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Autore: Ally Dovahkiin    25/07/2016    1 recensioni
Entrare nella testa di Lysandro per una manciata di giorni nei quali cui il suo universo psicologico si ritrova completamente capovolto a causa di una sola ragazza; vedere in lui sentimenti così contrastanti e, se vogliamo, fin troppo irriverenti per la sua persona: pregiudizio, illogica infatuazione, paranoia e desiderio.
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Ultimo capitolo modificato.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dolcetta, Lysandro
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Incompiuta
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È rinomato che più forti sono i sentimenti che si provano e più le parole faticano ad uscire.
Cosa sono le parole? E perché il loro significato cambia a seconda di chi le dice?

Pagina 13.




 

Mancavano pochi giorni a Natale, l'aria gelida accarezzava i volti portandone via il pallore per lasciar spazio ad un rossastro che tingeva le guance e le punte dei nasi rendendoli così lucidi da potersi specchiare davanti ad essi.

Le nubi che imbiancavano il cielo lasciavano intendere che da qui a poco si sarebbe vista una bella nevicata, era così tanto tempo che non vedevo più la neve, minimo tre o quattro anni. Mentre ci riflettevo realizzavo che era da quando mi ero trasferito in quella città insieme a mio fratello Leigh non l'avevo più vista.

In un certo senso mi mancava, perché il Natale con la neve era così bello. Perché mi ricordava casa e la nostalgia che portava con sé: il camino acceso che donava una flebile luce calda alla stanza, i volti assopiti nella penombra, la vecchia sedia a dondolo di mia madre, il profumo di cannella e nella bocca ancora il sapore di quei biscotti fin troppo friabili, ma che non avevano rivali nei supermercati di città. Speravo di poter tornare da loro durante queste vacanze. Speravo.

Una folata di vento ghiacciato mi avvolse ed io mi strinsi nella mia giacca, mi guardai intorno, il panorama era spoglio, quasi tetro, eppure così straordinariamente tranquillo. Il grigio era il colore che predominava il paesaggio. L'unica nota che mi stonava.

L'avevo sempre considerato un colore così vacuo, non mi ispirava assolutamente nulla, forse quando avevo deciso di tingermi i capelli avevo scelto una sua sfumatura per rendermi in qualche modo anonimo. Non so perché, ma in quel momento mi sembrava la scelta migliore.

Quando varcai il cancello della scuola notai che pochi studenti stavano in cortile, il freddo costringeva le povere anime a rinchiudersi in qualsiasi luogo anche di poco più caldo, sembrava che quel fabbricato chiamato “Liceo Dolce Amoris” sembrasse più accogliente che il grigiore esterno. Il grigio contaminava ogni cosa, si insinuava lieto nelle carni ed intorpidiva gli arti e i cuori.

Appena entrai venni investito da una brezza tiepida di riscaldamento acceso, percepii gli odori quasi amalgamati che provenivano da ogni singolo individuo che prima di me aveva percorso quel corridoio per recarsi in classe. Andai dritto per la mia strada come mio solito, senza guardarmi intorno, senza badare ai luoghi comuni che echeggiavano dalle bocche tenere degli abitanti della scuola. Non guardavo mai niente che potesse non interessarmi, e spesso dato questo lieve pregiudizio davo troppo per scontate cose che in realtà celavano un grande potenziale.

Mi sedetti silenziosamente al mio posto, ultima fila a sinistra vicino alla finestra. Salutai con un cenno le mie compagne Iris e Violet che erano già in classe e persi subito il mio sguardo al di fuori delle mura. Le sentivo vociferare del più e del meno e di come avevano passato il loro fine settimana. Era sempre un piacere sentirle parlare, Iris era così solare, sorrideva sempre, sembrava quasi che la sua vita fosse uscita fuori da uno di quei cartoni per bambini che trasmettevano la mattina presto; anche se in realtà non era proprio così. A volte credevo che fingesse soltanto di sorridere e che fosse un'adorabile falsa. Violet invece era una ragazza molto introversa, parlava sempre quasi sottovoce e qualora non fossi proprio tu il suo interlocutore era quasi impossibile sentirla parlare. La trovavo una creatura interessante, impregnava di sé fogli bianchi rendendoli pezzi della sua vita, un po' come facevo io col mio taccuino.

Mi chiedevo se fossero quelle le parole di noi persone riservate, una specie di linguaggio segreto che custodivamo in un oggetto il quale avremmo protetto anche a costo della nostra stessa vita, ma che in realtà non vedevamo l'ora che venisse decifrato da qualcuno. Qualcuno che ci somigliasse, qualcuno che riuscisse a placare la gelosia che abbiamo verso i nostri sentimenti ed eliminare la paura che qualcuno ci possa ferire, anche se il più delle volte eravamo proprio noi a farlo non permettendo a nessuno – o a pochi scelti – di entrare nel nostro piccolo mondo fatto di emozioni.

Man mano che i minuti scorrevano la classe cominciava a riempirsi. Mi turbò molto il fatto che la riga degli ultimi banchi fosse interamente vuota, c'ero solo io, a sinistra. Mi sentivo quasi scoperto, vulnerabile e non riuscivo nemmeno a ricordare se fosse già accaduto negli anni passati oppure no. Capitava spesso che Castiel, il mio migliore amico, nonché compagno di banco mancasse, e già quella condizione mi metteva un po' a disagio, ma questa era decisamente poco sopportabile.

Diedi uno sguardo al cellulare per vedere l'orario, mancava un minuto alle otto, ed ancora non si vedeva nessuno degli ultimi banchi, fino a quando, proprio sul trillare della campanella è arrivata lei. La nuova alunna di quell'anno.

Vestiva come di norma con lunghi abiti neri, che fossero soprabiti, maglioni, lunghe gonne o pantaloni a sigaretta; ma quello che mi colpiva era la leggerezza che quei vestiti portavano ad ogni suo passo. Sembrava che si vestisse di onde nere le quali si infrangevano contro l'aria ad ogni suo passo per poi tornare da dove erano partite. Era come se fosse un continuo eco di sé stessa. Anche i suoi capelli erano dello stesso colore, li portava raccolti in una coda alta e cotonata dalla quale si liberavano a tratti ciocche lisce ed elettrizzate che svolazzavano ad ogni suo impercettibile movimento. Dinnanzi a tutta quell'oscurità invece la sua pelle risplendeva quasi di luce propria, come la luna in una notte di tenebra senza stelle.

Tutti quando arrivava la fissavano come se fosse la prima volta che la vedevano, io invece non mi ci soffermavo molto sopra, lei non offriva altro che il suo aspetto per farsi conoscere alla gente, lei non comunicava con nessuno, nei mesi che aveva passato nella nostra scuola con noi non avevo sentito proferire dalla sua bocca una sola parola. Si esprimeva solo in poche, rare, occasioni con qualche gesto. La degnai solo di una leggera occhiata, che venne ricambiata subito, mi guardava spesso, ci avevo fatto caso. Ogni tanto sentivo i suoi occhi grigi su di me dal suo banco, fila centrale, sulla destra.

Quando la professoressa arrivò ruppe un po' il vociferare comune, cominciò ad esporre un lavoro di gruppo che avremmo dovuto svolgere per la lezione successiva, il che suscitò un malcontento generale poiché vi erano solo due giorni dall'una all'altra. Lei rassicurò subito i suoi oppositori dicendo che si trattava di qualcosa di estremamente facile, dovevamo scegliere il testo di una canzone ed analizzarlo con il nostro compagno. Rimasi un po' interdetto, la nostra professoressa di letteratura si stava dimostrando forse un po' troppo new age e troppo poco professionale. Non capivo bene quale fosse lo scopo di questo lavoro di gruppo.

Qualora fossi finito con Castiel – cosa quasi inevitabile dato che era il mio compagno di banco – sapevo già che mi sarei trovato a cercare, o inventare, significati satanici celati nelle canzoni degli Iron Maiden, oppure giustificare l'utopia anarchica nei pezzi dei Sex Pistols.

Sospirai e cominciai a scarabocchiare sul mio taccuino cose molto astratte le quali non potevano essere classificate con un nome preciso, erano semplicemente emozioni trasfigurate in linee. Mi piaceva farlo quando non ero abbastanza ispirato per scrivere delle parole significative. Continuai per un po', fino a quando la professoressa, infida come non mai, pronunciò il mio nome e quello della nuova arrivata.

Alzai lo sguardo come d'istinto e la guardai. Dafne, ed i suoi occhi grigi cerchiati di nero che mi stavano fissando con la loro sproporzionata grandezza.

Abbozzò quasi un sorriso con le labbra pallide ma dal suo sguardo era percepibile che avesse voluto farlo con molta più enfasi. Per un attimo un brivido mi percorse le carni fino ad arrivare nelle ossa, era così enigmatica che non riuscivo a capire che genere di persona fosse, sapevo solo che per un'istante la sua espressione mi agghiacciò; ma non era solo quello il problema. La domanda che mi stavo porgendo in quel momento era come avrei fatto a comunicare con lei dato che non parlava. Oddio i suoi voti erano a dir poco brillanti, anche se per lei ogni interrogazione era come una verifica alla cattedra: il professore domandava e lei scriveva su di un foglio.

Trovavo curioso però quanta fiducia affidava nel professore d'inglese, al quale portava una chiavetta USB con le registrazioni dei brani che leggeva. Tante volte vedendo quella chiavetta e il professore con le cuffie mi era venuta la curiosità di sapere come fosse la sua voce. A guardarla non mi veniva in mente nulla, effettivamente data la sua figura non riuscivo a stereotiparla in alcun modo.

Poggiai il mento sul palmo della mano e sospirai chiudendo gli occhi, per quanto non ero entusiasta di rimanere del tempo da solo con quella era mio dovere farlo. Voltai ancora lo sguardo verso di lei, mi stava ancora fissando e le diedi un contentino, le regalai un piccolo sorriso, così incredibilmente piccolo e falso del quale sembrò non esser soddisfatta.

Alla fine delle lezioni la fermai poco prima che uscisse dall'aula, presi un po' di coraggio e cercai di non sembrarmi troppo patetico per cercare di parlare ad una che nel migliore dei casi mi avrebbe risposto con un gesto.

«Ciao...» allungai un po' l'ultima vocale un po' imbarazzato «Dafne» conclusi secco.

Non sapevo bene come muovermi, per me era già decisamente difficoltoso parlare con qualcuno con il quale non avessi confidenza, in quella condizione poi, già mi immaginavo le fragorose risate che si sarebbe fatto Castiel quando glielo avessi raccontato, se e solo se avessi deciso di farlo.

Lei allungò la sua bocca con un'innocenza così inaspettata che io non potei fare a meno di distogliere lo sguardo per quell'istante, tuttavia la ritenevo ancora un'astuta calcolatrice e lo sgomento che mi creava rimaneva tale e quale a quello che avevo sempre percepito quando ero vicino a lei.

«Ti sta bene se per il progetto ci incontriamo qui al liceo verso il tardo pomeriggio? Prima avrei da fare» mentii spudoratamente, forse volevo solo del tempo per prepararmi psicologicamente.

Annuì piegando la testa da un lato e socchiudendo gli occhi, quando li proiettò ancora sui miei mi sembrarono ancora più grandi e nevrotici di un secondo prima. Li fece roteare per un po' accompagnandoli con un movimento della testa e poi mi indicò l'orologio che portava al polso.

«L'orario? Emh… beh, le diciotto?» dissi per poi mordermi l'interno della guancia «Nathaniel mi ha dato le chiavi già altre volte, non credo che farà eccezione questa volta, dobbiamo solo essere discreti».

Dafne mi diede la conferma con la mano e poi mi accarezzò la guancia, il suo arto gelido percorse lentamente il mio viso, mentre, sempre con gli occhi mi salutò e se ne andò via per il corridoio con lo stesso leggiadro andamento con il quale era arrivata.

 

Mentre tornavo a casa non riuscivo a togliermi dalla testa quelle due sfere grigie, avevo ragione quando dicevo che era un colore contaminante, vacuo, triste.

Dopo pranzo Rosalya, la ragazza di mio fratello, fece tappa nel nostro appartamento. Cercai il più possibile di passare inosservato ma niente sfuggiva alle sue iridi feline e, vedendomi turbato, mi chiese se dovevo metterla al corrente di qualcosa. Cercai di essere vago, ma non era una tattica attendibile con lei, che volle sapere ogni cosa di quella mattinata a scuola. Così non ebbi altra scelta che ricordarle che ero stato messo nel gruppo con Dafne, la ragazza nuova, decisamente ambigua, che mi metteva sempre una certa inquietudine ogni volta che la incontravo. Le raccontai del suo comportamento insolito, dato che tutte le altre volte si era limitata solo a fissarmi di tanto in tanto.

Lei assottigliò lo sguardo e si fece strada fra i capelli argentei con le dita, il suo portamento deciso non si scompose di un grado, ma si vedeva che stava elaborando qualcosa nella sua mente scaltra.

«È semplice, le piaci!» sbottò lei.

Io ne rimasi impietrito e mio fratello ridacchiò un po' dall'altro lato della stanza, il quale era tangibile che non voleva metterci becco, tuttavia, non poteva fare a meno di ascoltare. Dal canto mio, non feci altro che arricciare il naso e abbassare lo sguardo sconvolto.

«Perché fai quella faccia? Dovresti esserne contento! È una bella ragazza alla fine, certo avrebbe bisogno di una piccola revisionata al guardaroba, ma anche con quegli abiti funebri fa la sua figura» trillò sorridendomi maliziosamente «magari in cuor suo sogna che tu possa diventare il suo Apollo!» concluse sognante.

Mi chiesi se Rosalya avesse capito a fondo il mito, ma decisi di non starci troppo a ricamare sopra, dovevo smorzare il suo entusiasmo prima che fosse troppo tardi. Magari poteva anche avere la brillante idea di organizzare un appuntamento al buio o cose del genere, era da troppo tempo che desiderava accompagnarmi con qualcuna e non riuscivo a spiegarmi come capisse che quella fosse la ragazza giusta per me.

«Rosalya, sai, nel mito è Dafne che fugge da Apollo, non il contrario» dissi un po' lagnante e sottovoce.

Lei si protese squadrandomi dall'alto al basso con diffidenza, così non ebbi altra scelta che essere cristallino.

«Rosa» dissi facendo un gesto deciso, come per stoppare bene le mie parole nella sua mente «Dafne non è Nina. Credo che sia una nevrotica da trattamento sanitario obbligatorio. Tu… tu non fai caso a come mi fissa, a come cerca di seguirmi inosservata. Lei mi spaventa, sul serio» conclusi diretto.

Sentendo quelle parole lei si allontanò quasi disgustata dalle mie parole, sembrava che avessi detto la peggiore delle ingiurie quando in realtà mi ero semplicemente limitato ad esporre la realtà dei fatti dal mio punto di vista. Lei sembrò non aver recepito questo dettaglio e mi girò le spalle dirigendosi verso la porta.

«Dimmi Lysandro, quante persone sanno che Leigh della boutique in centro è tuo fratello?» disse senza voltarsi con la mano poggiata sulla maniglia.

Aggrottai le sopracciglia e piegai la testa da un lato non trovando quella domanda nemmeno lontanamente pertinente alle mie precedenti parole.

«E quanti sanno che i tuoi genitori abitano in campagna e tu abiti qui con tuo fratello? Quanti sanno, o almeno si possono immaginare, cosa ci sia scritto dentro quel taccuino che porti sempre con te? Dimmi… quante persone sanno cosa ti ha portato ad essere quello che sei oggi? I tuoi gusti, le tue idee, i tuoi sogni… riflettici».

Detto quello aprì la porta e se ne andò via. Mi girai verso Leigh che mi fece spallucce come per dire che lui in queste faccende non voleva entrarci, scelta che approvavo a pieni voti.

 

Le parole di Rosalya sembravano non voler darmi pace, tanto che mi stesi sul letto e cominciai a rifletterci, sapevo benissimo cosa intendesse, ma non pensavo fosse il caso di Dafne, anche se in tutta onestà ci stavo male. Mi sentivo una persona oscena. Aveva saputo giocare bene le sue carte, quindi me ne stavo lì a fissare il soffitto con aria smarrita con un grande peso sul cuore e un nodo alla gola, fino a quando le mie palpebre non divennero così pensanti che non riuscii più a sorreggerle.



***
Spazio Autrice:


Beh, se non si fosse notato questa è una Lysandro (o Lysandre che dir si voglia) centric. Adesso io non sono chissà quanto brava con la prima persona, però ho cercato di sbrogliarmela meglio che potevo, anche se riguardando il resto della storia mi sto già odiando per questo!
Bene, detto questo spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto! Grazie mille per aver speso il vostro tempo con la mia storia (: .

P.S. il personaggio di Dafne è leggermente ispirato a Lydia Deetz, un personaggio immaginario del film Beetlejuice di Tim Burton.

 

   
 
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