A lui i cliché non sono mai piaciuti. Fin da ragazzino e per quel che
la memoria gli permette di ricordare anche a distanza di anni, c’è sempre stato
il “qualcosa in più” nel suo voler diventare qualcuno: desiderava essere il super eroe, il dottore, quell’attore
famoso; non gli è mai bastato essere uno tra tanti, perciò non è mai importato
molto che cambiasse idea spesso come tutti i bambini, perché nella varietà
c’era la costante di voler primeggiare. Nei libri letti – non molti, non è
propriamente quel che si definisce un divoratore di romanzi – non è mai
riuscito ad appassionarsi ai protagonisti canonici, come nemmeno ai cattivi o
qualsiasi standard gli venisse presentato davanti e così, per implicita natura,
si è sempre distinto nei modi più diversi.
Quando ha deciso, a sette anni, che sarebbe diventato il pianista aveva ben delineato nella propria mente, per quanto
accecata dall’età infantile, che non sarebbe mai stato quel tipo di musicista
acclamato un giorno e dimenticato quello subito dopo. E ci è riuscito, poco
importa quanto gli altri considerino estremi i suoi comportamenti ai limiti del
paranoico o i suoi piccoli riti a cui non rinuncerebbe neanche sotto tortura
prima di un’esibizione. Per Mei la perfezione si ricava unicamente da altra
perfezione: per questo le sue ore di allenamento sono sempre le stesse,
distribuite con cura minuziosa lungo la giornata – mai di più, e di certo mai
di meno –, i brani per le esibizioni provati fino allo sfinimento ma arrivando
sempre al punto in cui li si padroneggia con la stessa facilità con cui si
respira, senza nemmeno aver bisogno di pensare di doverlo fare.
Mei non ha mai dimenticato le fasi importanti della sua vita, ne
consegue perciò come i suoi ricordi più vividi siano – per esempio – il momento
in cui ha scelto che suonare il pianoforte sarebbe stata la ragione della sua
vita o qualcosa di molto simile, o come lo strumento sarebbe stato al tempo stesso
l’amico più fidato, il rivale più detestato e parte di se stesso e del suo
corpo; il momento in cui ha vinto la sua prima competizione; la sua prima
esibizione su invito, la lettera ricevuta con l’offerta di studiare all’estero per
un anno intero. La sua relazione con Kazuya.
Sente lo sguardo di Itsuki su di sé, mentre cerca
di regolarizzare il respiro dopo aver sbraitato ininterrottamente per cinque
minuti abbondanti in cui il concetto chiave si sarebbe potuto benissimo
racchiudere nel primo «testa di cazzo!» che ha pronunciato. Si volta a
guardarlo, concentrandosi al pensiero di poter incenerire chiunque e qualunque
cosa solo con lo sguardo, come se farlo fosse normale e alla portata di tutti;
trova in Itsuki la calma che non gli appartiene e la perplessità naturale di
chi non riesce ad afferrare cosa stia accadendo di preciso. La cosa ha il
potere di innervosirlo ancora di più, se possibile.
«Non ci posso credere.» ripete per l’ennesima volta da quando sono rientrati,
forte di un’irritazione crescente anche di fronte alla confusione che legge sul
viso di Itsuki, pur conscio di come l’altro non sia da biasimare in alcun modo;
ma quella è una cosa di cui è consapevole in maniera razionale, e di
razionalità adesso non ha molto. Sente le mani prudere, ma si guarda bene dal
fare un gesto avventato come dare un pugno al primo oggetto o alla prima
superficie disponibile, perché è delle sue mani che si sta parlando e non si
potrebbe mai perdonare una leggerezza del genere nel periodo delle competizioni
musicali. In compenso niente gli impedisce di tirare un calcio proprio davanti
a sé, e a farne le spese è la borsa a tracolla che ha lasciato cadere a terra
senza nemmeno degnarla di uno sguardo.
La cosa a cui non può credere è così personale da non averla mai condivisa con
nessuno, nemmeno Itsuki – nonostante tutto ciò che l’altro possa rappresentare
(senza saperlo) per la sua persona. Ovviamente non è mai stato così stupido da
credere che Kazuya non avrebbe avuto relazioni dopo quella con lui, ma era una
di quelle cose che si formulano nella propria testa per abitudine, perché “è la
norma”, perché suona troppo strano credere che qualcuno resti da solo per tutta
la vita. Allo stesso tempo, però, in cuor suo ha ceduto il posto al suo lato
infantile e ha creduto che sì, magari un
giorno Kazuya avrebbe trovato un’altra persona che per motivi a lui
incomprensibili sarebbe stata quella giusta, avrebbe avuto quel qualcosa in
più. Mai ha preso in considerazione succedesse così presto o che la verità gli
sarebbe stata sbattuta in faccia in quel modo, ed è questo a farlo innervosire
così tanto, perché la celerità della cosa gli sibila nell’orecchio che il
problema è stato lui, quanto inadeguato
fosse e sarà sempre. Ed è la fiera del cliché, ancora una volta, la presa di
coscienza peggiore: non è stato il
ragazzo né uno come tanti, ma il peggiore, il perdente, quello che ha fallito.
È inaccettabile.
Ha scelto la strada del pianoforte prima di qualsiasi altra cosa, e si
può dire sia stata la prima decisione importante della sua vita; tutte quelle
venute dopo in qualche modo non sono mai arrivate a eguagliare quel singolo
passo che da solo ha significato più di centomila passi successivi: la volta in
cui ha varcato la soglia della casa del suo maestro di pianoforte,
avvicinandosi di appena un piede allo strumento, è stato per lui al pari del
lasciare un’impronta sulla superficie della luna.
Da quel momento la sua vita è stata costellata di prime volte tutte dovute e
condivise dal pianoforte e da un brano suonato passando le dita sui tasti
bianchi e neri – la prima esibizione, il primo scrosciare di applausi da parte
del grande pubblico, i primi complimenti, il primo premio, il primo invito come
musicista di apertura per la premiazione di un altro concorso, il primo mazzo
di fiori da parte di qualcuno che non fossero i suoi genitori. Il pianoforte
gli ha tolto ogni singolo istante libero, gli ha reso un inferno mantenersi al
passo con i compiti scolastici senza rinunciare alle ore di esercizi e di brani
ripetuti fino alla nausea, di noiosi solfeggi e di spartiti a causa dei quali
temeva avrebbe perso la vista; lo ha fatto rinunciare a delle uscite con gli
amici, è stato pesante come un macigno ma quello strumento è stato il compagno
più fedele, simile agli eroi dei libri, perché gli ha restituito tutto. Ogni
goccia di sudore, ogni volta che ha finito con il trascurare anche la salute
per focalizzarsi fino a raggiungere la perfezione, ogni momento in cui la
certezza di fallire era la sola realtà palpabile il pianoforte gliel’ha
restituita sottoforma di gioia, di eccitazione, di soddisfazione e successo.
Nonostante tutto Mei non ha mai desiderato smettere, e se lo ha fatto è stato
per il tempo di un battito del cuore, un singolo battito tra migliaia di altri
– ignorato subito dopo.
Nel tempo non ha mai sentito il bisogno di qualcuno che lo comprendesse o con
cui condividere quel modo di vivere; non ha mai preteso la piena comprensione
dei suoi genitori, né anche solo la vaga consapevolezza dei propri compagni di
classe o presunti amici più stretti, ritenendoli troppo al di sotto per poter
davvero capire. Come avrebbe mai potuto biasimarli per non saper collocare bene
nella propria mente gli sforzi e l’ebbrezza di ciò che faceva e di cui loro non
avevano nulla se non un vago sentore? Per quello, a metà degli anni delle
scuole medie, ha deciso da solo di non condividere con gli altri niente più di
quanto potessero ascoltare in un’esibizione – e di contro, forse senza saperlo,
fin dall’inizio ha riversato in quegli unici minuti di comunicazione totale e
spassionata ogni cosa a cui avrebbe voluto saper dare voce in un altro modo.
E poi, senza preavviso e senza che lo volesse, il pianoforte gli aveva
restituito ancora una volta quanto sottratto, seppure in un modo imprevedibile
e lui aveva dovuto abituarsi all’idea di Kazuya nell’aula di musica a ogni
esercitazione tra le mura scolastiche.
La prima volta Kazuya si è presentato alla finestra della stanza a ridosso
delle vacanze estive del secondo anno di liceo, aspettando la fine del brano a
cui si stava esercitando per esprimersi in uno sbuffo divertito, quello capace
di farlo risultare insopportabile ancora prima che abbia modo di presentarsi. E
Mei, mai stato abituato ad alcun cenno nei propri confronti se non la totale
ammirazione, lo aveva a malapena guardato per poi tornare al pianoforte con un
movimento della testa seccato e uno schiocco della lingua contro il palato.
Miyuki quella volta aveva riso e gli aveva detto di impegnarsi, prima di
togliere il disturbo. La cosa era andata avanti più del previsto, come una
routine piuttosto esilarante, e a Mei tutto sommato sarebbe andata bene se si
fosse limitata sempre a uno sbuffo divertito e a una frase di circostanza –
fare orecchie da mercante era una delle cose in cui eccelleva, dopotutto – ma
il karma evidentemente aveva avuto altri progetti per lui fin dall’inizio, così
Miyuki Kazuya aveva sentito il bisogno interiore di dirgli l’unica cosa capace
di fargli saltare i nervi. Non nasconde che forse essere a ridosso di una
competizione importante possa, allora, aver influenzato il suo modo di
rispondere; ma non crede sia stato solo colpa di quello.
«Dovresti impegnarti un po’ di più» gli aveva detto in quell’occasione, lo
sguardo divertito, lì poggiato allo stipite della porta con quell’arroganza
capace di farti desiderare di lanciargli un mobile «sembra di sentire un cd.»
«Hai idea di come si incida un brano su disco?» era stata la sua risposta
piccata, un sorrisetto sbilenco a sottolineare la sua ignoranza «Solo
l’esibizione perfetta viene considerata buona abbastanza da rimanere su un cd.
Quindi grazie del complimento.» aveva tagliato corto, sicuro della sua vittoria
verbale – e dopotutto Miyuki Kazuya era solo l’ennesimo incompetente in fatto
di musica, uno da cui non ci si sarebbe mai potuto aspettare granché.
«Non lo era,» gli aveva detto, perdendo già interesse al punto da muoversi per
andare via «non c’è granché di encomiabile nel suonare come un cd.» aveva aggiunto, e troppo tardi Mei aveva compreso la
realtà dietro quelle parole: suoni senz’anima. Non trasmetti nulla. Sei noioso.
Da quel giorno ha iniziato a suonare nel modo più autodistruttivo possibile: si
svuota dell’anima a ogni nota, dà tutto di sé, e se arriverà il giorno in cui a
lui non resterà niente almeno potrà dire a Miyuki che è un grandissimo stronzo
e che aveva ragione lui.
«Eijun sembra tornato di buon umore.» è l’osservazione di Haruichi mentre si
muovono, chi più chi meno silenzioso, per le strade di Hiraizumi; la loro meta
sono le terme Yukyunoyu, dove li attende un soggiorno di due notti e tre
giorni. Il loro è un regalo di ammissione anticipato su cui, pare, i vari
membri delle loro famiglie abbiano concordato in precedenza. Biglietti in mano
non gli è rimasto che prendere lo shinkansen e affrontare qualche ora di viaggio per arrivare
e godersi ciò che Hiraizumi ha da offrire. Finora a Satoru piace ciò che vede,
e non solo un Eijun entusiasta avanti di una decina di passi rispetto
all’andatura più tranquilla di Haruichi, nonché della propria.
Le terme sono ormai vicine, quasi si intravede la strada in cui dovranno
svoltare secondo la mappa che la madre di Eijun ha procurato loro;
personalmente Satoru preferisce le terme nei posti pieni di verde, quelli che
danno l’idea di una natura incontaminata e protetta dal tempo. Hiraizumi non è
il paesino di montagna immerso tra alberi e strade sterrate, ma non somiglia
nemmeno al caos di Tokyo, con le sue case più sporadiche e qualche sprazzo di
erba incolta qua e là, i negozietti tipici di una meta turistica non ancora del
tutto inglobata dalla modernità.
Si limita ad annuire, in risposta a Kominato e quello, nel mentre, volta la
pagina di un piccolo opuscolo offerto loro alla stazione: «Potremmo andare al
tempio Chusonji,» propone, accostandosi a Furuya
tanto da sfiorargli il braccio con il proprio e mettendo tra loro l’opuscolo,
indicandogli con l’indice una piccola foto del luogo in questione «sembra
ospitino uno spettacolo di teatro nō.»
«Quale? Che spettacolo?» fa eco Eijun, all’improvviso più vicino – forse ha
rallentato, Satoru non se ne è neppure accorto – guardando con curiosità quanto
indicato da Haruichi; questi si prende qualche istante per leggere il breve
programma: «Mettono in scena Yuya, a quanto pare.» conferma infine. A Satoru viene
istintivo lanciare un’occhiata a Sawamura, cercando di decodificare al meglio
il suo entusiasmo, giacché non sembra proprio il tipo appassionato di teatro
tradizionale – o di teatro in generale, in effetti. Suppone, ma non lo dice,
l’altro viva solo sull’onda di un ottimismo immotivato, quello che gli è
proprio.
«Tu cosa ne dici, Satoru?» gli arriva l’interrogativo di Haruichi mentre si
immettono nella via che ospita il loro albergo. Furuya porta lo sguardo su di
lui, quasi sorpreso nel sentirsi interpellato, limitandosi ad annuire.
Haruichi, come sempre, non sembra disturbato dal suo silenzio e torna
semplicemente a scambiare qualche chiacchiera con un Eijun esagitato nemmeno
fosse regredito ai sette anni, gli occhi pieni di meraviglia.
A essere onesto almeno con se stesso, Satoru non si ritiene stupido. Per questo
il suo ignorare come il proprio sguardo segue Kominato non è mai stato casuale,
ma fatto in piena coscienza – anche ora, sebbene lo stia facendo di nuovo,
impedisce ai suoi pensieri di fossilizzarsi sul tentativo di dare alla cosa una
spiegazione valida. Come potrebbe, d’altronde, dedicarsi appieno all’idea di
voler stare con qualcuno quando non ha ancora nemmeno compreso in quali termini
riesce a stare con se stesso? Solo pensare di avvicinare una persona e
rivelargli i propri sentimenti è, ora come ora, una delle cose più spaventose a
cui lui riesca a pensare. E anche
se quando è con Haruichi gli sembra di riuscire ad accettarsi un po’ di più,
anche se in sua compagnia si sente più rilassato e respirare è un poco più
facile, non basta ad attenuare la paura. Quello è l’unico modo in cui Satoru lo
sfiora: con lo sguardo, con discrezione, come se fosse casuale – e gli basta
così, perché non sa ancora chi lui sia o chi voglia essere, a volte crede di
saperlo e di sbagliare, altre di saperlo ed essere nel giusto ma preda di
qualcosa di irrealizzabile.
Abbassa sempre gli occhi prima che l’altro lo noti. Si odia, per questo.
Satoru non ha mai amato particolarmente il teatro, forse perché solo
una volta suo nonno lo ha portato ad assistere a uno spettacolo e lui era poco
più di un bambino; come ogni suo coetaneo è sempre stato abituato più al
cinema, che non alle rappresentazioni tradizionali e anche per questo è rimasto
folgorato dallo spettacolo a cui hanno appena assistito. Persino Eijun, lontano
dall’immagine di uno spettatore pacato per chiunque lo conosca, non ha quasi
fiatato per tutta la rappresentazione. Le movenze, le parole, anche solo il
semplice modo di camminare degli attori ha lasciato un’impronta così forte su
Satoru che ancora gli sembra di sentire addosso i brividi e la partecipazione
alla vicenda, benché quello di Yuya non sia un tema che lo abbia mai toccato in qualche
modo. Ma, in effetti, ad averlo affascinato è stato anche altro oltre la
storia: l’attore di Yuya, la giovane protagonista che
dà il nome anche all’opera messa in scena, è la bellezza più eterea e ambigua
che Satoru abbia mai visto. Un giovane che, se non avesse letto il piccolo
libricino con indicati anche i nomi degli attori, forse non avrebbe mai
scommesso fosse un uomo. È stato colpito non soltanto dalla sua bravura, palese
anche agli occhi di un non intenditore o esperto della sua arte, ma anche dalla
sua totale credibilità nei panni di un fisico, un atteggiamento, un’identità così diversa. E se
razionalmente Satoru comprende come ci sia quasi da aspettarselo – perché è ciò
che fa un attore, indossare identità diverse meglio di come si indosserebbe un
vestito – non riesce a limitare tutto a quello, a minimizzarlo come un qualcosa
di dovuto e richiesto da un lavoro.
Come si diventa qualcuno (qualcosa)
che non si è? Come ci si condiziona al punto da credere di essere davvero
un’altra persona così da essere credibili per gli altri, da far sì che persone
guardando non pensino che c’è qualcosa di strano, qualcosa di innaturale?
Lo invidia. Vorrebbe saperlo fare.
«Ohi, Satoru, muoviti!» lo richiama Eijun, ma sembra così lontano e così
estraneo che contro ogni logica gli si forma un nodo alla gola; se fosse più
attento, se fosse com’è di solito – osservatore silenzioso a cui di rado sfugge
qualcosa – si accorgerebbe dello sguardo di Haruichi su di sé e capirebbe,
forse, di lasciar trapelare molto più di quanto crede.
Ma non se ne rende conto; lui, ora, vorrebbe solo non essere Furuya Satoru.
«Aaaah, non posso credere che per la nostra ultima
festa della fondazione abbiano scelto uno snack bar.» brontola Eijun, del tutto
sdraiato sul proprio banco e approfittando dell’inizio della pausa pranzo. Da
quando hanno dovuto smettere di frequentare il club con la stessa assiduità a
cui si erano abituati dal primo anno, Sawamura somiglia a un bambino esagitato
a cui non è permesso sfogare tutta la propria energia all’aperto. Non si fatica a indovinare come l’altro
avrebbe preferito qualcosa di molto più movimentato – ma, d’altronde, è già
tanto che alla festa della fondazione della scuola vengano loro permesse
attività anche al di fuori della sfera culturale purché siano in qualche modo
collegate.
«Io trovo che siamo stati fortunati.» afferma infatti Haruichi «Specie
considerando come i rappresentati di classe sono riusciti a convincere il
professore.» aggiunge; nemmeno Satoru si aspettava davvero come proposta quella
di allestire uno snack bar a tema “fondazione”, e più nello specifico in merito
alle divise scolastiche che si sono susseguite fino a quella indossata
attualmente. Certo, si parla di abiti del tutto fuori moda, ma considerando
come ad alcune classi sia toccato fare dei cartelloni o delle piccole mostre
sulla storia della scuola, immagina di potersi ritenere fortunato.
«Tu che ne dici, Satoru? Hai preferenze su cosa fare?» domanda Haruichi,
coinvolgendolo. A essere sinceri nell’ultimo periodo non saprebbe dire bene
perché, ma ha la sensazione che Kominato lo osservi di più. E non c’entra la
sua idea a proposito del ragazzo, che si è sempre premurato di tenere per sé da
quando l’ha formulata: sembra come se Haruichi stesse cercando di cogliere
qualcosa in più di quanto potrebbe fare chiedendo a lui direttamente e questo
Satoru non sa come prenderlo, né sa come sentirsi al riguardo. Non ha mai fatto
troppi misteri sulla propria persona, in verità, e non lo ha mai disturbato il
modo di Kominato di venire a sapere le cose più disparate su di lui – anche
quelle sciocche, come il cibo preferito o la musica che ascolta. A eccezione
dell’unica cosa con cui non è sceso a patti nemmeno lui stesso, non c’è davvero
niente che abbia tentato con tutte le sue forze di nascondere e richieda quindi
tanta attenzione e segretezza.
Eppure da Haruichi sente provenire il tipo di sguardi non dovuti alla curiosità
dei ficcanaso, ma alla preoccupazione. Forse non vuole indagare davvero.
Fingere di non averlo notato è molto più semplice, dopotutto.
«Non cucinare.» afferma, sicuro, scatenando l’ilarità di Eijun.
«Sfido, ti scioglieresti prima di arrivare a metà turno, deboluccio come sei,
ah! Io potrei cucinare!»
«Sai farlo?» fa eco Satoru, nel tono un’inflessione quasi impercettibile che
però nessuno degli altri due fatica a cogliere, come dimostra anche il
raddrizzarsi immediato di Eijun e il suo: «Per tua informazione sono anche
bravo! E poi che ci vuole a preparare cose semplici come gli snack?!»
«Sono sicuro che le ragazze saranno contente di avere un volontario tra i
ragazzi per la cucina.» cerca di mediare tra loro Kominato, voltandosi poi a
guardarlo: «Credo saresti un bravo cameriere, Satoru.» aggiunge poi, annuendo
convinto con un sorriso incoraggiante.
«Mmh…» pronuncia, per nulla convinto. Fosse per lui,
in realtà, preferirebbe aiutare con la preparazione dell’aula piuttosto che
fare avanti e indietro fra i tavoli per tutta la giornata, esclusa la pausa data
dall’alternarsi dei turni con gli altri compagni. Non che ci sia poi moltissimo da vedere
in quel momento libero che avrà per riposare, tra l’altro. Suppone però di non
avere molta scelta.
«Furuya-kun?» si sente chiamare e, alzando lo sguardo,
si ritrova davanti due compagne di classe: Chiba e Takahashi sono entrambe nel club di teatro, se non ricorda
male, e sono state poche le occasioni in cui hanno avuto di che parlare se non
in occasioni come quella, dove l’organizzazione compete all’intero gruppo
coinvolto. Delle due è Chiba a fare da portavoce, la
schiena dritta e gli occhi a sostenere quelli di Satoru: delle due è di certo
quella più diretta, questo non ha faticato a notarlo fin dalla prima volta. Si
limita a guardarle entrambe in un tacito far presente di essere in ascolto.
«Torniamo adesso dalla sala professori.» spiega brevemente «E purtroppo non c’è
modo di avere vecchi modelli delle divise usate in passato, se non qualcuno e
che bisognerà sicuramente aggiustare in termini di misure. Hai già deciso di
cosa occuparti?» domanda, con un modo sbrigativo di chi è abituato a fare le
cose mossa da un certo pragmatismo, ma senza la fretta di chi vuole concludere
in breve qualcosa di seccante. Con uno sguardo a Eijun e Haruichi, Satoru si limita
ad annuire, pronunciando un: «Cameriere.» che, a giudicare dal sorriso sul viso
della ragazza, l’altra doveva essersi aspettata. O averci sperato.
«Allora abbiamo un favore da chiederti!» esordisce senza ulteriori preamboli «Dobbiamo
prendere le misure entro oggi, per avere il tempo di comprare l’occorrente,
cucire e avere un piccolo margine per degli aggiustamenti. Specie perché non
fermano le attività del club, e anche se avendo gli esami non abbiamo
partecipato attivamente, stiamo comunque dando una mano con le piccole cose per
abituare il nuovo presidente.» si dilunga il giusto, quanto serve a spiegare i
suoi comportamenti e le sue richieste ma senza sfociare nelle informazioni
inutili e non richieste. Satoru annuisce, sebbene ancora gli sfugga il punto
della situazione, a meno che una delle divise rimediate e modificabili non vada
potenzialmente bene per lui. Vede Chiba e Takahashi scambiarsi un’occhiata, e poi quest’ultima
abbassare lo sguardo quasi a mo’ di scuse; è ancora Chiba
a prendere la parola.
«Yuki-chan è a casa, e non verrà per almeno un paio
di giorni perché è influenzata ed è l’unica ragazza di cui ci mancano le misure.
Nessuna di noi due può andare a casa sua e… lo so che
non dovremmo chiedertelo perché sei un ragazzo, ma Yuki-chan
è così alta— certo non quanto te, ma ti
prego, Furuya-kun, sei l’unico a cui possiamo
chiederlo!» conclude, le mani unite davanti al viso in un’estremizzata
richiesta di aiuto.
A Satoru ci vuole qualche istante per mettere insieme tutti i pezzi e capire:
lo aiuta ricordarsi che “Yuki-chan” si riferisce senza
dubbio a Sasaki Yukiko, una
compagna di classe che ha sempre involontariamente attirato l’attenzione con il
suo quasi innaturale metro e ottanta di altezza.
Non c’è nessuna ragazza che possa indossare la divisa rimediata al posto di Sasaki per prendere misure verosimili per le modifiche; per
questo stanno chiedendo a lui. Non fatica a notare come Takahashi
abbassi di nuovo lo sguardo e si torturi le mani, forse l’unica delle due a
sentirsi a disagio per lo stare chiedendo qualcosa di abbastanza inconcepibile.
Satoru si chiede, guardandola, cosa stia pensando o se consideri scomoda la
loro richiesta per una semplice questione di ragazzi che non indossano la
gonna, o ancora se stia leggendo qualcosa in più del suo silenzio stupito.
Chiba, però, lo incalza di nuovo: «Non ti chiedo di
cambiarti qui, ovviamente!» esclama, convinta così di risolvere ogni problema «Insomma,
ci possiamo spostare nell’aula che usiamo con il club di teatro.» insiste,
offrendogli una valida alternativa. Satoru sente lo sguardo di Eijun e Haruichi
su di sé, ma non osa incontrare quello di nessuno dei due; l’aula si è svuotata
quasi del tutto, dal suonare della campanella a ora, e i pochi compagni rimasti
stanno cincischiando su cosa fare dopo la scuola mentre infilano gli ultimi
quaderni nelle borse o sistemano le sciarpe intorno al collo.
Stringe i pugni, perché vorrebbe scappare via – ma non lo fa, perché sarebbe
sospetto. Crede. Forse è il panico latente a suggerirglielo e a portarlo ad
annuire in silenzio, scatenando una serie di ringraziamenti da parte di Chiba e facendo sì che Takahashi
gli lanci un’occhiata discreta ma perplessa. Nota in un secondo momento,
abbassando gli occhi, la busta tra le mani di Chiba e
come la compagna la tiri su, la posi su un banco vuoto e inizi a trafficare con
il contenuto.
Quando ne tira fuori la gonna di una vecchia divisa scolastica, lunga e dal
taglio classico, Satoru sente un tuffo al cuore e quando la ragazza gliela
porge con entusiasmo, aspetta qualche momento nel timore che gli tremino le
mani.
«Posso provarla sui pantaloni?» domanda, gli occhi a vagare senza una meta
precisa.
«Certamente! Devo solo controllare la lunghezza, mettere un paio di spille di
riferimento e poi puoi toglierla!» assicura Chiba,
mettendogli la gonna praticamente tra le mani senza troppe cerimonie e andando
a cercare ciò di cui ha bisogno nella stessa busta. Satoru guarda la stoffa di
un blu spento e indugia, deglutendo. Con pochi gesti si libera delle scarpe da
interno e dopo un momento di ricerca fa scivolare verso il basso la lampo laterale;
tiene la gonna per il bordo e si china in avanti, alzando un piede e poi
l’altro per infilarla con gesti incerti. Con un momento di esitazione, tira su,
e con qualche difficoltà e le dita che incespicano tra loro alla fine chiude la
zip.
La sensazione che prova è strana: c’è un misto di vittoria, di senso di
realizzazione e poi una grande, immensa vergogna. Quasi trattiene il respiro
mentre Chiba gli gironzola intorno, e mai una volta
cerca con lo sguardo le figure di Haruichi ed Eijun – il loro silenzio gli pesa
più di qualsiasi altra cosa, lasciandolo nell’incertezza su cosa aspettarsi: la
perplessità, l’indifferenza o la derisione.
Sente il sangue confluire fino a dargli la fastidiosa sensazione delle orecchie
tappate e inspira così piano per non sembrare agitato che, forse, ottiene
esattamente l’effetto opposto; quel che spera di non mostrare è l’imbarazzo,
che il sangue non fluisca fino al viso rendendo palese quella sua emozione che
è lì, ad attorcigliargli lo stomaco. Quasi non si rende conto di quando Chiba si allontana e gli dà l’ok per togliersi la gonna, e
la sua reazione è quindi appena in ritardo, sebbene nessuno intorno a lui
sembri badarci troppo.
È di nuovo chino, un piede già sfilato e l’altro lì per alzarsi dal pavimento,
che la voce di Chiba lo raggiunge: «Grazie, e scusa Furuya-kun. A un ragazzo proprio non fa piacere indossare
cose da donna, ma eri davvero l’unica speranza!»
In cuor suo Satoru sa che non c’è cattiveria in quelle parole. Razionalmente
capisce come Chiba non possa nemmeno sospettare con
quale forza lo tocchino, lo demoralizzino; in verità non è la frase di per sé a
bloccarlo per una manciata di secondi in quella posizione scomoda, ma la
consapevolezza che sia un pensiero comune, che sia la norma. Si libera della
gonna, lasciando scivolare di nuovo la stoffa tra le mani di Chiba, i piedi a contatto con il pavimento senza che lui
abbia di nuovo indossato le scarpe. Per qualche attimo non ci sono rumori e non
ci sono persone lì in quella stanza, ma un vortice di pensieri confusi che
quasi lo nauseano.
Come ha potuto essere così stupido? Non ci sarà mai qualcuno che, guardandolo,
vedrà in lui più di ciò che appare – come ha potuto credere di poter essere
come Yuya, senza la derisione o la confusione altrui
a fargli da muro invalicabile?
Deglutisce, le mani abbandonate lungo i fianchi; per qualche istante le stringe
così forte da far sbiancare le nocche, e quando Haruichi azzarda a sfiorargli
una spalla per richiamare la sua attenzione, a malapena si rende conto del modo
brusco in cui si scosta da lui, di come infili velocemente e alla meno peggio
le scarpe, del braccio allungato per prendere al volo la sua borsa e dei passi
frettolosi con cui si allontana per guadagnare l’uscita. La mascella contratta,
lo sguardo focalizzato su tutto e su niente.
Ogni parte del suo corpo grida non
toccarmi; ; l'identità di Furuya Satoru sarà la sua eterna prigione, perché
comprende che per tutta la vita non potrà mai essere altro che quello agli
occhi di chiunque.
«Si prepari Narumiya-san.» è il familiare richiamo che sente a malapena. Non
che sia una novità perdere spesso un richiamo, ed è proprio perché si conosce e
sa in quale stato di trance cade nel
concentrarsi prima di un’esibizione che Mei ha preso l’abitudine di rimanere
nei pressi della porta da cui entrano ed escono dandosi il cambio i
partecipanti a una competizione. Non è rilevante, per lui, che si tratti di una
serata di beneficienza a cui i più giovani musicisti sono stati invitati e che,
quindi, non si tratti di primeggiare; questo non lo ha mai portato a impegnarsi
di meno, a ricercare qualcosa di diverso dalla perfezione in ciò che suona.
Alza lo sguardo sull’uomo che ha pronunciato il suo nome, annuendo
distrattamente e senza dargli più attenzione di quella manciata di secondi in
cui lo fa rientrare nel proprio campo visivo. Lo spartito rilegato che ha tra
le mani, mai aperto pur in quel momento di ripetizione della melodia nella
propria testa, gli rimanda dalla copertina semirigida il nome del brano che ha
scelto di suonare: Chopin, Étude Op. 25,
No. 11. Immagina molti lo conoscano più con il titolo di “Vento invernale” piuttosto che
con il nome tecnico, ma è il tipo di dettaglio di cui Mei non si è mai curato
molto, non pretendendo mai troppo dai non musicisti.
Le dita tamburellano sulla copertina ancora per qualche attimo, prima che
decida di alzarsi e abbandonare lo spartito sulla sedia dove si era accomodato.
Muove qualche passo per avvicinarsi alla porta, le note dell’esibizione prima
della sua e in procinto di concludersi arrivano ovattate; ne attribuisce la
colpa alla porta tenuta chiusa perché nessuno dei rumori del “dietro le quinte”
disturbi i musicisti che si avvicendano sul palco uno dopo l’altro. Inspira,
aprendo e chiudendo le mani, concedendosi quei piccoli esercizi per sciogliere
le dita come prima di ogni esibizione – fa qualche respiro più profondo e lungo
degli altri, cerca un punto fisso nella parete che non lo distragga, in modo da
lasciare il tempo alla sua mente di concludere il millesimo ripetersi di note che
andranno suonate a breve. Non è agitato, in lui scorre un tipo di adrenalina
diversa da quella per la paura del fallimento. Quest’ultimo non è contemplato,
non è un’opzione per lui.
Chopin non ha una storia. O meglio, di sicuro come essere umano ce l’ha, come
musicista, ma i suoi étude
non ne hanno, almeno di pervenute; se anche ne avesse una, in ogni caso, quello
sarebbe il momento che Mei dedicherebbe a dimenticarsene. Prima di ogni
esibizione decide cosa vuole suonare, e non in termini di programma, ma di cosa
vuole mettere in scena per il suo pubblico, quale parte di se stesso è disposto
a mostrare in quella particolare occasione.
Da quando ha sbraitato contro Itsuki – da quando ha avuto quello spiacevole
incontro con Kazuya – è passata una settimana. Odia dover ammettere che Miyuki
riesca ancora a influenzare il suo modo di suonare, o il suo stato d’animo al punto
da fargli cambia lo stile in cui suona, ma purtroppo per lui è così. Più che
una questione inerente al suo ex è, in realtà, un modo di essere mai cambiato:
tutto ciò che lo tocca nel profondo, da quel profondo preme per uscire fuori e
alla fine ogni nota del pianoforte che suona trasuda i sentimenti peggiori che
ha a disposizione. A volte anche i migliori.
Lo scroscio di applausi arriva più forte nel momento in cui le porte si aprono
per permettere a Tachibana Yuri,
la giovane appena esibitasi, di tornare lì e rilassarsi: avvolta in un vestito
di un rosa pallido, ha un sorriso soddisfatto sul viso, una sfumatura di
dolcezza nello sguardo. Mei ha avuto altre occasioni di condividere il palco
con lei, sebbene sempre in momenti diversi essendo entrambi solisti, ma gli è
bastato poco per comprendere quanto siano diversi dal punto di vista della
musica e dell’interpretazione. Lei gli rivolge un cenno del capo e lui ricambia
con uno appena accennato, varcando la soglia e dovendo muovere pochi altri
passi perché le luci del palco filtrino dal lato da cui dovrà entrare. Attende
lì, la voce che lo annuncia e un paio di secondi in più per un altro respiro e
le mani lasciate molli lungo i fianchi.
Quando avanza accolto dai riflettori e dall’applauso della platea ha un
portamento dritto e fiero, gli occhi azzurri fissi sul pianoforte lì al centro
ad attenderlo; vi si ferma davanti, voltandosi verso un pubblico di cui a
stento riconosce le sagome nel contrasto tra il buio della sala e
l’illuminazione del palco, e rivolge loro un inchino educato ma rigido – perché
fin quando le sue mani non sfioreranno i tasti, non ci sarà condivisione tra
loro.
Prende posto, si sistema, posa le mani sui tasti. C’è sempre una frazione di
tempo indefinita in cui solo il silenzio lo circonda, carico dell’aspettativa
di tutti quegli occhi posati su di lui mentre il suo corpo è attraversato
dall’adrenalina; ama l’istante in cui qualcosa che non ha mai saputo
riconoscere con esattezza sembri inglobare tutto, lasciando in lui una calma
innaturale. Unico nodo nel nulla completo, è quello nello stomaco, lì come il
punto in cui si lascia cadere una goccia d’inchiostro sulla carta e la si guarda
poi spandersi fino a inzuppare del tutto un foglio bianco fino a poco prima. È
desiderio puro. È una diga infranta dalla prima nota: i primi suoni sono lenti,
ritmici, ripetitivi. Somigliano al modo in cui i bambini imparano a
destreggiarsi tra i tasti le prime volte, ma non dura molto; quando nessuno se
lo aspetta i suoni si fanno improvvisamente veloci, le note incalzanti in un
alternarsi di bassi e alti, le dita si alternano a una velocità quasi
innaturale. Mei tiene gli occhi fissi sui tasti, quasi senza guardare le mani e
il loro muoversi; la musica che arriva alle sue orecchie è strana, di quella la
cui interpretazione sta nel cuore e
nella testa di chi ascolta. Si agita come una persona disperata, accecata dal
dolore che non sa più dove guardare, e poi oscilla verso l’entusiasmo folle di
un pazzo che vede mostri nei giochi delle ombre proiettate sui muri e
fantastiche magie nei colori brillanti per il riflesso di una luce troppo forte.
Mei quasi riesce a immaginarla, una giovane portata alla malattia per le
emozioni così intense da farle esplodere il cuore; gli sembra di vederla
muoversi lì sul palco, quasi la sente ridere. Un’immagine gioiosa portatrice di
un dolore fuori luogo – la fretta per trattenere tra le mani ciò che non si può
catturare, come l’acqua o l’aria.
C’è un intervallo, una piccola pausa con un inciso diverso, come un’agognata
risoluzione; è la flebile speranza schiacciata dalla ripetizione del motivo
principale di quel brano. Non è così distante dalla fine, Mei lo sa, e quasi gli
sembra di sentire qualcuno sussurrare vicino a lui una nenia fatta di “guardami, guardami, guardami”. E non è
ciò che comunica ogni volta? Non è ciò che esorta a fare – guardarlo, non avere
occhi che per le parti di sé messe a nudo perché chiunque possa spiarle nel
modo più diretto possibile?
È strano sentire una nota stonata all’improvviso. Mei non si è mai
autosuggestionato al punto che la sua mente gli giochi brutti scherzi per cui
nemmeno quanto suonato da lui stesso riesca più ad arrivargli all’orecchio
chiaro. Per la prima volta nella sua vita da quando siede al pianoforte, lo
stomaco gli si chiude in una morsa di puro panico, e le dita incespicano tra
loro saltando una nota.
Non ci vuole molto al brusio per formarsi nella sala, il pubblico incapace di
tenere per sé uno stupore genuino che a Mei risulterebbe irritante se riuscisse
a sentirlo per bene; ma quello che arriva a lui è ovattato: è il panico? È la
paura che gli sta facendo brutti scherzi, mentre cerca di recuperare con la
memoria e le ore di pratica un errore grossolano che non avrebbe mai commesso?
Poi è improvviso, come le sue mani che si fermano, il silenzio che avvolge la
sala, gli occhi che si sgranano fissando i tasti bianchi e neri come se lo
avessero appena privato della cosa più importante al mondo. Lì, seduto sotto i
riflettori, su un palco vuoto che catalizza tutta l’attenzione su di sé, gli
sembra di vedere messa in pratica quella sciocca storia per cui un attimo prima
della morte la vita scorre davanti ai propri occhi. Ciò che vede, però, sono
solo gli ultimi giorni e tutto va a posto non come un puzzle, perché lui ha tra
le mani solo un bicchiere infranto e che è riuscito a ricomporre, a eccezione
di un unico pezzo perso chissà dove. Non osa guardare la platea, il brusio
distante. Non ha il coraggio di alzarsi e andarsene, tornare dov’era prima di
esibirsi e ricercare la propria calma.
Come ha potuto sottovalutare tutti i campanelli d’allarme dell’ultimo periodo?
Come ha potuto minimizzarli? Gli tremano le mani mentre quasi si aspetta la
ragazza immaginaria, perfetta e romantica personificazione della sua musica,
guardarlo e ridere di lui come una bambina. Forse lo sta facendo, ma lui non
può sentirla come tutto il resto.
Le voci, la musica: non c’è niente che riesca a sentire come prima. Niente.
Yuya,
è uno dei più famosi drammi del teatro nō. In questa forma di teatro anche le protagoniste
femminili erano interpretate da attori uomini.
Avviso che gli aggiornamenti – come si è notato – rallenteranno. Purtroppo la
tecnologia mi è avversa e per una serie di motivi non ho modo di lavorare
sempre con word u_ù”