Episodio 6
– HELLO MONSTER
La debole luce
delle stelle
illuminava uno stretto rettangolo sul pavimento gelido. Sdraiato sulla
piccola
branda, un braccio sollevato a coprirsi gli occhi, mille pensieri
affollavano
la sua mente, ma sembrava non riuscire ad afferrarne neanche uno.
Decise di sollevarsi
lentamente, poiché non aveva la minima idea di quanto tempo
fosse passato
dall’ultima volta che si era alzato in piedi. Prima si
sedette lentamente sul
bordo del letto, i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani
abbandonate in
grembo, poi alzò gli occhi, prese coraggio, e fece quei due
passi che lo
separavano dalla porta. Quella piccola apertura era la sua finestra sul
mondo:
un corridoio vuoto e silenzioso. Appoggiò una mano sulla
porta, gelida anche
quella, come a cercare un contatto con ciò che
c’era dall’altra parte. Si
trovava in un limbo e non aveva modo di uscirne. Poi accadde qualcosa
di
inaspettato: per la prima volta dopo un tempo interminabile
sentì qualcosa. Un
rumore...dei passi che provenivano dal corridoio, sempre più
vicini.. finché
sembrarono fermarsi a poca distanza dalla porta. Fu un attimo:
un’ombra scura
apparse silenziosa al di là delle sbarre, a qualche metro da
lui. Mark accennò
un gemito di spavento che gli morì in gola. Si
trovò immediatamente incapace di
distogliere lo sguardo da quella figura che, pur non possedendo occhi,
sembrava
stare ad osservarlo. In un misto tra sorpresa e timore, i suoi intensi
occhi a
mandorla si strinsero ancora di più ed istintivamente si
fece più vicino all’apertura.
Bastò una leggera pressione della sua mano perché
la porta si aprisse da sola,
verso l’esterno. Mark non poteva credere ai suoi occhi: era
un inganno? O
poteva fidarsi? Alla fine il suo coraggio prevalse e diede un ulteriore
colpetto alla porta, che si aprì con un cigolìo.
“Grazie..credo.” Come fosse
un’interferenza, la figura sparì dalla sua vista,
e Mark si trovò nel corridoio
dove aveva visto Kit e Ken l’ultima volta. Lo percorse in
lungo ed in largo, eppure
non solo non trovò alcuna scala per scendere ai piani
inferiori, ma nemmeno
sembravano esserci delle porte che conducessero ad altre stanze. Tranne
una,
proprio in fondo al corridoio. Quando Mark la aprì si
trovò davanti un buio più
denso di quello che avesse mai visto, quasi come se la porta desse su
un vuoto
eterno, cosmico. Richiuse la porta senza esitazione, appoggiandoci
sopra
entrambe le mani. Mark ripeté più volte lo stesso
percorso, sperando che la
pianta dell’edifico cambiasse misteriosamente come aveva
fatto tante volte, ma
nulla accadde. “Hey dove sei? Cosa devo fare?
Perché l’hai fatto?” chiedeva
lentamente, cercando di mantenere la calma. Studiò a lungo,
con lo sguardo e
con le mani, ogni centimetro delle pareti per cercare indizi,
incongruenze,
qualcosa che gli desse un appiglio su cui basarsi. Anche solo
l’idea di
rimettere piede in un’altra stanza sconosciuta gli dava
nausea. Ma dopo aver
visitato ogni angolo dello spazio a sua diposizione sembrava
l’unica cosa
rimasta da fare, l’unica porta rimasta da attraversare.
Aprì la porta, fissò
quell’oscurità per qualche secondo stringendo i
pungi agitato, il respiro che
si faceva pesante..poi fece spazio nella sua mente per la
determinazione.
Quella determinazione, quella forza che non lo aveva mai abbandonato
neanche
nei momenti più bui della sua vita. In realtà,
come lui stesso aveva ammesso
una sera con Ken dopo una lunga chiacchierata, l’idea di
morire non lo
spaventava più così tanto. Ci era andato vicino
dopotutto, ed aveva avuto il
tempo per accettarlo. Appena messo piede nella stanza la porta si
chiuse con un
tonfo dietro di lui. Mark chiuse gli occhi. Poi sentì il
pavimento muoversi
sotto i suoi piedi.
“E
allora insieme andremo a cercare Mark” disse Wesley
deciso, dispiegando sul pavimento la mappa dell’edificio che
portava nella
tasca dei pantaloni “ho bisogno di tutti, cerchiamo di
trovare un pattern”.
“è
inutile, Wes.” disse
Evan da un angolo dell’atrio “ogni volta che viene
aperta, ogni porta dà su una
stanza diversa”.
Per la verità non ci fu bisogno di andare a cercare Mark,
perché Mark cadde,
letteralmente, dal cielo. Con un tonfo.
“…..ooowwwiee.” disse lamentoso,
sfregandosi il fondoschiena con la mano. Alzò poi gli occhi,
l’espressione
ancora sofferente, per incrociare altri sei sguardi perplessi e sei
bocche
spalancate. “Ma cos..dove. COME” Jack
scoppiò in una risata fragorosa, come suo
solito. La sua allegra rumorosità era tornata, per qualche
minuto almeno. Ken corse
verso di lui: “eheey amicoo!” disse, e lo
abbracciò scompigliandogli i folti
capelli, praticamente sommergendolo. Ken infatti era un ragazzone alto,
mentre
Mark era più basso di lui di quasi una ventina di
centimetri. Ken non sembrava
volerlo lasciare, tanto che River se lo immaginò mentre
portava Mark in braccio
per il resto del tempo, ed un sorriso apparve sul suo volto. Erano di
nuovo
tutti insieme. In una pessima situazione, ma erano di nuovo insieme.
L’entusiasmo
non durò a lungo: dovevano elaborare un piano, e
l’unica possibilità era quella di capire cosa
fosse successo in quella casa,
per trovare la chiave che li avrebbe fatti uscire da quella situazione.
Si sedettero tutti in cerchio, nella piccola zona illuminata dal
riflettore che
Wes aveva saggiamente portato con sé. Il ragazzo era rimasto
separato dal
gruppo per quelle che sembravano ore e, dato che né le
telecamere portatili né
i monitor non avevano mai ripreso a funzionare dovettero raccontargli
tutto ciò
che avevano visto e passato durante quel lasso di tempo.
Ken e Kit
raccontarono cosa avevano visto nella soffitta, e
Jack del pianto sentito nella stanza prima che la porta gli venisse
chiusa in
faccia: bastò questo perché Wes confermasse
quello che tutti avevano sospettato
sin dai primi segnali: la donna impazzì ed uccise suo
figlio. Rimaneva però
misteriosa la figura del marito della donna, che nessuno di loro aveva
visto né
percepito. Tranne Mark.
“Io..credo di averlo visto” disse, cercando di
evitare lo sguardo dei compagni.
Voleva parlare il meno possibile di ciò che era successo nel
tempo che aveva
passato da solo, troppi ricordi dolorosi gli erano tornati alla mente.
“Ci
aiuterà ad uscire di qui: è stato lui a portarmi
da voi” soggiunse, sperando
che tale breve spiegazione bastasse a risparmiargli altre domande. Non
amava
suscitare compassione, anche perché non ne aveva bisogno:
nonostante tutto ciò
che gli era accaduto era rimasto forte e saldo, e sapeva di potersela
cavare da
solo. “Allora non rimane che cercare
quest’uomo” concluse Wes, non trovando
soluzione migliore.
Impacchettata
l’attrezzatura e sistemata in un angolo,
presero le torce e tutto ciò che poteva essere loro utile
per addentrarsi di
nuovo nelle profondità della casa: abbandonarono le
telecamere e portarono con
sé solo le torce e le ricetrasmittenti, per
viaggiare leggeri. Questo fatta eccezione per Jack, il
quale aveva
rifiutato con decisione di abbandonare la sega elettrica che aveva
trovato poco
prima, e ora incedeva soddisfatto e saltellante, sebbene rallentato da
quel
peso sulle spalle. Iniziarono dunque la loro salita verso i piani superiori, senza
alcuna direzione o
guida, semplicemente camminando ed aspettando che succedesse qualcosa.
La
spedizione era guidata in testa da Wes ed Evan, che avevano ripreso il
comando,
seguiti da Kit, River e Jack, che cercavano di mantenersi
più vicini possibile,
nei limiti della distanza di sicurezza dall’arma del
maldestro Jack. Chiudevano
la fila Mark e Ken, quest’ultimo diviso tra
l’entusiasmo ed il timore: riusciva
a togliere gli occhi di dosso al suo amico ritrovato solo per guardarsi
le
spalle ogni pochi minuti. Il bizzarro gruppo proseguì
l’esplorazione per
qualche tempo, finché si ritrovarono nella grande stanza
dove Evan era stato
ferito all’inizio della loro avventura. Entrarono
nell’atrio esitanti, con
passi lenti e silenziosi, per tendere l’orecchio verso il
più piccolo suono.
Arrivati al centro della stanza si guardarono intorno per decidere il
da farsi,
in cerca di un’indicazione sulla direzione da prendere, ma
qualcosa attirò la
loro attenzione: una donna, immobile e silenziosa, li guardava
dall’alto, le
mani appoggiate sulla balaustra di un piccolo soppalco in legno.
Chissà da
quanto era lì a fissarli, e ciò che li inquietava
ancora di più era l’idea che
se non si fossero fermati a guardarsi intorno non l’avrebbero
neanche notata.
Rimasero in silenzio a studiarsi, lei, dall’espressione
corrucciata, e loro,
senza sapere cosa fare. Non avevano ancora avuto il coraggio di muovere
un
muscolo che successe qualcosa: un’ombra nera apparve e
colpì Mark alle spalle, passandogli
attraverso, e lui cadde a terra spinto da quella forza.
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Mark, disteso a
terra, ebbe solo la forza di alzare la testa
e guardarsi intorno, ma nonostante gli sforzi riusciva solo ad
intravedere
delle scene sfocate: sembrava trovarsi in un piccolo pianerottolo,
nella
penombra, una porta chiusa davanti a lui e una rampa di scale dietro.
All’improvviso qualcuno gli passò accanto,
spaventandolo: un paio di passi
affrettati, poi la figura iniziò a battere i pugni sulla
porta, con tanta forza
da spostarla, così che Mark poteva vedere una luce intensa
filtrare dagli
stipiti ad ogni colpo. Nonostante il tutto accadesse e meno di un metro
da lui,
ogni rumore sembrava lontano, ovattato. Con un calcio l’uomo
riuscì ad aprire
la porta, ma la luce era troppo intensa e Mark troppo stordito per
vedere con
esattezza quello che c’era dentro. Vide solamente
l’uomo mettersi le mani nei
capelli e cadere in ginocchio, mentre una donna dai lunghi capelli si
girava
verso di lui, il lungo abito azzurro pastello macchiato di rosso
sangue.
In quel momento tutto gli fu chiaro: un figlio che perde il padre, un
padre che
perde il figlio..un dolore condiviso che si trasformava in malinconia
sotto i
suoi occhi pieni di lacrime.
Per questo lo
aveva aiutato ad uscire da quella stanza: lui
sapeva.
Fu un attimo: Mark si risvegliò fra le braccia di Ken, che
lo scuoteva con fin
troppa forza. “La pianti di fare casini??” gli
urlò Ken appena aprì gli occhi,
e a dire il vero ci mancò poco che gli tirasse uno schiaffo.
“Ma mica è colpa
mia” farfugliò Mark, cercando di orientarsi nello
spazio e nel tempo. Aiutato
da Ken si sollevò fino a sedersi per terra, infilando le
dita sotto le lenti
degli occhiali e sfregandosi gli occhi con un gemito.
“Ho visto tutto” disse poi, lo sguardo
basso,
senza avere il coraggio di guardare nessuno negli occhi. Non voleva
spiegare il
perché era stato scelto
lui, e temeva
che ogni sua parola avrebbe spinto qualcuno a fare domande che
avrebbero
portato alla luce argomenti che non si sentiva ancora di affrontare.
“Avevamo
ragione” disse semplicemente, alzando gli occhi ma
continuando ad evitare lo
sguardo degli altri, “l’uomo ci
aiuterà”. Pronunciate queste parole la figura
amica
riapparve nell’angolo più vicino della stanza, ed
iniziò a piangere. Lo
stesso pianto che Jack, Evan e River avevano sentito
in quell’angusto corridoio tempo prima: il pianto del bambino
che dovevano
cercare. Senza interrompere i suoi singhiozzi, la figura si mosse
lentamente
fino a scomparire dietro una porta alla sua sinistra, e fu allora che
il gruppo
capì che era il suo modo per guidarli: seguendo il pianto
avrebbero potuto raggiungere
suo figlio. Forse voleva che lo liberassero? Rincorsero quindi
l’uomo per ogni
stanza della casa, attraverso rampe di scale e corridoi sempre uguali,
per un
tempo che sembrava interminabile.
La debole luce che
avvolgeva le stanze,
prima fredda ed asettica, stava assumendo man mano una
tonalità diversa, tendente
al blu ma stranamente calda e tranquillizzante. I ragazzi proseguirono
nella
loro ricerca, seguendo quel pianto sempre più vicino e
sempre più calmo finché
scorsero sulla loro destra una porta aperta, di legno bianco. In quel
momento
il pianto cessò. Il gruppo si affacciò titubante
alla soglia, Mark per primo, e
videro una stanza illuminata da una luce notturna. Le pareti erano
scure, delle
tende lunghe ma leggere coprivano una finestra chiusa e, accanto ad un
lettino
di legno chiaro, c’era un bambino biondo,
dell’età di più o meno due anni. L’avevano trovato. Il
silenzio piombò
sui ragazzi, che quasi temevano che un loro movimento brusco lo avrebbe
spaventato. Mark sospirò e fece un passo verso la stanza,
sicuro che anche quel
compito spettasse a lui, ma Jack appoggiò la sua arma fuori
dalla porta,
attento a non mostrarla, e si fece avanti prima di lui. Il piccolo, in
una
tutina azzurra, si sfregò gli occhi con il dorso della mano,
mentre Jack gli
parlava dolcemente per tranquillizzarlo. Si accovacciò
all’altezza del bambino
ed allungò una mano verso di lui, mentre la manica della
felpa troppo grande
gli scivolava quasi a coprirgli le dita. Jack in effetti sembrava
essere la
persona più adatta a comunicare in questa situazione: era,
in fondo, lui stesso
un bambino, avvolto in quegli abiti troppo grandi, nascosto da quel
cappello da
cui non si separava mai. Eppure, rispecchiata in quei riflessi argento
che gli
illuminavano i capelli, c’era un’anima antica ed
attenta a ciò che accadeva
intorno a lui. Aveva passato molto tempo da solo, viveva infatti in una
casetta
ai margini di un bosco ed i suoi contatti con altre persone per lungo
tempo si
erano limitati ai convenevoli con i proprietari dei negozi dove
acquistava il
necessario per vivere. In mezzo alla natura aveva sviluppato una grande
capacità di osservazione ed il silenzio aveva amplificato la
sua sensibilità verso
anche la più piccola vita. Passava anche giorni senza aprire
bocca con nessuno
se non con i suoi amici on line, e forse era proprio per questo che
quando
parlava usava tutto il fiato che aveva in corpo. “Avanti,
vieni qui,
avvicinati..” mormorava, i grandi occhi azzurri guardavano
con dolcezza quelli
del bambino, che alla fine, esitante, mise la sua manina su quella di
Jack. Un
sorriso illuminò il volto di quest’ultimo, mentre
il bambino diventava sempre
più trasparente, fino a che la sua mano
attraversò quella di Jack, e scomparve
del tutto. Un urlo di donna squarciò il dolce silenzio di
quel momento. E fu allora
che divenne improvvisamente giorno.
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Nonostante la
luce improvvisa li avesse abbagliati, tutto il
gruppo sentì l’animo più leggero.
Bastarono pochi minuti perché i loro occhi si
abituassero alla nuova situazione, minuti che furono occupati da pacche
sulla
schiena alla cieca e dagli acuti urletti di gioia di Wes, mentre Jack
uscì a
tentoni dalla stanza per trovare un abbraccio di River. “Se
non l’aveste
notato, non ho idea di cosa sto facendo ahahahah” fece in
tempo a dire, prima
di essere colpito da un’affettuosa quanto energica mano sulla
spalla da parte
di Ken. “Ora cerchiamo di uscire da qui” disse poi
Evan, non riuscendo a
contenere un sorriso. Gli ultimi avvenimenti, insieme alla presenza
dell’amico
Wes, avevano infuso in lui una nuova forza. Era stato per lungo tempo
spaventato, eppure aveva impedito a se stesso di mostrarlo ad alcuno,
sempre
fedele alla recitazione della sua parte di uomo indipendente, che non
ha
bisogno dell’aiuto di nessuno. Era stato costretto ad
assumere
quell’atteggiamento da lungo tempo, riconoscendo le proprie
difficoltà sia
fisiche sia psicologiche: goffo, imbranato, la vista debole..doveva in
qualche
modo proteggersi dalle malelingue. Era proprio per questo che aveva
intrapreso
la carriera di investigatore: doveva dimostrare a tutti che nonostante
i suoi
problemi lui poteva fare tutto. Di solito, infatti, si buttava a
capofitto
nelle situazioni più impossibili, rimanendo però
sicuro che accanto a sé ci
fosse qualcuno che potesse fornire un aiuto “non
richiesto”. I suoi amici lo
conoscevano bene, ed evitavano di offrire a parole alcuna assistenza,
nonostante con i fatti fossero quasi sempre loro a risolvere la
situazione.
Evan doveva essere sicuro di avere una spalla in caso le cose fossero
andate
male per essere così sicuro da tenere in piedi la sua
commedia, a cui ormai non
credeva nessuno tranne lui. Quando si era diviso da Wes aveva perso la
sua rete
di sicurezza, ed era stato costretto ad indossare la sua maschera
sapendo che
se avesse fatto un errore la responsabilità sarebbe stata
solo sua. Ora si
sentiva di riprendere il controllo della situazione, e si
portò velocemente in
testa al gruppo.
Avevano fatto un
passo avanti ma sapevano che la donna non li
avrebbe lasciati andare così facilmente: dovevano prepararsi
ad affrontare il
peggio. Rimanendo uniti, iniziarono di corsa la loro discesa.
Nonostante fosse primavera inoltrata il sole quella mattina era basso
sull’orizzonte, ed una luce fredda inondava la
città. il silenzio fu interrotto
dai passi pesanti di Jack che scendeva a balzelloni l’ultima
rampa di scale che
conduceva al secondo piano, trasportando la sega elettrica. Dietro di
lui lo
seguiva River, guardandosi indietro per controllare che nessuno, a
parte gli
altri membri del gruppo, li stesse seguendo. I due attraversarono una
grande
stanza vuota, dal pavimento di vecchie piastrelle marrone chiaro si
sollevavano
granuli di polvere resi ancora più visibili dai fasci di
luce che penetravano
dalle finestre. Si avvicinarono alla porta scura e sbirciarono dal
rettangolo
di vetro blindato la stanza adiacente. Qualcosa si mosse
nell’ombra. “Hohoho”
rise Jack, se avesse avuto le mani libere se le sarebbe sfregate per la
soddisfazione. “Come sai che Jack è passato di
qua?” aggiunse con la sua voce
stridula. River ebbe solo il tempo di aprire la bocca per rispondere,
ma venne
preceduta da lui stesso: “perché sono tutti
morti!”. Con un gesto accese la
sega e, ridendo, irruppe nella stanza successiva.
Il ragazzo
studiò la stanza in
silenzio, pronto ad ogni evenienza. Un rumore alle loro destra, non
più intenso
di un rapido fruscio, ruppe il silenzio surreale, mentre una figura
umana, dai
lunghi capelli, usciva accovacciata dall’ombra. Jack strinse
ancora più
saldamente la presa sulla sua arma.
“E così.. sei tu”
“Hello
Monster” sussurrò Evan,
arrivato nella stanza, per la prima volta dopo anni sentendosi di nuovo
un
investigatore.
-EPISODIO 6-
FINE