Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Sofyflora98    25/07/2016    1 recensioni
Dal primo capitolo:
"Tutto era iniziato con un cadavere. Un uomo sui cinquanta, vedovo, che faceva una vita abbastanza tranquilla, senza avvenimenti degni di nota. Un bel giorno, di punto in bianco, era morto. L'avevano trovato riverso sui gradini di fronte alla porta di casa. Quando avevano cercato di identificare la causa del decesso, i dottori erano rimasti allibiti. Non c'era una causa. Niente che potesse spiegare come mai un uomo di mezza età perfettamente in salute fosse all'improvviso crollato a terra. Come se tutto il suo organismo si fosse fermato dolcemente, e basta.
Fino a che non colsero sul fatto l'assassino. Quello che fu presto chiarito era che non si trattava di un essere umano. Non del tutto perlomeno. Mangiava e respirava e dormiva. Solo che a volte assorbiva la vita dagli altri."
****
Johnlock
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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John aveva fatto entrare Trevor nell’appartamento, e l’aveva invitato ad accomodarsi. Victor aveva preso posto su una delle due poltrone, mentre Watson gli aveva detto che sarebbe andato nel frattempo a preparare il tè. La cosa aveva fatto sorridere sommessamente Victor: quel dottor Watson era così tipicamente inglese!
Mentre era lì solo nel salotto, ne approfittò per guardarsi attorno. Sostanzialmente l’ambiente non era cambiato molto, ma percepiva i tocchi di quel nuovo coinquilino di Sherlock, anche dove erano poco visibili. Piccole cose, perlopiù, come un mobile dove lo strato di polvere era più sottile, una serie di strumenti da laboratori confinati a ricoprire la superficie di solo un mobile invece che l’intera stanza, una tenda tirata a far passare la luce del sole. O il rumore del servizio da tè che veniva tirato fuori dalla credenza, servizio di cui dubitava una vita lì antecedente all’arrivo di Watson. Il suo amico d’infanzia aveva sempre preferito le tazze mug, più comode e facili da tenere in una mano quando l’altra era occupata da una fiala di acido solforico o una fiamma ossidrica.
Quando, infine, John Watson tornò con il vassoio che portava teiera, tazze, zucchero e lattiera, Victor gli concesse un sorriso di gratitudine, e chinò lievemente il capo in segno di ringraziamento. L’uomo posò il tutto sul tavolino che stava tra le poltrone, e prese posto sulla propria, anche se non prima di versare l’infuso in entrambe le tazze.
- Dunque… - iniziò incerto, squadrando Victor da capo a piedi con fare inquisitorio. Problemi di fiducia individuò Trevor probabilmente causati dall’esperienza militare.
- Mi scuso davvero per essere arrivato senza avvisare, dottor Watson, ma non ho potuto fare altrimenti. La necessità di venire a parlare con lei è giunta abbastanza all’ultimo minuto, e a quel punto non avrei potuto arrischiarmi a telefonare per annunciarmi anche se avessi conosciuto il numero. –
- Immagino di sì, signor Trevor. Uhm… lei se non sbaglio era un amico d’infanzia di Sherlock? – se quelli che Victor vedeva non erano una punta di gelosia e un pizzico di possessività, il Gatto si sarebbe fatto mozzare la coda e le vibrisse senza indugiare.
- Una cosa del genere, sì. – e fece ancora un sorriso gentile. – In effetti è proprio Sherlock la ragione per cui sono qui. –
Il dottore annuì. – Lo sospettavo. Mycroft mi aveva detto che probabilmente lei sarebbe rimasto coinvolto, in questi giorni. Se avessimo potuto l’avremmo contatta noi, ma pare che siate irraggiungibile. –
- Esattamente. Mi duole, ma è una necessità. Non posso permettermi di essere rintracciabile già da anni. Sa… problemi con l’altra fazione. -
Seguì un silenzio che durò qualche minuto. Victor non sapeva bene come continuare, in tutta sincerità. Non voleva sembrare invadente ed irruento nel chiedere a quell’uomo di venire lui stesso a casa sua a parlare con Sherlock e convincerlo a tornare a Baker Street il prima possibile, ma non poteva neanche dar l’idea che non fosse una cosa importante ed urgente. Inoltre sarebbe stato preferibile non farlo preoccupare più del dovuto, perché non trasmettesse a Sherlock la sua ansia mentre gli parlava, ma nemmeno far apparire il problema troppo blando. E, soprattutto, non aveva idea di che parole usare per spiegargli quale fosse il problema con Sherlock e cosa doveva assolutamente fargli capire. Aveva l’impressione che qualsiasi frase avrebbe detto sarebbe parso invadente ed eccessivamente a conoscenza degli affari loro, per essere un uomo che Watson aveva appena incontrato e che Sherlock non aveva visto per anni.
Alla fine fu John a rompere il silenzio. – Lei sa dov’è, vero? Sa dove si è nascosto. –
Victor annuì. – Ieri mattina l’ho trovato fradicio e tremante in un edificio abbandonato che aveva già altre volte usato come rifugio. Non mi era sembrato in condizioni da riprendersi in fretta da solo come suo solito, per cui sono riuscito a convincerlo a venire a casa con me. Beh, non che sia stato difficile convincerlo, in realtà. Credo che si fidi di me quasi ad occhi chiusi. Quasi, però. –
- Era stato lei a toglierci dai guai alla piscina, quando ci siamo confrontati con Moriarty? –.
Trevor fece di nuovo un cenno d’assenso. – Non intendevo apparire come… insomma, vi tenevo d’occhio da un po’, ma le assicuro che ero semplicemente preoccupato. Gli ultimi movimenti della fazione di sotto m’impensierivano, e quando ho saputo degli ultimi incidenti in cui vi siete imbattuti, ho pensato che fosse il caso di tenere la situazione sott’occhio, in senso letterale. –
- La ringrazio, probabilmente abbiamo la vita salva grazie a lei. –
- Si figuri. Sono abituato a controllare che Sherlock resti vivo da anni, e i suoi amici vanno protetti in egual modo, a mio parere. Ne ha troppo pochi per rischiare di perderli in quel modo… -
Era già da qualche tempo che John aveva una strana impressione riguardo coloro che conoscevano Sherlock da molto tempo. Avevano tutti, dalla signora Hudson a Mycroft, uno strano atteggiamento nel trattare con il detective, o meglio nel trattare con chi gli si avvicinava. Pareva che lo vedessero come una qualche sorta di prezioso estremamente fragile. Indubbiamente anche lui riconosceva una certa fragilità nell’amico, ma il modo in cui lo controllavano, e addirittura si rivolgevano direttamente a John per dirgli come comportarsi con l’investigatore, era ossessivo, e avrebbe aggiunto anche un poco morboso.
Era quasi certo che anche Victor Trevor era venuto per discutere sulla condotta da tenere non appena avesse rivisto il più giovane degli Holmes.
- Andrò dritto al punto, dottor Watson. Dubito fortemente di essere in grado di convincere Sherlock a tornare qui. Anzi, non credo che riuscirò a farlo smuovere da dov’è per un bel pezzo. Quello che è accaduto l’ha spaventato molto. Era da tempo che non gli capitava di perdere il controllo, e detesta l’idea di far del male a qualcuno a causa della sua natura di Creatura. –
Già, quella cosa che aveva fatto per sbaglio quando John gli aveva toccato la spalla. Sapeva che aveva accidentalmente lasciato che il suo organismo assorbisse l’energia prodotta da quello di Watson, solo con il contatto cutaneo, e che era stato fortunato che Sherlock avesse i riflessi sufficientemente pronti da farlo staccare subito.
- Quella cosa che ha fatto… -  mormorò John. – … si è trattato solo di un incidente. Era sotto stress, e credo di aver contribuito a spaventarlo. –
Victor abbassò lo sguardo. – Certo che sì, dottor Watson. Il problema però non riguarda questo singolo avvenimento. Quando siamo fuggiti da Baskerville, non avevamo il controllo delle nostre capacità, ci sentivamo deboli, furiosi e affamati. Cosa pensa sia successo ai primi umani in cui ci siamo imbattuti? –
John si paralizzò. – Oh. Quindi…? –
- Già, proprio così. – confermò Trevor. – Li abbiamo prosciugati. Non del tutto intenzionalmente, e di sicuro non razionalmente. Eravamo terrorizzati e privi di freni, come ho già detto. Anche se avessimo saputo cosa stavamo facendo, dubito che saremmo stati in grado di fermarci. Questo però, non toglie che sia stata un’esperienza terrificante, per dei ragazzini, rendersi conto di aver ucciso degli esseri umani e di averne tratto fisicamente beneficio. –
- E suppongo che Sherlock lo ricordi molto bene, giusto? –
- Anche troppo. Mycroft lo teneva vicino per proteggerlo, e lui era quello con il maggiore controllo. Tuttavia lui stesso finì per afferrare un uomo ed assorbirne l’energia dalle cellule, anche se forse è riuscito a fermarsi prima di ucciderlo. Comunque sarà stato ucciso da qualcun altro, ma non importa questo. Sherlock ricorda chiaramente di aver bevuto quegli umani, ed ora la cosa lo angoscia. Provi ad immaginare cosa significhi aver rischiato di uccidere uno dei propri pochissimi amici, sapendo di aver già assassinato altre persone in quel modo. –
John si fermò un attimo, e poi buttò giù il suo tè in due sorsi. – Ecco perché è andato nel panico. – disse, quando ebbe vuotato la tazza. Victor annuì di nuovo. – E siccome già una volta è stato aggredito da un umano che ha scoperto la sua vera natura, ora dev’essersi convinto che io sia spaventato da lui e che lo detesti. – continuò il dottore.
- Per questo dovrebbe venire lei stesso a cercare di tirarlo fuori da casa mia. Lei non sa com’era anni fa, dopo che quell’uomo l’ha quasi ucciso. In quel periodo, ho davvero temuto per lui e per la sua sanità. Sembrava che potesse perdere la testa da un momento all’altro, non può immaginare la nostra inquietudine. –
L’espressione di Trevor pareva pacata, l’immagine di un uomo dal sangue freddo, ma le mani lo tradivano. Le stringeva un grembo con forza, le nocche sbiancate dalla tensione, e tremavano appena. Fu solo dopo aver notato quel particolare che John si accorse di come anche il suo viso ogni qualche secondo vacillava appena come se stesse cercando di mantenere l’apparenza di una tranquillità forzata.
E i suoi occhi, anche. Erano chiari, di un acquamarina che somigliava a quello degli occhi di Sherlock, anche se neanche lontanamente brillante e intenso come per il detective. Erano nervosi, attenti. Attendeva una sua risposta, e temeva che lui volesse negargli ciò che gli stava chiedendo. Ed erano limpidi. Doveva essere profondamente angustiato a causa di Sherlock, e quella scintilla nelle iridi lo dimostrava. Era l’accenno di una piccola disperazione sul punto di esplodere nel caso di un fallimento, che non aveva mai visto in Mycroft.
Ma esattamente, quanto tiene a Sherlock quest’uomo? si ritrovò a pensare Watson, stupefatto. Ora che aveva visto tutti questi particolari, anche l’emozione che l’altro doveva provare non gli pareva più così trattenuta. Era leggibile in ogni singolo millimetro della sua persona, bruciante.
- La prego, dottor Watson! – esclamò Trevor a quel punto, lasciando che l’apparenza di sangue freddo si dissolvesse quando lo vide esitare. – Per favore, temo che nessuno a parte lei sarebbe in grado di convincerlo a… di fargli capire che non deve mai e poi mai tornare ad isolarsi in una maniera del genere. –
I suoi occhi erano così sinceri, attraversati da un sottile filo di dolore sordo, che John pensò che sarebbe stato un mostro a non accogliere subito la sua richiesta.
- Posso chiederle una cosa, signor Trevor? – questi parve leggermente interdetto dall’improvviso cambio di argomento senza aver ricevuto ancora una risposta, ma annuì comunque. Fu principalmente l’espressione dolce e tiepida che accompagnava la voce di Watson a impedire che fosse innervosito da quel quesito improvviso. Avrebbe preferito sentire subito se fosse stato disposto oppure no ad aiutarlo, ma sentiva una sorta di bontà di natura in quell’uomo. Sherlock aveva trovato una persona stupenda, si disse.
- Certo che sì, dottor Watson. – disse infatti, dopo aver già acconsentito con il movimento del capo.
- Lei da quanto tempo, esattamente conosce Sherlock? È pura curiosità, mi creda. –
Victor chiuse gli occhi per qualche secondo. – Da quando ci hanno portati a Baskerville. Ci siamo incontrati lì. Credo che avessimo avuto circa sette o otto anni, all’epoca. Abbiamo vissuto assieme fino a che non siamo diventati entrambi adulti, ma fino al giorno in cui sono stato costretto a sparire, abbiamo comunque continuato a incontrarci molto spesso. Ci vedevamo quasi tutti i giorni. –
Watson sembrò ancora una volta studiarlo, prima di continuare. Ma non con la diffidenza di quando l’aveva visto davanti alla porta, né come se lo stesse giudicando. Più come se volesse capirlo, gli sembrò. Comprendere cosa avesse in testa, ma senza il dubbio che stesse tentando di ingannarlo.
- Lei è innamorato di Sherlock da tanto tempo, signor Trevor, vero? –
Victor spalancò gli occhi dallo stupore. Si erano incontrato da a malapena mezz’ora, e l’aveva già capito? Sherlock non l’aveva intuito nemmeno dopo tutti quegli anni!
- Scusi, non volevo sembrare invadente. Ma se si chiede come lo so, sappia che da come diventa quando parla di Sherlock la cosa è piuttosto palese. –
Trevor accennò ad un sorriso malinconico. – Nessun problema, dottor Watson. A parte quello che sarebbe direttamente interessato, credo che lo sappiano tutte le persone che ci conoscono entrambi. Comunque lo amo da quando eravamo adolescenti. Non ho mai amato nessun altro e non ho mai provato attrazione per nessun altro. –
Ed ora Victor teneva uno sguardo fermo, quasi di sfida, come se si aspettasse di sentirsi dire che c’era qualcosa che non andava in lui se davvero era come diceva, perché le persone normali non alimentano un amore non corrisposto per tutto quel tempo, e di sicuro non sono attratte da una singola persona in tutta la loro vita. John, invece, annuì semplicemente, come se se lo fosse aspettato, quasi. Anzi, c’era una punta di ammirazione nel modo in cui sosteneva lo sguardo del Gatto.
- Verrò a parlargli, certo. – disse a quel punto. E il sollievo, a quelle parole, scivolò morbidamente in Victor, tanto che tutta la sua postura sembrò sciogliersi e rilassarsi a vista d’occhio.
- Grazie, dottor Watson. Non so davvero come potrei ricambiare… - sospirò, un altro sorriso dolce a distendergli i lineamenti.
- Non deve far nulla: sarei venuto in qualsiasi situazione, Sherlock è mio amico. –
Negli ultimi minuti aveva iniziato a formarsi una sorta di comprensione tra i due uomini, di intendimento dovuto al legami che entrambi avevano con una stessa persona. A John piacque quell’individuo, e trovava toccante il modo in cui si era preso cura di Holmes per così tanto tempo, senza pretese. Victor, a sua volta, si ritrovò a pensare di nuovo che Sherlock era stato davvero fortunato ad incontrare una persona come John Watson.
- E lei, dottor Watson? Lei da quant’è che è innamorato di lui? –
John assunse una finta espressione di colpevolezza. – È davvero così evidente? –
- Oh, sì! Molto, dottor Watson. Per cui credo che lei riuscirà a calmarlo, a fargli capire una buona volta che non è lui da incolpare per tutti gli incidenti causato dalla sua natura di Creatura. Ascolterebbe lei molto più che me. –
- Cosa glielo fa credere? Lei lo conosce da moltissimo tempo in più rispetto a me. –
Victor alzò le spalle, anche se aveva il tipico sguardo di chi sa qualcosa in più e che non ha alcuna intenzione di riferirla. Uno sguardo un po’ furbo e falsamente disinvolto. – Oh, solo una mia impressione. Di solito, però, si rivelano corrette. –
- Quand’è il momento migliore per… vedere Sherlock? –
Victor sembrò pensarci su. – Appena lei può, suppongo. Quando sono uscito era ancora addormentato, credo. O insonnolito. Comunque era a letto, e credo che una volta tanto ci sia rimasto per un po’. Non volevo che sapesse che stavo venendo a parlare con lei, avrebbe fatto di tutto per impedirmelo. Sa com’è testardo. Anzi, credo che sarebbe una buona cosa se vedesse prima lei che me, oggi. –
- Va bene se mi preparo, e poi andiamo subito? – chiese Watson, che iniziava a sentire una certa urgenza nel rivedere il detective.
- Sarebbe perfetto. – acconsentì Trevor, annuendo con decisione.
Watson non attese un istante per correre a prendere giacca e scarpe.
Questa volta pensò Victor ti sei davvero trovato una persona meravigliosa, Sherlock. Ma quante volte l’aveva pnesato, negli ultimi venti minuti?
 
 
 
Quando si fu destato completamente, Sherlock si accorse che doveva essere già tarda mattinata. Si strofinò gli occhi, stupito di essere rimasto a letto così a lungo. Inoltre, era da un po’ di tempo che dormiva anche meno del solito.
Allungò un braccio verso l’altro lato del letto, e sentì le lenzuola fredde. Victor doveva essersi alzato da un bel pezzo. Gli venne in mente la vaga immagine, in effetti, dell’amico che, già vestito, lo avvertiva che stava uscendo. Non gli aveva detto per andare dove o a fare cosa.
Si alzò lentamente, le membra ancora intorpidite, e piacevolmente sciolte e rilassate. Aveva ormai preso l’abitudine a sentire ogni nervo teso, ogni muscolo contratto costantemente. Quel cambiamento gli sussurrò all’orecchio, con una vocina leziosa e insinuante, che non era sempre stato così. Lui la ignorò come riflesso automatico.
Sentiva un sottile strato di sudore sulla pelle, quasi di sicuro risalente alla sera precedente, ed alcune tracce residue dell’amplesso con Victor. Doccia, decise, come prima cosa. Lasciando tutti i vestiti ancora sparpagliati attorno al letto, si diresse verso il bagno, e dopo qualche minuto l’acqua calda gli accarezzava le spalle.
Così, si disse, avrebbe anche potuto viverci. Era sempre stato bene con Victor, come quasi con nessun altro. Era una delle rare persone che non erano completamente stupide. Victor era intelligente, certo. In modo diverso da lui e Mycroft. Victor capiva altre cose, era un osservatore in altri campi, ma in tali non gli sfuggiva nulla. Sapeva come far sentire bene le persone, tutte le persone.
Oh, ma anche John ti fa stare bene, no? Certo, certo che John lo faceva stare bene. Altrimenti come avrebbe potuto condividere l’appartamento con lui? Certo, tra le persone che non erano solo irritanti, ce ne erano molte che comunque sopportava a fatica, ma non era il caso di Watson. E allora perché sei qui invece che a Baker Street? Perché aveva fatto un casino. Perché con che faccia poteva andare lì a pretendere di continuare a vivere come se nulla fosse, dopo aver indubbiamente dimostrato di essere un mostro? Non poteva permettersi di fargli del male. E non aveva nessuna certezza che non sarebbe accaduto un’altra volta.
Bugiardo. Hai paura. Temi di essere rigettato, non di fargli del male, perché sai che quello non accadrà mai più. Hai paura che sia lui a farti male. Ovvio che sì! Come si poteva biasimarlo per questo? Oh, chi conosce Watson potrebbe farlo benissimo. Tu sai che non è quel genere di persona. Lo sai. Eppure non provi nemmeno a tornare da lui. E non lo farai mai, vero?
Era vero. John non era come quell’altro individuo. John era buono di natura. Troppo, perché uno come lui potesse averlo meritato.
Il problema non era John. Il problema era lui.
Girò il rubinetto per fermare il getto d’acqua, ed uscì dalla doccia facendo attenzione a non gocciolare su tutto il pavimento. Mise i piedi su un tappeto di spugna che Victor teneva davanti alla doccia proprio per quella ragione, e lo trascino con le piante fino a raggiungere un asciugamano con cui avvolgersi. Si asciugò con calma, e poi si legò l’asciugamano attorno ai fianchi, prendendone un altro per strofinarsi i capelli bagnati. 
Tornò nella camera da letto. Con le dita si ravvivò i riccioli, ora solo umidi, per dare ad essi un minimo di compostezza prima che si asciugassero prendendo forme bizzarre.
Quello, pensò, era il momento buono per fare “manutenzione”. Era da diverso tempo che aveva tralasciato la cosa, preso dagli ultimi avvenimenti, e non sapeva quando avrebbe avuto di nuovo l’occasione di stare solo ed occuparsi del problema in tutta tranquillità. Sentiva già un lieve pizzicare dietro le spalle, all’altezza delle scapole.
Frugò tra i vestiti che indossava quando era stato trovato da Victor, in cerca della fialetta contenente il denso fluido viola. Ne aveva sempre almeno una con se, come precauzione.
Si sedette al centro del letto, respirando profondamente, mentre si massaggiava le spalle richiamando all’ordine i muscoli che comandavano le Estensioni. Quando non venivano usate di frequente capitava di avere più difficoltà a muoverle, come con i muscoli di una persona che ha passato mesi in un letto d’ospedale.
Pian piano, le punte delle ali iniziarono ad intaccare la cute. Non sempre riusciva a compiere quel processo lentamente, spesso laceravano le cicatrici in un colpo secco, e aveva fatto molta fatica a non gridare dal dolore per non essere sentito da John, a Baker Street.
Solo quando le ebbe estratte completamente, si accorse di aver trattenuto il respiro. Lasciò uscire l’aria dai polmoni, senza neanche rendersi conto che stava involontariamente trattenendo ogni suono che cercava di uscire dalla gola, come se fosse stato ancora a Baker Street, e non da solo in casa di Victor, un’altra Creatura come lui da cui non avrebbe avuto comunque il problema di nascondere nulla.
Benne il fluido viola tutto d’un fiato.
Prese delicatamente tra le mani l’ala di sinistra, iniziando a massaggiarne l’attaccatura, farla chiudere e distendere, lisciandone la superficie scintillante. In realtà, non erano proprio ali d’insetto. La loro fisionomia non corrispondeva a quella di nessun animale preciso. Piuttosto somigliavano a quelle di un insetto per via delle membrane iridescenti, ma gli ricordavano, nel modo in cui si piegavano, a quelle dei draghi nei libri che Victor gli leggeva ad alta voce quand’erano bambini. Una via di mezzo tra queste due cose era ciò che gli pareva più plausibile. Come avessero fatto a diventare così quando gliele avevano impiantate, era un mistero. Probabilmente erano esse stesse il risultato di qualche disgustoso esperimento genetico del laboratorio. Le parti animali degli altri erano semplicemente le versioni ingrandite o ridotte di attributi realmente esistenti.
Se avesse potuto, le avrebbe tagliate via. Erano, ormai, una parte integrante del suo corpo, e se lo avesse fatto ci sarebbero state conseguenze, come se si fosse tagliato via un arto. Inoltre, Mycroft e Victor sarebbero stati furiosi se si fosse mutilato volontariamente. Non poteva fare altro che viverci assieme.
Una volta, questo pensiero l’aveva fatto rodere di rabbia e frustrazione. Ora la sua era solo rassegnazione. E sconfitta. Aveva oltrepassato il lato violento delle sue emozioni verso quelle due cose già da anni.
Sentì la porta scattare ed aprirsi.
S’irrigidì un brevissimo istante, ricordandosi quasi immediatamente che doveva essere Victor che rientrava. Magari gli avrebbe chiesto dov’era andato. Avrebbe anche potuto chiedergli di aiutarlo a distendere le ali all’indietro, stava avendo qualche difficoltà in quel particolare movimento.
Il modo in cui venne richiuso l’uscio, però, lo rimise all’erta. Troppo silenziosamente, con troppa cautela. E anche i passi non erano quelli lunghi e rapidi di Trevor. Erano più pesanti, e più lenti. Dagli intervalli tra uno e l’altro, intuì un’insicurezza nel muoversi in quell’ambiente. Ma non erano furtivi.
- Victor? – chiese comunque ad alta voce, per sicurezza.
A quel punto i passi si fecero più sicuri, verso la direzione della stanza.
Oh. Si rese conto di conoscerli. Sgranò gli occhi, esterrefatto. Ecco cos’era andato a fare Victor. Non poteva crederci, però. Pensava che non avrebbe mai…
Un lieve bussare, anche quello troppo familiare, lo fece sussultare. – Sherlock. – non una domanda. Un richiamo. Un’indicazione che sapeva chi era all’interno. – Posso entrare? –
Non fece in tempo a rispondere, che la porta si aprì di qualche centimetro, lasciando spazio ad una parte della testa di John perché potesse sbirciare. Anche lui spalancò gli occhi prima di entrare completamente.
Quando fu dentro, per un po’ non fecero che guardarsi reciprocamente. L’aria sembrava vibrare e a Sherlock ora girava davvero la testa.
Cercava qualsiasi segno di ostilità, di paura nello sguardo del coinquilino. Non trovò nulla di tutto questo, solo un velo di stanchezza e puro stupore. John stava osservando le sue ali. E poi, alzò lo sguardo per osservare il suo volto.
- John. – voleva sembrare disinvolto, come se la sua presenza lì non fosse stata inaspettata come invece fu in realtà. Non intendeva fargli sentire l’esitazione nella sua voce, quel lieve timore. Invece, John lo percepì. Come sempre.
- Ci hai fatti restare in ansia, diamine! – esclamò Watson, ma non sembrava arrabbiato. Piuttosto, Sherlock avrebbe detto sollevato. – Persino Mycroft ha cercato di trovarti, e se non fosse venuto Victor Trevor a cercarmi a Baker Street, staremmo ancora brancolando nel buio! –
Provò ad avvicinarglisi, ma il detective si ritrasse, indietreggiando sul materasso. John si fermò, mettendo le mani aperte davanti a sé in segno di resa.
- Victor ti ha mandato qui, quindi… ecco dov’era andato. – le ultime parole sembrarono più sussurrate a se stesso.
- Sì, è stato lui. Mi ha detto di entrare da solo. E sarò sincero, mi ha praticamente supplicato di riportarti a casa con me. Credo che su questo sia lui che Mycroft sono stati piuttosto chiari, quando ho parlato con loro. –
Sherlock aggrottò le sopracciglia. – Non posso. – disse seccamente, portandosi le ginocchia sotto al mento. Ogni movenza, ogni gesto che faceva, John lo riconobbe come di difesa. Chiuso su se stesso, l’espressione guardinga, le mani tese e i muscoli contratti.
- Perché? Per quello che è successo l’altra notte? Per quell’incidente? –
Sherlock emise un breve ringhio, che parve tutto tranne che umano. A John si rizzarono i peli sulla nuca, ma restò stoicamente immobile.
- Me lo chiedi? Sul serio, John? Non dovresti nemmeno essere qui, dannazione! Avrei potuto ucciderti, avrei potuto farlo centinaia di volte da quando condividiamo l’appartamento, e tu non saresti stato in grado di impedirlo. –
Aggressività. Solo una facciata. Era spaventato dal ricordo, lo sapevano entrambi, ma fecero finta di nulla.
- No, invece. Mycroft mi ha spiegato bene tutta la faccenda. Se hai perso il controllo è stato solo a causa dello stress. Avevamo appena rischiato di essere uccisi da Moriarty. È stato Trevor a salvarci, a quanto pare. –
- Già, è stato lui. – il più giovane dei due sembrò rilassarsi un poco. – Sono pericoloso, John. Hai visto cosa possono fare le Creature, dovresti allontanarmi più che puoi. –
Di nuovo John avanzò verso di lui. Si protese in avanti e appoggiò le mani sul materasso. Sherlock provò ancora ad allontanarsi da lui, ma fu fermato dal limite del letto. – Per questa ragione? Se hai intenzione di cominciare con una di quelle storie da melodrammi da romanzo, del tipo “stammi lontano perché sono un mostro”, temo che dovrò riportarti a Baker Street di peso. Hai paura che io ora ti detesti per avermi nascosto di essere una Creatura? Di avermi spaventato? O magari credi che odi le Creature a prescindere a causa delle credenze comuni sui vostri confronti? – si protese di più in avanti, fronteggiando senza pietà lo sguardo di Sherlock. Ora questo vacillava, John lo vedeva. Quegli occhi color acquamarina per un istante si erano abbassati, se intimoriti o colpevoli lui non sapeva. Ma le sue parole avevano fatto breccia. – Non m’importa nulla di tutto questo, lo capisci? Nulla. Ogni tanto ti spuntano queste ali? D’accordo. Posso rischiare di vederti perdere il controllo, anche se ne dubito? Non c’è problema, posso gestire la cosa. Ma posso, invece, lasciare che un mio amico si nasconda e soffra in solitudine per qualcosa che non è assolutamente una sua colpa? Questo non posso farlo, Sherlock. Quindi non chiedermi di andarmene e lasciarti fuggire via. –
Il respiro del detective era irregolare, spezzato, un lievissimo rantolo uscì dalla sua gola, quasi impercettibile. John si sentì quasi in colpa, e si chiese se non fosse stato troppo irruento, quando vide quegli occhi, quegli occhi così belli, inumidirsi.
- Non voglio farti del male, John. – mormorò la Creatura con voce tremante. – Io non… non posso… -
- Sherlock, guardami. – il detective alzò lo sguardo.
John portò una mano alla spalla dell’altro uomo. Questi sembrò all’inizio volersi sottrarre a quel contatto, ma all'ultimo momento decise di non muoversi. Il dottore iniziò a disegnare piccoli cerchi sulla pelle candida con il pollice, addolcendo lo sguardo. – Io non credo che tu potresti mai farmi del male, Sherlock. –
Non fosse stato attivamente partecipe a quella scena, fosse stato solo uno spettatore esterno, John avrebbe sicuramente trovato affascinante il fenomeno che si trovava di fronte. Ma non si riferiva alle ali, no. Era Sherlock, come persona la cosa affascinante. Quello che era accucciato su quel letto, con gli occhi sgranati e arrossati dallo sforzo di non lasciar scivolare le lacrime che li lambivano, i capelli umidi e spettinati e le membra tremanti, come poteva essere lo stesso Sherlock che insultava gli agenti di polizia, inseguiva i criminali più efferati senza preoccuparsi di chiamare aiuto e produceva veleni come hobby? Lo stesso che non aveva un briciolo di emozione nemmeno di fronte alle famiglie affrante delle vittime o a queste ultime stesse quando riuscivano a salvarle?
Sempre così freddo, così imperturbabile e forte, era quello Sherlock. E poi c'era questo Sherlock. Forse quello reale, l'inevitabile esternazione di tutto ciò che tratteneva e reprimeva. Senza difesa né offensiva, un essere fragile. Un essere che aveva dei sentimenti, al contrario di ciò che voleva far credere.
Questo lo aveva sempre saputo. Dopo poco tempo che si conosceva Sherlock, diventava chiaro che il suo era un meccanismo di difesa basato sull'isolamento. Ma non era preparato davvero per vedere quello Sherlock con i suoi occhi. Questo nonostante avesse immaginato, durante il tragitto per andare lì, di trovarsi davanti una situazione simile. Dubitava che avrebbe mai potuto esserlo.
- Non puoi esserne certo. - mormorò Sherlock. La sua voce, però, non era sicura come avrebbe voluto.
- Sì, invece. Perché l'altra notte ci sei andato vicino, ma hai saputo fermarti. Credo che tu sia perfettamente in grado di controllare questo genere di problema, sempre che si voglia definirlo un problema. Per me, personalmente, non esiste il problema. -
Quando gli sembrò che stesse per ribattere qualcosa, prese la sua spalla con tutta la mano, stringendo con delicatezza ma con fermezza. Voleva rassicurarlo, doveva rassicurarlo. Fargli capire che nemmeno per un istante doveva pensare che John l'avrebbe rifiutato, allontanato. Fargli sentire che era importante, che era amato, era una cosa che John non faceva solo per lui, ma anche per se stesso. Era lui stesso ad aver bisogno di che Sherlock lo sapesse.
Sentendo che stavolta non incontrava nessuna resistenza, prese piano anche l’altra spalla. Sherlock aveva abbassato lo sguardo sulle proprie ginocchia, lasciandolo a fronteggiare una massa di ricci che impedivano di vedergli il volto. John lo tirò a sé, con delicatezza, lasciandogli la possibilità di sottrarsi se avesse voluto. Sherlock non lo fece, permise che l’altro lo avvolgesse con le sue braccia, lasciò che la sua testa si posasse contro il petto di John.
Era strano, si disse il detective, essere più in basso di lui. Mentre Sherlock era seduto sul materasso, ora Watson ci era inginocchiato sopra, e superava il più giovane in altezza.
Gli pizzicavano gli occhi. Lo facevano anche prima, ma ora era diverso. Incredulo, sentì le guance bagnate e tiepide. Doveva averle sentite anche John, perché subito iniziò a bisbigliare con voce calda. – Sshh, va tutto bene, d’accordo? Tutto a posto. Poi torniamo a casa, sì? Torniamo a casa. Quindi non scappare più. Me lo prometti, Sherlock? –
Quest’ultimo annuì, senza aprir bocca per paura che se lo avesse fatto avrebbe iniziato a singhiozzare, oppure  a dire qualcosa di sdolcinato e completamente fuori luogo.
John era tiepido. Le sue dita ora sfioravano piano la sua testa, con estrema leggerezza, neanche avesse temuto che potesse andare in pezzi. Era esagerato, come al solito. Però gli piaceva che lo fosse.
Ti sei lasciato coinvolgere, Sherlock?
L’altra mano di John, ora, aveva sfiorato una delle sue ali. Con timidezza, esitante. Forse temeva che quell’azione avrebbe fatto fuggire Sherlock. Probabilmente, si disse, in qualsiasi altra situazione sarebbe fuggito. Ma non sentì quell’impulso, quel giorno.
- Sono bellissime. – mormorò il dottore con voce colma di ammirazione. – Davvero meravigliose. –
E nessuno, questo, l’aveva mai detto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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