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Autore: Spartaco    30/07/2016    0 recensioni
Qualcosa si mosse nell’ombra. “Hohoho” rise Jack, una risata abbondante come abbondante era il premio che si aspettava “Come sai che Jack è passato di qua?” aggiunse con la sua voce stridula. River ebbe solo il tempo di aprire la bocca per rispondere, ma venne preceduta da lui stesso: “perché sono tutti morti!”.
Con un gesto accese la sega e, ridendo, irruppe nella stanza successiva.

Un gruppo di ragazzi si butta in un'avventura ai confini del soprannaturale.
Imprigionati in una misteriosa casa dalla quale sembra impossibile uscire, si ritroveranno non solo a dover risolvere il mistero, ma anche a confrontarsi con se stessi e le proprie paure.
Riusciranno a sopravvivere alla notte e a trovare in loro il coraggio di cambiare?
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Episodio 6 – HELLO MONSTER



La debole luce delle stelle illuminava uno stretto rettangolo sul pavimento gelido. Sdraiato sulla piccola branda, un braccio sollevato a coprirsi gli occhi, mille pensieri affollavano la sua mente, ma sembrava non riuscire ad afferrarne neanche uno. Decise di sollevarsi lentamente, poiché non aveva la minima idea di quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che si era alzato in piedi. Prima si sedette lentamente sul bordo del letto, i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani abbandonate in grembo, poi alzò gli occhi, prese coraggio, e fece quei due passi che lo separavano dalla porta. Quella piccola apertura era la sua finestra sul mondo: un corridoio vuoto e silenzioso. Appoggiò una mano sulla porta, gelida anche quella, come a cercare un contatto con ciò che c’era dall’altra parte. Si trovava in un limbo e non aveva modo di uscirne. Poi accadde qualcosa di inaspettato: per la prima volta dopo un tempo interminabile sentì qualcosa. Un rumore...dei passi che provenivano dal corridoio, sempre più vicini.. finché sembrarono fermarsi a poca distanza dalla porta. Fu un attimo: un’ombra scura apparse silenziosa al di là delle sbarre, a qualche metro da lui. Mark accennò un gemito di spavento che gli morì in gola. Si trovò immediatamente incapace di distogliere lo sguardo da quella figura che, pur non possedendo occhi, sembrava stare ad osservarlo. In un misto tra sorpresa e timore, i suoi intensi occhi a mandorla si strinsero ancora di più ed istintivamente si fece più vicino all’apertura. Bastò una leggera pressione della sua mano perché la porta si aprisse da sola, verso l’esterno. Mark non poteva credere ai suoi occhi: era un inganno? O poteva fidarsi? Alla fine il suo coraggio prevalse e diede un ulteriore colpetto alla porta, che si aprì con un cigolìo. “Grazie..credo.” Come fosse un’interferenza, la figura sparì dalla sua vista, e Mark si trovò nel corridoio dove aveva visto Kit e Ken l’ultima volta. Lo percorse in lungo ed in largo, eppure non solo non trovò alcuna scala per scendere ai piani inferiori, ma nemmeno sembravano esserci delle porte che conducessero ad altre stanze. Tranne una, proprio in fondo al corridoio. Quando Mark la aprì si trovò davanti un buio più denso di quello che avesse mai visto, quasi come se la porta desse su un vuoto eterno, cosmico. Richiuse la porta senza esitazione, appoggiandoci sopra entrambe le mani. Mark ripeté più volte lo stesso percorso, sperando che la pianta dell’edifico cambiasse misteriosamente come aveva fatto tante volte, ma nulla accadde. “Hey dove sei? Cosa devo fare? Perché l’hai fatto?” chiedeva lentamente, cercando di mantenere la calma. Studiò a lungo, con lo sguardo e con le mani, ogni centimetro delle pareti per cercare indizi, incongruenze, qualcosa che gli desse un appiglio su cui basarsi. Anche solo l’idea di rimettere piede in un’altra stanza sconosciuta gli dava nausea. Ma dopo aver visitato ogni angolo dello spazio a sua diposizione sembrava l’unica cosa rimasta da fare, l’unica porta rimasta da attraversare. Aprì la porta, fissò quell’oscurità per qualche secondo stringendo i pungi agitato, il respiro che si faceva pesante..poi fece spazio nella sua mente per la determinazione. Quella determinazione, quella forza che non lo aveva mai abbandonato neanche nei momenti più bui della sua vita. In realtà, come lui stesso aveva ammesso una sera con Ken dopo una lunga chiacchierata, l’idea di morire non lo spaventava più così tanto. Ci era andato vicino dopotutto, ed aveva avuto il tempo per accettarlo. Appena messo piede nella stanza la porta si chiuse con un tonfo dietro di lui. Mark chiuse gli occhi. Poi sentì il pavimento muoversi sotto i suoi piedi.

 

 

“E allora insieme andremo a cercare Mark” disse Wesley deciso, dispiegando sul pavimento la mappa dell’edificio che portava nella tasca dei pantaloni “ho bisogno di tutti, cerchiamo di trovare un pattern”.

“è inutile, Wes.” disse Evan da un angolo dell’atrio “ogni volta che viene aperta, ogni porta dà su una stanza diversa”.


Per la verità non ci fu bisogno di andare a cercare Mark, perché Mark cadde, letteralmente, dal cielo. Con un tonfo. “…..ooowwwiee.” disse lamentoso, sfregandosi il fondoschiena con la mano. Alzò poi gli occhi, l’espressione ancora sofferente, per incrociare altri sei sguardi perplessi e sei bocche spalancate. “Ma cos..dove. COME” Jack scoppiò in una risata fragorosa, come suo solito. La sua allegra rumorosità era tornata, per qualche minuto almeno. Ken corse verso di lui: “eheey amicoo!” disse, e lo abbracciò scompigliandogli i folti capelli, praticamente sommergendolo. Ken infatti era un ragazzone alto, mentre Mark era più basso di lui di quasi una ventina di centimetri. Ken non sembrava volerlo lasciare, tanto che River se lo immaginò mentre portava Mark in braccio per il resto del tempo, ed un sorriso apparve sul suo volto. Erano di nuovo tutti insieme. In una pessima situazione, ma erano di nuovo insieme.

 

 

L’entusiasmo non durò a lungo: dovevano elaborare un piano, e l’unica possibilità era quella di capire cosa fosse successo in quella casa, per trovare la chiave che li avrebbe fatti uscire da quella situazione.
Si sedettero tutti in cerchio, nella piccola zona illuminata dal riflettore che Wes aveva saggiamente portato con sé. Il ragazzo era rimasto separato dal gruppo per quelle che sembravano ore e, dato che né le telecamere portatili né i monitor non avevano mai ripreso a funzionare dovettero raccontargli tutto ciò che avevano visto e passato durante quel lasso di tempo.

Ken e Kit raccontarono cosa avevano visto nella soffitta, e Jack del pianto sentito nella stanza prima che la porta gli venisse chiusa in faccia: bastò questo perché Wes confermasse quello che tutti avevano sospettato sin dai primi segnali: la donna impazzì ed uccise suo figlio. Rimaneva però misteriosa la figura del marito della donna, che nessuno di loro aveva visto né percepito. Tranne Mark.
“Io..credo di averlo visto” disse, cercando di evitare lo sguardo dei compagni. Voleva parlare il meno possibile di ciò che era successo nel tempo che aveva passato da solo, troppi ricordi dolorosi gli erano tornati alla mente. “Ci aiuterà ad uscire di qui: è stato lui a portarmi da voi” soggiunse, sperando che tale breve spiegazione bastasse a risparmiargli altre domande. Non amava suscitare compassione, anche perché non ne aveva bisogno: nonostante tutto ciò che gli era accaduto era rimasto forte e saldo, e sapeva di potersela cavare da solo. “Allora non rimane che cercare quest’uomo” concluse Wes, non trovando soluzione migliore.

Impacchettata l’attrezzatura e sistemata in un angolo, presero le torce e tutto ciò che poteva essere loro utile per addentrarsi di nuovo nelle profondità della casa: abbandonarono le telecamere e portarono con sé solo le torce e le ricetrasmittenti, per  viaggiare leggeri. Questo fatta eccezione per Jack, il quale aveva rifiutato con decisione di abbandonare la sega elettrica che aveva trovato poco prima, e ora incedeva soddisfatto e saltellante, sebbene rallentato da quel peso sulle spalle. Iniziarono dunque la loro salita verso  i piani superiori, senza alcuna direzione o guida, semplicemente camminando ed aspettando che succedesse qualcosa. La spedizione era guidata in testa da Wes ed Evan, che avevano ripreso il comando, seguiti da Kit, River e Jack, che cercavano di mantenersi più vicini possibile, nei limiti della distanza di sicurezza dall’arma del maldestro Jack. Chiudevano la fila Mark e Ken, quest’ultimo diviso tra l’entusiasmo ed il timore: riusciva a togliere gli occhi di dosso al suo amico ritrovato solo per guardarsi le spalle ogni pochi minuti. Il bizzarro gruppo proseguì l’esplorazione per qualche tempo, finché si ritrovarono nella grande stanza dove Evan era stato ferito all’inizio della loro avventura. Entrarono nell’atrio esitanti, con passi lenti e silenziosi, per tendere l’orecchio verso il più piccolo suono. Arrivati al centro della stanza si guardarono intorno per decidere il da farsi, in cerca di un’indicazione sulla direzione da prendere, ma qualcosa attirò la loro attenzione: una donna, immobile e silenziosa, li guardava dall’alto, le mani appoggiate sulla balaustra di un piccolo soppalco in legno. Chissà da quanto era lì a fissarli, e ciò che li inquietava ancora di più era l’idea che se non si fossero fermati a guardarsi intorno non l’avrebbero neanche notata. Rimasero in silenzio a studiarsi, lei, dall’espressione corrucciata, e loro, senza sapere cosa fare. Non avevano ancora avuto il coraggio di muovere un muscolo che successe qualcosa: un’ombra nera apparve e colpì Mark alle spalle, passandogli attraverso, e lui cadde a terra spinto da quella forza.

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Mark, disteso a terra, ebbe solo la forza di alzare la testa e guardarsi intorno, ma nonostante gli sforzi riusciva solo ad intravedere delle scene sfocate: sembrava trovarsi in un piccolo pianerottolo, nella penombra, una porta chiusa davanti a lui e una rampa di scale dietro. All’improvviso qualcuno gli passò accanto, spaventandolo: un paio di passi affrettati, poi la figura iniziò a battere i pugni sulla porta, con tanta forza da spostarla, così che Mark poteva vedere una luce intensa filtrare dagli stipiti ad ogni colpo. Nonostante il tutto accadesse e meno di un metro da lui, ogni rumore sembrava lontano, ovattato. Con un calcio l’uomo riuscì ad aprire la porta, ma la luce era troppo intensa e Mark troppo stordito per vedere con esattezza quello che c’era dentro. Vide solamente l’uomo mettersi le mani nei capelli e cadere in ginocchio, mentre una donna dai lunghi capelli si girava verso di lui, il lungo abito azzurro pastello macchiato di rosso sangue.   
In quel momento tutto gli fu chiaro: un figlio che perde il padre, un padre che perde il figlio..un dolore condiviso che si trasformava in malinconia sotto i suoi occhi pieni di lacrime.

Per questo lo aveva aiutato ad uscire da quella stanza: lui sapeva.

Fu un attimo: Mark si risvegliò fra le braccia di Ken, che lo scuoteva con fin troppa forza. “La pianti di fare casini??” gli urlò Ken appena aprì gli occhi, e a dire il vero ci mancò poco che gli tirasse uno schiaffo. “Ma mica è colpa mia” farfugliò Mark, cercando di orientarsi nello spazio e nel tempo. Aiutato da Ken si sollevò fino a sedersi per terra, infilando le dita sotto le lenti degli occhiali e sfregandosi gli occhi con un gemito.  “Ho visto tutto” disse poi, lo sguardo basso, senza avere il coraggio di guardare nessuno negli occhi. Non voleva spiegare il perché era stato scelto lui, e temeva che ogni sua parola avrebbe spinto qualcuno a fare domande che avrebbero portato alla luce argomenti che non si sentiva ancora di affrontare. “Avevamo ragione” disse semplicemente, alzando gli occhi ma continuando ad evitare lo sguardo degli altri, “l’uomo ci aiuterà”. Pronunciate queste parole la figura amica riapparve nell’angolo più vicino della stanza, ed iniziò a piangere. Lo stesso pianto che Jack, Evan e River avevano sentito in quell’angusto corridoio tempo prima: il pianto del bambino che dovevano cercare. Senza interrompere i suoi singhiozzi, la figura si mosse lentamente fino a scomparire dietro una porta alla sua sinistra, e fu allora che il gruppo capì che era il suo modo per guidarli: seguendo il pianto avrebbero potuto raggiungere suo figlio. Forse voleva che lo liberassero? Rincorsero quindi l’uomo per ogni stanza della casa, attraverso rampe di scale e corridoi sempre uguali, per un tempo che sembrava interminabile.
 La debole luce che avvolgeva le stanze, prima fredda ed asettica, stava assumendo man mano una tonalità diversa, tendente al blu ma stranamente calda e tranquillizzante. I ragazzi proseguirono nella loro ricerca, seguendo quel pianto sempre più vicino e sempre più calmo finché scorsero sulla loro destra una porta aperta, di legno bianco. In quel momento il pianto cessò. Il gruppo si affacciò titubante alla soglia, Mark per primo, e videro una stanza illuminata da una luce notturna. Le pareti erano scure, delle tende lunghe ma leggere coprivano una finestra chiusa e, accanto ad un lettino di legno chiaro, c’era un bambino biondo, dell’età di più o meno due anni. L’avevano trovato. Il silenzio piombò sui ragazzi, che quasi temevano che un loro movimento brusco lo avrebbe spaventato. Mark sospirò e fece un passo verso la stanza, sicuro che anche quel compito spettasse a lui, ma Jack appoggiò la sua arma fuori dalla porta, attento a non mostrarla, e si fece avanti prima di lui. Il piccolo, in una tutina azzurra, si sfregò gli occhi con il dorso della mano, mentre Jack gli parlava dolcemente per tranquillizzarlo. Si accovacciò all’altezza del bambino ed allungò una mano verso di lui, mentre la manica della felpa troppo grande gli scivolava quasi a coprirgli le dita. Jack in effetti sembrava essere la persona più adatta a comunicare in questa situazione: era, in fondo, lui stesso un bambino, avvolto in quegli abiti troppo grandi, nascosto da quel cappello da cui non si separava mai. Eppure, rispecchiata in quei riflessi argento che gli illuminavano i capelli, c’era un’anima antica ed attenta a ciò che accadeva intorno a lui. Aveva passato molto tempo da solo, viveva infatti in una casetta ai margini di un bosco ed i suoi contatti con altre persone per lungo tempo si erano limitati ai convenevoli con i proprietari dei negozi dove acquistava il necessario per vivere. In mezzo alla natura aveva sviluppato una grande capacità di osservazione ed il silenzio aveva amplificato la sua sensibilità verso anche la più piccola vita. Passava anche giorni senza aprire bocca con nessuno se non con i suoi amici on line, e forse era proprio per questo che quando parlava usava tutto il fiato che aveva in corpo. “Avanti, vieni qui, avvicinati..” mormorava, i grandi occhi azzurri guardavano con dolcezza quelli del bambino, che alla fine, esitante, mise la sua manina su quella di Jack. Un sorriso illuminò il volto di quest’ultimo, mentre il bambino diventava sempre più trasparente, fino a che la sua mano attraversò quella di Jack, e scomparve del tutto. Un urlo di donna squarciò il dolce silenzio di quel momento. E fu allora che divenne improvvisamente giorno.

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Nonostante la luce improvvisa li avesse abbagliati, tutto il gruppo sentì l’animo più leggero. Bastarono pochi minuti perché i loro occhi si abituassero alla nuova situazione, minuti che furono occupati da pacche sulla schiena alla cieca e dagli acuti urletti di gioia di Wes, mentre Jack uscì a tentoni dalla stanza per trovare un abbraccio di River. “Se non l’aveste notato, non ho idea di cosa sto facendo ahahahah” fece in tempo a dire, prima di essere colpito da un’affettuosa quanto energica mano sulla spalla da parte di Ken. “Ora cerchiamo di uscire da qui” disse poi Evan, non riuscendo a contenere un sorriso. Gli ultimi avvenimenti, insieme alla presenza dell’amico Wes, avevano infuso in lui una nuova forza. Era stato per lungo tempo spaventato, eppure aveva impedito a se stesso di mostrarlo ad alcuno, sempre fedele alla recitazione della sua parte di uomo indipendente, che non ha bisogno dell’aiuto di nessuno. Era stato costretto ad assumere quell’atteggiamento da lungo tempo, riconoscendo le proprie difficoltà sia fisiche sia psicologiche: goffo, imbranato, la vista debole..doveva in qualche modo proteggersi dalle malelingue. Era proprio per questo che aveva intrapreso la carriera di investigatore: doveva dimostrare a tutti che nonostante i suoi problemi lui poteva fare tutto. Di solito, infatti, si buttava a capofitto nelle situazioni più impossibili, rimanendo però sicuro che accanto a sé ci fosse qualcuno che potesse fornire un aiuto “non richiesto”. I suoi amici lo conoscevano bene, ed evitavano di offrire a parole alcuna assistenza, nonostante con i fatti fossero quasi sempre loro a risolvere la situazione. Evan doveva essere sicuro di avere una spalla in caso le cose fossero andate male per essere così sicuro da tenere in piedi la sua commedia, a cui ormai non credeva nessuno tranne lui. Quando si era diviso da Wes aveva perso la sua rete di sicurezza, ed era stato costretto ad indossare la sua maschera sapendo che se avesse fatto un errore la responsabilità sarebbe stata solo sua. Ora si sentiva di riprendere il controllo della situazione, e si portò velocemente in testa al gruppo.

Avevano fatto un passo avanti ma sapevano che la donna non li avrebbe lasciati andare così facilmente: dovevano prepararsi ad affrontare il peggio. Rimanendo uniti, iniziarono di corsa la loro discesa.

 

 


Nonostante fosse primavera inoltrata il sole quella mattina era basso sull’orizzonte, ed una luce fredda inondava la città. il silenzio fu interrotto dai passi pesanti di Jack che scendeva a balzelloni l’ultima rampa di scale che conduceva al secondo piano, trasportando la sega elettrica. Dietro di lui lo seguiva River, guardandosi indietro per controllare che nessuno, a parte gli altri membri del gruppo, li stesse seguendo. I due attraversarono una grande stanza vuota, dal pavimento di vecchie piastrelle marrone chiaro si sollevavano granuli di polvere resi ancora più visibili dai fasci di luce che penetravano dalle finestre. Si avvicinarono alla porta scura e sbirciarono dal rettangolo di vetro blindato la stanza adiacente. Qualcosa si mosse nell’ombra. “Hohoho” rise Jack, se avesse avuto le mani libere se le sarebbe sfregate per la soddisfazione. “Come sai che Jack è passato di qua?” aggiunse con la sua voce stridula. River ebbe solo il tempo di aprire la bocca per rispondere, ma venne preceduta da lui stesso: “perché sono tutti morti!”. Con un gesto accese la sega e, ridendo, irruppe nella stanza successiva.

Il ragazzo studiò la stanza in silenzio, pronto ad ogni evenienza. Un rumore alle loro destra, non più intenso di un rapido fruscio, ruppe il silenzio surreale, mentre una figura umana, dai lunghi capelli, usciva accovacciata dall’ombra. Jack strinse ancora più saldamente la presa sulla sua arma.
“E così.. sei tu”

“Hello Monster” sussurrò Evan, arrivato nella stanza, per la prima volta dopo anni sentendosi di nuovo un investigatore.

 

-EPISODIO 6-

FINE

  
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