“Tom… ho fatto un brutto sogno.”
Mi sveglio sentendo le sue manine sul braccio, che mi scuotono. Lo guardo a gattoni accanto a me, sbadiglio e poi gli sorrido.
“Davvero? Tanto brutto? Tanto brutto da svegliarmi alle…” guardo veloce l’ora sul comodino, “Alle quattro di notte?” scherzo, per lui mi alzerei a qualsiasi ora della notte. “Vuoi un bicchiere di latte?”
Lui
annuisce con la testa, sorridendomi. Che bel sorriso, tutto sua madre.
Mi alzo
e lo prendo in braccio, tenendolo forte, rassicurandolo,
rassicurandomi,
proteggendomi da quel ricordo ormai lontano, ma che ferisce ancora.
Andiamo in cucina. Apro il frigo e gli verso il latte nel bicchiere. Glielo do e lui beve. Va a finire come sempre che ne beve metà neanche, quindi devo finirlo io. Lo guardo come per dire: “Siamo alle solite…”, poi butto giù il latte da lui avanzato. Ridacchia, cercando di non farsi vedere, coprendosi la bocca con la mano. Quando finisco di bere, metto il bicchiere nel lavandino e mi siedo sul divano con lui tra le braccia. Si accoccola e accarezzando un mio rasta si addormenta. Lo guardo dormire, sento il suo respiro e il suo battito regolare.
Decido di alzarmi e di portarlo di nuovo in
camera. Sorrido passando davanti alla camera di Bill, al buio. Lo vedo
tutto
storto nel letto, le coperte che toccano per terra, mentre la pioggia
picchietta contro il vetro della finestra, qualche lampo attraversa
l’oscurità,
per poi far ritornare il buio della notte. Passo oltre e metto Daniel
nel mio
letto, dov’era prima, gli rimbocco le coperte e poi mi siedo
nella mia parte
del letto. Mi prendo il viso tra le mani, poi lo guardo ancora dormire,
il suo
petto che si alza e si abbassa tranquillo, sereno. Guardo fuori dalla
finestra
e i ricordi mi travolgono, mi trafiggono il cuore ancora, ancora una
volta.
Anche quella notte pioveva.
Eravamo
tutti nel nostro camerino, dopo un concerto, come
sempre. Solo che, mentre parlavamo come sempre, ancora con
l’adrenalina a
mille, la porta venne sbattuta sulla parete e tre tizi con
passamontagna e
pistole in mano entrarono facendoci spaventare.
“Mani in alto, e che nessuno gridi.”
Il tizio
che aveva
parlato rimase fermo in mezzo alla porta e con un cenno del capo diede
il via
agli altri due, che corsero subito davanti a me e a Bill. A noi due.
Inseparabili come sempre. In quel momento avrei dato di tutto
perché non
fossimo così inseparabili, così uniti dal
destino. Destino che a volte poteva
essere maledettamente stronzo.
“Non muovetevi” disse ancora il tizio fermo alla porta, quello che dirigeva il tutto, a Gustav e Georg.
Sentii qualcosa di freddo alla tempia, un brivido mi percorse lungo tutta la schiena, facendomi guardare subito verso Bill. Anche lui mi stava guardando, terrorizzato con la pistola puntata alla tempia. Io annuii con il capo, cercando di rassicurarlo, di dirgli che sarebbe andato tutto bene.
Il tizio che mi teneva fermo aveva una presa forte, quasi non mi faceva respirare con il braccio che avevo intorno alla gola. Guardai anche Gustav, poi Georg. Nei loro occhi si leggeva chiaramente la paura. Ma anche io ne avevo, e tanta.
Mi sentii trascinare indietro dal tizio, mentre il capo diceva: “Non vi preoccupate per i vostri amici, se farete ciò che vi diremo non si faranno nulla. Ma se non sarà così…” si passò il pollice intorno alla gola. Io mi sentii mancare l’aria, il tizio aveva stretto ancora intorno al collo.
“Ci faremo vivi noi, ma vi ricordo che se non farete i bravi… potete anche scordarvi di rivedere i vostri amichetti, ok?” Indietreggiò non abbassando mai la guardia, tenendo la pistola puntata. Indicò ai due di andare, che li avrebbe protetti lui.
I tizi ci strattonarono e ci fecero camminare fino a fuori dall’arena, da un’uscita secondaria. Mentre attraversavamo i corridoi, vidimo tutte le guardie, le persone che c’erano lì, anche per le semplici pulizie, tutte a terra, addormentate. Si sentiva ancora l’odore del gas nell’aria.
Ecco come hanno fatto ad arrivare fino a qui, ‘sti bastardi… pensai.
Non
potevo
smettere di guardare Bill ogni volta che potevo, per vedere se stava
bene, se
quel tizio lo trattasse male. No, il tizio sembrava meno robusto di
quello che
avevo io. Forse Bill se la passava meglio di me.
Non mi
ero nemmeno accorto che pioveva. Me ne accorsi appena
usciti dall’arena, sbucati in un vicolo buio. Pioveva,
pioveva forte. Gocce
grosse che colpivano, che mi bagnavano.
Possibile che ancora nessuno sia venuto qui? Già, quando Gustav e Georg saranno usciti dal camerino avranno visto anche loro la strage che hanno fatto ‘sti stronzi con il sonnifero. Ma porca troia…
Ci scaraventarono sul furgone posteggiato lì di fronte, già pronto. Nulla era improvvisato. Il sonnifero, il furgone… Tutto era stato premeditato in precedenza. Chissà quanto tempo prima. Ore, giorni, mesi… E tutto questo perché?
Guardai Bill mentre mi legavano i polsi con una corda, che quasi me li segò da quanto il tizio aveva stretto forte. Aveva gli occhi lucidi, era spaventato da morire.
Ho paura anch’io, fratellino.
“E ora andiamo a farci un bel giretto, eh?” disse il capo.
Erano tutti e tre davanti, noi dietro. Quando partimmo, sentii le ruote girare sotto di noi e il metallo vibrare. Mi spinsi verso Bill, mi misi appoggiato alla fiancata in metallo accanto a lui.
“Come va?” gli chiesi sottovoce. Era tutto bagnato, i capelli che gocciolavano sulle spalle, il trucco sbavato sotto agli occhi.
“Come credi che vada?” mi rispose, sull’orlo del pianto.
“No, Bill, non piangere, ti prego.”
Si mise
con la faccia tra la mia spalla e il mio
collo, soffocando i singhiozzi nella mia felpa. Lo sentivo tremare al
mio
fianco, e mi sarebbe piaciuto poterlo abbracciare, stringerlo forte, ma
tutto
questo non era possibile. Avevamo entrambi i polsi legati, che facevano
male.
Ma il dolore non era niente in confronto alla paura che avevamo.
I tre davanti non parlavano, stavano in silenzio. Era tutto così preparato che non avevano bisogno di chiedersi niente. Bill aveva smesso di piangere, le righe tracciate dalle lacrime sulle sue guance però erano rimaste, si erano trascinate dietro anche un po’ di matita.
“Tomi ho paura…” tremolò, stringendosi di più al mio fianco.
“Anch’io,
anch’io.”
Cazzo. Cazzo e ora? Che
si fa? Dove ci portano? Cosa
vogliono da noi? Perché noi? Cos’hanno in mente?
Il
furgone si fermò, io e Bill cercammo subito di guardare
fuori dalla finestrella che ci divideva dai tre malviventi, ma non ci
riuscimmo. Sentimmo due scendere, il capo e uno dei complici.
L’altro era
rimasto nel furgone per partire subito dopo. Dopo circa due minuti, la
portiera
in fondo al furgone si aprì di colpo e il tizio grosso
lanciò dentro un’altra
persona. Le porte si chiusero e i due tizi ritornarono seduti ai loro
posti,
non parlando. La persona che avevano lanciato dentro era una ragazza,
castana,
con i capelli raccolti in una coda, gli occhi scuri.
“Avete
visto? Ho pensato di portarvi un po’ di compagnia, se
magari vi sentiste soli. E poi non dite che non sono bravo,
eh.”
Crede di essere
spiritoso? Stronzo. Che vuoi da noi?
La ragazza si tirò su a fatica e si appoggiò sulla fiancata di fronte a noi, chiudendo gli occhi e respirando profondamente. Era anche lei tutta bagnata e le si vedeva il reggiseno nero sotto la camicetta azzurra che indossava, sotto una giacca blu slacciata, coordinata alla gonna lunga fino alle ginocchia. Chiuse le gambe e le tenne di lato.
“Tutto bene?” le chiesi. Lei aprì gli occhi e ci guardò.
“Si,
più o meno. Che ci fate qui?”
“Penso
per il tuo stesso motivo. Comunque io mi chiamo Tom,
lui è Bill, mio fratello.”
“Piacere, Kiara. Vorrei stringervi la mano, ma… non possiamo…” indicò i suoi polsi legati davanti al viso. Al contrario di noi, lei le aveva legate davanti, invece che dietro la schiena come noi.
“Kiara,
con la
‘K’?”
“Si, Kiara con la ‘K’.”
Aveva
davvero un bel sorriso. Riuscì
a strapparne uno anche a me, anche in una situazione come quella.
“Ma… Bill e Tom… dei Tokio Hotel?” chiese.
“Si
noi.”
“Ahhhh…
ecco perché mi sembrava di avervi già visti da
qualche parte!”
“Si, e se non stai zitta non li vedrai più. Chiaro?” disse il capo da davanti, abbastanza innervosito.
“No, io mi chiamo Kiara, con la ‘K’, non ‘chiaro’. Mamma non ti ha insegnato un po’ di educazione?” rispose lei di rimando, alzando la voce.
Temetti che ci facesse fuori, ma non successe. Guardai Kiara tutta soddisfatta.
Che forte… Bel
tipo la ragazza.
“Quanti anni hai?” le chiesi.
“Ventitrè.”
“Ah,
wow… Ne dimostri di meno.”
“Lo prendo come un complimento. Grazie.”
Bill
sembrava muto,
non spiccicava una parola. Forse pensava già al peggio,
aveva troppa paura. Mi
strinsi più a lui, cercando di dargli forza.
“Spaventato?” chiese Kiara, guardando Bill. Lui annuì impercettibilmente con la testa.
“Anch’io” disse, facendo scomparire il suo sorriso.
Si
strinse le gambe al petto e si guardò i polsi legati.
Avvicinò la corda
alla bocca e cercò di tagliarla con i denti, ma il nodo era
troppo stretto, non
ce la faceva. Così mi guardò e sorrise, anche se
dietro quel sorriso, quel
tentativo di stare tranquilla, si nascondeva la paura che avevamo tutti
quanti,
chi la faceva vedere di più, chi di meno.
“Ci dite dove stiamo andando?”chiese Kiara, dopo troppo tempo chiusi lì dentro, troppo tempo in viaggio, sembrava passata un’eternità.
“Andiamo in un bel posticino” rispose il capo.
Lo trovai odioso, forse tanto quanto lo trovò Kiara, che digrignò i denti e poi sbuffò.
“Che pensate di farci? Di chiedere un bel riscatto e poi di ammazzarci comunque, oppure siete buoni e dopo il riscatto ci liberate? Oppure ci terrete segregati per il resto dei nostri giorni, torturandoci per divertimento?”
Sentii Bill tremare di più al mio fianco, chiudendo gli occhi.
“Stai zitta ragazzina. Stai zitta” rispose duro il capo.
“Perché? Perché fate questo? C’è un motivo?” sembrava più ragionevole ora, dolce.
“Non capiresti” le rispose lui schivo.
“Che
ne sai,
forse si. Prova.”
“Ti ho detto di stare zitta!”
Chiusi
gli occhi e mi strinsi
a Bill. Li riaprii e vidi Kiara seria, colpita a fondo. La guardai in
silenzio,
rapito dalla sua bellezza. Era davvero bella, nel fiore dei suoi anni.
Magari
la sua vita sarebbe finita di lì a poco, come la nostra,
chissà. Ma, se proprio
sarebbe dovuta finire, sarei stato felice di aver passato le ultime ore
della
mia vita con una ragazza così bella, così piena
di vita, allegra anche in una
situazione come quella.
“Devo andare in bagno” disse ancora Kiara, sbuffando.
“Te
la
tieni.”
“E se non ce la facessi più?”
Il capo si girò e la guardò dalla finestrella. Rimase un attimo a riflettere, guardandola, poi si girò verso i complici e disse: “Ok, tra un po’ ci fermiamo.”
Kiara nascose un sorriso mordendosi il labbro. Si tirò sulle ginocchia e barcollò verso di noi. Si mise accanto a me e mi fece girare di schiena. Iniziò a cercare di sciogliermi i nodi ai polsi.
“Ascolta…” mi sussurrò all’orecchio, “Abbiamo poco tempo. Semmai dovessi riuscire a slegarti sto cazzo di nodo… appena aprono le porte tu li prendi di sorpresa e salti giù con Bill, ok? Non guardatevi indietro, non pensate a me, me la caverò. Ok, siamo d’accordo?”
Bella, allegra e intelligente. Fino ad allora era perfetta.
“No, ma che sei matta? Non ti lasciamo qui!” le sussurrai io.
“Ma sei matto tu a non sfruttare questa occasione. Non si fermeranno più dopo, questa è l’unica possibilità che avete. Lo capisci?”
Troppo tardi, cioè troppo presto si erano fermati.
“Merda…” disse lei, affrettandosi a cercare di sciogliermi i polsi.
Non ce la fece, i malviventi aprirono le porte e la beccarono in flagrante.
“Cosa stai facendo, puttana?!”
La presero in due e la scaraventarono dall’altra parte del furgone. Il capo la tenne ferma per un braccio e con l’altra mano la schiaffeggiò in viso più volte.
“No, lasciala stare!” gridai io, ma era come se non mi sentisse.
Notai il sangue sotto le unghie di Kiara, da quanto si era sforzata per sciogliere il nodo della corda che mi teneva uniti i polsi. E mi sentii maledettamente in colpa quando la vidi con le guance rosse, quando finalmente il capo si stancò di prenderla a schiaffi. Kiara si asciugò del sangue uscitole dal labbro con il dorso della mano, piangendo dalla rabbia.
I tre erano tutti giù dal furgone, sotto la pioggia, davanti a noi che ci controllavano e decidevano sul da farsi, mentre il capo si fumava una sigaretta coprendola con la mano. Guardai Bill al mio fianco, praticamente paralizzato. Kiara si asciugò le lacrime sul viso e tirò su con il naso.
“Tutto ok?” le chiesi. Lei annuì con la testa, cercando di sorridere, senza successo.
“E
ora?” chiesi incazzato al capo. “E ora cosa
volete farci?! Siete solo dei vigliacchi!”
“Stai zitto ragazzino.”
Fece l’ultimo tiro e lasciò cadere a terra la sigaretta, che si spense da sola con la pioggia.
“Ehi capo, che ne dici se mi diverto un po’ con la ragazza?” chiese uno dei complici, quello meno muscoloso.
Io guardai Kiara, che guardò il tipo impaurita, sgranando gli occhi.
“Ma si, va’. Te lo meriti.”
Il tizio sorrise, un sorriso maligno, e salì sul furgone, guardando Kiara. Lei indietreggiò sempre di più verso l’angolo, fuggendo.
“No, non ti avvicinare, lasciami stare!” gridò.
“Lasciala stare, non la toccare o io…” mi ricordai di avere i polsi legati.
“O tu che fai?” Il tizio aveva tirato fuori anche la pistola, me la stava puntando.
“Ehi, non ti ho dato il permesso di giocare con la pistola. Gli ostaggi ci servono. Tu divertiti solo con la ragazza” intervenì il capo.
Il tizio mise via la pistola e si rivolse verso Kiara, più impaurita di prima. Avvicinò il suo viso a quello di Kiara.
“Peccato che il tuo visino si sia rovinato così…” le prese il mento, mentre lei cercava di divincolarsi, la rabbia sul volto. “Ma te la sei cercata… Non si prende in giro il capo.”
Il tizio tentò di toccare Kiara in mezzo alle gambe, ma lei le chiuse intrappolandogli la mano tra le ginocchia e gli sputò in faccia, centrandolo in un occhio. Nel momento in cui lui liberò la mano per pulirsi gli occhi, bestemmiando, lei ne approfittò e gli tirò un calcio in mezzo alle gambe, facendolo piegare in due. Poi lo spinse indietro, facendolo cadere giù dal furgone, in una pozza.
Il tizio si rialzò urlando, rosso in viso dalla rabbia. Corse con la mano alla pistola e la puntò verso Kiara, ferma immobile, come se quella fosse una sfida. Ebbi paura per lei.
“Io ti faccio fuori, brutta stronza!” disse il tizio, urlandole contro sotto la pioggia.
“Fallo, se ne hai il coraggio” fu la sua risposta.
Sentii Bill rabbrividire al mio fianco.
I due si guardarono, occhi negli occhi, fino a quando il capo non abbassò la pistola in mano all’altro, rivolgendola a terra.
“Non voglio morti, chiaro?” disse, poi diede comando di chiudere le porte. Loro obbedirono e le chiusero sbattendole, così forte da farci chiudere per un attimo gli occhi.
Quando il furgone si rimise in movimento, e tornò quel silenzio angosciante, Kiara ci guardò ed ebbe la forza di sorridere. A quel punto mi chiesi davvero da dove la prendesse quella forza, chi gliela dasse.
“Quanti anni avete?” ci chiese, mettendosi di nuovo seduta accanto a me.
“Diciotto.”
“Tutti
e due?”
“Si, siamo gemelli.” Ci guardò e sorrise.
“Ah, ecco perché vi somigliate così tanto!” rise, coprendosi la bocca con le mani.
Wow… Fu l’unica cosa che mi venne in mente. Era davvero stupenda, in tutto.
“Che ore sono?” chiese ai malviventi davanti.
“L’una e mezza” rispose il capo con noncuranza.
“L’una e mezza…” ripeté a bassa voce, guardando verso il basso con lo sguardo vuoto, immersa in chissà quali pensieri. Avrei tanto voluto leggerle la mente, mi sarebbe piaciuto sapere se dietro quei sorrisi, quelle risate, c’era davvero la paura che provavamo io e Bill.
“A che pensi?” ero troppo curioso. Mi guardò e mi sorrise con dolcezza.
“A
Daniel.”
“E chi è? Il tuo ragazzo?”
Lei sorrise e scosse la testa, ridendo piano, “Il mio bambino.”
Mi aveva colto all’improvviso, non avrei mai pensato che potesse avere un figlio alla sua giovane età, e poi, a dirla tutta, ad aver mantenuto quel fisico da ragazzina.
“A
quest’ora dovevo già essere a
casa da lui, la mia vicina si starà preoccupando, visto che
dovevo tornare
un’ora fa” disse con amarezza.
“State zitti là dietro!” disse il capo, sta volta innervosito.
Lei gli fece una linguaccia, tanto non poteva vederla, mi fece l’occhiolino e poi continuò sorridendo, sussurrandomi all’orecchio: “Ha tre anni, è davvero stupendo.”
Sentii
il suo fiato sul collo, il suo profumo dolce,
le sue gambe che sfioravano le mie. Un nuovo brivido mi percorse lungo
la
schiena, ma non era per Bill, no, era per lei che mi stava accanto,
sentivo…
sentivo di volerle bene, anche se non la conoscevo così
tanto da poterlo dire
con assoluta certezza. Però, era il cuore a dirmelo. Il mio
cuore che batteva
veloce, un po’ per la paura, un po’ per lei.
“Davvero?” le chiesi, ancora non del tutto convinto.
“Te lo giuro” si portò le mani sul cuore.
Si appoggiò con la schiena alla fiancata e rimase in silenzio, a guardarsi intorno. Forse pensando la stessa sua cosa, mi diedi un’occhiata in giro cercando qualcosa di affilato per slegarmi i polsi. Non ce la facevo più, facevano sempre più male. Tentavo di distrarmi pensando ad altro, ma diventava sempre più difficile talmente era forte il dolore.
Chissà Gustav, chissà Georg… Chissà mamma, chissà papà… se li rivedrò mai. No, non ci devo pensare.
Scacciai via quei pensieri e continuai nella mia ricerca, come lei. Non c’era nulla. Nulla con cui tagliare quelle cavolo di corde. Nulla. Erano davvero organizzati, avevano preparato tutto quanto nei minimi dettagli. Però… c’era qualcosa che non tornava. Perché avevano preso Kiara? Perché lei? Non potevo non farle quella domanda.
“Ehi, come mai sei qui?” Lei mi guardò e poi si guardò la divisa bagnata.
“Io faccio la cassiera, turno serale. Il tizio, quello grosso, era entrato con il capo per prendere qualcosa ed ero da sola. Così, oltre che a prendere quello che gli serviva, hanno preso i soldi e… me. Non so perché.”
Mi ritornarono in mente le parole del capo, appena aveva sbattuto dentro Kiara: «Avete visto? Ho pensato di portarvi un po’ di compagnia, se magari vi sentiste soli. E poi non dite che non sono bravo, eh.» Mi venne la pelle d’oca, una sensazione di colpevolezza mi attraversava tutto, da capo a piedi. Mi sentivo veramente in colpa. Se le fosse successo qualcosa…
“Perché me lo chiedi?” disse, distraendomi dai miei sensi di colpa.
“Niente.”
“Ah, ok.”
La guardai ritornare a guardarsi le scarpe basse, bagnate. Pian piano si appoggiò con la testa alla mia spalla. La sentii tremare. Doveva aver freddo.
“Cavolo, ti avrei dato la felpa…” mormorai, conquistandomi un suo sorriso.
“Grazie, non importa.”
Aveva i capelli umidi, che mi sfioravano delicatamente la guancia. Ad un certo punto, mi guardò negli occhi, e aveva la faccia di una che aveva appena avuto un’idea geniale, tanto da gridare: “Eurekaaaaa!”. Con le mani andò a prendere il suo cellulare nella tasca.
“Perché non ci ho pensato prima!” sussurrò, sorridendo. Appena lo prese in mano, quel suo sorriso lasciò spazio ad un’espressione demoralizzata. “Cazzo, non prende qui dentro.” Se lo appoggiò sulle gambe e mi guardò triste. “Tu hai il cellulare? Magari è il mio che è scemo…”
Mi dispiacque dirle di no, che ce l’avevano subito preso i due complici del boss. Altra delusione sul suo volto.
“Vabbè, io ci ho provato…”
Si
rimise appoggiata alla mia spalla, nella
stessa situazione di prima, il cellulare abbandonato di nuovo in tasca,
inutilizzabile.
“Sei molto bello, sai?” mi disse, guardandomi dalla mia spalla.
Mi soffermai sulle sue labbra, quel suo sorriso, in effetti erano molto vicine alle mie ora che ci facevo caso. Sentivo il suo respiro contro il mio.
“Grazie, anche tu” dissi, ricambiando il sorriso.
“Hai
la ragazza?”
“No,
purtroppo no. Tu? Hai detto che hai un bambino, no?
Suppongo tu sia…”
“Sposata?”
“Si,
mi hai rubato le parole di bocca.”
“No,
non sono sposata.”
“Allora
come…?”
“Sai com’è… errori. E a volte non siamo disposti a prendere le responsabilità delle nostre azioni. Però… io le ho prese. E, ti giuro, rifarei quell’errore mille e mille volte ancora. Nessuno può darmi tutto quello che mi da Daniel, amo mio figlio. È la cosa più bella che mi sia mai capitata.”
Ne parlava con una strana luce negli occhi, la luce dell’amore che solo una mamma può avere verso il proprio figlio. Mi sorrise e si strinse di più a me, infreddolita.
Bill sembrava che non esistesse, non parlava, muto come un tomba.
Troppa paura, pensai.
Sapevo che era vivo solo grazie al suo respiro e al suo cuore che batteva in simultanea al mio. Lo guardai appoggiandomi con la testa alla fiancata. Gli sorrisi, chiudendo gli occhi.
“Io amo una persona in modo particolare…” dissi a Kiara ma guardando Bill, che per la prima volta sorrise.
“Tomi…” mormorò, lasciando scivolare sulla guancia una calda lacrima, contenente gioia mista a paura, paura che qualcuno potesse dividerci.
“Nessuno ci dividerà mai, lo sai questo, vero?”
Annuì con la testa, facendomi un piccolo sorriso.
“Ich will da nicht allein sein, lass uns gemeinsam… In die Nacht…” canticchiai, guardandolo dolce. Lui mi regalò un nuovo sorriso e canticchiò a bassa voce con me: “Irgendwann wird es Zeit sein, lass uns gemeinsam… In die Nacht…”
In quel momento, il furgone si fermò e noi rimasimo col fiato sospeso, in ascolto di qualsiasi suono. Il capo e il tizio accanto a lui scesero, mentre rimase con noi quello al volante. Tornarono qualche minuto dopo. Il capo aprì una portiera in fondo al furgone e saltò su, sedendosi di fronte a noi, con un sacchetto in mano, mentre l’altro si mise al suo posto davanti. Il furgone ripartì e noi rimasimo tutti in silenzio a guardare il capo.
“Avete fame?” ci chiese. Negammo tutti con un leggero movimento della testa, senza l’utilizzo di parole. Il boss alzò le spalle.
“Sete?” chiese allora.
“No.” Kiara fu l’unica a parlare.
“Siete sicuri? Guardate che non ho avvelenato niente, mi servite.” Guardammo il capo bersi una birra.
“A cosa? A cosa ti serviamo?” chiese Kiara. Il capo si asciugò la bocca con la manica della felpa nera e la guardò. “Soldi?” ipotizzò lei.
“Si” disse lui, senza più e senza meno.
“Perché?
A che ti servono?”
“Non
capiresti.”
“Mi
credi una deficiente? È già la seconda volta che
lo
dici. Beh, non sono così stupida da non capirlo. Magari ti
possiamo aiutare se
solo…”
“Se
solo cosa?! Tu non capisci! Non puoi capire!”
“E allora spiegati!” urlò Kiara. Ci furono attimi di silenzio, c’era elettricità nell’aria. “Per favore, dimmelo. Non credo tu lo stia facendo, stia rischiando di essere gettato a marcire in prigione, per un motivo stupido. Qual è il motivo per cui lo stai facendo?” Kiara era dolce, proprio come una mamma. Sembrava che anche il capo si fosse sciolto un po’ all’udire le sue parole.
“È…
è per… mio figlio.”
“Spiegati
meglio, ti prego.”
“Mio
figlio, ha un cancro. Sta morendo, e non ho i soldi per
curarlo, per farlo rimanere in vita ancora per un
po’… È… è ancora
così
piccolo…” Il dolore di un padre, pronto a tutto
per amore di suo figlio, anche
di fare una cosa del genere.
“Anch’io
ho un bambino, si chiama Daniel, ha tre anni. E
questo non è il metodo adatto con cui affrontare la cosa.
Non c’è davvero
nessuno che ti possa aiutare?”
“No,
nessuno.”
“Ok. Comunque non è così che si fa. Pensa a tuo figlio, pensa a cosa proverebbe se sapesse che stai facendo una cosa del genere: rapire tre persone. Sarebbe più contento di morire con un padre sempre accanto, che lo ama, che non fa cose sbagliate, anche se per il suo interesse…”
Il capo si alzò in piedi, furente. Prese la pistola in mano, la puntò contro Kiara.
“Stai zitta! Stai zitta! Tu non puoi capire! Sei solo una ragazzina! Sono cose che non puoi capire! Stai zitta!” Gli tremava la mano, non aveva la forza di sparare. La abbassò e se la rimise nella tasca dietro dei pantaloni. “Fermatevi” ordinò ai due, che senza fiatare eseguirono i comandi.
Il
furgone si fermò e il capo
uscì, sotto la pioggia, e andò a sedersi accanto
ai colleghi. Il furgone
ripartì e noi ci guardammo in silenzio, un po’ in
pena per lui, ma, come aveva
detto Kiara, quello non era il metodo adatto ad affrontare la
situazione, lo
stava prendendo come un atto eroico, per salvare suo figlio, non
rendendosi
conto che non lo era, che faceva solo del male ad altri che non
centravano
nulla.
Kiara si passò le dita sotto gli occhi, afflitta. Mi guardò negli occhi. Ci guardammo per diversi secondi, senza fiato, occhi negli occhi, persi in un qualcosa a noi sconosciuto. Eravamo talmente vicini che riuscivo a vedere le sfumature dei suoi occhi scuri, a coglierne ogni stato d’animo, ogni più piccola e insignificante emozione. Sentii il suo respiro accanto al mio, caldo e tranquillo. Guardai le sue labbra rosse naturali, ne rimasi affascinato. La guardai di nuovo negli occhi e li chiusi avvicinandomi a lei, alle sue labbra, ma il furgone curvò all’improvviso costringendomi a ricompormi, come se quello fosse stato un segnale dal cielo, per dirmi: “No, non farlo. Sbaglieresti.” E la bottiglia di birra che aveva bevuto il capo poco prima, era andata a schiantarsi in fondo al furgone, rompendosi in mille pezzi.
Ecco che di nuovo il furgone si fermò e scesero tutti e tre, lasciando la portiera del guidatore aperta. Kiara si appoggiò a me e mi strinse le mani dietro la schiena, raggiungendole con le sue. Le strinse forte, nascondendo il viso tra la mia spalla e il mio collo, come se già sapesse quello che sarebbe successo da lì a poco.
Erano andati fuori per parlare al telefono, visto che, come avevamo già notato noi, dentro non prendeva. Li sentimmo discutere tra loro, poi silenzio. Di nuovo parole.
“Abbiamo qui gli ostaggi, stanno bene. Vogliamo i soldi entro un’ora. Come impossibile? Non me ne importa se non c’è il tempo materiale, se le banche sono chiuse o robe del genere. Io voglio quei soldi, in contante, entro un’ora.” Era il capo che parlava, riconoscevo la sua voce. “Ok, lo avete voluto voi. Vi siete giocati uno dei gemelli. Ora vogliamo il doppio.”
Io e Bill rabbrividimmo. Anche Kiara rabbrividì. Sentimmo la porta del furgone aprirsi forte, sbattendo sul fanale, spaccandolo in mille pezzi.
“No, no! Vi prego, no! Non fategli del male!” urlò subito Kiara, che non sapevo come, era riuscita a slegarsi i polsi. Vidi un pezzo di vetro verde accanto alle corde sfilacciate, un pezzo della bottiglia che si era rotta nella curva.
Questa ragazza è un genio, pensai.
Ma non avevo tempo per pensare a quanto fosse intelligente o meno in quel momento. Kiara era davanti a noi, a braccia aperte, che ci difendeva.
“Voglio lui” disse il capo, indicandomi con la pistola di traverso. Ringraziai il cielo perché non avesse scelto Bill.
“Levati ragazzina” ringhiò il capo, prendendola per il braccio. Era forte, tanto da riuscire a sbatterla di fianco a me, mentre Bill era pallido, voleva urlare ma non ce la faceva, la paura glielo impediva. Sentii la sua mano sfiorare la mia: era fredda, gelata. Lo guardai veloce e poi chiusi gli occhi, preparandomi alla mia fine. Sentii solo lo sparo, un colpo sordo, poi più niente. C’era silenzio, c’era solo il rumore della pioggia scrosciare per la strada. C’era odore di sangue. Aprii gli occhi.
Sono morto?
In quel silenzio, sentii il respiro quasi soffocato di qualcuno, qualcuno che mi stava abbracciando per il collo.
“Daniel…” fu l’unica cosa che riuscì a dire Kiara, prima che il suo cuore cessasse di battere, prima di morire tra le mie braccia.
Le appoggiai la mano sulla schiena. Quando la ritrassi la vidi piena di sangue. Kiara era… morta per me. Salvandomi, proteggendomi.
“No… No, no, no. No! Perché?!” urlai, prima di lasciarmi andare al pianto, un pianto di rabbia, di dolore.
Anche Bill stava piangendo, senza riuscire a dire niente. Non c’era niente da fare, ormai non c’era più niente da fare per lei, per la sua giovane vita volata via come sabbia al vento, in una frazione di secondo.
Strinsi ancora il suo corpo a me, sentendolo diventare sempre più freddo. Guardai con disprezzo l’uomo di fronte a me, il capo, quello che l’aveva uccisa.
Lasciò cadere a terra la pistola, tremante. Si mise le mani sul viso, incominciò a piangere pure lui, mormorando: “Non doveva andare a finire così… non doveva andare a finire così…”. Prese velocemente un coltellino dalla tasca della felpa e si avvicinò a noi. Io mi spinsi verso Bill, cercando di proteggerlo, ma l’uomo mi prese i polsi e me li liberò dalla corda, così con Bill. Senza mai guardarci in faccia per la troppa vergogna di essere solamente nato, ci spinse fuori dal furgone, sotto la pioggia. Io, Bill e il corpo di Kiara, ormai freddo e pallido come la neve che tenevo ancora tra le braccia.
Guardammo
il furgone allontanarsi in fretta,
correndo sulla strada deserta, isolata dal mondo. L’acqua mi
bagnò di nuovo,
nel buio della notte, rinfrescandomi, pulendo il bel viso di Kiara. Mi
sedetti
a terra, lei stretta tra le braccia, mentre la pioggia fredda non
smetteva di
cadere, ma non lavando via quell’incubo: la
realtà. Mi ricordai del suo
cellulare. Glielo presi dalla tasca interna della giacca,
delicatamente,
notando anche che la mia maglietta era impregnata di sangue, una
chiazza enorme
in pieno petto. Non ci badai troppo e composi velocemente il numero di
Georg,
il primo di cui mi ricordavo a memoria il numero intero.
Vennero
a prenderci, ci trovarono ancora sotto l’acquazzone,
io con Kiara senza vita in braccio.
Il
giorno dopo, eravamo su tutti i giornali e telegiornali,
e si venne anche a sapere che il capo si era costituito, mentre gli
altri due
erano fuggiti ed erano stati catturati qualche ora dopo.
Da
quella sera Bill era entrato in stato di shock, non
riuscendo più a parlare, a cantare (la cosa che adorava fare
di più al mondo),
a comunicare con nessuno, neppure con me, talmente era traumatizzato.
Restò
così per un’intera settimana. E io che mi ero
visto morire Kiara tra le
braccia? Che dovevo dire io?
Pian
piano, giorno dopo giorno, tutti si dimenticarono della
sua morte, si dimenticarono di lei. I giornali non ne parlarono
più, passarono
oltre, lasciando quella notizia nel dimenticatoio. Ma io, no; io e
Bill, no;
io, Bill e Daniel, soprattutto, no. Daniel, suo figlio, lo presi in
affidamento
io. Non volevo che fosse affidato ad una famiglia qualunque, anche se
gli avessero
dato tutto. Daniel, dovevo tenerlo io, glielo dovevo. Lo dovevo a lei
che mi
aveva salvato la vita. Io dovevo crescere quel piccolo bambino, moro,
occhi
scuri, sorriso identico alla madre. Ogni volta mi impressionava la
somiglianza
smisurata tra i due. E il figlio del boss, beh, avevamo pagato le spese
per la
sua cura e si stava pian piano riprendendo. Perché
l’avevamo fatto? Perché
Kiara avrebbe fatto così, non c’erano dubbi.
Doveva pur essere morta per una
giusta causa, non certo solo per salvare la mia vita. Non era morta per
niente.
No.
Adesso,
a distanza di due anni, Daniel ha cinque anni ed è
con me, vive con me e Bill. E questo ricordo doloroso, indelebile nel
cuore e
nella mente, mi fa ancora star male.
Mi
asciugo le lacrime sulle guance. Guardo Daniel che dorme
profondamente accanto a me, non mi sono nemmeno accorto che si
è scoperto
muovendosi nel letto, sognando, forse, la sua mamma. A volte mi chiede
dov’è, e
io sono costretto a dirgli che non c’è
più, che se n’è andata,
perché so che i
bambini sentono, sentono quando gli menti, e io non voglio mentirgli.
Però non
gli dico in che modo se n’è andata, farebbe troppo
male, a me, raccontargli
tutto, e a lui, che è ancora troppo piccolo per saperlo.
Forse quando sarà più
grande. Quando sarà pronto ad accettare quella che a volte
è la vita, nelle sue
ingiustizie. Non adesso.
E, a
volte, mi chiama papà. Quando lo fa io sorrido
guardandolo mentre si copre la bocca, diventando rosso sulle guance.
Aveva
ragione Kiara, con la ‘K’, quando diceva che era un
bambino stupendo. Lo è sul
serio. Mi rende felice solo guardarlo.
Mi rendo
conto che il latte su di me non ha effetto, non mi
fa riaddormentare di botto come accade ai bambini.
Si, ogni
giorno mi convinco sempre di più che, Kiara,
sarebbe stata la donna che avrei amato per tutta la vita. La donna che,
invece,
ha sacrificato la sua di vita per me.
Avevo
delle responsabilità con Daniel, certo, ma anche Kiara
si era presa le sue mettendosi davanti a me, coprendomi, prendendo
quella
pallottola al posto mio. Prendermi cura di Daniel era un po’
come dirle grazie.
Mi metto
sdraiato sul fianco, accanto a Daniel, sentendo il
suo respiro e il suo cuoricino battere nel petto. Gli accarezzo la
guancia
soffice, fresca. Gli metto a posto un ciuffo dietro
l’orecchio, sorrido.
E alla
fine… sono sempre i migliori che se ne vanno per
primi. Kiara, una persona stupenda, che amava la vita, che amava le
persone intorno
a lei, morta per salvare un’altra vita. La mia. Oggi, se solo
la potessi
vedere, le direi: “Stupida altruista!”, ma non si
può. Sono sempre i migliori
che se ne vanno per primi, è così. Ma
c’è anche un perché. Perché
solo loro
hanno il coraggio di andarsene prima degli altri. È anche
per questo che
vengono definiti i migliori. Kiara era una delle migliori, e mi manca.
Chiudo gli occhi e mi accuccio accanto a Daniel, cercando il suo calore, cercando sicurezza, le sicurezze che mi dava standomi accanto, come se lui fosse il grande e io il bambino che ha fatto il brutto sogno. Poi mi ricordo che qui il grande sono io.
Daniel, ti prometto che
mai nessuno ti farà
del male, nessuno. Non permetterò mai a nessuno di farti del
male. Ti
proteggerò. Perché ti voglio bene, e tu lo sai,
lo senti, come lo sentono tutti
i bambini. Sei speciale Daniel, come tua madre.
Apro gli occhi e vedo dall’altra parte del letto la figura di Kiara, trasparente, azzurrina. Il suo fantasma? È sdraiata con un braccio sotto la testa, con l’altra mano accarezza i capelli a Daniel, con quel suo inconfondibile sorriso sulle labbra. Vedo sorridere anche Daniel, sente la vicinanza della sua mamma, sa che non lo lascerà mai, sa che sarà sempre al suo fianco.
Kiara
guarda anche me e ride, poi scompare, si dissolve
com’è venuta.
Io chiudo gli occhi e mi addormento sorridendo, tenendo Daniel stretto
a me,
tra le mie braccia.