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Autore: Tori    25/04/2009    6 recensioni
«Di che colore è la tua pelle?». Lui rimane un secondo in silenzio. «Scura, abbronzata» Di sicuro vede l’espressione ironica sul mio viso, perché subito aggiunge: «Come… Come il caffellatte». Gli ho sempre detto che associo i colori alle cose, non potendo distinguerli. «E i capelli? Come sono?». «Castani, cioè… Color castagna». Mentre seguo le rughe che congiungono il naso agli angoli della bocca, gli chiedo ancora: «I tuoi occhi?». «Verdi, come le foglie delle querce».
Genere: Malinconico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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1. Hermes
È tutto finito.
Mi hanno chiamato questa mattina per il riconoscimento dei cadaveri.
«E’ sicuro?».
«Crede che non sappia riconoscere mia madre e mio padre?».
«Non intendevo questo».
«Io sì…».

Le lacrime mi bagnano ancora la faccia, ma non ha più senso asciugarle.
Dovrei presentarmi.
Piacere.
Ho diciotto anni, appena compiuti, proprio oggi. Come regalo di compleanno ho ricevuto la convocazione all’obitorio per il riconoscimento dei miei genitori.
Un pirata, un fottuto ubriacone strafatto li ha mandati fuori strada, dritti nel fiume, giù per la scarpata. La macchina l’hanno tirata fuori a fatica. Una scatola di carne macinata.
Sono stato licenziato dalla scuola superione con il massimo dei voti, più la lode.
È in questo periodo che mi sono appassionato al latino e al greco, che ho studiato da solo. I miei risultati non sono nemmeno tanto male.
I miei sogni mi fanno ancora male alle dita perché ci si taglia a tenere pezzi di vetro stretti fra le mani nude. Non ho alcun parente, e poi sono maggiorenne.
Non vengo da una famiglia ricca, l’esatto opposto.
Mio padre era operaio. Mia madre faceva le pulizie negli uffici e negli studi dentistici. Per pagarmi i libri faccio il baby-sitter.
Ora sono qui, a suonare la chitarra dietro un cespuglio, ben nascosto, al parco.
Mi chiamo Ethan Redson, ma il mio nome non ha più senso.

Che cazzo di ore sono?
Merda, le nove e mezzo!
Non c’è nessuno… Vuoi vedere che mi hanno chiuso dentro?
Merda. Sì, merda, merda e merda.
Anche se corro verso il cancello, so già che ogni speranza è andata a farsi benedire.
E che cazzo. Anche questa.
Non sento le lacrime sulla faccia, ma immagino che ce ne siano, almeno una mezza dozzina al secondo.
Comunque, questo posto, a quest’ora, non è poi tanto male.
Uccelli non ce ne sono. Gli alberi sono tutti un fresco fruscio. È inutile preoccuparsi dei brividi, piuttosto è meglio prendere la chitarra. È un cimelio di famiglia, in pratica il nostro più grande tesoro. Regalo di papà, per i miei tredici anni. Aveva fatto tanti di quegli straordinari per comprarmela…
Ne ho tanta cura che quasi le corde brillano.
Non so perché sto suonando, adesso. Voglio farlo, punto.
È l’unica cosa che impedisce alle lacrime di solcarmi il viso.
«Sei molto bravo, hai davvero talento. Lo sai?».
Non mi volto: perché? È solo una voce, nella mia testa.
«Sì, credo che tu lo sappia».
Avete presente quel genere di curiosità che non ti lascia pensare a quello che stai facendo? Ecco. Mi volto.
Cado a terra senza sentire dolore.
Sotto l’unico raggio di luna, quella dannata luna che vedo solo adesso, c’è… Ecco…
«Cosa cazzo sei?!».
Quello mi guarda.  È divertito, ma io non mi pongo nemmeno il perché.
«Non è evidente?».
In effetti, sì: ha due canini lunghissimi e gli occhi sembrano quelli di uno strafatto o di un posseduto. Anche se magari, vista la situazione, chiunque lui sia, non è né l’uno, né l’altro.
Fisicamente, non mi appare molto anormale. I capelli sono castani, lisci e lunghi sulla faccia. La pelle è chiara. I vestiti sono assolutamente anonimi e comuni: un maglione rosso scuro sopra una camicia bianca spiegazzata, un paio di jeans sdruciti e le converse ai piedi.
La sua espressione è quella di chi deve fare un lavoro sporco, ma accetta la cosa con filosofia, pronto eventualmente a prendersi le sue responsabilità.
Quanti anni avrà? Venticinque?
«Rispondi!» Non mi viene da dire altro.
«Voi umani siete così poco perspicaci! Per non parlare della vostra ignoranza…» Non fa altro che sedersi e guardarmi, leccandosi le labbra con distacco.
Sembra normale, per lui, un discorso del genere.
Lascio cadere la chitarra a terra. Sento il rimbombo di un pensiero. Credo sia qualcosa tipo “Scappa, idiota! Scappa, cazzo!”. Ma non so se ce la farei mai.
«Perché non mi rispondi?!» Adesso la mia voce ha anche una nota isterica davvero inquietante. Perfetto, comincio anche a tremare.
«Fate tutti la stessa domanda. Sarai…» conta sulle dita «…il settimo, questa settimana. Credo…».
Il settimo di che?
«Cosa?!».
«E’ difficile da spiegare, in effetti, per uno che non è, ecco, nella mia condizione… Uhm…» Se sta facendo finta di sforzarsi per trovare un modo semplice di spiegarmi, sa farlo davvero molto bene.
Mi fanno male le mani tanto stringo forte i pugni.
«Tanto per rispondere a una delle tue domande, puoi chiamarmi Hermes».
“Hermes, o Mercurio, il messaggero degli Déi, figlio di Maia, che a sua volta era la prima figlia di Atlantide, il titano punito da Zeus e costretto a reggere il cielo…”.
Perché diavolo mi vengono in mente queste cose in un momento del genere?! Sono con uno psicopatico in un parco, di notte, chiuso dentro, senza possibilità di scampo, questo probabilmente è anche armato… Cazzo!
«Sì, esatto… Voi umani vi fate troppi problemi, come sempre…».
Lo guardo con gli occhi sbarrati.
«Erano proprio i tuoi genitori, all’obitorio?» mi guarda serio, serissimo, le mani sui fianchi.
«Come fai a sapere di loro?» indietreggio e quasi non me ne accorgo, se non fosse per il rumore dei fili d’erba calpestati e qualche foglia secca che si accartoccia sotto la suola.
Si avvicina con sicurezza.
«Sarebbe inutile spiegartelo adesso: ti annoieresti solamente, oppure l’ansia e il terrore ti farebbero dimenticare tutto. Preferirei spiegarti ogni cosa dopo».
«Dopo cosa?! Perché cazzo non mi dai un’accidenti di risposta?! Cosa sei tu?».
Hermes, o come diamine dice di chiamarsi, fa una risata roca, un latrato compiaciuto che mostra i canini lunghi e bianchi come il resto della dentatura perfetta.
«L’istinto è sempre la parte divertente, in voi umani» ride ancora, fragorosamente. Fa paura, tanto è grottesco «Chissà come, hai capito che non sono come te».
Merda, merda, merda. O è un invasato, o appartiene a una setta o è semplicemente strafatto, o tutto questo e solo uno scherzo, oppure nessuna di queste o tutte queste possibilità insieme. Che minchia sta succedendo?
«Ogni tua domanda è comprensibile ma questa constatazione in realtà non è che soddisfi molto, no? Uhm… Già, come risposta fa assolutamente schifo».
Si avvicina, mette le mani in tasca e guarda a terra.
Non sono così idiota da rimanere là.
Mi giro e comincio a correre come un pazzo.
Non ho la forza di urlare, è come se non sentissi più la gola, né le braccia, le gambe, le dita, la testa…
In effetti, adesso non sento nemmeno più l’erba del parco sotto i piedi.
Mi fermo. Non è possibile.
«Non mi ricordo: ti ho già detto che è inutile cercare di sfuggirmi?».
Ora odio questa voce. Con tutto me stesso.
Così come odio la sabbia nelle scarpe.
Come c’è finita? Come sono finito qui, in riva al mare?
«Rispondimi!» L’urlo che lancio è disperato.
In un attimo, il suo viso, i suoi occhi neri mi sono a due centimetri di distanza.
Lo sento dietro di me, che annusa l’aria.
Forse sto capendo.
Ho studiato per anni delle culture diverse da quelle che vedevo nel mio mondo.
Ho imparato ad adeguarmi e ad amare, alla fine, diverse tipologie di pensiero.
So cosa intende.
Ho vissuto traducendo aneddoti mitologici e imparando storie fantastiche.
Se questa è una leggenda, è la più reale che io abbia vissuto mai.
Mi poggia una mano sulla testa.
«Ethan… Il mio migliore amico si chiamava Ethan… Poi quel bastardo di…» non afferro bene il nome «… gli ha letteralmente staccato la testa a morsi, davanti ai miei occhi. Rallegrati che io non sia così violento».
Fa una pausa.
Quel contatto deciso, il suo palmo sul mio cranio, mi calma all’istante.
Sento le palpebre diventare pesanti.
«Sai perché mi faccio chiamare Hermes?».
Ovviamente no.
Cado in ginocchio.  Il rumore delle onde del mare mi culla. All’improvviso, il pensiero di aver lasciato la chitarra incustodita, nel parco, non mi sembra una grande preoccupazione. Posso tornare a prenderla più tardi…
«Hermes era il protettore dei ladri, dei commercianti… Di chiunque, alla fin fine, fosse in grado di curare i propri affari. E inoltre, donava il sonno…».
Forse è proprio questo che mi sta facendo.
Sento che inspira sempre più a fondo, a bocca aperta talvolta.
Inutile, non ce la faccio. Il mare, le onde fresche e il loro rumore quieto spariscono nel buio.
Cadrei a terra se Hermes non mi reggesse per la spalla.
«Non sentirai nulla, non avere paura».
Apre la bocca e avvicina i denti al mio collo. Sento l’alito caldo sulla pelle. Fa il solletico.
«Ah, stavo quasi per dimenticarlo…» si ferma all’improvviso, ma per me ormai fa lo stesso «Contrariamente agli altri miei… Uhm… Colleghi, che presto saranno anche i tuoi, io non ti abbandonerò: t’insegnerò…».
Chiude il morso sul mio collo.

Piacere.
Mi chiamo Ethan Redson. Ma ora potete anche dimenticare il mio nome.
  
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