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Autore: Demoniac_Baby    28/07/2016    0 recensioni
Dopo aver girato mezza Europa alla ricerca di un posto sicuro contro gli zombie, Betta, Miguel, Felipe, Satoshi e Helèna, si ritroveranno in un campo militare dove credono di aver ritrovato una casa e un luogo sicuro.
Ma saranno costretti a ritornare in gioco e intraprendere un lungo viaggio verso l'America, dove incontreranno uno strano agglomerato di sopravvissuti, capitanato da Rick Grimes.
Il tutto in un' insalatona di horror, romanticismo, segreti e sorprese.
Buona lettura ;)
Genere: Azione, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: Cross-over, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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IMPORTANTE! Non so quanti abbiano letto “Apocalisse Z” di Manel Loureiro, ma la mia storia inizia verso la fine del secondo libro, quando l’avvocato e Viktor prendono l’elicottero sopra il museo per fuggire da Madrid e tornare all’aereo, dopo che Pauli e Marcelo li abbandonano all’ospedale.

Detto questo, so che gli zombie di TWD sono diversissimi da quelli di Apocalisse Z, ma facciamo finta di niente e teniamo le regole della serie tv.

Buona lettura.
 
 
Biohazard

- Survivors  parte 1 -
 
“Ancora cento metri, svolta a destra, attraversa il vicolo, corri fino al museo evitando i putridi, Sali sull’elicottero e vattene da qui  prima che abbiano il tempo di aprire le fauci.”
Passo dopo passo da ormai una decina di minuti, questo mantra si ripeteva senza freni  nella testolina nera di uno scricciolo di ragazza che ogni due metri ruotava con circospezione la testa, aspettandosi di trovarsi di fronte all’improvviso due file di denti sanguinolenti pronti a strapparle la carne di dosso.
E da altrettanto tempo un uomo sulla quarantina che le camminava accanto con una pistola HK SFP9 in una mano e il braccio di un bambino di undici anni nell’altra, le ripeteva di smetterla o << dannazione, finirai per sparare alla tua ombra e farci accerchiare in cinque minuti! >>
Lei guardò la Glock 9mm che stringeva furiosamente tra le mani come se stesse per saltare in aria, mise la sicura, riponendola nella fondina sulla coscia ed estrasse un machete dalla custodia che portava appesa alla schiena, entrambi gentile omaggio di un’armeria militare poco distante da lì. Contro un gruppo non avrebbe avuto molte possibilità, ma almeno non avrebbe rischiato di sparare a vuoto o, peggio, a Manuel e suo figlio Felipe.
<< Betta, sei impossibile >> sospirò stancamente l’uomo, scuotendo il  bel viso ancora fresco, in quel momento contratto in una smorfia poco amichevole. Elisabetta, altrimenti chiamata “Lizzie” o più comunemente “Betta”, stiracchiò le labbra in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso, ma risultò più come una smorfia.
<< Non me ne voglia prof, ma la nostra scuola non disponeva del corso “Imparate a sparare durante un’invasione di zombie”. >> Guardò per un secondo l’impugnatura del machete << Anzi, a dire il vero portare un’arma qualsiasi ci sarebbe costata come minimo una sospensione con i fiocchi. >> borbottò tristemente, continuando a far vagare lo sguardo lungo ogni stradina che si collegava alla loro, apparentemente deserta.
In risposta l’uomo, che fino a un anno prima era stato il suo professore di spagnolo, rilassò un poco le spalle tese e disse che, forse, se la civiltà sarebbe mai rinata da quel macello,  quei tipi di corsi sarebbero stati decisamente più importanti che tutte le altre materie.
Certo, a quel punto probabilmente, Betta avrebbe preferito continuare la sua vita da liceale, anziché vagare per mezza Europa alla ricerca di un luogo sicuro in un mondo dove i morti facevano la pelle ai vivi.
Mancavano pochi metri allo stretto vicolo che li avrebbe portati al piazzale del Prado, quando un potente ruggito di pale che si mettevano in moto, spezzò il silenzio sepolcrale di Madrid. E fu come se il tempo  si fosse fermato. Su, nel cielo azzurro, il loro piccolo elicottero a bolla era volato in aria senza di loro, seguito dal gemito terrificante di migliaia di gole putrefatte che richiamavano a gran voce il mezzo. E chiunque vi fosse all’interno.
<< Non ci credo…non ci credo! Cazzo! >> imprecò Betta con il terrore nella voce e il tremore che si faceva strada fino a ogni arto.
Il loro unico mezzo di salvezza era sparito, andato. Volato via come un palloncino spinto dal vento, che lascia il bambino con le braccia protese in aria e lo sguardo lucido di pianto.
Ma quel palloncino perduto rappresentava per loro una condanna a morte.
O a una non morte.
 

Un anno e un mese prima. Italia. Milano.
 

Da settimane non si parlava d’altro. Prima il maledetto attentato alla fottuta base russa del Dagequalcosa, poi il misterioso virus che doveva essere decine di cose e alla fine non era nulla. Nulla di conosciuto, per lo meno. Poi le varie equipe mediche che tornavano nei vari paesi portando con sé la malattia e infine il gabinetto di crisi e disastri in svariate città con blocco delle informazioni.
Quasi rimpiangeva i vecchi TG noiosi che parlavano soltanto dell’ennesimo scandalo politico o di quello o quell’altro calciatore che veniva comprato/venduto per somme assurde.
Detto in due parole, sembrava che il mondo intero fosse in ripida discesa verso le soglie del caos, sparato e senza freni.
E di questo Elisabetta Nievo era stufa marcia. Tutte le mattine da due settimane a quella parte, appena acceso il televisore e in ogni canale, trasmettevano solo immagini di città e paesi in cui i Carabinieri mettevano a ferro e fuoco ogni strada, dalla più ampia al vicolo più fetido, alla ricerca dei contagiati o Dio solo sapeva che cosa. E ogni mattina lei si chiedeva perché diamine non mandassero le Ambulanze, anziché le forze dell’ordine. Non era troppo convinta che le pistole spaventassero i virus e che questi una volta viste le armi se la sarebbero svignata, veloci come lepri. E, naturalmente, senza informazioni concrete, le ipotesi continuavano ad essere tra le più disparate.
A Milano ancora non si era verificato nessun caso conclamato e la vita, benché meno caotica e un po’ più ricca di gente paranoica, continuava come al solito.
Come tutte le mattine andava a scuola, ultimo anno di liceo linguistico. Si incontrava al solito bar con il suo migliore amico: Satoshi Sato, l’unico giapponese figo della storia il cui nome creava uno strambo gioco di parole. E lei si divertiva a chiamarlo “Sushi”.
Quando si erano conosciuti, dieci anni prima, si era presa una cotta terribile, ma con lo scorrere del tempo e dopo un bacio rubato per dispetto, aveva deciso che la carne asiatica non faceva per lei ed erano rimasti amici. Quel genere di amici che la mattina ti vengono a buttare giù dal letto, mezz’ora prima del dovuto, che cercano di farti mettere un vestito, anche se tu gireresti perennemente in pigiama e che, anche se maschi, hanno una abnorme fissa per i capelli e ti fanno provare ogni genere di acconciatura. O almeno Satoshi ci provava, perché, anche se a sé stesso i miracoli riuscivano sempre (ne erano prova i capelli nerissimi lucidi e perfetti, tagliati alla moda), l’ultima volta che Betta gli aveva affidato la sua testa, come risultato era sembrata scampata per miracolo dalle mani di un parrucchiere impazzito. Ma quella era un’altra storia.
Come la maggior parte dei milanesi, anche il suo amico in quel periodo sembrava essere stato affetto dallo spettro dell’ipocondria e passava almeno mezz’ora fino al portone d’entrata dell’istituto a diagnosticarsi sintomi inesistenti come un’improbabile caduta dei capelli o un raffreddore particolarmente fastidioso.
E Betta, pizzicandogli le guance, gli ripeteva che sarebbe stata lei stessa la causa della sua calvizie se non avesse smesso di dire stupidaggini.
Sperava ancora che tutto si sarebbe ridotto ad un enorme spavento.
Ma allo scadere della terza settimana da quando tutto era iniziato, aveva capito che Milano non era più sicura. Il morbo era arrivato.
Fu andando verso la fermata dell’autobus dopo la fine delle lezioni che la vide. La folla di persone ammassata per osservare qualcosa. Da lì provenivano grugniti di disgusto e anche da distante si poteva percepire un certo puzzo di vomito rancido.
Tutta quella gente, probabilmente, sarebbe dovuta andare per la sua strada e tornare a casa senza pensarci troppo. Ma si sa, la curiosità è un vizio degli uomini. E, come profetizzato, uccise il gatto. E lo trasformò in un mostro.
Pochi secondi e decine di urla si liberarono nell’aria a seguito di una serie di spari, mentre la massa di persone di diradava, lasciando a Betta un primo piano su una scena che sembrava uscita direttamente dall’inferno.
Per terra, poco distante da una pozza scarlatta di sangue, un uomo, o quello che lo sembrava, stava stringendo tra i denti il collo di un carabiniere, che gorgogliava annegando nel suo stesso sangue, sputando fiotti di saliva rossa. Era come congelata. Come se il mondo intero avesse smesso di girare per concentrarsi in quell’unico raccapricciante atto. Trattenne il fiato per un interminabile minuto, che a lei sembrarono anni. E, come se fosse stato attraversato da una scarica elettrica, l’uomo si girò guardandola con occhi morti.
Le sembrò di stare guardando la morte in faccia.
 
ANGOLINO MIO:
Mi sto gettando a capofitto in una storia che non ho idea di come procederà, ma intanto è un inizio. Cacchio, già tre anni che non pubblico nulla. Sembra una vita… Già dal prossimo capitolo le cose saranno più chiare.
 
Un beso,
Laura
  
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