Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: DruidGirl    25/07/2016    1 recensioni
Una nuova minaccia incombe su Morioh, invisibile ma devastante. Da una settimana è cominciata una catena di suicidi, apparentemente sconnessi tra loro, a cui si aggiungono sempre più vittime. Le circostanze sono strane, molto strane; Rohan Kishibe lo sente fin troppo bene, ed è per questo che comincia ad indagare con i suoi concittadini e ormai compagni di sventure. E' da solo, però, che si troverà ad affrontare la paura, l'angoscia, l'ansia e i brutti sogni che questo misterioso e potente attacco Stand porta con sé. Nuove avventure significano nuove storie per il mangaka, ma riuscirà ad arrivare sano e mentalmente stabile alla fine di tutto, così da poterlo raccontare?
Genere: Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Rohan's Bizarre Adventures'
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Non smetto mai di sorprendermi di come il tempo atmosferico si adegui a certe situazioni. Noto spesso, e sempre con sorpresa, come il cielo senta la felicità, la paura o la tristezza e si comporti di conseguenza. Il cielo di Morioh, poi, è il più empatico che io abbia mai visto. Io, Rohan Kishibe, che mi perdo in questi sentimentalismi? Beh, ogni tanto me lo concedo.
Stavo seduto al Cafe Deux Magots con i miei concittadini, nonché saltuari compagni di avventure ed il cielo sembrava ascoltare e reagire alle nostre riflessioni sui fatti tremendi che il mese di febbraio si era portato appresso. Nonostante quella mattina il cielo avesse splenduto pigramente, ora era sparito, nascosto da una coltre di preoccupate nubi grigie, proprio come il colore di cui si era tinto la città da ormai una settimana.
Discutevo, perplesso e preoccupato anche io come il cielo e tutti i miei compagni, di una strana e grave catena di eventi cominciata da una settimana a Morioh.
‒ Ricapitolando. ‒ Intonò grave Josuke giungendo assieme le mani. ‒ Lunedì scorso, il 3 febbraio, quindi sei giorni fa, è cominciata una catena di suicidi a Morioh. Solo a Morioh e in nessun’altra città. Da allora sono morte undici persone. ‒
‒ Dodici. ‒ S’intromise Koichi con voce triste. ‒ Un’altra ragazza ha ingerito un’intera scatola di sonniferi ed è morta stanotte. Era una compagna di classe di Yukako. ‒
‒ L’ho sentito anch'io stamattina. ‒ Sospirai.
Josuke deglutì. ‒ Dodici persone. Non sembra esserci niente di simile tra loro, niente che li possa collegare in qualche modo. Né età, interessi, occupazione, status sociale. Le vittime, ad oggi 9 febbraio, sono tre studenti, due uomini d’affari, un netturbino, due pensionati, una ricca madre di famiglia, una giovanissima barista, un poliziotto e la compagna di classe di Yukako. Sono suicidi assolutamente sconnessi tra loro… ‒
‒ Tranne per le cause. ‒ Continuai io, ansioso di arrivare al dunque. ‒ Tutte le vittime si sono suicidate per
esasperazione. Le persone a loro vicine, famiglie o amici, hanno testimoniato che tutti loro, nei giorni antecedenti la morte, hanno mostrato gli stessi sintomi. Ansia crescente, paranoia, allucinazioni, paura immotivata e conseguente stress, irritabilità ed insonnia totale che li hanno portati all’esaurimento. Per la disperazione alcuni si sono gettati dalla finestra, altri hanno preso così tanti farmaci da morire di overdose, altri si sono gettati sotto treni o sono stati investiti mentre scappavano da chissà cosa. ‒
‒ È proprio questo
chissà cosa che mi fa pensare ad un attacco Stand. ‒ Disse Josuke con espressione assorta. ‒ Non c’era niente intorno a loro agli occhi dei familiari o degli amici. Niente che possa giustificare questa loro improvvisa paranoia, questo panico. Da un giorno all’altro hanno cominciato a non dormire più, ad essere privati della pace. La sorella di una studentessa morta quattro giorni fa mi ha detto in lacrime che sua sorella le aveva detto “I mostri mi hanno seguita dagli incubi. Da allora non mi lasciano più andare.” È terrificante. ‒
‒ Al telegiornale hanno parlato di allucinazioni causate dalla droga. Un nuovo tipo di droga arrivata fin qui dall’America, o qualcosa di simile. ‒ Disse Okuyasu. ‒ Ma non mi convince per niente. Non ci capisco molto, ma la droga a Morioh? È assurdo. ‒
Sospirai. Okuyasu era quello che sopportavo meno. Possibile che non capisse quando era giusto dire qualcosa e quando invece lo si poteva omettere?
‒ Escludo assolutamente questa opzione. Non si tratta né di droga, né di una qualche malattia mentale. ‒ Dissi.
‒ Ne abbiamo vissute abbastanza per riconoscere uno Stand all’attacco. ‒ Concluse Koichi estremamente serio. Finalmente qualcuno che parlava la mia lingua. ‒ Ma le indagini non bastano a darci nemmeno un briciolo di pista da seguire. Non c’è stato nessun cambiamento nelle routine quotidiane di queste persone. Se hanno incontrato qualcuno che li ha attaccati non potremo mai saperlo. ‒
Incrociai le braccia. ‒ Dovremmo individuare una vittima prima che si suicidi, così che io la possa leggere con Heaven’s Door. Sicuramente le sue pagine ci direbbero chi è il colpevole. Ma le vittime sono così paranoiche e spaventate che, se escono di casa, è solo per ammazzarsi. Sarà difficile trovarne una in tempo. ‒
Josuke inspirò. ‒ Dovremo stare attenti e vedere chi si assenta da scuola. Gli studenti che si sono suicidati sono stati assenti per due o tre giorni prima di morire, quindi dovremmo avere abbastanza tempo per agire, una volta individuata la vittima. ‒
Annuii col capo. ‒ Mi sembra l’unico modo possibile. Cercate di scoprire l’indirizzo di eventuali assenti, così andremo a fargli visita. ‒
I ragazzi annuirono determinati ed io alzai la testa al cielo. Le nubi erano ancora più grigie di prima e tirava un venticello insistente, probabilmente avrebbe piovuto.
‒ Tra poco pioverà, devo andare. Domani tenete gli occhi aperti e contattatemi se notate qualcosa. Farò lo stesso anche io. ‒
E così ci salutammo. Mi incamminai verso casa, perplesso e pensieroso come non mai. La pace dopo la grande minaccia di Morioh del ’99 era durata un anno appena; già era arrivato un nuovo nemico. Cominciai a sentirmi sempre più a disagio. Non c’è cosa che odio più di aspettare, soprattutto in situazioni critiche; l’idea di andare a casa ad aspettare una telefonata dai ragazzi mentre il nostro nuovo nemico era a piede libero mi rendeva incredibilmente nervoso. Era un avvenimento interessante, certo, e si sa quanto io ami queste cose, soprattutto per l’ispirazione che mi portano; eppure il fatto che stessero morendo persone che non c’entravano nulla mi irritava. Preferivo trovarmi io stesso in pericolo, piuttosto che guardare persone innocenti cadere come pedine di domino. Inoltre non avevamo la certezza che la prossima vittima sarebbe stata uno studente: potevano volerci giorni, settimane, e questo significava aspettare che venissero mietute altre vittime senza che noi potessimo intervenire. Mi sentivo totalmente impotente nonostante i miei poteri, e ciò mi frustrava. Decisi di prendere una strada alternativa, leggermente più lunga della solita, per fare quattro passi in più. Rischiavo di prendere la pioggia, ma non mi interessava; speravo che passeggiare mi avrebbe calmato un po’. Gli alberi che delineavano il viale erano scossi dal vento e provocavano un flebile fruscio, l’unico rumore oltre a quello dei miei passi. Camminai per un paio di minuti, totalmente assorto nei pensieri, quando m’imbattei in un volantino attaccato ad un palo che non avevo mai visto prima. L’intestazione recitava:

Mostra d’arte “Uno sguardo nel Buio”
di Alistair Pearce
A Morioh per tutto il mese di febbraio

Il titolo mi colpì. Doveva essere una mostra di paura, a giudicare dal nome e dalla grafica del volantino. Inutile dire che stimolò la mia curiosità – cosa fin troppo facile da fare – e ovviamente pensai che non potevo perdermela. Guardai l’orologio sul mio polso: erano appena le tre del pomeriggio. La mostra era aperta tutti i giorni della settimana fino alle sei, avevo tutto il tempo di raggiungerla e di godermi la vista di qualche quadro. La casa in cui era allestita si trovava vicino alla stazione di Morioh, così tornai indietro alla prima fermata del pullman e mi sedetti ad aspettare. Ero estremamente curioso: amavo l’arte ed amavo l’horror – il mio stesso manga è un’opera molto oscura, tanto mi piace il genere –, ero impaziente di vedere questi quadri, e speravo che non deludessero le mie aspettative.
Il pullman arrivò subito ed appena entrai si mise a piovere a dirotto. In dieci minuti raggiunsi la stazione, ancora pioveva ed io non avevo l’ombrello, così mi avviai a passo svelto a destinazione. La mostra era situata in una piccola villetta gialla che ora aveva le porte aperte al pubblico. Una volta giunto all’ingresso, un ragazzo giapponese elegantemente vestito mi raggiunse e mi accolse all’interno. Pagai il biglietto di ingresso – era la mostra meno costosa a cui avessi mai assistito – e mi invitò a procedere oltre l’atrio, avvisandomi che Alistair Pearce era nella seconda stanza e che era disponibile per qualsiasi domanda. Varcai la piccola arcata che divideva l’atrio dalla mostra e mi trovai in una stanza molto grande e ben illuminata, completamente priva di mobili. Le pareti intonacate di bianco, con i battiscopa color marrone scuro, erano costellate di quadri, alcuni molto grandi ed altri molto piccoli, tutti pesantemente incorniciati da legno scuro ed intarsiato. C’erano quadri in ogni spazio libero dei muri. Una piccola parete di cartongesso alta un metro era posta al centro della stanza, ed anch’essa era ricoperta di quadri. All’inizio mi persi un po’ a guardare la stanza in generale, ma quando i miei occhi si posarono per bene sui quadri, uno dopo l’altro, sentì una strana sensazione al petto. Quello che provavo era stupore, ammirazione, incredulità e… Anche paura, mi tocca ammetterlo. I quadri di Alistair Pearce erano, e sono tutt’ora, i quadri più realistici che io abbia mai visto. Ma la cosa più impressionante era che ciò che vi era raffigurato era tutto fuorché realistico. Come suggeriva il titolo, ciò che i quadri raffiguravano erano sicuramente
incubi. Gli scenari erano molto diversi tra loro, ma tutti erano terrificanti, nessuno escluso. Alcuni erano davvero raccapriccianti: mostri indescrivibili, con fisionomie altrettanto non tramutabili in parole, intenti a fare le cose più disparate. Alcuni scrutavano il malcapitato osservatore del quadro da un piccolo angolo, immersi nel buio; altri si ergevano sopra donzelle adagiate su letti in preda al panico più totale. L’espressione di una donna raffigurata, in particolare, mi fece rabbrividire. L’orrore che le dilaniava il viso era qualcosa che non avevo mai visto, qualcosa che non avevo nemmeno mai immaginato. Era un’espressione così impossibile da immaginarsi su un volto umano, eppure era così realistica allo stesso tempo! Alcuni quadri erano solamente paesaggi, come boschi o montagne, che sembravano quasi normali a primo acchito, ma che con un secondo sguardo più attento rivelavano dettagli mostruosi. Mi avvicinai ad un quadro che raffigurava una notte di luna piena su un fitto bosco: faticai a non sussultare quando notai che, dentro alla luna giallognola, si nascondeva un terribile viso ai limiti dell’umano che sorrideva inquietante al bosco. E tra la boscaglia, notai poi, brulicavano nascosti tra le fronde degli alberi esseri di ogni genere… Tranne che di quello umano. Mi spostai su un altro quadro, ben felice di togliere lo sguardo da quella luna raccapricciante, ed anche quello non era molto più allegro. Una ragazza che mi ricordò qualcuno che avevo già visto, molto probabilmente per la fisionomia asiatica che quasi ogni ragazza di Morioh aveva, dormiva su un letto, in una stanza poco illuminata e totalmente grigia, mentre un essere per metà immerso nel buio se ne stava appollaiato a testa in giù nell’angolo superiore della stanza. Il ghigno dentato di quell’essere, i suoi occhi tondi e vitrei, il modo totalmente innaturale in cui era appeso mi fecero di nuovo accapponare la pelle. Io non sono un tipo impressionabile, per niente affatto, e proprio per questo la reazione che questi quadri ebbero su di me mi sorprese. Quelle raffigurate erano scene quasi banali, facenti parte delle paure collettive delle persone; situazioni che sicuramente tutti quanti abbiamo trovato nei nostri incubi almeno una volta. Ma il modo in cui erano raffigurate, la magia con cui Alistair Pearce era stato in grado di dargli vita era qualcosa di assolutamente fuori dal comune, assolutamente indescrivibile. Extraterrestri, cannibali, pagliacci, ragni, vespe, spiriti, donne e bambini terrificanti, paesaggi da vertigini, scalinate che finivano nel buio; di tutte queste paure era tappezzata la stanza. Capì subito che l’arte di Alistair Pearce mirava a raffigurare le paure più comuni nell’essere umano, però viste sotto i suoi occhi, o meglio, sotto la prospettiva dei suoi pennelli. Ammirai ogni singolo quadro fino quasi a consumarli, completamente rapito dall’arte di quell’uomo. Alcuni mi fecero sussultare, ma in modo estremamente piacevole. Non era facile farmi provare un tale disagio, una tale paura, e ne ero contento. Ero grato al signor Pearce per essere stato in grado di scalfirmi. Non mi ero nemmeno accorto che nel frattempo tre persone erano entrate nella mostra, tanto ero stato rapito dall’arte. Anche loro, come me – anche se loro lo davano a vedere, mentre io mi guardavo bene dal farlo – erano scioccati da tutti quei quadri terrificanti. Una signora si portò la mano alla bocca dallo stupore, sgranando gli occhi davanti alla vista di quella piccola mostruosa luna di cui anche io mi ero stupito poco prima. Mi spostai attraverso un’altra piccola arcata nella seconda stanza, da cui proveniva del vociare, stupendomi di non trovarla piena zeppa di quadri come quella precedente. Ce n’erano altri, ma un sacco di spazio li divideva. Al centro vidi due signori che parlavano con un uomo pelato, alto, vestito estremamente bene e con un portamento fiero e quasi nobile. Notai che parlava un pessimo giapponese, e quando fui in grado di vederlo bene in viso, capii all’istante che era Alistair Pearce. Quei piccoli e incavati occhi scuri, quei baffetti castani che viravano all’insù gli conferivano l’aria da sofisticato pittore che proprio mi ero immaginato. Attesi che finisse di parlare e nel frattempo guardai i pochi quadri. Anche questi erano terribilmente realistici, inquietanti, mozzafiato come i precedenti.
I due signori salutarono il pittore e finalmente rimanemmo soli nella stanza. Sfoggiai il più carismatico e complice dei sorrisi e feci un breve inchino.
‒ Mi permetta di porgerle i miei più sentiti complimenti, signor Pearce. Poche altre arti mi hanno colpito come la sua. ‒
L’ometto sorrise compiaciuto, le sopracciglia scure che gli danzavano sulla fronte liscia.
‒ La ringrazio infinitamente. ‒ Mi porse la mano. ‒ Con chi ho il piacere di parlare? ‒
Gli strinsi saldamente la mano e rinnovai l’inchino. ‒ Kishibe Rohan. ‒
L’uomo sgranò gli occhietti. ‒ Kishibe Rohan? Pink Dark Boy? ‒ Mi chiese tra lo stupore.
‒ Esattamente. ‒ Sorrisi io, contento ed onorato che sapesse chi fossi.
‒ Sapevo che lei viveva qui, ma non pensavo avrei mai avuto l’onore di averla alla mia mostra. Ne sono estremamente onorato. ‒
Gli dissi che ero onorato anch’io e parlammo per qualche minuto. Mi complimentai per l’ampiezza della sua immaginazione, per la sua genialità e per il suo talento. Mi disse che era sempre stato attirato dalle cose inquietanti e paurose, specialmente gli incubi, che i suoi quadri erano come finestre che davano sul loro regno e che gli incubi non erano i suoi ma quelli dell’umanità, come avevo dedotto anch’io; che era grato a chi condivideva le sue esperienze terrificanti con lui, perché gli permettevano di dipingere le paure vere. Mi disse inoltre che quella stanza era ancora ampiamente spoglia perché dipingeva giornalmente, essendo sempre preso dall’ispirazione, e che si sarebbe riempita col passare dei giorni. Alla luce di ciò gli promisi che sarei tornato a vedere i nuovi arrivati e mi congedai con un ultimo inchino.
Uscii dalla mostra di buon umore. Durante l’ora in cui ero stato dentro non un singolo pensiero sulla catena di suicidi e sulla mia impotenza mi aveva sfiorato. Può sembrare brutto, me ne rendo conto, ma anche se fossi stato a casa a crogiolarmi nel nervoso non avrei potuto fare niente. Mi ero distratto, mi ero goduto della buona arte ed ero soddisfatto. Aveva anche smesso di piovere, nel frattempo – forse l’animo turbato del cielo si era disteso assieme al mio, a riprova della sua emotività? – e così presi con calma un pullman che mi riportò a casa.
Appena varcata la soglia di casa mi diressi in fretta al mio studio. Quando succedeva qualcosa di insolito, quando mi trovavo, per mia volontà, per caso o per destino, in una delle solite bizzarre situazioni in cui incappavo periodicamente, la mia ispirazione saliva alle stelle. In quel momento ero la persona più turbata della città, ma per il mio lavoro questo era un bene, perché da quella terribile esperienza ricavavo grandi idee. Era anche grazie ad Alistair Pearce che ero così ispirato: la sua arte mi aveva arricchito. Mi sedetti, feci il mio consueto stretching alle mani e mi misi al lavoro. Volevo sfogare tutto il turbamento dei suicidi nelle tavole del manga, ne sentivo l’assoluto bisogno. Finì per lavorare ininterrottamente per tre ore, senza nemmeno accorgermene, completamente assorbito da una frenetica e travolgente ispirazione. Quando riguardai le tavole che avevo disegnato, mi resi conto che erano le migliori che mi fossero ma riuscite. Il capitolo che avrei pubblicato la settimana successiva sarebbe stato un capolavoro, il mio capitolo migliore da quando avevo cominciato Pink Dark Boy, anni addietro. Soddisfatto ed esausto, dopo una breve cena andai a dormire, soddisfatto ma pensieroso su ciò che avrebbero detto i giornali la mattina seguente.


Fu anche peggio di quanto mi aspettassi. Verso le nove del mattino mi svegliai da un sonno pessimo, agitato e per niente ristoratore. Mi faceva male la testa e mi sentivo totalmente stordito, ma decisi di alzarmi e darmi da fare. Come prima cosa aprì la porta, giusto quanto bastava per far passare il braccio, mi chinai ed agguantai il giornale. Richiusi in fretta, non volendo avere contatto diretto con la luce del sole, essendo i miei occhi ancora sensibili. Srotolai subito il giornale, impaziente di sapere a quanto ammontavano oggi le vittime. La prima pagina era intitolata “Novità di oggi” con la data del giorno, quella volta lunedì 10 febbraio 2001, ma da una settimana la si poteva chiamare “Suicidi di oggi”, poiché si parlava solo delle persone che si erano suicidate nelle precedenti ventiquattr’ore, con tanto di foto e brevi didascalie con le informazioni di ogni vittima. Mi si gelò il sangue quando lessi che durante la notte si erano ammazzate altre sei persone, tra cui tre studenti e due mamme casalinghe. In una settimana ne erano morte dodici, mentre ora in una sola notte ne erano morte sei. Qualcosa non quadrava. Un tuono rombò improvvisamente, facendomi sussultare, tanto forte che le finestre tremarono. Non essendo uscito ancora di casa, eccezion fatta per il mio braccio, non avevo idea di che tempo facesse, e quel temporale improvviso mi stupì. Aprì la porta, ancora in vestaglia e coi capelli sfatti, e guardai in alto: il cielo era così nero da incutermi uno strano senso di terrore. Non era del cielo che avevo terrore, bensì del presagio che captai da esso: stava per succedere qualcosa di tremendo, me lo sentivo. Un lampo che squarciò il cielo, seguito da un altro tuono fortissimo, sembrò darmene conferma. Tornai in casa, preso da un panico irrazionale. Persino nelle situazioni più critiche ero sempre riuscito a mantenere la calma, cosa mi stava succedendo? Perché provavo una tale paura? E per cosa, poi? Inoltre riconobbi improvvisamente un’altra sensazione che avevo avvertito da quando avevo aperto gli occhi: mi sentivo osservato. Era strano, irrazionale e stupido, ma non potevo fingere di non sentirlo. Era come se ci fossero un paio d’occhi che mi scrutavano da ogni direzione. Mi scrollai di dosso quell’agitazione, mi vestì e uscì di casa. Camminai con un irragionevole passo sveltissimo, diretto al Cafe Deux Magots. Il cielo era scuro, minaccioso, e i tuoni rimbombavano ogni minuto. Arrivai al Cafè molto più in fretta del solito, ‒ il che mi sembrò strano, ma forse ero solo sovrappensiero e per questo il tragitto mi era sembrato più corto – mentre un altro lampo squarciava il cielo e la sensazione di essere osservato non voleva saperne di abbandonarmi. Appena varcata la soglia vidi arrivare una ragazza di Morioh di nome Ayako, la commessa della mia cartoleria di fiducia. Notai che aveva il grembiule del Deux Magots ed inarcai le sopracciglia, totalmente stranito.
‒ Ayako? Da quando lavori qui? ‒ Le chiesi mentre sedevo al bancone. Lei si sistemò il grembiule e non rispose, probabilmente non mi aveva udito. Dopo qualche secondo posò gli occhi su di me e mi rivolse uno splendido sorriso, che però si spense appena mi raggiunse dall’altro lato del bancone.
‒ Tutto bene, Rohan? ‒ Mi chiese. Mi scocciava il fatto che il mio malessere psicologico fosse evidente, ma, soprattutto con le “novità del giorno”, nessuno ormai a Morioh era immune al turbamento.
‒ No. ‒ Risposi secco. ‒ Hai sentito dei sei suicidi? ‒
La ragazza abbassò gli occhi e la sua espressione si fece triste. ‒ Sì. Sei in un solo giorno… Come finiremo? Come finirà Morioh? ‒
Sospirai. ‒ Non lo so. ‒
La ragazza si voltò per prepararmi un caffè. ‒ Sai, Rohan… ‒ Cominciò con voce sommessa. ‒ Ogni sera vado a dormire con la paura che, il giorno dopo, l’epidemia colpirà anche me. ‒
Sospirai di nuovo. ‒ Prima o poi finirà. Troveranno la causa e fermeranno questo massacro. ‒
Mi porse il caffè fumante, in cui scorsi il riflesso dei suoi occhi tristi. ‒ Lo spero. ‒
Bevvi un paio di sorsi di caffè quando un urlo fece alzare la testa di tutti i presenti al Cafè, me compreso. Era un urlo stridulo, un urlo maschile di puro terrore. E riconobbi all’istante che era Koichi. Mi alzai di scatto e schizzai fuori dal bar, sotto gli occhi dei clienti e della barista che erano rimasti imbambolati, col cuore che mi galoppava in petto. Ero sicurissimo che fosse Koichi. Era un portatore di Stand in grado di difendersi, cosa poteva averlo spinto a gridare così?
In fondo alla strada, girando a destra, c’era la casa di Koichi, ed era sicuramente da là che proveniva il grido. Notai del denso fumo nero propagarsi in cielo a grandi nuvole nere da dietro le case che mi stavano davanti e sentì il cuore che saltò un battito. Cominciai a correre, veloce come il vento, e svoltai a destra alla fine della strada. Ciò che mi trovai davanti mi fece inchiodare, talmente improvvisamente che quasi caddi.
La casa di Koichi era completamente in fiamme, così come tre case lì vicine. Koichi era steso a terra, accasciato su quello che poi riconobbi essere il suo cane. Era in lacrime, singhiozzava e accarezzava il suo pelo. ‒ Police! ‒ Gridava di tanto in tanto, tra i singhiozzi che lo scuotevano come un ramoscello al vento, con una voce talmente disperata che mi fece gelare il sangue nelle vene, nonostante il calore emanato dalle fiamme che avviluppavano le case. Io me ne stavo lì impalato, ad una decina di metri di distanza, con gli occhi sgranati, completamente immobile ed improvvisamente privo di voce. Intanto le fiamme alte, di colore rosso vivo, divoravano senza pietà la sua casa e le tre case attorno, scoppiettando e sbuffando un fumo nero talmente denso che faticava a dissolversi nell’aria.
Guardavo le fulve fiamme danzanti ed il loro fumo cinereo senza fiato. Quello che avevo davanti era un disastro che andava peggiorando di minuto in minuto. Un fortissimo brivido mi scosse da testa a piedi. Trovai la forza di avvicinarmi a Koichi e mi chinai su di lui, ancora accasciato a terra, braccia intorno al cane, viso schiacciato contro il suo pelo.
‒ Koichi… ‒ La mano che gli misi sulla spalla lo destò dal suo pianto silenzioso. Alzò la testa dalla chiazza di lacrime sul pelo del cane e mi guardò, gli occhi infiammati di pianto e l’espressione più triste che gli ebbi mai visto.
‒ Il temporale… ‒ Singhiozzò con fatica. ‒ Sta colpendo tutte le case… La mia famiglia era fuori casa… Dentro c’era solo Police… ‒
Posai lo sguardo sul cadavere del cane steso a terra, e notai che c’erano chiazze di pelo bruciate sulla schiena e sulle zampe. Mi soffermai sui dettagli della carne bruciata quanto bastò per imprimerne un ricordo vivo nella mente. Come per fatalità, un nuovo lampo si abbatté su una casa ad un centinaio di metri da noi. Un allarme cominciò a suonare e la casa prese fuoco all’istante, come se fosse stata pregna di benzina. Non era affatto una situazione normale, avevo sicuramente davanti, o meglio, attorno, un attacco Stand. Dopo una decina di secondi dall’impatto del fulmine, quando già delle fiamme avevano cominciato ad ardere l’abitazione, tre donne scapparono fuori dall’ingresso della casa, reggendo in braccio due gatti terrorizzati, avvinghiati con le unghie alle loro vesti.
Faticai a mettere in ordine i pensieri. Chiesi a Koichi, ancora distrutto ai miei piedi, la prima cosa che mi venne in mente. ‒ Koichi, dove sono gli altri? Perché non sei a scuola? ‒
‒ Siamo scappati tutti dalla scuola perché stava andando a fuoco. Ognuno è tornato a casa sua. ‒
Sospirai. Sicuramente Josuke e Okuyasu erano al sicuro, grazie al potere di Josuke. Crazy Diamond avrebbe sicuramente fatto comodo in una situazione del genere, soprattutto per il povero Police: forse avrebbe potuto salvarlo, se fosse stato lì al momento dell’incendio. Ma ora era troppo tardi anche solo per pensarci, e se le case stavano andando a fuoco in tutta la città, cosa assai probabile, sicuramente Josuke si era già messo all’opera per salvare il salvabile. Un altro lampo piombò con violenza sull’antenna di una casa non molto distante da noi, provocando una forte esplosione che incendiò la casa in una manciata di secondi, nello stesso modo innaturale di prima. La situazione stava degenerando. Una sirena dei pompieri si udì in lontananza, ma non mi fece provare sollievo: se si trattava di un attacco Stand, forse l’acqua era impotente su tutte quelle fiamme che mi stavano attorno.
Udii la telefonata della ragazza scappata da casa col gatto in grembo, che urlava terrorizzata al suo cellulare: ‒ In tutta la città? I fulmini stanno colpendo tutte le case? Una ad una? ‒
All’improvviso un’idea mi balenò in mente e mi sentì cadere a terra dallo sgomento. Tutto attorno a me si ammutolì. Non c’era più lo scoppiettare atroce delle fiamme, le sirene dei pompieri, i singhiozzi di Koichi; c’era solo la voce della ragazza, un’eco infinito di quelle quattro parole che avevo udito. La ripercorsi a ritroso, preso dal panico improvviso.
Una ad una. I fulmini stanno colpendo tutte le case. In tutta la città.
Questo poteva voler dire solo una cosa: che la mia casa stava già bruciando ‒ di nuovo! Ma che problema aveva la mia casa col fuoco? ‒ o che l’avrebbe fatto presto. I miei muscoli si mossero da soli: scattai via, verso la direzione da dove ero venuto, senza dire una parola a Koichi. Mi misi a correre, veloce come ero stato poche volte in vita mia. Sfrecciai a fianco del Deux Magots, notando che andava a fuoco. Francamente non provai dispiacere, non mi occupò i pensieri per più di qualche istante: essi erano concentrati su altro. C’era un’immagine fissa nella mia mente e niente l’avrebbe rimossa, perché niente importava più di quello che mi stava facendo sfrecciare per le strade: le tavole che avevo disegnato la sera prima, frutto di un’ispirazione provata poche volte durante la mia carriera di mangaka. In quel preciso istante erano l’unica cosa di cui mi importava. Le case si potevano ricostruire, le persone potevano salvarsi, scappare, o farsi aiutare dalle forze dell’ordine già in moto. Quelle preziose tavole, quei disegni di cui ero così fiero e soddisfatto no, erano alla mercé delle fiamme… Ed io ero così distante! Mi maledissi per aver avuto l’idea di uscire, quella mattina, anziché starmene in casa come ero solito fare, mentre il petto mi bruciava per lo sforzo. La strada sembrava non finire più, e ad aggravare il mio panico c’erano i fulmini e le fiamme. Ogni casa a cui passavo accanto era in fiamme, alcune erano addirittura già ridotte in cenere. La gente sfollata vagava per le strade scioccata, tra le lacrime, reggendo animali, sia morti che vivi. Mi sfrecciarono accanto ambulanze, pompieri, polizia; io correvo a perdifiato, col pensiero fisso sulle mie tavole. Non sarei più stato in grado di disegnare così bene. Non sarebbe successo per chissà quanto tempo, e avrei perso una parte vitale della mia opera. L’ispirazione della sera prima era arsa duplicemente: quella sera era arsa in me, mi aveva infuocato e permesso di disegnare quelle tavole, mentre ora era il suo prodotto che ardeva e che probabilmente stava diventando cenere mentre io mi affannavo per raggiungerlo. Era un vero e proprio incubo che diventava realtà, straziante realtà. La mia unica vera paura, in fondo, è quella di perdere il talento, o il prodotto del mio talento. Disegnare è la mia vocazione, raccontare storie realistiche tutto ciò che conta per me. Certo, avrei potuto disegnare quelle tavole di nuovo, ma non sarebbero mai, mai state realistiche come le originali. Non sarei mai stato in grado di riprodurre le stesse tavole nello stesso modo in cui ero stato in grado di disegnarle come quella sera. E perdere quelle tavole significava perdere una parte vitale di me. Già una volta, per colpa di un troglodita con dei capelli ridicoli, la mia casa era andata a fuoco, e già allora era stato tremendo… Ma questa volta era molto peggio. Assurdamente peggio.
Correvo, col petto straziato, sia per la corsa senza pausa, sia per il fumo delle case in fiamme ovunque attorno a me che inalavo a grandi respiri. Fui costretto a fermarmi per riprendere fiato, non certo per mia volontà. Ero allo stremo delle forze. Mi voltai per guardare cosa mi ero lasciato alle spalle durante la corsa, accasciandomi al suolo su un marciapiede, coi i polpacci che mi bruciavano come se stessero andando a fuoco assieme alle case che stavo guardando. La lunga via che avevo percorso, normalmente tempestata di piccole case graziose, alberi verdi e cespugli, era uno scenario infernale. Ogni singola casa era in fiamme. Una coltre di fumo nero si era formata sopra di esse, come a fare da scudo tra Morioh e il cielo. Le fiamme danzavano, di un rosso vivo così ardente che mi fece rabbrividire, il loro rosso vivo a contrasto col cielo nero. Delle piccole nubi di fumo si alzavano da ogni dove, in ogni punto della città che i miei occhi riuscivano a scorgere. Quante persone stavano bruciando in quel momento? Quanti animali? Mi sentì perso, impotente, disperato all’idea. Era un incubo, un disastro immane. In quel momento, ogni persona a Morioh stava perdendo tutto.
Io compreso.
Scattai di nuovo in piedi anche se non avevo ancora ripreso completamente fiato, petto e gola che bruciavano, sperando di arrivare prima del fatale destino che incombeva sulla mia casa e sulla mia vita. Le mie gambe falciavano l’aria, i talloni quasi non toccavano terra. Non so quantificare in quanti minuti giunsi a casa, so solo che avevo quasi raggiunto l’esaurimento nervoso e fisico.
E, una volta giunto davanti, mi sentì morire.
La casa era completamente in fiamme, dentro e fuori. Il fuoco ricopriva il tetto, si propagava verso il cielo nero, denso di fumo; usciva dalle finestre, dalla fessura della porta d’entrata che era già diventata nera. Sicuramente tutto ciò che era all’interno dell’abitazione era già carbonizzato, le mie preziose tavole ridotte in cenere. Mi portai le mani nei capelli; gli occhi, tanto era lo strazio e l’incredulità che stavo provando, quasi mi uscirono dalle orbite. Non poteva accadermi davvero, non poteva assolutamente essere reale. Ero incredulo, nonostante la verità danzasse ardente davanti ai miei occhi, come le maledette fiamme che stavano divorando la mia casa, il mio studio, il mio lavoro, la mia vita. Sentì il rumore di qualcosa che cadeva, probabilmente era il soffitto del piano terra che, arso del tutto, stava cominciando a cedere. Ero arrivato terribilmente tardi, non c’era niente che potessi fare.
Era un incubo. Un vero e proprio incubo divenuto realtà davanti ai miei occhi.

Un incubo. Queste due parole mi risuonarono nella mente più e più volte; due parole in grado di sovrastare persino il pensiero delle mie tavole andate in fumo.
Un incubo.
Aprii gli occhi di soprassalto, scosso da dentro, respirando improvvisamente come se fossi emerso da un’apnea durata fino quasi alla morte. Il mio primo pensiero, distratto e annebbiato, fu quello di trovarmi all’ospedale. Forse ero svenuto davanti alla mia casa in fiamme?
Notai invece, con stupore e confusione dilagante, che ero seduto sul mio letto, grondante di sudore, in preda al fiatone che faticavo a calmare. Boccheggiai mentre il cuore galoppante proprio non voleva saperne di calmarsi. Cosa stava succedendo? E la mia casa? E le mie tavole…?
Mi guardai attorno meglio, non con poca fatica. Della luce filtrava dalla finestra della mia camera, permettendomi di vedere quando bastava per accertarmi di essere là e non in una stanza d’ospedale, come avevo supposto prima. Ero proprio nella mia camera da letto, nella mia solita casa, tra la solita penombra che l’avvolgeva tutte le mattine.
Ma com’era possibile, se essa era andata a fuoco…?
Scesi dal letto di scatto, così in fretta che per qualche istante ebbi un capogiro e mi si annebbiò la vista. Camminai imperterrito, nonostante ancora respirassi male e facessi fatica a mantenermi in equilibrio, appoggiandomi qua e là; uscì dalla mia camera e percorsi il corridoio. Aprì la porta dello studio, il mio caro studio, e le vidi già da lontano. Le mie tavole erano lì, accanto alla scrivania, nella loro busta marrone. Mi precipitai ad afferrarle, aprì la busta con mani tremanti e le osservai con crescente sollievo: erano loro, erano salve. Erano le mie preziose tavole, e non erano ridotte in cenere. Mi sentii male di nuovo, peggio di prima, ma resistetti ed aspettai di averle riposte in ordine nella loro busta e di averle appoggiate in sicurezza, prima di accasciarmi sulla poltrona dello studio con la testa tra le mani, in preda ad un nuovo e più violento capogiro.
Dunque era davvero stato un incubo. Morioh non era andata a fuoco, Koichi non stava soffrendo per la morte di Police. Era stato tutto un lungo, terribile e realistico sogno. Ripensai ad alcuni dettagli che mi erano sembrati strani, ma su cui non mi ero soffermato al momento, e capì tutto. Per esempio, capì perché Ayako era la commessa del Deux Magots. È così che funziona generalmente nei sogni: il tuo inconscio sogna persone che già conosci, talvolta ponendole in ruoli totalmente diversi dalla quelli che impiegano in realtà, e non si sofferma sugli sconosciuti, li elimina, se necessario. Effettivamente, non ero in grado di ricordare le facce dei signori presenti al Cafè, e anche nel sogno mi era sembrato che fossero troppo vaghi. E gli scenari, nei sogni, cambiano velocemente e sono diversi dalla realtà, per questo mi era sembrato di averci messo pochissimo da casa mia al Deux Magots e così tanto da casa di Koichi alla mia.
Ripensai al sogno con la testa tra le mani finché non mi ripresi quanto bastava, poi, lentamente, mi recai alla finestra dello studio. Spalancai le persiane e la luce del sole e l’aria fresca si schiantarono sul mio viso umido di sudore; era un gesto banale che facevo ogni mattina, ma quel giorno mi sembrò una benedizione. Guardai la piccola parte di Morioh che si spianava davanti a me, con le sue strade, i suoi alberi e le sue case colorate. Inspirai, sentendo il malessere che si calmava, notando che non c’era traccia di fiamme, fumo, pompieri e gente che scappava dalle abitazioni. Era tutto normale come al solito; mi sentì stupido a stupirmene, avendo ormai assodato che la mia esperienza infernale era stata solo un sogno, ma non potei evitare di provare un gran sollievo.
C’era qualcosa, però, che infastidì subito quella sensazione di tranquillità e di sollievo. Mi chiesi il perché di quel sogno, e non per semplice curiosità, ma perché la cosa mi puzzava e non poco. In tutta la mia vita non mi era mai capitato di fare un incubo simile. Non una sola volta. A peggiorare i miei sospetti, poi, c’era il fatto che non mi era sembrato un incubo qualsiasi. Ne ho fatti molti di incubi in vita mia, ma quello era stato il più strano. Era così vivido che ancora mi sembrava di avere le gambe in fiamme, tanto realistico che riuscivo ancora a percepire l’odore di bruciato che aveva impregnato l’aria durante la mia corsa. E quella sensazione di essere costantemente osservato che non mi aveva lasciato mai, dal principio alla fine del sogno… Qualcosa non quadrava. Sentivo dentro di me che non era stato un incubo qualsiasi.
Il ricordo della mostra di Alistair Pearce mi colpì. Potevano essere stati i suoi quadri terrificanti ad avermi sconvolto così tanto da provocarmi un tale incubo? Era assai improbabile. Mi conoscevo bene, e sapevo quale reazione avevano su di me le cose spaventose. E se mi facevano avere degli incubi, certamente non erano di quella portata. Tutto e niente poteva essere; un caso, una reazione insolita della mia mente ai suicidi, ai quadri di Pearce… Non sapevo spiegarmelo, e decisi così di accantonare le domande per aver pace almeno qualche ora. Ero stanco nel corpo e nella mente, dopotutto non era certo stato un buon sonno quello che avevo dormito. Feci un passo per tornarmene a dormire, ma un nuovo pensiero mi bloccò: il problema dei suicidi, purtroppo, non era stato solo un incubo, stava accadendo davvero. Scesi al piano di sotto ed allungai la mano fuori dalla porta per agguantare il giornale, pronto ad aspettarmi il peggio. Lessi le “
Novità di oggi, 10 febbraio 2001” – di nuovo, pensai, a metà fra il riso e l’inquietudine – e lessi con dispiacere che altre due persone erano morte. Due pendolari quarantenni, colleghi di lavoro e amici, che vivevano a Morioh e lavoravano nella città S.
Chiusi violentemente il quotidiano e lo buttai nella spazzatura, tanto ero stufo di quella storia. Non c’era nulla che potessi fare se non aspettare notizie da Josuke, Okuyasu e Koichi, che nel primo pomeriggio mi avrebbero riferito se c’erano eventuali studenti assenti. La noia e l’impotenza mi colsero di nuovo; non avevo voglia di uscire e nemmeno di lavorare, visto che ero persino in anticipo con il mio manga, così sedetti sulla mia poltrona morbida, cercando di riordinare i pensieri. Non passò neppure un minuto che già mi ero assopito senza nemmeno accorgermene.

Mi svegliai di soprassalto, ancora una volta sudato e boccheggiante. Avevo fatto un altro incubo durante la misera ora in cui avevo dormito. Non era minimamente comparabile al precedente, ma era pur sempre stato un sogno terribile: mi trovavo in uno scantinato buio e umido e osservavo un uomo senza volto disegnare pagine del mio manga, rifinirle ed ordinare ad un ragazzo di consegnarle all’editore. Impotente e disperato, legato mani e piedi con spesse corde che mi provocavano dolore, vedevo il mio manga pubblicato con disegni tremendi, la mia trama totalmente cambiata, i personaggi stravolti, la mia storia mandata in rovina. L’uomo senza volto mi consegnava delle lettere dei miei lettori colme di sdegno e delusione in cui mi dicevano che avrebbero smesso di leggermi, che da me non se lo sarebbero mai aspettati; mentre ero legato, inerme davanti alla tortura psicologica, perdevo tutto. La mia opera, i miei lettori, persino i miei soldi e la mia casa.
L’inquietudine mi invase mentre camminavo avanti e indietro per il soggiorno, ripensando all’incubo. Era davvero strano che avessi avuto due incubi, entrambi sulla mia paura più grande, uno dietro l’altro. Era semplicemente improbabile. Se prima la situazione mi sembrava strana, ora ne avevo la certezza. Anche questa volta la sensazione di essere osservato da occhi invisibili ed indiscreti mi aveva accompagnato per tutta la durata del sogno. Non chiedetemi come, ma sapevo di essere osservato da occhi esterni mentre l’uomo distruggeva la mia vita e la mia carriera.
Camminavo e camminavo, torturandomi le mani senza nemmeno accorgermene, con crescente ansia. Ma perché mi sentivo così? Sapevo che erano stati solo incubi, frutto di una qualche inquietudine del mio inconscio; perché sentivo questa paranoia, quest’ansia pervadermi tutto a un tratto anche se gli incubi erano terminati? Il sogno era finito da un bel pezzo, ma io continuavo a sudare freddo. Stavo forse cadendo vittima anche io della strana epidemia di terrore e paranoia che aveva portato tutte quelle persone al suicidio? No, non era possibile. Una persona razionale come me non sarebbe mai potuta arrivare a tanto. Inoltre, se uno Stand mi avesse attaccato, me ne sarei sicuramente accorto. Accantonai il pensiero, nonostante sapessi di star mostrando gli stessi sintomi delle vittime di Morioh morte durante la settimana. Era una coincidenza, non poteva star accadendo a me. O almeno così mi ripetei quanto bastava per convincermene.
Ero ancora stanco, sia fisicamente che psicologicamente, ma quando mi sedetti di nuovo sulla poltrona mi trovai ad aver timore di addormentarmi. Io, Rohan Kishibe, che ormai ne avevo viste di tutti i colori, che troppe volte mi ero messo appositamente in pericolo pur di accaparrarmi una storia, che ero sempre stato un maledetto spericolato privo di qualsiasi timore… Mi ritrovavo ad aver paura del sonno?
Mi passai una mano tra i capelli sudati e sfatti e cominciai a respirare profondamente. Non c’era motivo di essere paranoico, la mia ansia era immotivata. Non ero vittima di nessun attacco. Avevo bisogno di qualche ora di sonno e questa volta non avrei avuto incubi. Ripetei queste affermazioni molte volte, concentrandomi solo su di esse e sul mio petto che si alzava e si abbassava ritmicamente, e dopo uno sforzo non da poco caddi finalmente nel sonno.

Annaspai fuori da un terzo incubo, di nuovo sudato, di nuovo ansante, di nuovo scosso da fremiti di paura. Lanciai uno sguardo all’orologio: era passata un’ora dal mio secondo tentativo di sonno.
Mi gettai a terra, coi pugni stretti dalla rabbia e dallo stress. Avevo sognato ancora una volta la mia rovina; per vie diverse, ma pur sempre la mia rovina. Stavolta perdevo l’uso della parola e la capacità motoria, e immobile come un’ameba guardavo la mia scrivania, i pennelli e la carta che venivano ricoperti da uno strato di polvere sempre più spesso, senza che potessi muovere un solo dito. Potevo solo disperarmi col pensiero, impossibilitato perfino ad urlare, desiderando di morire. E di nuovo la sensazione di due occhi che mi fissavano da ogni angolo, come se una finestra fosse aperta sul mio sogno e qualcuno mi stesse osservando curioso.
Quando, ancora accasciato al suolo, ripensai a quella frase, sentì gli ingranaggi dei miei pensieri scattare, animati da una realizzazione improvvisa. Ripetei le parole appena pensate nella mia mente, scandendole bene:
era come se una finestra fosse aperta sul mio sogno e qualcuno mi stesse osservando curioso.
Mi balenò in mente la faccia di Alistair Pearce, con quei suoi occhietti scuri, occhi con un bagliore vivo; un bagliore di curiosità affine alla mia, di una persona che scruta e ruba le esperienze e i terrori altrui. Mi ricordai una frase che mi aveva detto durante un nostro colloquio:
‒ Io sono solo uno spettatore degli incubi altrui, e la mia missione è quella di rappresentarli nelle mie opere. Per questo sono molto grato a chi condivide le proprie esperienze con me. ‒
In quel momento tutto fu chiaro, semplice e limpido come l’acqua. Mi sentì stupido a non averci pensato prima: gli occhi che mi avevano osservato durante i sogni erano quelli del pittore, quei dannati occhietti curiosi e bramosi di terrore! Doveva essermi tremendamente grato, il maledetto, per avergli offerto per tre volte il mio terrore e la mia paura più grande su un piatto d’argento! Ora che ci pensavo, una delle ragazze che avevo visto nei quadri non mi era sembrata familiare perché aveva un tipico viso asiatico, ma perché era una delle prime vittime di suicidio della città.
Mi girava la testa, sentivo gli occhi bruciare e probabilmente avevo le occhiaie scure come la morte, ma un nuovo fuoco mi arse nel petto e mi costrinse ad alzarmi. Dovevo andare da quell’uomo e porre fine alle sue malefatte. Se era lui il responsabile dei suicidi doveva assolutamente pagarla cara. Tornai in camera di corsa in preda a nuove sensazioni, oltre al panico e all’inquietudine che non avevano smesso di attanagliarmi: era un senso di dovere e soprattutto di vendetta. Dovevo assolutamente affrontare Pearce, e non solo per accaparrarmi una bella storia da raccontare, ma per giustiziarlo e vendicarmi. I volti delle vittime stampati in bianco e nero sul giornale mi passarono uno dopo l’altro davanti agli occhi; pensai a quanto avrebbero potuto vivere ancora quegli studenti, ai sogni che sicuramente avevano avuto, alle famiglie che si erano trovate senza un fratello, una sorella, senza una madre o un padre, e mi trovai pervaso e scosso da un fremito colmo di vendetta e di rabbia. Non vi nego che pensai di ucciderlo con le mie stesse mani. Non sapevo se ne sarei stato in grado e nemmeno se sarebbe stato giusto; non sapevo nemmeno cosa avrei veramente fatto una volta arrivato da lui. Sapevo solo che dovevo andare, e in fretta: ormai ero una vittima del suo attacco, e finché non gli avessi messo fine, il panico, l’angoscia e la frustrazione non mi avrebbero lasciato. Anzi, sarebbero solo peggiorate, forse portandomi al suicidio come le povere anime che mi avevano preceduto.
Mi buttai dell’acqua fredda sul viso, sperando di rinsavire almeno un po’, ed uscì di casa. Non c’era tempo di avvisare i ragazzi, che tra l’altro erano ancora a scuola, essendo quasi mezzogiorno. Me la sarei sbrigato da solo.



Il tragitto in pullman fu una delle esperienze più disturbanti della mia vita. La paranoia mi assaliva sempre più, tanto che cominciai solo in quel momento a comprendere la portata di quell’attacco e la tortura che avevano subito le persone che si erano suicidate; in quel momento capì perché erano arrivate a tanto. Non c’era nulla attorno a me che costituisse un pericolo, ero completamente al sicuro, eppure ogni minima cosa costituiva un allarme alla mia sicurezza, almeno nella mia mente. Ogni persona mi sembrava una minaccia, ogni vecchietta silenziosa e fragile avrebbe potuto attaccarmi da un momento all’altro. I loro bastoni di legno mi parvero katane, i loro sorrisi gentili ghigni malefici; gli uomini, poi, oh! Chissà quante armi nascondevano sotto le giacche, nelle loro valigette! E l’autista, quell’uomo sospettoso, non stava allungando il tragitto? Non era la solita strada, quella! Dove ci stava portando? Cosa aveva in mente? E perché il veicolo faceva dei rumori così strani, così insoliti? Forse aveva dei problemi, forse era pericoloso viaggiarci all’interno?
Il sogno in cui Morioh andava a fuoco mi sembrò un paradiso in confronto a quei minuti in pullman. Furono appena dieci, ma per la mia mente il viaggio durò un’eternità. La parte razionale e quella paranoica del mio cervello sotto attacco combattevano senza sosta, e ovviamente quella paranoica stava avendo la meglio. Inoltre ero stanco, stanco da morire, tanto che non mi sedetti per paura di addormentarmi. Se fosse successo, sicuramente avrei avuto un nuovo incubo e l'angoscia sarebbe aumentata a dismisura. La situazione era destinata a peggiorare sempre più, ed il culmine di essa sarebbe stato il mio suicidio. Cominciai ad avere brevi ma incontrollabili scatti nervosi a mani e gambe e capì che ero davvero rovinato.
Finalmente il pullman si fermò alla stazione, ed io scesi a velocità della luce. Corsi fino alla casa che ospitava la mostra, sia per la fretta di sconfiggere Pearce, sia perché ero nella paranoia più totale. Meno rimanevo in strada, meglio era. Ogni ombra, ogni ramo d’albero mosso dal vento, ogni persona che mi passava accanto erano una tortura psicologica. Il mio respiro era stato affannoso per tutto il tragitto, la testa mi girava; quasi caddi mentre schivavo un sassolino come se fosse una mina.
Come mi aveva ridotto, quel maledetto pittore! Come aveva conciato Rohan Kishibe, fino a quel giorno fiero e senza paura! Sentì la rabbia crescere mentre la villetta gialla si faceva sempre più vicina. Arrivato all’ingresso mi fermai per qualche secondo; cercai di controllare il respiro, di assumere un minimo contegno. Non volevo mostrarmi sconvolto e preda dell’attacco, volevo sembrare sicuro di me e nel controllo più totale. Mostrarmi debole a Pearce significava dargliela vinta, e giurai sul mio onore che non sarebbe successo.
Entrai ispirando a pieni polmoni e mi accolse il ragazzo della volta precedente. Si ricordò di me e mi chiese se avevo il biglietto dell’altra volta da mostrargli, così sarei entrato gratuitamente. Io non badavo quasi per nulla alle sue parole, i miei occhi erano occupati a scrutare sgranati quella piccola parte di mostra che s’intravedeva dall’arcata principale. Mi sembrava vuota.
‒ L’ho dimenticato. ‒ Gli dissi distratto, senza staccare gli occhi dalla prima stanza della mostra. Tirai fuori una banconota stropicciata dalla tasca e la posai con veemenza sul ripiano. Senza attendere un solo secondo, mi allontanai e varcai la soglia della stanza principale.
‒ Signore, il suo resto! ‒ Disse il ragazzo alle mie spalle, impacciato e sicuramente sconcertato dal mio comportamento.
‒ Tienilo. ‒ Gli dissi senza voltare la testa mentre scrutavo i quadri nella stanza vuota, ancora gli stessi della prima volta. Lo udì ringraziare imbarazzato.
Non mi soffermai per più di qualche istante sui quadri: nella situazione psicologica in cui ero avrebbero aumentato il panico, ed era l’ultima cosa di cui avevo bisogno. Mi diressi a passo svelto nella seconda stanza e notai subito che i quadri erano aumentati. Ce n’erano precisamente quattro in più. Mi colpì subito uno più grande, posto in modo che lo sguardo vi cadesse inevitabilmente sopra una volta entrati; non solo per questo mi colpì, però. Ebbe lo stesso effetto di un pugno nella pancia perché dentro vi era raffigurato il mio primo incubo. Un uomo in cui mi riconobbi, accasciato al suolo di spalle, guardava la città arsa dalle fiamme stagliarsi davanti a lui. Era identico a ciò che avevo visto in sogno, non un singolo dettaglio alterato; era solo visto da una prospettiva diversa dalla mia, cioè quella dello sguardo curioso che mi ero sentito addosso per tutto l’incubo. Era strano averlo davanti, dipinto su tela, perfettamente identico a come lo avevo sognato. Un brivido mi percorse violento la schiena e l’ansia tornò a bussare insistentemente nella mia testa. Dunque Alistair Pearce era davvero un ladro di incubi. La sua arte era spettacolare, le pennellate e l’uso dei colori da vero artista, ma ciò che era nei suoi quadri non era assolutamente suo. Quando, il giorno prima, avevo pensato che quelle nei quadri fossero le paure degli altri viste coi suoi occhi, ci avevo azzeccato, solo che io l'avevo inteso in modo figurato e non letterale, come in realtà era.
‒ Kishibe Rohan! ‒ Tuonò una voce alle mie spalle. Mi voltai di scatto, occhi granati, col panico che mi pervadeva sempre più forte e quel fuoco di rabbia che mi bruciava dentro. Alistair Pearce era entrato nella stanza, vestito di tutto punto, testa lucida e baffetti arrotolati all’insù a decorare il suo sorriso, che mi parve malefico ed agghiacciante.
‒ Ha dormito bene? ‒ Mi chiese con un sorriso beffardo. Quella richiesta fu come uno schiaffo in faccia e non fece altro che aumentare la mia rabbia.
All’improvviso assunsi uno strepitoso controllo di me. Drizzai la schiena, il mio viso si rilassò, fui persino in grado di sorridere con un po’ di malignità sulle labbra. Dentro me c’era ancora il panico, l’ansia e l’inquietudine, ma avere davanti l’assassino mi diede la forza di contrastarle. Avevo il mio Stand, potevo aprirlo. Non c’era modo in cui potesse vincere.
‒ Oh, sì, grazie. ‒ Sorrisi io di rimando a quelle labbra beffarde. ‒ Anche se ho fatto un sogno, uno stranissimo sogno. Ogni casa a Morioh andava a fuoco... Ma lei già lo sa. Anche io lo so. So tutto. So che lei è un assassino. ‒ La mia voce, pacata e tagliente fino ad un certo punto, durante le ultime frasi si alzò contro la mia volontà, diventando un ringhio colmo di veleno.
‒ Cos’è tutta questa rabbia, signor Kishibe? ‒ Mi chiese, quasi divertito dal mio scoppio. ‒ Non siamo forse affini, noi? Ho letto in una sua intervista che lei attinge dalla realtà per le sue opere, che è l’unico modo di produrre qualcosa di valido. È quello che faccio anche io! Siamo artisti, e l’arte ha un prezzo: che sia la propria vita, la propria salute, o quella degli altri! ‒
Mi sentii insultato nel profondo per l’accostamento della mia persona a quel mostro, e ciò non fece altro che indignarmi ulteriormente. Non potei fare a meno di sputare parole avvelenate dalla mia bocca.
‒ Lei non è un artista. Lei è un mostro, un ladro, un assassino, ed io non sarò mai come lei. ‒
Pearce rise ancora una volta. ‒ Mi sta dipingendo come il mostro che non sono. Non l’ho voluto io, questo dono. È venuto a me nelle fattezze di una freccia ed io non ho fatto altro che accettarlo. ‒
Dunque non era uno Stand spontaneo, era anche lui vittima di arco e freccia. Quanti danni avevano fatto, e chissà quanti altri da scoprire… Ma non era comunque una scusa per il pittore. Ciò che aveva fatto era imperdonabile.
‒ Lei non si rende conto di quello che ha fatto e che sta continuando a fare. ‒ Dissi scuotendo la testa.
‒ E invece sì. ‒ Tuonò lui, animato tutto ad un tratto da una sorta di irritazione. ‒ Me ne rendo conto e ne traggo vantaggio. È da quando sono stato colpito con una freccia due anni fa che sono in grado di fare dei quadri così realisticamente terrificanti! Anche prima ero bravo, ma da quel giorno, tramite uno strano pennello che si materializza tra le mie mani, sono diventato il migliore. Da quando ho cominciato a dipingere con quel pennello, ho cominciato a causare incubi a chi guardava i miei quadri… E, tramite delle visioni che mi prendono da un momento all’altro, posso vedere questi sogni e ricordarli alla perfezione, così da dipingerli! Non decido io cosa accade nei sogni dei malcapitati, è questo il bello, è la loro mente che fa tutto. Io ho solo una poltrona in prima fila. Questo potere è strabiliante. Gli ho dato anche un nome:
Fear of Sleep, azzeccato, non trova? È stato un dono del cielo. Grazie ad esso, da allora, quelle nei miei quadri sono paure vere, scaturite dall’inconscio delle mie vittime. Sono assurde, impossibili… Ma sono reali. E non c’è niente, niente che possa superare il realismo in qualsiasi opera. ‒
Sorrisi amaramente. La nostra affinità era sorprendente, anche se io, a contrario suo, un’anima l’avevo.
La rabbia che sentivo dentro aumentò. ‒ Si rende conto che la gente si sta suicidando perché non riesce più a dormire? Ogni volta che una vittima si addormenta fa un incubo, e ciò la porta all’esaurimento. Non le basta un incubo solo? Perché deve arrivare ad uccidere? ‒
Pearce sospirò amareggiato. ‒ Non c’è niente che io possa farci. Mia moglie è morta a causa mia, dei miei incubi, ed io non ho potuto fermarlo. Non ho controllo! Non capita con tutti, ma basta che la persona giusta veda un mio quadro per far scattare l’attacco. E una volta che arriva il primo incubo, non c’è più via di scampo. Avrò mietuto almeno un centinaio di vittime ormai… Ma sa una cosa? La mia ambizione di pittore è più grande di qualsiasi senso di colpa! ‒
Inspirai profondamente. Mi trovavo improvvisamente diviso: da una parte lo capivo; capivo la sua ambizione e capivo che non poteva fare nulla per fermare i suoi attacchi. Ma dall’altra parte l’egoismo e la malignità con cui aveva abbracciato quel dono mi facevano accapponare la pelle. Sapeva che bastava uno sguardo ai suoi quadri per scatenare “il suo dono” e organizzava appositamente delle mostre, così da mietere centinaia di vittime e arricchire sé e la propria carriera? Nemmeno io, con la mia ambizione e necessità per qualcosa di reale, sarei mai riuscito a fare una cosa simile. Era semplicemente meschino.
‒ Mi sorprende come lei sia riuscito a capire che ero io l’artefice dei suoi
incubi e delle sue ansie. ‒ Continuò dopo qualche secondo di silenzio. ‒ È stato l’unico, finora. E la sua mente, signor Kishibe… Se lo lasci dire, la sua mente è incredibile! Paura ardente è assolutamente uno dei miei quadri migliori, non smetterò mai di esserle grato! Perché non prova a dormire di nuovo, prima che la sua paura raggiunga il culmine e la conduca alla morte? Vorrei che mi regalasse ancora qualche incubo. ‒
Ah, era dunque così che aveva chiamato il mio quadro?
Paura ardente? Non sapevo se ridere o mettergli le mani addosso. Inspirai di nuovo tra la rabbia e l’ansia che, anche se sotto controllo, non mi aveva mai lasciato.
‒ Mi rifiuto! ‒
Senza esitare un solo momento in più, chiamai il mio Heaven’s Door. Era debole, risentiva del mio stato psicofisico, ma fece il suo effetto. Alistair Pearce cadde a terra esanime, il viso aperto come un libro. Mi precipitai da lui e lessi in fretta se ciò che mi aveva detto corrispondeva alla realtà. Era tutto vero: due anni prima si era trasferito in Giappone ed era stato colpito da una freccia, e sopravvivendo aveva sviluppato lo Stand che da lì in poi avrebbe ucciso molte persone. La crudeltà di quella persona mi fece rabbrividire: in realtà non avrebbe voluto uccidere nessuno, ma non era neanche troppo dispiaciuto quando accadeva. Da quando aveva capito come funzionava il suo potere, non senza sforzo e non certo in poco tempo, non si era più fatto alcuna remora ed era diventato un vero e proprio serial killer. Mi trovai ancora una volta combattuto: potevo condannarlo a morte o cambiare la sua vita, ma cosa era più giusto? Qual era la scelta migliore? Non mi era mai piaciuto mettermi nei panni di Dio, ma stavolta era inevitabile.
Optai per la scelta che ritenni migliore, ovvero a metà fra la condanna e la liberazione. Cercai di vederla con obiettività; se non mi fossi messo in panni imparziali, probabilmente lo avrei ucciso o condannato ad una vita terribile. Ammetto che mi feci guidare molto dal desiderio di vendetta, ma mi seppi anche trattenere, ve lo assicuro. Guardai l’orologio e cominciai a scrivere.
“Tutti gli attacchi in corso del mio Stand cesseranno oggi, 10 febbraio 2001, ore 12:37. Le vittime che non sono ancora morte torneranno normali. D’ora in poi posso causare un solo incubo per persona, e la vittima non ricorderà nemmeno di averlo fatto. Mi sento tanto in colpa per aver ucciso delle persone, non smetterà mai di tormentarmi! Per questo ho deciso di donare per tutta la mia vita il 70% del ricavato mensile dei miei quadri in beneficenza a favore dei disturbi mentali legati alla paura, al panico e all’ansia. E sarò sempre gentile e disponibile con tutti, così da redimermi per tutte le morti che ho causato. Kishibe Rohan è venuto alla mia mostra una volta sola, ma è andato via subito dicendo che i miei quadri fanno schifo. Come ci sono rimasto male! Piangerò e mi dispererò per giorni dalla delusione! Gli spedirò il mio “Paura ardente” per cercare di ingraziarmelo.”
Per fortuna del pittore sentì il mio Stand indebolirsi sempre più e fui costretto a fermarmi lì, altrimenti chissà quante cattiverie avrei scritto. Mi alzai in piedi soddisfatto, osservai Alistair Pearce dormiente sotto di me per un’ultima volta e mi dileguai. Salutai con un sorriso il ragazzo alla reception ed uscì in fretta dalla villetta gialla. Mi fermai sotto ad un albero mosso dal vento leggero, sentendomi finalmente liberato da ogni ansia. Inspirai a grandi polmoni quella serenità, già buona di suo, ma ora resa squisita dalle sensazioni provate quel giorno. Mi innervosiva pensare che l’assassino era stato sempre così vicino, eppure ci avevamo messo un’intera settimana… Ma non c’era ragione di piangere sul latte versato. Ancora una volta dovevo ringraziare la mia curiosità, anche se forse questa volta era opera del destino più che della mia indole curiosa. Se non avessi visitato la mostra il giorno prima, forse avremmo scoperto il colpevole molto tempo dopo.
Guardai il cielo: ogni traccia di brutto tempo era svanita ed ora il sole splendeva, freddo e pigro. Sorrisi ancora della sua empatia mentre mi incamminavo a casa, stavolta a piedi, col cuore finalmente leggero e la mente carica di idee.


***


Meditai a lungo, osservando la spettacolare Paura ardente appesa in salotto, riguardo a quell’avventura ricca di ansia, paura, di rabbia e vendetta. Avevo agito bene? Avrei dovuto punirlo o perdonarlo? Era brutto giocare a fare Dio. Speravo non mi sarebbe mai più capitato. Koichi criticò la mia scelta, quando raccontai tutto ai ragazzi: disse che non spettava a me punirlo. Forse aveva ragione… Ma francamente non mi sentì in colpa. Non avreste fatto lo stesso se ne aveste avuto il potere? Non potevo lasciarlo impunito. Spettava a me? Non mi spettava affatto? Poco m’importa. Avevo una penna con cui scrivere giustizia e non ho sprecato l’occasione… Approfittandomene un po’, lo ammetto.
I ragazzi furono tuttavia fieri del mio operato. Mi dissero che ben due studenti erano stati attaccati domenica e non si erano presentati a scuola lunedì, ma grazie al mio intervento ogni ansia e ogni incubo erano cessati ed ora stavano bene. Soddisfai il mio ego nel raccontare ai ragazzi, ovviamente vantandomene, di come tutto solo ero riuscito a sconfiggere il nemico, mentre loro erano belli tranquilli tra i banchi di scuola. Mi scocciò solo raccontare della mia casa arsa dalle fiamme: c’era ancora un conto in sospeso tra a me e Josuke per l’analogia passata che mi aveva creato nei suoi confronti un odio incontenibile; in più, ad alimentare il fuoco già vivo, Josuke non si sforzò di trattenere le risate quando lo raccontai. Tornò a casa con una guancia dolorante, almeno questo.
Alistair Pearce mi aveva ringraziato per avergli donato i miei incubi, ma alla fine ero io a doverlo ringraziare: il mio nuovo fumetto di paura intitolato
Fear of Sleep, ricco di fuoco, di ansia, di agitazione e di panico piacque moltissimo; le mie preziose tavole ebbero il successo che meritavano, e ancora una volta Rohan Kishibe e il realismo avevano trionfato sul male.



FINE




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