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Autore: Cara Jaime    01/08/2016    1 recensioni
Helen è nata in Minnesota e cresciuta in un ranch. A quindici anni si infortuna durante una lezione di educazione fisica. Questo le causa la perdita di una borsa di studio in atletica per l'università. Dopo essersi diplomata alla Fisher High School trova un lavoro come cameriera in un pub, per sostenere i costi di un corso di fotografia. Diventa però la sua ossessione quando riesce a fotografare del tutto casualmente uno strano fenomeno: una figura traslucida sullo sfondo di un'autostrada. Mandando la foto via Internet a diversi esperti e forum, scopre di aver fotografato un fantasma. Elettrizzata dalla scoperta, comincia da quel momento a cercare di replicare l'esperimento. Inizia a viaggiare negli Stati Uniti con il car sharing. Comincia a tenere un diario, dapprima privato, che decide poi di pubblicare in un blog personale, intitolato La Cacciatrice di Spiriti. Lì pubblica anche le sue fotografie. Un giorno viene contattata dal redattore di una rivista che tratta argomenti sovrannaturali, il quale le chiede di cacciare e scrivere articoli per loro. Con il supporto economico di questo nuovo impiego diventa così possibile alla nostra cacciatrice di fantasmi portare avanti la sua attività del tutto indisturbata.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Di nuovo sulla strada, a bordo del furgoncino blu GMC, mani sul volante e un panino tra i denti. È ora di pranzo. Il veicolo fila lungo la statale del Kentucky in direzione est, verso la prossima destinazione. Una vita sulla strada, dormire dove ti va e mangiare cosa e quando ti pare, non è poi così male. Certo quando ero al liceo non era questo il futuro che mi aspettavo. Ma alla fine, ripeto, non è così male. Incontri persone sempre nuove, visiti posti sconosciuti, intrecci avventure. Ed è tutto qui nel mio diario. Lancio un’occhiata all'agenda posata sul sedile accanto al mio, consunta dal tempo e dall'uso. La copertina di pelle è rovinata e qualche foglio cerca sempre di volare via, soprattutto quando c’è vento. Tuttavia non mi separerei mai dal mio fedele compagno, al pari della mia Olympus. Eccola qui, sul sedile anche lei. Il diario e la fotocamera, una strana coppia. Potrei scriverci un fumetto. Non è per questo che sono diretta a est. In realtà sono a caccia dell’ennesimo mistero. Strappo l’hamburger dalla bocca con la mano sinistra e poi reggo il volante mentre con la destra scalo la marcia per affrontare una curva. All'orizzonte si delinea lo skyline serale della cittadina a cui farò visita molto presto. Chi sono io? Mi chiamo Helen. Helen Daisy Vincent e sono una fotografa molto particolare. Caccio fantasmi per una rivista del settore soprannaturale. Il mio ruolo è questo. Visito una città, un paesino di campagna, anche quelli più sperduti d’America, dietro segnalazione dei nostri lettori o della redazione. Vado sul posto e verifico che non si tratti di una bufala. Quando scopro che la storia è vera, scatto un mucchio di foto. Prima di mandarle al redattore via mail narro il passato del luogo e la mia avventura. È appagante. Venire a sapere di cose fuori dal normale ti apre la mente. Scopri di non essere solo e che dietro alla realtà visibile c’è qualcosa di più delle mere apparenze. Un bel po’ della senape del mio panino finisce sui miei jeans nuovi. “Accidenti, no!” esclamo seccata. Li ho appena presi e una lavanderia a secco non è così facile da trovare lontano dalla civiltà. Cavolo, adesso sarò costretta a fermarmi in un bar prima di presentarmi. Sempre che ne trovi uno dove sono diretta. Questo posto sembra davvero fuori dal mondo. Impreco ancora mentre appoggio il cibo sulla carta argentata accanto al mio diario di viaggio. Afferro una salvietta dal cruscotto e mi ripulisco alla bell'e meglio. Getto la carta sporca nel sacchetto che funge da pattumiera e sento l’auto sbandare. La ruota di destra ha preso un sasso. Mi rizzo rigida come un manico di scopa e tento di riprendere il controllo del veicolo. Fatto. Faccio un profondo respiro di sollievo e pigio il pedale. Voglio arrivare il prima possibile.
 
Davanti a me si allungano due corsie separate da un'aiuola d'erba corta. Una prosegue inerpicandosi su una collina per poi sparire dietro a essa. L'altra svolta a destra e viene nascosta alla mia vista da una macchia di alberi. Potrei facilmente attraversare la frangia di prato con il mio pickup, ma decido invece di imboccare la prima svolta a sinistra che mi permette di tornare indietro. Ho appena oltrepassato la mia meta, ben lontano dal centro del paese. Fortunatamente si tratta di un pub, così potrò ripulirmi i pantaloni. Faccio una bella inversione e passo davanti al locale notturno. È un edificio piuttosto spartano costituito da una bassa struttura in pietra e un caseggiato enorme sul retro che spunta da dietro il muro di cinta. Posteggio l'auto nel parcheggio accanto all'entrata, un semplice spiazzo costeggiante la strada. Scendo, armata della mia macchina fotografica digitale e della borsa in cui ho infilato il diario. Giro attorno al veicolo e mi avvicino alla porta d'ingresso, sormontata da un'insegna. La scritta bianca su sfondo rosso in caratteri calligrafici recita “Bobby Mackey. Da quello che mi hanno detto in redazione, è un pub in cui si può ascoltare musica country. Nonostante l'aspetto senza pretese, il locale ha un background storico non indifferente della durata di almeno un secolo. Mi sono informata. Devo sapere dove sto andando e cosa cercare prima di recarmi in un luogo presuntamente infestato.

“Buongiorno! C'è nessuno?!” esclamo prima che i miei occhi si abituino alla penombra dell'interno. Quando ritrovo la vista mi ritrovo addosso lo sguardo di un paio di avventori. A quanto pare non sono la prima cliente della serata. Rivolgo loro un sorriso imbarazzato, e i commensali col cappello da cowboy tornano alle loro birre. Le pinte sono bicchieri di vetro piuttosto resistente e spesso, colmi di fino all'orlo. Mi fanno venire l'acquolina. Magari stasera me ne faccio una. Prima però devo trovare il proprietario e iscrivermi a uno dei tour. A differenza di altri incarichi, questo mi è stato segnalato dalla redazione del Paranormal. Semplicemente vogliono mostrare ai lettori uno dei locali più infestati del mondo.

Mi reco al bancone e aspetto di essere servita quando noto un volantino appoggiato su di esso. Pubblicizza l'Haunted Tour offerto dal pub. Scopro così che potrò partecipare a quello del mattino seguente; inizia alle nove e un quarto. Soddisfatta, appoggio il depliant e sorrido al barista, un bel giovane sui trent'anni; mi si avvicina.

“Buonasera signora,” mi fa alzando il cappello in segno di saluto. “Cosa le porto?” Mi mordo il labbro inferiore. Ha una voce sensuale, roca e country che mi fa vibrare. Gli sorrido a trentadue denti.

“Una birra, grazie.” Tolgo la Olympus dalla tracolla e me la poso in grembo, quindi la avvicino al viso e scatto un paio di fotografie al locale. Nel frattempo il cowboy si allontana per spillarmi una bella birra con un paio di centimetri di schiuma. Lo ringrazio e gli sollevo il bicchiere.

“È una fotografa?” La voce proviene da dietro a me. Mi giro e vedo arrivare un uomo alto almeno un metro e ottanta. Indossa la classica camicia a scacchi del campagnolo sudista e un paio di jeans lisi da cui spuntano le punte degli scarponi.

“Sì, certo,” gli sorrido guardandolo dal basso in alto. Lo vedo montare a cavallo dello sgabello e ordinare un whisky liscio con un cenno del capo. Ha la mascella squadrata, i lineamenti forti e un velo di barba brizzolata appena cresciuta. Eppure ha folti capelli scuri senza traccia di ciocche bianche caratteristiche dell'invecchiamento precoce. Lo trovo affascinante. “È qui per un servizio o per piacere?” mi domanda con voce profonda e senza rendermene conto inizio a pendere dalle sue labbra.

“Entrambe, a dire il vero.” Mi lancia uno sguardo interrogativo proprio mentre il barista gli serve il drink. Lo prende in mano e lo avvicina alle labbra. Lo sguardo fisso su di esse, cerco le parole per spiegargli il mio lavoro. “Vede, faccio servizi per una rivista dedicata al paranormale.” Qui di solito la gente mi degna di occhiate perplesse. Lui no invece, sembra interessato. Così continuo, più sicura. “Il fatto è che i fenomeni paranormali sono anche la mia passione, quindi unisco le due cose.”

“Interessante.” Le sue labbra si schiudono e lasciano intravedere una fantastica fila di denti bianchi come perle. No, non può essere vecchio, nonostante mi sia praticamente impossibile indovinare la sua età. “Succede spesso da queste parti. Non mi sorprende,” spiega lui. Allora gli sorrido di nuovo.

“Dopotutto, questo è considerato uno dei posti più infestati del mondo,” aggiungo alla sua affermazione. Lo guardo annuire, lo sguardo vaga in direzione del fondo del locale senza una destinazione precisa. “Mi chiamo Helen.” Decido di presentarmi e gli tendo la mano. Lui la guarda poi alza gli occhi su di me. Il suo sguardo mi colpisce in pieno. Non so che mi prende, quale sia il motivo per cui mi affascina così tanto.

“Dalton.” Mi stringe la mano con la sua, grande e ruvida. Riesco a sentire i calli contro la pelle contrariamente morbida del mio palmo. Può essere che siano gli opposti ad attrarsi? Mi riscuoto. Lo stavo fissando inebetita, così mi affretto a puntare gli occhi nel mio bicchiere come se dentro ci fosse qualcosa di estremamente interessante. “Penso di partecipare al tour di domani mattina? Lei ci sarà?” Ho ipotizzato che anche lui sia di passaggio.

“In realtà conosco fin troppo bene questo posto,” risponde lui. “Ci sono cresciuto.” Ah, quindi è di qui. Non potrò sfruttare il ruolo della donzella spaventata per farmi sorreggere durante la visita guidata. Però posso intervistarlo, sebbene in via informale.

“In questo caso saprà tutto di questo posto. Le va di parlarmene?” È più forte di me. Anche quando potrei provarci con un uomo affascinante vado dritta all'argomento lavoro. Accidenti. A volte mi prenderei a sberle da sola. La sua espressione è enigmatica, mentre mi guarda. Sento che mi scivola sottopelle e attraverso i vestiti, ma non so se sia intenzionale o se stia pensando a quando sono invadente e strana. Di solito solo i nerd mi trovano interessante. Mi schiarisco la voce.

“La storia che fa da sfondo a questo posto, e di cui sentirà sicuramente parlare domani, riguarda una ballerina di nome Johanna che lavorava nei quartieri latini nei primi anni del diciannovesimo secolo.” Si bagna le labbra con del whisky, lo sguardo perso davanti a sé. "Si racconta sia stata uccisa dal padre nella cantina e che il suo spirito continui ad apparire in attesa del suo amore.” Mi lancia un'occhiata in cui leggo dolore. Corrugo la fronte. Ora tocca a me fare la parte della scettica.

“Ma è solo una storia, giusto? Insomma, di quelle che si raccontano sui vari posti infestati. Una delle tante ipotesi su cui si basano i fenomeni di apparizione.” Quest'uomo è un enigma. Non sono nemmeno certa sia vero. Con una scusa mi sistemo sullo sgabello e ne approfitto per toccargli uno stivale con la punta del piede. No, è reale, non un fantasma. Inizio ad arrovellarmi. Lui deve aver notato la mia faccia stupita, poiché mi rivolge un sorrido malinconico. “Johanna era la mia trisnonna.”

Questa poi. Devo essere rimasta per un bel po' a fissarlo a bocca aperta, perché ad un certo punto Dalton scoppia a ridere. È bellissimo, ha una risata melodiosa. Mi domando se per caso non faccia il cantante country in quel posto. Ho sempre avuto un debole per i musicisti. Dal palco in un angolo del locale proviene un rumore. Mi volto e vedo qualcuno armeggiare con il microfono. Lo infila su un'asta e srotola il cavo che andrà poi collegato all'amplificatore. Lo so perché quando andavo al liceo stavo con un ragazzo che cantava in una rock band.

“È il mio turno,” fa con un sorriso diverso. Lo guardo ancora a bocca aperta, seguendolo mentre si reca verso il palco. Batto un pugno sulla coscia, stringendo le labbra. E ti pareva. Sono una ficcanaso. D'altronde è il mio lavoro. Ho parecchia faccia tosta. Lo guardo sistemarsi la chitarra acustica a tracolla, illuminato solo da qualche faretto. Un brivido mi corre lungo la schiena e mi massaggio il braccio sinistro per scacciarlo. Certo che questo posto fa venire i brividi. Storia spettrale a parte, c'è qualcosa in questo luogo che in altre circostanze mi farebbe fuggire.

Rullo di tamburi e la band inizia a suonare un pezzo country che riconosco sin dalle prime note. Il ritmo è in sedicesimi e il mio piede inizia a tenere il tempo battendo contro la gamba dello sgabello.

“On the road again...” La voce di Dalton risuona cristallina nel salone. “Just can't wait to get on the road again...” Persino gli incalliti giocatori di biliardo interrompono la partita, posano le stecche e si avvicinano al palco. “The life I love is makin' music with my friends...” Le loro teste annuiscono un po' fuori tempo alla cadenza della batteria, ma le loro mani si scontrano perfettamente a tempo. “And I can't wait to get on the road again.” Presto davanti alla band si è raccolto un drappello di uomini e donne che si muovono, acclamano e fischiano. In una pausa strumentale della canzone vedo lo sguardo del cantante spaziare sopra le teste del pubblico e approdare su di me. Un tuffo al cuore quando alza un angolo della bocca in un sorriso sghembo e accattivante. Sta sorridendo a me?

Il brano successivo è più lento. Conosco anche questo. “Almost heaven... West Virginia...” La sta cantando fissandomi. “Blue Ridge Mountains... Shenandoah River...” Ne sono certa perché osservandomi attorno mi rendo conto di essere finita in ultima fila. “Country roads... take me home... to the place... I belong.” Gli sorrido e inizio a ondeggiare, battendo le mani a tempo. “West Virginia... mountain mama...” In sordina canticchio il motivetto orecchiabile di John Denver. Non riesco a togliermi questo sorrisetto dal muso. “Take me home, country roads.” La fine del brano viene accolta da uno scroscio di applausi, ma lo show non si ferma.

La band intona In the summertime di Mungo Jerry e mi lascio trascinare dalla melodia adatta alla stagione. Sollevo le braccia in alto e ballo seduta sullo sgabello, senza pensieri. La musica mi scivola lungo la schiena e mi penetra nelle vene, spazzando via i pensieri. Fischi ed esclamazioni accompagnano il gruppo. Dopo un po' da che ho chiuso il mondo fuori abbassando le palpebre, riapro gli occhi e guardo sul palco. Dalton mi sta fissando con un'espressione curiosa, ma piuttosto evidente. Quello che ha visto gli è piaciuto. Restituisco il sorriso stringendomi nelle spalle. Sono una a cui piace godersi la vita.

Manciate di minuti trascorrono insieme agli Truckstop Renegades, tra cover country e rock di diversi artisti, tra cui gli scozzesi Stealers Wheel. Il ritmo mi prende e mi accompagna fino a mezzanotte, ora in cui Dalton e i suoi danno la buonanotte alla gente del locale. Incredibile come siano riusciti a rimanere svegli fino a tardi. Poi mi sfiora il pensiero che forse è gente abituata a frequentare concerti del genere, tanto quanto io sono abituata a viaggiare.

La band sbaracca, la gente defluisce dal pub e io scendo giù dallo sgabello. Penso proprio che dormirò in macchina. Non ho voglia di allontanarmi troppo dal locale. Improvvisamente il mondo si inclina di lato e mi sento afferrare alla vita da due mani forti. La faccia di Dalton entra nel mio campo visivo. “Hey bellezza! Non mi vorrai crollare adesso?” Il suo sorriso sfacciato ne strappa uno a me.

“Non credevo di aver bevuto tanto,” farfuglio. Infatti non l'ho fatto. Guardo confusa il mio bicchiere solitario sul bancone e corrugo la fronte. Intanto la mia testa decide di smettere di girare e riprendo sensibilità nelle gambe. “Forse mi sono alzata troppo velocemente,” ipotizzo poco convinta. Lui mi sta ancora guardando, in attesa di qualcosa. Allora gli sorrido e poso le mani sul suo petto. Al tatto mi appare sodo e il pensiero di cosa si nasconda più in basso mi attraversa la mente.

“Dove dormi stanotte?” domanda. Lo guardo persa per un attimo, quindi scuoto la testa. “Oh! In macchina. Non ho voglia di andare fino in città.” Barcollo. “Del resto non so nemmeno se riuscirei ad arrivarci,” borbotto subito dopo sfiorandomi la fronte con le dita.

“Non esiste. Permettimi di offrirti ospitalità.” Assottiglio lo sguardo. Dire di no a quel paio di occhi blu è arduo, ma non sono un'ingenua. Lui sembra cogliere il sospetto nel mio sguardo e sorride. “Non ti chiederò di venire a letto con me. A meno che tu non lo voglia.” Dio, sì che lo voglio! Ma che mi sta prendendo? Non sono mai stata una gatta in calore. Poi penso che è da mesi che non ho una vera relazione; nemmeno una finta. Perché no? Nella mia mente riecheggia la voce graffiante di Nancy Sinatra.

Bang bang, he shot me down
Bang bang, I hit the ground
Bang bang, that awful sound
Bang bang, my baby shot me down

Scuoto la testa e sorrido. Lui mi solleva per i fianchi al che gli avvinghio le gambe alla vita. “Andate da un'altra parte,” risuona la voce strascicata del barista cowboy. Dalton e io attraversiamo la porta sul retro ridacchiando come due ragazzini. Non vedo dove stiamo andando. Le braccia attorno al suo collo, sono troppo impegnata ad affondare la lingua nella sua bocca, mentre strofino il cavallo dei pantaloni contro il suo inguine. Non c'è dubbio sul suo desiderio, e nemmeno sul mio. Mi rendo conto del luogo in cui ci troviamo solo quando mi sento sprofondare in qualcosa di morbido. Mi ritrovo stesa su un letto, in una camera da letto vecchia, ma accogliente. Lo guardo disfarsi della camicia e alla vista della t-shirt attillatissima ruggirei. Non lascia molto all'immaginazione, nonostante quando se la leva è molto meglio. In un attimo sono nuda e lui mi viene sopra. Al contatto con la sua pelle calda mi sfugge un gemito. Mi inarco e lo percepisco scivolare dentro di me. La sua presenza mi colma e allora mi sembra di impazzire. Do un colpo di fianchi, pronta a dimenarmi sotto di lui come non ci fosse un domani, ma le sue mani ferme me lo impediscono.

“Calma piccola,” lo sento sussurrare contro la mia spalla. Per la frustrazione mi scaglio sulla sua e gli mordo il muscolo alla base del collo. Lo odo trattenere un gemito e sorrido compiaciuta. “Gatta selvatica...” Mi stupisce, cominciando a muovere i fianchi lentamente, malgrado la voglia che ci divora. È incredibile, ma lo sento vibrare come se fosse diventato parte di me. Il ritmo lento di una canzone romantica calma gradualmente i miei bollori, così invece di ricercare l'orgasmo a tutti i costi e rapidamente, lascio scorrere le mani sulla pelle liscia del mio cantante. Per quella notte mi appartiene, a me soltanto. Sospiri, ormai non so più se sono suoi o miei. Abbandonata sotto di lui ascolto la musica nella mia mente. Stavolta è Blondie a cantare.

Color me your color, baby
Color me your car
Color me your color, darling
I know who you are
Come up off your color chart
I know where you're comin' from

Mi risveglio dal trance in cui sono sprofondata nel momento in cui lo sento incalzare il ritmo. È duro e teso verso di me e sento che vuole venire. Mi inarco con un grido perché il contatto tra la sua cima e le mie profondità mi scatenano brividi lungo la schiena. Finora si è tenuto alla larga da quella zona, ma ora la sta colpendo senza pietà, sempre più veloce. Il mio respiro si accorcia, i brividi scorrono come l'acqua di una cascata sotto la pelle fino al momento in cui percepisco un'esplosione in cima alla mia testa.

“Cazzo!” Rimango immobile, stupita dalle mie stesse parole. Lui mi bacia una spalla sorridendo, mentre gli ultimi spasmi contraggono i suoi fianchi contro di me. Come faccio a “sentire” il suo sorriso sulla mia pelle? Abbandono le palpebre pesanti e il mio corpo alla stupenda sensazione di appagamento, e così scivolo nel sonno, nelle orecchie lo sfumare delle parole del ritornello di Girls Just Wanna Have Fun di Cyndi Lauper.

Mi sveglio alle prime luci dell'alba, destata dalla luce che entrava attraverso la finestra sopra al talamo. Guardando sotto al lenzuolo scopro di essere ancora nuda. Sorrido ripensando alla nottata scorsa. È stata una bella sorpresa. Improvvisamente mi ricordo di non avere la minima idea se abbiamo usato delle protezioni oppure no. Stringo il tessuto di cotone contro il petto e mi giro. Dalton sembra dormire profondamente. Mi alzo a sedere in ansia ed è allora che sento qualcosa sfiorarmi la schiena dalle scapole verso il basso. Riconosco il suo tocco, che mi provoca un tremito lungo la spina dorsale. Mi calmo un poco e torno a voltarmi.

“Buongiorno.” Al risveglio ha una voce ancora più sexy, arrochita com'è. Gli sorrido dolcemente e l'agitazione si sgonfia come un palloncino bucato. Mi ero dimenticata della pillola; la prendo ogni giorno. Questo non vuol dire che il mio sia stato un comportamento prudente. Potrebbe avere qualche malattia... In realtà non ci credo nemmeno io, guardandolo. Mi sdraio di nuovo al suo fianco, scivolando sotto al telo bianco di stoffa. Lui mi attira a sé mettendomi una mano sulla lombare. Al contatto con la sua pelle calda mi sento avvampare. “Qualcuno è facilmente infiammabile, qui.” Riapro gli occhi e gli sorrido, scoccandogli un lungo bacio sulle labbra subito dopo.

“Non è colpa mia,” dico con un'alzata di spalle. “Sei tu a farmi questo effetto.” Le sue labbra morbide si posano sulla mia fronte e io chiudo gli occhi. La stanza è colma di silenzio leggero; nessun rumore turba la nostra quiete. Faccio un gran respiro, completamente rilassata. Sto alla grande. Per un istante ho dimenticato il sogno di stanotte. Ora però mi torna in mente. Qualcuno mi stava inseguendo all'interno del casolare in cui mi trovo. Mio padre era furibondo. Mi aveva scoperto a giacere con Dalton e ora pareva proprio intenzionato ad uccidermi. Allo stesso tempo mi rendevo conto che tutto ciò non aveva senso, perché mio padre è in Minnesota a badare al ranch. Non me lo spiegavo, ma nella mia visione onirica il mio istinto di sopravvivenza mi spingeva a correre e correre. Non so come mi infilai stupidamente nella cantina. Sapevo di non dover scendere la sotto, che se l'avessi fatto sarebbe successo qualcosa di irrimediabilmente brutto. Eppure le mie gambe mi portarono là. Fu in quel posto che mi uccise. Il mio ricordo del sogno deve essere stato vinto dalla bella serata trascorsa e con un aiutino da parte dell'alcol, poiché solo ora lo rammento interamente.

“Cos'hai?” Alzo lo sguardo e incontro quello del mio bel cantante country. Non è preoccupato, no, nemmeno allarmato. È stupito.

“Scusami,” gli sorrido e lo bacio di nuovo. Percepisco i lineamenti del mio viso distendersi. Non mi ero resa conto di aver cambiato faccia. Non volevo dirgli dell'incubo. Probabilmente la prenderà male. Però mi guarda in modo talmente dolce che non so resistere. “Ho fatto un brutto sogno,” sospiro abbassando lo sguardo. “Solo che non lo ricordavo finora.”

“È normale.” La sua risposta mi coglie di sorpresa. “È questo posto,” dice abbracciandomi, e massaggiando la mia schiena con le grandi mani. Gemo di piacere; manca poco che mi metta a fare le fusa.

“Immagino di sì,” mormoro lasciando che il suo tocco spazzi via ogni preoccupazione. Apro un occhio. “Vuoi fare colazione?” Vedo le sue labbra allargarsi in un sorriso sfacciato. So cosa vuole ancora prima che lo dica.

Mezz'ora dopo mi inarco in preda a un nuovo fantastico orgasmo. Le mie dita sono aggrappate alla sua schiena, sulla quale ho lasciato dei segni rossi. Lui se la guarda incurante da sopra la spalla. “Ehm,” gli sorrido non appena incontro il suo sguardo cristallino. Dalton ricambia il sorriso e mi bacia, mentre i suoi fianchi rallentano il movimento in modo graduale. Il tocco delle sue labbra mi fa girare la testa, per non parlare delle carezze della sua lingua. Bastano quelle a farmi eccitare. Il mio cervello va imperterrito al motivo per cui sono lì, ma il mio corpo e il resto non ne vogliono sapere. Tra l'altro è ancora presto per il tour paranormale. Sospiro estasiata, abbandonando le membra indolenzite all'abbraccio di Dalton e delle lenzuola. Chiudo gli occhi.

Alzo la testa di scatto. Dalton è sdraiato, tutto vestito, nell'angolo a sinistra con un'inconfondibile tazza bianca in mano. “È caffè quello?” La voce mi esce rauca. Sorrido e lo vedo allungare il contenitore nella mia direzione. “Oh grazie,” mormoro e sculetto un po' per mettermi a sedere. Butto giù tutto d'un sorso anche se è amaro e freddo; fa parecchio schifo, ma ho bisogno di una bella sveglia. Riconsegno la tazza vuota e giro la testa verso la sveglia appoggiata sul comodino alla mia destra. “Sono quasi le nove,” dico afferrando la maglia dal pavimento. Sollevo le braccia e la infilo dalla testa. “Tra un quarto d'ora inizia il tour. Immagino che tu abbia le tue cose da fare, quindi...” Sento una presa al polso mancino e mi volto cercando incuriosita gli occhi del cantante.

“Stavo pensando,” dice inclinando la testa cinta dal cappello, “perché non ci facciamo un tour privato tu e io?” Dalton è in piedi e mi attira a sé per i fianchi. Il mio bacino poggia contro il suo e gli passo una mano sulla nuca, giocherellandoci con le dita. Taccio. Mi ha presa alla sprovvista. Credevo fosse uno di quelli da una botta e via.

“Ehm... certo!” esclamo regalandogli un bel sorriso e mi allungo verso di lui per schioccargli un bacio.

“Seguiremo un itinerario diverso da quello del locale, così non ci sovrapporremo,” lo sento dire mentre mi volto e cerco le mutandine. Le trovo in un angolo della stanza. Chissà come ci sono finite. Le indosso e vado a recuperare i jeans che spuntano da sotto il letto. Li guardo e riscontro che la macchia di senape non si vede poi tanto. Sono stata distratta da un affascinante cowboy e mi sono scordata di lei.

“Vorrei solo portare qualcosa da mangiare e da bere, non si sa mai.” Un giorno mi è capitato di rimanere chiusa in un ascensore e non avevo pranzato. Le quattro ore più brutte della mia vita.

“Ho chiesto a Keith di metterci da parte un paio di panini e due birre,” ribatte lui indicando il tavolo di fronte alla porta. Dirigo lo sguardo da quella parte e sorrido.

“Efficiente...” Infilo le mani sotto la nuca e tiro i capelli fuori dalla maglia. “... direi,” aggiungo prendendo una scarpa e saltellando per infilarla. Mia madre mi rimproverava sempre, dicendo che era più facile mettere le scarpe da seduti. Non le ho mai dato retta. “Pronta,” dichiaro infine. Borsetta di nylon alla mano contenente le vettovaglie, usciamo dalla porta. Ovviamente mi sono ricordata di recuperare la mia Olympus dal comodino. Mi trovo sul balcone che dà sul cortile interno del locale. Prendiamo le scale e scendiamo.

“La nostra prima tappa è la cantina,” dice conducendomi per mano.

“Quella in cui è morta Johanna?”

“Sì.”

“Wow... credi che sia ancora lì?”

“Non lo so. Non credo in queste cose ma... Vieni.” Stiamo attraversando il locale e prendiamo l'uscita che dà sulla strada. “Per arrivarci dobbiamo fare il giro.” Prendiamo a sinistra verso il parcheggio e lo costeggiamo fino a raggiungere una porta sul fianco. “Quando ero bambino ho visto delle cose... ancora non me le so spiegare.”

Ho visto un video amatoriale delle riprese del tour caricato su Youtube da un visitatore, ma non ho provato il brivido che mi coglie all'improvviso nel momento in cui varco la soglia. Ho l'impressione che la spina dorsale mi scorra sotto la pelle senza alcun punto fermo. “Tutto bene?” Dalton mi sta guardando preoccupato. È davanti a me e mi tiene ancora la mano. Mi rendo conto di essermi bloccata bruscamente.

“Sì... Sì, certo.” Muovo un passo guardando dove metto i piedi, ma non sono convinta di quello che dico. Ho una pessima sensazione... Prendo coraggio e alzo lo sguardo, lasciando la mano del cantante per prendere la mia fotocamera. Scatto un paio di fotografie a vuoto per regolare il filtro della visione notturna. L'ambiente è troppo scuro anche per usare il flash. Ecco che i duemila dollari spesi per l'attrezzatura specifica danno i loro frutti.

“A posto?” s'informa Dalton guardando da sopra la mia spalla. La sua mano mi accarezza quella opposta, ma la tensione mi impedisce di godermi il suo tocco. Basterebbe questo per convincermi che in questo posto c'è il male.

“A posto,” dico facendo un bel respiro. Mi guardo attorno. Persino la presenza del cantante mi irrita. Questo cambiamento di umore mi inquieta. Non sono il tipo da sbalzi. Talmente rigida da sentire dolore alle spalle, alzo la macchinetta e avanzo nella stanza. Oltre ad alcune tubature esterne del locale soprastante, incontro alcune scaffalature disseminate di ogni genere di oggetto. Alcuni di questi non c'entrano nulla con il pub. Mi meraviglio che ci siano. Forse qualcuno ha fatto lavori di manutenzione... Sto pensando questo, quando sento il mio piede affondare in qualcosa di caldo e liquido. Abbasso lentamente lo sguardo e vedo una pozza scura. “Cos'è?” mormoro. Mi accovaccio spostando la fotocamera nella mano sinistra e immergo la punta delle dita nella strana sostanza. La porto alla bocca e annuso. L'odore metallico e penetrante caratteristico del sangue mi inonda le narici. Mi alzo di scatto con aria disgustata. Detesto la vista del sangue, tanto più infilarci le dita. Ho un moto di nausea. Solo allora vedo una scia di impronte fatta apparentemente della stessa materia. Inizio a seguirle, china sul pavimento.

Imbocco una porta senza guardare dove sto andando e mi ritrovo in un corridoio da cui proviene un singhiozzo. Una donna sta piangendo. Con lo stomaco annodato dalla paura avanzo piano, sfiorando le pareti con le dita. “Chi c'è?” La mia voce riecheggia come in una stanza vuota. “Stai bene?” Man mano che mi avvicino, comincio a vedere la figura di una ragazza seduta per terra contro il muro. Mi precipito da lei. “Ehi, tutto bene?!” esclamo allarmata. Certo che non sta bene. Guardo in basso e vedo una macchia scura; può essere solo una cosa. “Dio, chi ti ha ridotto così?” sussurro mentre mi levo la maglia per tamponarle il ventre. Faccio pressione, ma lei non risponde, continua a piangere e gemere. Mi domando se si renda conto della mia presenza. “Ehi, parlami,” la incito dolcemente, sapendo di dover usare i guanti di velluto con una vittima di qualche tipo di violenza. Se ne vedono di tutti colori ogni giorno in televisione.

“Dalton! Vieni qui, aiutami! C'è una donna ferita!” Giro la testa in cerca del mio accompagnatore. Nel punto in cui dovrebbe esserci il principio del corridoio con la porta che ho appena attraversato, c'è una nebbia fitta. “Che cosa...?” Mi alzo in preda allo stupore. Colmo la distanza tra me e la massa aleggiante di vapore acqueo e vi immergo una mano. È gelida, impalpabile. Ritiro la mano e la vedo invecchiata di almeno una quarantina d'anni. Sempre più interdetta, mi guardo alle spalle alla ricerca della donna ferita. Al suo posto scorgo una figura trasparente dal volto completamente ricoperto dai capelli. Con mio grande orrore avanza verso di me, gli occhi due pozzi neri senza fondo colmi di morte. Si avvicina inesorabilmente, mandandomi nel panico. Cosa devo fare?! Quando solo alcuni passi ci separano, tra lei e la nebbia che mi sbarra il cammino... scelgo quest'ultima. Senza ormai più alcuna esitazione mi tuffo nella nube glaciale e umida e... piombo a terra.

“Ahia...” Credo di essermi scorticata gli avambracci ma... all'improvviso e senza alcuna spiegazione razionale sento di essere al sicuro.

“Piccola, dove sei stata? Ero preoccupato da morire.” La tenerezza nella voce di Dalton e la stretta delle sue braccia spazzano via qualunque cosa sia appena successa. Mi stringo a lui e, complice il calore del suo corpo in grado di riscaldarmi anche in quella fredda cantina, mi lascio andare. È solo quando ci scostiamo l'uno dall'altra, sul mio volto una profonda commozione, che mi rendo conto di trovarmi esattamente nel corridoio in cui ho trovato la donna. Una strana sensazione, non potrei definirla deja vu quanto piuttosto attrazione, mi spinge a guardare alla mia destra. Sulla parete, vergata da una mano senza dubbio femminile, sembra essere scritta una poesia. Mi sciolgo dall'abbraccio di Dalton e mi accovaccio per leggere meglio.
 

My Love is deep as the sea
That flows forever
You ask me where will it end
I tell you Never

My love is as bright as the sun
That shines forever
You ask me when will it end
I tell you Never

The world may dispppear
Like a Castile of sand
But I'll be waiting here
With My Heart in my Hand

My Love I love you so much
Now and Forever
You ask me when will it end
I tell you Never

(Fonte: http://bobbymackey.com/Paranormal/Johanna/Johanna.html)

Risento una voce melodiosa nella mia testa e istintivamente ne ricerco il ricordo dentro di me. Sono le parole che hanno accompagnato il mio sogno di quella notte.

Finalmente usciamo da quella stanza terribile. Lui mi sorregge con un braccio attorno alla vita, poiché le mie gambe ne sono ancora incapaci. Non credevo di essere così pusillanime, mi viene da pensare con una certa frustrazione. L'aria esterna sembra farmi bene, nonostante la calura del mattino inoltrato. Scorgo la posizione del sole e sgrano gli occhi. “Quanto tempo siamo stati lì dentro?!” Dalton si gratta la nuca con fare imbarazzato, ma mi attira a sé stringendomi tra le braccia.

“Non volevo dirtelo ma... mi sei sparita da un momento all'altro. Mi sono girato e non c'eri più.” Ci guardiamo negli occhi per un lungo momento. "Quando stavo per uscire a chiamare la polizia mi sei caduta letteralmente ai piedi." Il suo sorriso arrogante gli vale un buffetto da parte mia.

“È qui che porti sempre le tue ragazze?” domando con un sorrisetto sghembo. Lo vedo allargare le labbra in uno dei suoi favolosi sorrisi.

“Solo quelle che mi piacciono di più,” mormora. Il suo viso si avvicina al mio con una lentezza atroce e alla fine mi cattura le labbra in un bacio struggente che dubito riuscirò a dimenticare per un bel po' di tempo.

Quello stesso giorno, dopo aver pranzato e riposato, esprimo a Dalton il mio intento di tornare a casa. Devo far ritorno in città, esaminare il materiale raccolto e scrivere il mio pezzo. Ho cinque giorni a disposizione prima della scadenza. Nel parlargli di questo, la mia voce è priva del solito entusiasmo. Lui mi solleva il mento con un dito e mi guarda negli occhi. Non so resistere a quello sguardo. Mi scioglie come neve al sole. Con la sua voce bassa e roca dice di voler fare l'amore con me un'ultima volta. E io non posso dirgli di no, nemmeno se lo volessi.

Mentre guido il mio furgoncino nella direzione opposta dalla quale sono arrivata, ripenso all'ultima ora passata con lui. La prima volta è stata focosa e intensa, urgente e bisognosa. Questa invece è stata estremamente lenta e dolce, colma di un'intensità che mi ha fatto venire le lacrime agli occhi. Riesco ancora a sentire ogni sensazione, ogni suo tocco adorante sul mio corpo, persino la sua bocca intenta a farmi godere. La mia mente e il mio corpo staranno anche tornando a casa, ma credo proprio che un pezzo di me sia rimasto con lui.

 

   
 
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