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Autore: Bael    23/04/2009    2 recensioni
Non è finita, almeno non ancora, perché a tendere i fili delle marionette non è che la noia. La noia e il fuoco.
Genere: Sovrannaturale, Horror, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: L, Light/Raito
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prometheus

Arise Again

Il vento non ti tocca, la sabbia solo ti attraversa, ondeggia poco, forse, ma neanche questo è esatto, perché si trascina sfinita indugiando, fuggendo. Il cielo nero e profondo come mare di notte, macchiato di sporcizia e foglie, rifiuta la luce e i suoni, tutti, sono sbadigli, sono grigiore, sono eco.                                                            
Decadenza. Decadenza e crepe. Tutto si sbriciola, tutto scricchiola, tutto vorrebbe aprirsi, dolcemente, per rompersi, crollare e cessare, infine, tutto.                                                                                                  
Forse, un giorno, diventerò polvere a mia volta. Ma non ha importanza. Non ora.                                                                               
Un sospiro, non ho contato quanti ce ne sono stati prima. Troppi, sicuramente. Ma questa volta non c’è pazienza.                                                                             
Quando tutto questo avrà fine?   

***

 “Abbiamo finito”                                                                                     
La mamma guarda il dottore. Ha sempre quel modo di guardare le persone che si occupano di me, come un cagnolino che si aspetta una carezza a rassicurarlo, a dirgli che, sì, andrà tutto bene e che il mondo è semplice, facile, è giocare. Giochiamo.                                
Sembra piccola, sembra una bestiolina che china il capo, docile e sottomessa. Rassegnata. Anche il dispiacere man mano era sfumato e poi: vuoto. La mamma mi aiuta a spostare le gambe oltre il lettino e mi infila i pantaloni. Sono ruvidi e freddi, si sono raffreddati là sullo sgabello nero, poi mi fa indossare la maglietta. Quella è meno fredda ma le cuciture interne sono fastidiose. Col tempo ho imparato a ignorare anche l’umiliazione. Diventa facile, quando non hai scelta. All’inizio camminavo almeno un po’, mi succedeva di parlare, ora invece, con la morte di papà, la morte di Light il mondo mi si era chiuso attorno come un palloncino nero: più cresce più l’apertura a quel che c’era all’esterno si fa piccola, fino a sparire. E un giorno sarebbe successo: il palloncino si annoda. Ma andava bene: nel palloncino nero, almeno, c’era sempre più spazio, più spazio dove accovacciarmi: perché parlare se non avevo nulla da dire? Perché camminare quando non c’era luogo dove volessi andare? Sono morti. Non c’è niente da dire, non c’è posto dove trovarli nuovamente.                                                                             
“Mi spiace signora Yagami, ma Sayu non ha fatto nessun tipo di progresso. In compenso è in perfetta salute fisica” dice il dottore. Si toglie gli occhiali e li infila nel taschino. Il neon gli fa scintillare la pelle umida della fronte e i radi capelli bianchi, mentre si siede dietro la scrivania. Mamma annuisce tende le labbra affossando ancor più le rughe nella pelle morbida, abbassando le palpebre.                                                                            
Il dottore ci accompagna alla porta dello studio, le ruote si muovono sotto la sedia fino a fermarsi davanti all’ingresso, ma invece di aiutare mia madre a sollevare la sedia a rotelle sugli scalini si ferma e la guarda. Poi gli occhi si abbassano e le sopracciglia sembrano vibrare.                                                               
“Signora, come le ho detto non posso fare nulla per aiutare la signorina Sayu, tuttavia le consiglio di rivolgersi una specialista, ecco, ecco…” farfuglia cercando stancamente in una tasca, prende un cartoncino.                                                                                                               
“Si tratta di una psicologa, sono sicuro che si potrebbero ottenere dei miglioramenti” disse.                                    
Il volto di mamma per un attimo si illuminò di speranza, poi la luce si spense e accettò il cartoncino. Comprendevo: nutrirsi di illusioni era doloroso. Dalla psicologa ci andammo per davvero, perché, mi aveva detto mia madre, vanno fatti tutti i tentativi, perché non immaginavo, aveva aggiunto, quanto avrei ottenuto tornando quella di prima. Io, poi, non ero in condizione di protestare. Avevo passato qualche minuto prima di addormentarmi a immaginarmi sul lettino della psicologa che mi mostrava macchie d’inchiostro su carta bianca, ma io non avrei parlato, perché le chiazze scure si sarebbero dischiuse come ali ricoprendomi di buio. Invece quella donna non parlò con me. Non la vidi neppure: volle incontrare solo mia madre e io ascoltai fuori dalla porta dello studio, nella sala d’attesa. Era socchiusa perché non c’era nessun altro.                                                                                                         
“Farla riabilitare in una sede esterna potrebbe farla chiudere ancora di più, per il momento consiglio che i primi passi siano fatti in un ambiente familiare e la ragazza va scossa: le faccia ascoltare della musica, la porti a teatro” aveva detto. E mia madre le aveva creduto perché non esiste vita che quella che si vive, la vita di una persona normale che non si rannicchia dentro un palloncino nero, ma vede amiche, va al bar con un ragazzo di pomeriggio, poi si costruisce una famiglia. Vita non è raggomitolarsi su se stessi. Non per mia madre. Per qualche settimana l’avevo vista fare telefonate davanti all’elenco telefonico chiedendo orari, prezzi e spettacoli e appuntando tutto diligentemente sul squadernino a quadretti dove la psicologa le aveva detto di annotare i passi avanti della sua bambina malata.                                                                                       
“A teatro, tesoro, interpreteranno Medea, penso che potremmo andarci questo sabato” disse con voce dolce e stanca. Più che mai avrei voluto gridare. Mamma, mamma, non ti ricordi? Una volta ero una ragazza, una ragazza normale, che non voleva ascoltare la musica classica che fai esplodere nella mia camera, ma amava i cantanti carini, che non andava a teatro, ma al cinema, una ragazza a cui piaceva, sì, piaceva!, essere guardata con desiderio. Gridare, gridare, gridare. Ma la bocca restava chiusa e la voce bloccata in gola.                                                                                                             
E quel sabato su una poltrona rossa e morbida le luci si spensero e nel buio vidi la donna. Medea. L’attrice aveva i capelli rossi, anzi arancioni e il suo viso era cosparso di lentiggini. Medea.               
Per qualche motivo mi faceva paura: non perché aveva ucciso suo fratello, per amore di Giasone, non perché era una maga, ma per l’odio gelido che aveva nel sapersi diversa e superiore, per la fredda razionalità dei suoi gesti. Per quell’atteggiamento intelligente, ma terribile. Lo vedevo quando muoveva le braccia, quando chinava la testa, quando reprimeva la rabbia mentre il suo uomo la ripudiava per una sposa di rango nobile.                                                                
Il palloncino nero. Il palloncino esplode e il freddo arriva come elettricità. Il mio rifugio! Esploso. E ora. Ho. Paura. Ora ho…

***

Nessun terrore solo sorpresa. Che presto diviene consapevolezza, per mutare ancora. Perché non è più il vuoto asciutto, secco e arido che sento scivolare sinuoso come un serpente dallo stomaco al petto. Non è tensione statica quella che piuttosto esplode lungo la schiena. Non è. Non più.                                                                          
È quello che avevo dimenticato: è euforia. Tale che griderei, mentre il vento sbatte più forte di quanto abbia mai fatto contro il mio viso; mentre il bianco che prima era stata una luce lontana riempie i miei occhi, scotta, li scava, distrugge, grida.                                                          
Sono tornato!
 

***

Medea grida: tutto il suo volto è contorto perché la bocca si apra e un suono terrificante piova in tutto il teatro. Due coni di luce: uno splende su Glauce che si dimena con la veste avvelenata strillando di dolore, l’atro illumina una scalinata e una parete con finestra, Medea grida la sua furia sporgendosi dalla varco rettangolare all’unisono con Glauce, che si irrigidisce, si inarca. Muore. Medea smette di gridare, un movimento spontaneo e rapido come quello di un serpente, quando il collo scivola perché l’attrice volga lo sguardo al pubblico e quello sguardo è di nuovo freddo e fiero e, sono sicura, guarda verso di me. Quegli occhi non sono quelli di una donna, ma di un Dio della morte. Freddi come una colonna di pietra, soffusi come un rimbombo. Medea posa il piede su uno scalino e discende la scale folle e assennata. I passi risuonano appena e terminano con un suono più grave, come se uno strumento musicale stesse accompagnando i suoi piedi e persino l’aria attorno sembra piegarsi.                                                                            
La paura diviene terrore e sento me stessa rantolare. I miei respiri, sono i miei respiri ad assomigliare a dei singhiozzi. “Sayu” dice mia madre. 
“Sayu, amore, è perfetto, è un miglioramento, tesoro”                            
Non capisce, non capisce, Medea è la morte e si sta avvicinando, come acqua che sale finché anneghi. Morta. Annegata.                                                                                       
Lei non capisce che è pericolo: non può sentirmi gridare!                         
Aaaaaah!                                                                                                        
I singhiozzi sono più acuti più forti, una donna si gira a guardarmi e io vedo solo il riflesso bianco del suo sguardo curioso. Medea, invece, ha gli occhi spalancati verso di me.                                  AAAAAAAH!                                                                                         
Potenti e terribili. Poi ci fu il rumore. Le grida degli altri, la gente che si alza in piedi e io che a terra fisso le loro scarpe.                                                
BAM!                                                                                                                              
Anche la mamma sta gridando, il mio sguardo corre per il soffitto, nella mia mente Medea scende le scale con occhi rossi.                                                   
“Yagami bastardi! Dio risorgerà!”                                                       
Attorno a me il panico.                                            
BAM!                                                                                                                    
Non più gli occhi di Medea scintillano di rosso davanti a me, ma gocce che si librano per un istante interminabile fino a cadere sul mio volto. La voce di mamma. Non c’è più.                                                                  
La mandibola trema. Apro la bocca. E grido.                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

  
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