continuò a tenere la mano davanti alla fronte, anche se i raggi del sole erano tappati dalla coltre di nuvole e nebbia, e guardò le cime delle montagne.

Le pareti di roccia spoglie toccavano le nuvole che Grecia non riusciva più a distinguere dalla nebbia.

Il vento gli soffiò di profilo, scompigliò i capelli contro le guance, le ciocche si infilarono in mezzo alla mano poggiata sulla fronte, e l’aria umida e ferrosa trascinò con sé gli sbuffi di fiato che si condensavano davanti al viso.

Gli occhi di Grecia, calmi e pacifici, si spostarono lungo il profilo ad arco delle montagne che si chiudevano attorno alla valle in una forma a ferro di cavallo. La scia del suo fiato bianco seguì il movimento della sua testa.

Il sibilo del vento passò sopra agli altri suoni che riempivano la valle. I passi dei soldati, lo zoccolare dei muli, lo scricchiolare delle ruote sulle rocce, il brusio delle voci soffocate dentro i baveri delle uniformi, e lo spumeggiare delle onde. L’aria fredda come un bacio di ghiaccio soffiò fra i capelli di Grecia, gli sussurrò dietro le orecchie, pizzicò la pelle, gli trasmise un brivido lungo le ossa.

Grecia fermò lo sguardo contro la parete di roccia di fronte a lui. Bianca e grigia, si ergeva davanti al cielo annuvolato, sepolta alla base dalla nebbia d’acqua. Le onde del fiume erano fatte di fango mescolato alla pioggia caduta nelle settimane precedenti. Grecia strinse il pugno steso sul fianco che toccava il fucile con le nocche, trattenne il fiato quando il vento tornò a soffiargli di profilo, e gli occhi si congelarono trattenendo al loro interno quell’immagine.

Il sibilo del vento gli sussurrò all’orecchio, gli diceva di guardare le montagne.

Quel gelido brivido trasmesso dall’aria fu come un grumo di neve infilato nel colletto della giacca che si scioglie mentre scivola sulla calda pelle della schiena.   

Una figura si staccò da una delle ali di soldati che stavano procedendo lungo la valle di sassi, diretti all’argine del fiume. L’ufficiale si strinse la giacca sotto la gola, saltò la punta di un masso, rischiando di inciamparci sopra, e si fermò di fianco a Grecia. “Tutto tranquillo, signore.” Uno sbuffo di fiato bianco accompagnò le sue parole.

Grecia sbatté piano le ciglia. “Già.” Il brivido si era sciolto, ma il disagio aveva lasciato un’ombra di sospetto sul viso. Inarcò un sopracciglio. “Tranquillo.” Grecia calò il braccio dalla fronte e tornò a scorrere la catena montuosa con lo sguardo. Il color fango del fiume contrastava con quello grigio cenere del cielo. “Dove sono gli italiani?” chiese con una punta di delusione a incrinare la voce. Si grattò dietro l’orecchio, dove il vento lo aveva sfiorato con il suo sussurro. “Eppure eravamo riusciti a farli arretrare fino a questo punto.”

L’ufficiale tornò a stringersi nella giacca, tirandola fino alle guance. “Forse, signore,” la condensa di fiato finì dentro la stoffa del colletto, “hanno rinunciato alla difesa.”

Le due file di soldati continuarono a sfilare ai loro fianchi. Alcuni sollevarono gli sguardi, tastarono l’aria contro i palmi, la annusarono, due di loro aiutarono un terzo a liberare le ruote di un altro carro dalle rocce, e alcuni sfregarono le mani diventate blu per il freddo, soffiandoci sopra.

L’ufficiale di fianco a Grecia scrollò le spalle e si passò una mano fra i capelli. “Mezzi scarsi, pochi uomini, morale a terra.” Rilassò il viso che assunse un’aria rincuorata. Guardò Grecia con occhi stanchi e arrossati dalle piccole vene che ramificavano nel bianco. “È meglio per noi, risparmieremo le energie.”

“Mhm.”

Grecia spostò lo sguardo sull’ombra che attraversava la nebbia sopra il fiume. Il ponte.

Di nuovo il vento gli scompigliò i capelli davanti alla fronte e dietro le orecchie. L’aria scura e fredda intensificò la luce degli occhi, facendoli somigliare a ghiaccio verde solidificato sulle rive di un lago, scivolò fra le labbra e agitò la giacca dietro la nuca.

L’ufficiale fece un passo avanti e la sua voce lo scosse. “Oppure potrebbero aver già attraversato.”

Grecia esitò, sollevò la palpebra inferiore dell’occhio destro. Prese un breve sospiro dalle narici, tastando di nuovo quell’aria che sapeva di zolfo e acqua di fiume, e aggrottò la fronte, sospettoso.

No, non mi convince.

Un altro brivido si arrampicò lungo la sua schiena, gli fece tremare la spina dorsale.

C’è qualcosa che non va.

Sciolse il pugno dal fianco, spostò il braccio più indietro, passò oltre il manico di una delle bombe a mano allacciate alla cinta, oltre il fodero della pistola, e toccò il calcio del fucile che batteva sui fianchi. Piegò due dita a uncino e afferrò la fettuccia della cinghia, tenendola stretta in mezzo alle nocche.

Il vento si caricò di un’elettricità fredda e pungente, fece ondeggiare i capelli di Grecia sopra le spalle, si infilò sotto i vestiti chiudendolo in un abbraccio viscido e colloso. I sassi vibrarono sotto gli stivali, la nebbia che aleggiava attorno al ponte e sopra il fiume divenne più alta e nera, le nuvole si chiusero contro le cime delle montagne e rabbuiarono il cielo.

Grecia strinse la mano attorno alla cinghia. Gli salì la pelle d’oca.

È come se il terreno stesso mi stesse inviando dei segnali di pericolo.

Brontolii provenienti dalle montagne si mescolarono alla voce del vento e al ruggito del fiume che bisbigliavano dietro le orecchie.

Grecia si guardò attorno, irrigidendo.

Devo stare in guardia.

Socchiuse la bocca. Aveva le labbra secche. “Non rompete comunque gli schieramenti,” disse al suo ufficiale. “Superiamo il ponte, conquistiamo il nodo stradale e arriviamo a Premeti prima di loro.” Si girò. Tornò a guardare l’ombra dell’attraversamento con occhi di sfida. “Poi fate saltare il –”

Il fischio piovve dall’alto, precipitò dal cielo ed esplose. Lo schianto sul terreno dilatò un cratere di sassi e fumo addosso all’intero battaglione. Scoppiò in un lampo di accecante luce bianca.

Il boato dell’esplosione sollevò Grecia da terra e lo scaraventò addosso a un carro riempito con i pezzi di artiglieria e coperto da teli. Lui sbatté la tempia, strizzò gli occhi, e precipitò al suolo, battendo la spalla contro le rocce. Una saetta di dolore penetrò nel muscolo del braccio. L’abbaglio di sofferenza sostituì quello dello scoppio.

L’eco si ritirò, un tuono che svanisce, e le prime sfocate grida di allarme arrivarono alle orecchie di Grecia assieme al fragore della corsa dei soldati che facevano tremare la terra.

Grecia ritirò un braccio trascinandolo in mezzo alle pietre per coprirsi il punto della testa che aveva battuto contro il carro.

Ci fu un secondo fischio, sempre più forte e vicino. Lo schianto, il boato, altre grida, la vampata di aria e polvere che gli finì in faccia bruciando sulle palpebre strizzate.

Grecia scosse il capo, sciolse le vertigini che sciamavano attorno alle tempie, e tirò su le spalle da terra. Si resse sul gomito e sventolò un braccio davanti a sé per dissolvere il muro di fumo: una coltre color terra che saliva fino al cielo e che nascondeva i rumori delle corse e le grida di incitamento dei soldati. Qualcos’altro esplose, più lontano. Il terreno tremò sotto di lui, lampi bianchi accesero il cielo, e una ventata d’aria bollente perforò il muro di fumo e gli soffiò in viso, facendogli voltare la guancia.

Grecia sospirò, scocciato e annoiato.

Ah, ecco perché.

“Ci attaccano!”

“State giù, riparatevi dietro le rocce!”

Un altro tuono, un fischio, una seconda esplosione, scroscio di rocce andate in frantumi e che rotolano dai pendii. Un ulteriore getto di fumo grigio inspessì la coltre che aleggiava attorno al corpo di Grecia. Le sagome nere dei soldati corsero dietro la nebbia, come piatti ritagli di cartoncino nero che scorrono su una pellicola.

Qualcuno urlò. “Vengono dalle montagne!” Un’ombra che reggeva il suo fucile sul fianco sbracciò verso le altre sagome. “Tenete la testa bassa e mirate alle montagne!”

Grecia sentì un fulmine trafiggergli il cervello e schioccare dentro la testa.

Le montagne!

Scattò in piedi spingendosi sul gomito e sulle ginocchia. Dalla sua uniforme piovve una sfarinata di polvere e sassi che gli erano finiti addosso. Il fucile scivolò dal braccio, penzolò sul polso ma Grecia lo lasciò lì. Gli occhi strabuzzati brillarono nel viso che riuscì a mantenere i lineamenti rilassati. Puntarono il cielo nascosto dal fumo.

Hanno usato...  

Un’esplosione investì la barriera di nebbia e ne inclinò la cima, abbassandola come un foglio che viene piegato in due. Svelò le pareti di roccia su cui esplodevano i lampi bianchi. Le luci brillavano alternandosi come un gioiello di diamanti che viene rigirato sotto una lampada.

Grecia corrugò la fronte, strinse i denti.

La mia stessa tattica.

Diede uno strattone al braccio e sollevò il fucile scivolato nella piega del gomito. Premette l’arma contro il fianco, infilò l’indice nell’anello dell’otturatore, e usò il braccio libero per proteggersi la testa.

“Riparatevi!”

Piegò le spalle e si immerse nella parete di fumo. Trattenne il fiato per non inalare l’odore acre delle esplosioni, e socchiuse gli occhi che già bruciavano per le ondate di vento rovente.

Corse.

Arrivò uno scoppio secco e acuto che lo investì sul fianco e lo costrinse a sbandare la corsa, come uno spintone dato all’anca. Le gambe sbatterono contro una roccia, si flessero dando una ginocchiata sulla pietra, e Grecia traballò dando un dondolio di spalle per tenersi su. L’alitata di vento gli bruciò la faccia, gli soffiò via i capelli dalle guance costringendolo a strizzare le palpebre per ripararsi dal calore che bruciava gli occhi.

Grecia gettò il braccio davanti alla bocca, risucchiò un respiro dalle narici che gli bruciò la gola e lo stomaco, si tenne a testa bassa, e un’altra esplosione scoppiò proprio quando lui tossì.

Era più lontana. Sentì solo l’eco del tuono, delle grida sia in greco che in italiano, e vide il cratere di fumo impennarsi, disciogliersi, e rotolare in mezzo alle pietre, squagliandosi in mezzo alla sua corsa.

Calpestò un getto di sangue che era scivolato da sotto i fumi dell’esplosione e si lasciò dietro una scia di impronte scarlatte tatuate sulle rocce.

Sagome nere continuarono a corrergli attorno, a cadere, a svanire dietro il fumo che risaliva la terra e toccava le nubi in cielo.

Grecia sentì un moto di disapprovazione irritarlo come aveva fatto l’inalazione del fumo allo zolfo.

Sapevo che Italia non avrebbe lasciato la strada libera.

Strinse di più il fucile sentendone la rassicurante presenza sul fianco. Il braccio fermo e la spalla rigida.

Scavalcò una roccia macchiata di sangue, sfrecciò in mezzo a due sagome che correvano come lui nel fumo, e atterrò di nuovo con i piedi contro le pietre aguzze saltate attorno a un cratere aperto nella terra.

Però, dopo quello che è successo a Taranto, per lo meno mi aspettavo un’esitazione.

Sentì un fischio passargli sopra la spalla e si tuffò di lato. Il braccio attorno alla testa ancora prima di udire l’esplosione.

Whoom!

La risacca bollente spinse la sua rotolata dietro un masso. Grecia cadde di spalla, sbatté il fianco sentendo la punta di una roccia premergli sull’anca, e stinse il viso in una smorfia di dolore. Ingoiò un grumo di dolore amaro e ricominciò a respirare a brevi ma profondi ansimi. Richiamò le ginocchia al petto con uno slancio, e gettò la schiena contro il masso aguzzo che gli arrivava fin sopra la testa e un anello di vertigini gli disegnò una spira attorno alle tempie. Grecia scosse il capo, strofinò una mano fra i capelli per spolverarli, e incollò le spalle alla parete.

Inspirò.

Buio, freddo, calmo.

Rilassati.

Espirò.

Le esplosioni tuonavano come un temporale, i lampi di luce alle sue spalle gettavano ondate di fuoco che lui sentiva passargli sopra la testa e ruggire contro il cielo. La roccia alle sue spalle tremava come il suolo sotto le sue cosce.

Grecia si chiuse nelle spalle dopo uno scoppio, gettò il braccio di lato e raccolse la cinghia del fucile. Lo trascinò a sé, lo strinse fra le ginocchia, il calcio a terra e la canna che puntava il cielo passandogli sulla spalla.  

Guardò dietro di sé, sbirciando da dietro una ciocca di capelli che gli era scivolata davanti all’occhio.

Tre lampi brillarono sulla montagna più vicina, uno dopo l’altro. Il terreno sotto le sue gambe rannicchiate e la roccia premuta contro la sua schiena continuarono a scuotersi per i boati degli spari, come qualcuno ci stesse martellando contro.

Grecia sollevò le sopracciglia, mentre il fumo appena gonfiato si disperdeva nel riflesso dei suoi occhi.

Non ho ancora capito se questi due sono molto stupidi o molto coraggiosi. O entrambe le cose.

Sollevò di più un ginocchio e sentì la pistola foderata alla cinta battergli sul fianco.

Grecia strinse di più le braccia attorno al fucile, fece strisciare il calcio a terra, accostò la canna fredda e liscia alla guancia, e tenne gli occhi dietro di sé, oltre la punta del masso a cui era appoggiato.

Fece spallucce a se stesso.

Pazienza.

Un fischio discese l’aria, si fece intenso e acuto, dritto dietro le orecchie.

Grecia contò fino a tre, saltò via da dietro la roccia. Il colpo di mortaio centrò il masso in pieno, lo fece esplodere, e l’ondata dello scoppio scagliò i frammenti di pietra contro la sua schiena. Arrivarono come una mitragliata di proiettili di piombo.

Grecia inciampò, sbalzato in avanti. Atterrò sulle ginocchia, resse il fucile sulla spalla, strinse un pugno a terra e scattò in avanti, ricominciando subito a correre in mezzo al fumo.

Il vapore della polvere saltata in aria si divise sotto la sua corsa, le sagome nere dei soldati gli sfrecciavano di fianco e sparivano accecate dai lampi bianchi che esplodevano nella foschia.

Un proiettile schizzò sopra la sua spalla, fischiò a una piuma dall’orecchio. Grecia si gettò di lato, la nebbia si aprì rivelando una roccia grande quanto quella dietro la quale si era nascosto. Grecia trattenne il respiro, scollò la mano dal fucile che ricadde dietro la spalla, fece forza sui muscoli delle gambe e stese il primo passo lungo la pietra. Poggiò il piede in pendenza, vi spremette tutto il peso sopra, buttò le spalle in avanti e tese le braccia per aggrapparsi alla cima. Le unghie stridettero sulla pietra e lo tennero su. Completò il passo, ne allungò un altro, e si diede la spinta compiendo una parabola verso il basso.

Saltò giù dalla roccia e il fumo attorno a lui si aprì come un abbraccio.

Grecia atterrò in ginocchio e scaricò il peso aprendo una mano a terra.

Le rocce sotto il palmo punsero.

Strinse i denti, ingoiò il dolore, e restò a spalle basse e schiena piegata.

Una presenza si mosse dietro di lui.

Un’ombra che scivolò in mezzo al fumo, trascinò dietro di sé una risacca di gelo che odorava di pioggia, rocce bagnate, sangue versato nelle acque del fiume, e di uno sparo appena esploso davanti al suo naso.

Grecia sentì il sangue raggelare. Quella presenza lo aveva trafitto come una scossa, da tempia a tempia.

Gli occhi si spalancarono. Per un attimo tornarono a guardare le onde nere e schiumose del Kalamas mulinare sotto i suoi piedi, infrangersi sugli argini, e schizzare l’acqua ghiacciata addosso a qualcuno che teneva la bocca del fucile rivolta contro il suo petto.   

Gli mancò il fiato.

Romano?

Girò il viso di scatto. Il mento contro la spalla e qualche ciocca di capelli finita davanti agli occhi. Una mano sul suo fucile allacciato alla scapola e il cuore in gola.

Il fumo si spostò, spazzato via dal vento di uno sparo che aveva fatto traballare il terreno.

Non c’era nessuno.

Una voce gridò davanti a lui, emerse dal fumo con la violenza di una delle esplosioni.

“Sparate!”

Gli occhi di Grecia si pietrificarono in quell’espressione di allarme e stupore.

Saltò in piedi come punto in fondo alla schiena da uno spillo.

Strisciò con il piede in mezzo alle rocce per voltarsi, e ribaltò i sassi contro la caviglia.

Il muro di fumo si sciolse attorno a una sagoma nera in piedi davanti ai lampi bianchi che illuminavano il cielo, rivelarono i lineamenti rigidi, i piedi divaricati e premuti sulle punte di due massi aguzzi, la schiena dritta, le spalle larghe, il fucile raccolto dentro al gomito e il braccio libero steso di lato, parallelo al suolo.

Un barlume di confusione accese gli occhi di Grecia.

Italia?

La nebbia color terra discese dal viso di Italia, scivolò lungo le spalle, ai lati del busto, e si raccolse ai suoi piedi. Gli occhi nocciola premettero su di lui. Pesanti e ardenti di vita come quando lo aveva visto rialzarsi da terra una volta dopo l’altra, mitragliata dopo mitragliata, gocciolante di sangue, pioggia e fango.

Italia inspirò, trattenne il fiato, sollevò la mano chiusa a pugno, e cacciò un grido.

“Fuoco!”

Il pugno si sciolse, la mano si tese come una lama e affettò l’aria di netto.

La raffica di spari piovve in mezzo al fumo, una tempesta di luci bianche a forma di frecce, e crollò addosso a Grecia.

Grecia scivolò all’indietro, buttò un braccio davanti al viso, riparandosi la testa, e si lasciò cadere dietro a una roccia. L’ondata di spari accompagnò la sua caduta, il calore della raffica lo spinse come una vampata di vento estivo, e lui batté la schiena fra le pietre che lo accolsero in un abbraccio di spuntoni aguzzi.

I proiettili non lo colpirono.

Il suono della tempesta si affievolì.

Grecia ignorò il dolore alla schiena e rotolò di fianco, aggrappato al fucile. Stette con la pancia schiacciata a terra, il fucile raccolto in mezzo ai gomiti, il fumo che galleggiava davanti al suo viso, e sporse la punta del naso fuori dalla roccia, come un animale che tasta il terreno. 

Allora si è ripreso, di disse, ripensando a Italia.

Grecia abbassò il mento contro il corpo del fucile, strizzò un occhio, infilò l’indice nel grilletto, e sollevò la volata della sua arma, immergendola nei riccioli di fumo. La nebbia si dissolse, tornò a svelare l’ombra di Italia – ora aveva il braccio abbassato – e Grecia sentì un pizzicorio pungerlo alla base del collo. Il brivido si trasmise fino alla punta dell’indice.

Schiacciò il grilletto, lo sparo esplose davanti alla canna, creò il rinculo che gli spinse le spalle all’indietro e fece strisciare i gomiti a terra. Il proiettile partì forando il lampo di luce.

La nebbia scomparve davanti al viso di Italia proprio per denudare la sua improvvisa espressione di panico.

Italia lanciò un gridolino, “Wha!”, e saltò giù dalla roccia buttandosi a terra.

Il proiettile rimbalzò, fece saltare una scheggia di pietra, e l’eco del suo fischio morì.

Grecia emise un leggero sbuffo, una smorfia arricciando la punta del naso, e si tirò in piedi. Le gambe già piegate per darsi lo slancio.

Però è strano.

Tirò indietro l’anello dell’otturatore e il bossolo vuoto volò via compiendo una parabola d’argento.

Grecia allungò due passi verso il punto in cui Italia si era tuffato, ma i suoi occhi guardarono altrove, a destra e a sinistra, e in alto contro le cime delle montagne illuminate dagli spari. Il costante brivido gelato che gli solleticava la nuca.

Mentre mi avvicinavo, avrei giurato di aver sentito anche l’energia di –

“Sono qui, bastardo!”

Un’altra voce. La stessa di Italia, ma più profonda, feroce, graffiante, e arrabbiata. Arrivò come una coltellata affondata alle spalle.

Grecia si voltò, e Romano era già in piedi sopra la roccia dietro cui lui si era riparato dagli spari.

Un piede sollevato e premuto sulla cima della pietra, il ginocchio piegato contro la pancia, un braccio stretto attorno al fucile e uno steso sul fianco, il pugno serrato e circondato dalla nebbia di fumo, quasi si stesse spargendo dalle sue dita.

Romano gli rivolse uno sguardo di sprezzo, gli occhi affilati circondati dal nero. Il ghigno torto verso il basso lasciò vedere la punta del canino che premeva contro il labbro.

“Sbaglio o non abbiamo avuto modo di concludere la nostra partita sul Kalamas?”

Grecia si limitò a sbattere le palpebre. “Romano?” Nel buio delle ciglia sbattute, rivide l’immagine del suo corpo inerme e ciondolante fra le braccia dei soldati. La testa girata di lato, i capelli e i vestiti lerci di fango che gocciolavano acqua di fiume, gli occhi chiusi, le guance bianche e le labbra grigie.

Una punta di stupore si infilò nella sua testa.

Anche lui si è ripreso così in fretta?

Romano saltò giù dalla roccia, atterrò in mezzo al fumo che si squagliò in una serie di tentacoli di vapore, tutti attorcigliati sui suoi piedi. Sollevò il fucile, lo puntò al petto di Grecia, tenendolo sotto tiro, e il suo sguardo si spostò dove lo scroscio delle acque si sostituiva al fragore degli spari, delle frane di roccia e delle urla dei soldati. Guardò il fiume roteando gli occhi, senza abbassare la canna del fucile o spostare la testa. Tirò un ghigno di cattiveria che si infossò nella guancia. “Magari sarò io a gettarti nel fiume, questa volta, che ne dici?”

Grecia sembrò ignorarlo. Il suo sguardo stupito sbiadì nella noia. “Allora è vero che sei vivo.”

Romano lo fulminò, divenne paonazzo in viso ed esplose. “Già, grazie per averlo notato! Ma indovina un po’...” Sollevò il braccio libero dal fucile, lo tenne in orizzontale e strinse il pugno. Il ghigno tornò a piegargli le labbra e a scurire il viso attorno alla luce affilata emanata dagli occhi. “Chi fra noi due sta per schiattare?”

Grecia ebbe un sussulto. Un lampo fece apparire la sua stessa immagine in piedi in mezzo alla pioggia, i capelli bagnati incollati alla faccia, l’uniforme scura e impregnata d’acqua, e il braccio sollevato nella stessa maniera. Il segnale d’attacco rivolto ai fucilieri sulle montagne che aveva utilizzato per combattere Italia.

Grecia vide la luce della raffica di spari prima ancora di sentirne il suono. Un diluvio di proiettili rovesciato su di lui che forarono la nebbia in uno sciame d’argento.

Incrociò le braccia davanti al petto, saltò via con una sola falcata allungata di lato, lontano dal vento di piombo, e incespicò con i piedi su una roccia. Ingoiò un ansimo e cadde di petto, sbattendo una guancia a terra. Le rocce premettero sulla pancia, sulle ossa e sulle spalle. I lampi di dolore esplosi davanti agli occhi strizzati gli diedero l’impressione di essere stato realmente trafitto dai proiettili.

“Ancora! Continuate a sparare!” Le grida di Romano graffiavano l’aria sovrastando lo scroscio e le esplosioni. “Insistete! Spingetelo lontano dal ponte!”

Grecia emise una smorfia e strinse i denti, spremendo le pietre più piccole in mezzo alle mani. Non sanguinava, non lo avevano colpito.

Una fiammella si riaccese in fondo al suo cuore, le braccia tornarono a chiudersi attorno al fucile e lui torse il busto, impennando la sua arma contro l’ombra di Romano. Immaginò il suo indice scendere, schiacciare il grilletto e far partire il colpo che lo avrebbe trafitto da parte a parte.

Non mi fermerete in questa maniera.

“Grecia, fermo!”

Di nuovo Italia.

Grecia levò lo sguardo verso la porzione del muro di fumo da cui era arrivata la sua voce. La sua sagoma avanzò in mezzo al vapore che odorava di zolfo, di roccia sbriciolata e di sangue.

Sentì il respiro fermarsi, rimanere sospeso e stringergli la bocca dello stomaco in un sentimento che era una spirale di timore e meraviglia. Nello sguardo di Italia, nel suo corpo dritto che avanzava a passo fermo in mezzo alle rocce, circondato dalla tenda di fumo sventolante, vide la stessa ombra che gli aveva sorretto le spalle e guidato le braccia durante il loro scontro. Gli stessi luminosi occhi d’ambra nati e cresciuti sul campo di battaglia, lo stesso sguardo duro e fiero, la stessa postura nobile e dritta, la stessa aura che aveva il profumo di ferro battuto, di cuoio antico, di mostro spremuto.

Per la prima volta, vide in lui l’ombra dell’Impero Romano.

Italia lo guardò negli occhi, gli trasmise un brivido di soggezione che lo fece sentire piccolo come un sassolino davanti a una montagna.

“Non ti lascerò fare del male a mio fratello.”

Il suo braccio calò.

Grecia tuffò le braccia di lato prima ancora di sentire gli spari schizzargli addosso.

Rotolò di nuovo – gli scoppi esplosero a terra scagliandogli contro i frammenti di roccia saltata in aria – e si impennò subito sulle ginocchia, scattando lontano dalla raffica.

Dovette scuotere la testa per riprendersi dall’intontimento che gli aveva paralizzato lo sguardo e fermato il cuore nel petto.

I suoi occhi volarono verso Italia, ma lui era sparito.

Stanno...  

Romano sfrecciò dietro la sua schiena, Grecia lo vide da sopra la spalla. Gli occhi che ardevano come quel giorno sul fiume lo squadrarono trasmettendogli la stessa sensazione di chi vuole aprirgli lo stomaco in due.

Grecia sentì uno spillo di panico pungergli il cuore.

Stanno invertendo i ruoli.

Allungò la mano verso il suo fucile sul fianco.

Quando sto per attaccare uno...

La presenza di Italia tornò a investirlo da dietro. La sentì premere come un campo di elettricità statica che sfrigola a contatto con la pelle e fa ondeggiare i capelli.

Buttò all’indietro la coda dell’occhio e lo vide ergersi dall’ombra.

L’altro ne approfitta per colpirmi a sua volta.

Grecia si girò torcendo il busto, stese il fucile sotto la piega del braccio e calò la mano libera verso il calcio della pistola. Socchiuse gli occhi, prese la mira con il fucile sul petto di Italia, e sollevò un minuscolo sorriso di soddisfazione.

Hanno capito cosa vuol dire combattere assieme.

Non sparò a Italia.

La mano gettata contro il fodero della pistola estrasse il calcio, l’indice scivolò nell’anello del grilletto, il pollice si impennò contro il cane, e la canna volò a prendere la mira dietro il suo fianco. Il foro nero rivolto a Romano.

Gli occhi di Italia volarono dalla canna del fucile alla mano di Grecia che impugnava la pistola. Italia sgranò le palpebre, si lasciò sfuggire un ansimo, e lo sguardo andò su Romano, già preso dal panico nel vederlo sotto il tiro di Grecia.

Grecia voltò lo sguardo, i suoi occhi tracciarono un arco di luce verde attorno al viso e puntarono il busto di Romano come mirini.

Ma anche un trucco del genere ha i suoi limiti.

Abbassò il pollice, la sicura scattò. Schiacciò l’indice contro il grilletto e il colpo esplose, un fiore di fumo che si schiude in uno scoppio di petali grigi.

Romano divenne lo specchio dello sguardo di Italia. Le pupille si restrinsero dentro gli occhi spalancati, e le orbite si riempirono dell’immagine riflessa del proiettile che gli stava volando addosso. 

Grecia disegnò un arco con il piede strisciato a terra, accompagnò il movimento del braccio che aveva appena sparato, e finì di torcere il busto, completando la piroetta. I capelli volati in viso gli fecero perdere di vista Romano e la scia del colpo esploso dalla canna.

Una volta che comprenderò il loro schema e imparerò a interpretare i loro comandi e segnali...

Si girò completamente, il braccio che aveva sparato ancora teso di traverso davanti al petto, e fronteggiò il muro di fumo. Una spira di vento ne arricciò uno sbuffo, scoprì uno spazio vuoto, libero dalla presenza di Romano. Non c’era più.

Sangue freddo, mente lucida, viso disteso ma occhi svegli e sull’attenti.

Grecia lasciò che l’aria gli vorticasse attorno, trascinandolo in un turbine di fumo, vapore e polvere, e mantenne i muscoli rigidi e i nervi tesi, a fior di pelle.  

Sarò di nuovo io quello in vantaggio.

Strinse il braccio che reggeva il fucile, il gomito si flesse, andò ad abbassarsi verso la cinta allacciata sotto la giacca. Urtò il manico di una delle bombe a mano.


   
 
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