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Autore: simocarre83    27/07/2016    3 recensioni
Può una telefonata cambiare la vita di una persona? Dipende dalla telefonata. Il problema è che spesso non sappiamo quale sarà quella telefonata. Potessimo saperlo, la registreremmo per ricordarcela, o non risponderemmo neanche. Ma non lo sappiamo. E quando ce ne accorgiamo è troppo tardi e possiamo solo sperare che la vita cambi. In meglio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2 – SE TELEFONANDO

“Pronto?” rispose la voce femminile dall’altra parte del telefono.

Ecco. Lo sapevo. Perché non risponde mai lui, al telefono e risponde solo quell’antipatica di Antonella, sua sorella? Anche se aveva due anni meno di me, Giuseppe, a quel tempo poteva oltre ogni dubbio considerarsi il mio miglior amico. Nati nello stesso mese, Agosto, io 1 anno 11 mesi e 20 giorni prima di lui. Lui esattamente 1 anno 11 mesi e 20 giorni dopo di me, se preferite. Ma quando scendevo a Policoro, già da qualche anno a quella parte, la differenza di età si era ridotta. Almeno in rapporto alle nostre età. Giuseppe poteva considerarsi a tutti gli effetti un vero amico.

Potevamo, almeno sportivamente e scolasticamente considerarci complementari. Lui scolasticamente preparato, ma meno di me. Io sportivamente goffo, molto più di lui. Diciamo che quello che non vincevo mai contro di lui a calcio, me lo riprendevo a dama. Anche perché, nei pomeriggi che passavamo insieme, a casa mia o a casa sua, purché al fresco, di più non lo si usava il cervello.

L’anno seguente lui avrebbe dovuto incominciare la seconda superiore. Liceo scientifico. Io già me la cavavo più che bene all’Istituto Tecnico Industriale del paese in cui vivevo. Però guai, d’estate, a parlare di scuola. A meno di non fare i compiti insieme, ognuno per conto suo, ma nella stessa camera, per riuscire ad essere pronti a giocare alla play station subito dopo aver finito la “razione quotidiana” di studio che ci costringevano ad assumere.

La sorella, invece, ha cinque anni più di me. È antipatica, ma antipatica, che, come avrebbe detto un comico dei miei tempi, se si fosse messa allo specchio, l’immagine riflessa gli avrebbe sputato pure lei in un occhio. Almeno così la pensava la parte bambina della mia mente fino a quel momento. In realtà era una ragazza ventenne come tutte le altre, che, forse, se la tirava un po’ troppo, ma neanche più di tanto. Fatto sta che avrei preferito cento volte che mi rispondesse la madre di Giuseppe, piuttosto che la sorella. E infatti avrei dovuto capirlo subito che quella non sarebbe stata una bella telefonata. Più imbarazzato che altro, quindi, risposi.

“Ciao Antonella! Sono Simone! C’è Giuseppe?” risposi.

“Ciao Simone! Si è qui! Te lo passo!”

Sentii il telefono appoggiarsi sul mobiletto. Pochi secondi dopo Giuseppe era al telefono.

“Ciao! Come va?”

“Ciao! Che vuoi?”

“Niente! Volevo solo sentire come stavi, dirti che arrivo dopodomani e salutarti!”

“Ah! Vabbè, se hai finito, che adesso ho da fare?!”

“Ah! Ciao!”

“Ciao”

Il tono, persistente e ritmato, che fuoriuscì dal telefono per qualche altro secondo, mi fece capire che dall’altra parte avevano attaccato.

Non so se vi è mai capitato di avere una conversazione del genere con un vostro amico. Ecco, non ve lo auguro. Quel profondo senso di frustrazione, mista a sbalordimento e rabbia che si prova era, a quel tempo, una prova a cui l’amicizia doveva sottostare. Ma pur sempre una prova.

Il problema non stava tanto nelle cose che mi aveva detto. Capitava anche di trattarci peggio di così. Ma sempre per scherzo. Era il tono che mi lasciava interdetto. Giuseppe era molto più gentile e solare di me. Praticamente mai l’avevo sentito di malumore. E anche quelle poche volte in cui sapevamo che aveva litigato con qualcuno, con noi si era sempre comportato egregiamente. Praticamente con noi non si era comportato mai così.

Mai.

Tranne una volta.

Questo ricordo, di quell’ultima volta in cui si era comportato così con noi, però, fece aumentare la preoccupazione invece che guarirla.

Ma procediamo con ordine.

Prima di tutto è doveroso spiegarvi chi intendo quando uso il “noi”. E potete stare certi che, ogni volta che a Policoro userò il “noi”, mi starò riferendo a noi quattro. Io, Giuseppe, e gli altri due.

Circa cinque anni prima che tutte queste cose entrassero nella mia vita, nella via dove abitava Giuseppe si era spostata un’altra famiglia. Marito, moglie e due figli, Francesco e Emanuele. Emanuele aveva un anno meno di me e Francesco un anno in meno di Giuseppe. Non fu subito amicizia, ma quasi. Nel corso di una memorabile partita a nascondino (avevo 9 anni) fu assolutamente chiaro che saremmo diventati amici. Veri amici.

E le cose andarono esattamente così. Con Francesco e Emanuele si creò l’amicizia. E da quel momento in poi, noi quattro divenimmo inseparabili, come era accaduto fino a quel momento tra me e Giuseppe. Con ciascuno degli altri tre, ognuno di noi, si sentiva di parlare di qualunque cosa. Durante l’inverno io e Giuseppe, a cui si aggiungevano in conoscenza gli altri due, ci scrivevamo con cadenza settimanale. Durante l’estate, poi, dal pomeriggio fino alla sera tardi, a parte una piccola pausa per cenare, stavamo sempre insieme.

Al mattino no, semplicemente perché forze e potenze superiori ci spingevano ad andare al mare in lidi diversi. Con “forze e potenze superiori” mi riferisco a genitori e nonni. E non riuscivamo a vederci. Anche se quell’anno avevamo deciso di provare a chiedere a questi ultimi di incominciare ad andare al mare da soli.

E già il fatto che Giuseppe avesse risposto dopo pochissimi secondi al telefono, mi fece pensare. Di solito, a quell’ora, Giuseppe era in giro con Francesco e Emanuele. O al massimo sotto casa a chiacchierare o a fare una partitella a calcio. Ma di certo, alle 19 della sera, Giuseppe poteva essere ovunque tranne che a casa. Invece aveva, come dire, risposto troppo presto per essere normale.

E poi c’è il ricordo.

L’anno precedente, avevo appena finito di mangiare e ero in casa, aspettando di sentire qualche voce che mi facesse capire che anche i miei amici avevano finito di mangiare. Sentii il portone di casa di Giuseppe che si apriva e richiudeva dietro di lui. Uscii e corsi nell’altra strada. Avevo appena girato l’angolo, quando mi accorsi della situazione. C’erano Amaraldo e Dorian che stavano importunando Giuseppe. Lo stavano strattonando, sfruttando la superiorità numerica. Accortomi della situazione corsi fin giù e spostai di peso il primo, mettendo contemporaneamente in fuga il secondo. Anche Amaraldo se ne andò, preso alla sprovvista dal mio arrivo. Rimanemmo da soli io e Giuseppe.

“Che cosa volevano da te?” gli chiesi.

“E a te che te ne importa?” mi disse, guardandomi con uno sguardo che non avrei mai dimenticato. Trapelava solo il profondo e sincero desiderio di proteggermi da quella situazione. Io fui colto alla sprovvista da quella reazione e mi fermai cercando di cambiare discorso. Dopo una mezz’ora di malumore, fu lui stesso a chiedermi scusa. Però quell’avvenimento mi rimase impresso.

Amaraldo e Dorian erano due fratelli di origine albanese, nati e cresciuti a Policoro. erano coetanei rispettivamente di Emanuele e Francesco e di solito bazzicavano le vie vicino a dove abitavano con una terza persona, Salvatore, un altro ragazzino, coetaneo di Giuseppe. Da due anni Amaraldo, Dorian e Salvatore avevano incominciato a prenderci in giro e stuzzicarci, quasi nel tentativo di farci fare a botte con loro. Senza mai riuscirci, ma andandoci spesso molto vicini. Dall’estate del ’97 si era unito a loro anche un altro ragazzo. Michele.

Michele, mio coetaneo, fino a quel momento il mio miglior amico. Poi, pochi giorni di comportamento “strano”, una furiosa litigata e non aveva mai più voluto avere qualcosa di buono a che fare con noi. La prima volta in cui avevo perso un’amicizia in modo così strano. La prima volta in cui l’avevamo persa tutti la sua amicizia. Da cinque, gli inseparabili passarono a 4.

Uno si era separato.

E da quel momento fu una lotta alla pari. Quattro contro quattro.

C’è da dire che correva una profonda differenza tra Noi e Loro.

Eravamo coetanei e più o meno forti nella stessa maniera. Ma loro erano una banda. Avevano come capo indiscusso Michele che, essendo il più grande, aveva preso facilmente il controllo della situazione. E avevano un obiettivo, osteggiare qualunque nostro tentativo di vivere una vacanza tranquilla. Almeno così credevamo.

Noi quattro eravamo amici. Questo eliminava qualsiasi capo indiscusso; il fatto che fossi il più grande era solo il motivo per cui davano più peso alle mie parole, ma non mi ero mai permesso di dare degli ordini a chicchessia, e nessuno aveva mai accettato di fare quello che diceva qualcun altro in virtù di un vincolo di ubbidienza. Mai. E mai sarebbe accaduta una cosa simile.

Il motivo per cui vi sto raccontando tutte queste cose, dovreste averlo già immaginato. Nel preciso istante in cui uscii dall’ipnosi scaturita dal tono persistente e ritmato che fuoriusciva dal telefono non appena Giuseppe me lo sbatté in faccia, capii immediatamente che era successo qualcosa di abbastanza serio, ma che aveva avuto, inevitabilmente, origine da parte di Michele, Amaraldo, Dorian e Salvatore. Ne avrei saputo di più una quarantina di ore dopo, una volta arrivato a Policoro, ma le cose stavano sicuramente così.

Ed ovviamente, dopo una mezz’oretta, mi arrivò proprio il messaggio che tanto aspettavo, da Giuseppe: “CIAO SMN.SCS X 1a MA QI C’è QLK PROB.VORREI KE NON SCENDESSI ADESSO,MA SO KE NN PSS IMPEDIRLO.BN VGG. CIAOCIAO” (Ciao Simone. Scusa per prima ma qui c’è qualche problema. Vorrei che non scendessi adesso, ma so che non posso impedirlo. Buon viaggio. Ciao ciao).

Il vero problema era che questo, unito a tutte le emozioni di quell’ultimo giorno di scuola, invece di farmi passare la voglia di scendere, me l’accrebbero enormemente. E quelle altre 24’ore passarono molto lentamente.

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NdA : Secondo capitolo. grazie a chi ha letto il primo, chi ha recensito il primo, chi ha aggiunto il primo alle storie seguite. Fatemi sapere cosa pensate anche di questo. 

GRAZIE!!

  
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