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Autore: vegeta4e    05/08/2016    3 recensioni
Vincitrice del contest "Survivors: una serie di sfortunati eventi" di meryl watase.
Ambientata all'inizio della sesta stagione.
Dal testo:
«Booth!» Aveva gli occhi mezzi rivoltati, era ad un passo dalla morte, eppure continuava a pensare che la vita non avesse pietà di lui neanche in quel momento. La voce di John divenne improvvisamente acuta, femminile, così simile a quella di Brennan.
Genere: Azione, Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Seeley Booth
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Nome Autore: vegeta4e (efp e forum)

Fandom: Bones

Titolo storia: The Man in The War

Situazione: Guerra

Coppie: Seeley Booth/Hannah Burley - Seeley Booth/Temperance Brennan

 

 

 

 

THE MAN IN THE WAR

 

In quel preciso istante Booth temette che gli sarebbero scoppiate le vene in testa. Una granata gli era esplosa a pochi metri di distanza, abbattendo lo scheletro di una casa già devastata dalle bombe e alzando un polverone che per poco non l'aveva soffocato. Doveva tossire. Doveva espellere tutti quei dannati granuli di terra e intonaco dalla trachea e riprendere a respirare, ma non poteva. Anche solo un colpo di tosse avrebbe rivelato la sua posizione ai nemici e Seeley non poteva permettersi di esporre così tanto i suoi compagni.

Si appoggiò con la spalla sinistra all'edificio dietro cui si stavano riparando, il pizzicore alla gola divenne insopportabile, e deglutire non gli diede alcun sollievo. La vista gli si appannò, aveva iniziato a lacrimare.

C'era afa e respirava a fatica. Gli sembrava di inalare fuoco e la polvere appiccicata alla faccia sudata lo irritava, facendolo sentire sporco almeno la metà della sua coscienza.

Si pentì di aver accettato l'incarico. Era stato folle a ritornare in quell'inferno. Le vite dei ragazzini che stava addestrando gravavano sulle sue spalle, ma lui aveva già abbastanza responsabilità cui pensare. Parker, prima di tutto. E Bones. Non ce la vedeva proprio con un altro agente speciale che di sicuro non avrebbe colto una virgola dei discorsi che faceva. Beh, ad essere sinceri neanche lui ci capiva molto, ma non gli interessava granché dei suoi sproloqui scientifici. A Seeley importava il lavoro sul campo, le indagini sotto copertura, e per quanto la Brennan fosse cocciuta e incosciente, insieme lavoravano bene.

La mano sinistra aumentò la presa sulla canna del fucile. Inutile girarci intorno, sapeva benissimo perché aveva deciso di tornare in missione, doveva staccare la spina. Voleva staccare la spina. Da lei. Da Washington. Dall'FBI. Dalla routine. Anche se questo comportava rischiare la pelle in guerra. Doveva riprendere in mano ciò che restava della sua vita e trovarne le priorità.

Un aereo sfrecciò a velocità supersonica sopra le loro teste e Booth ne approfittò per tossire e liberare la gola. Riprese fiato e si passò una mano sul viso per pulirlo grossolanamente dal sudore e dalla polvere, lasciando delle chiazze scure sulla fronte e gli zigomi.

«Che facciamo, Signore?» Una voce alle sue spalle lo destò. Girò appena il capo, guardando il ragazzino da sopra la spalla. La bocca dello stomaco gli si strinse quando constatò, ad occhio e croce, che quel giovane soldato non doveva avere più di venticinque anni.

Tornò a guardare in avanti, oltre il muro della casa in pietra «In posizione.» Si misero in fila dietro di lui, caricando i fucili all'unisono. Seeley attese cinque secondi nella speranza che il cuore smettesse di battergli così forte.

"Non fare l'eroe". Le parole di Temperance gli vennero in mente come un monito. Non voleva fare l'eroe. Non gli era mai importato. Non gli era mai piaciuto ricevere medaglie per aver ucciso qualcuno. Sapere di aver tolto la vita ad altri uomini, anche se per difesa, era una cosa che lo faceva vergognare profondamente. Booth detestava sparare, ma sapeva farlo, e aveva deciso di mettere questa abilità al servizio del suo Paese. Ogni volta che premeva il grilletto, però, una piccola parte di lui moriva.

Un'improvvisa scarica di adrenalina lo fece scattare allo scoperto. Corse per trenta metri sotto il sole cocente, nonostante fosse appesantito dal casco, dal fucile, dalle munizioni e dallo zaino, approfittando del momento di calma per guadagnare terreno. Gli altri lo seguirono, dividendosi in due gruppi una volta raggiunta la baracca successiva. Tre di loro attraversarono la strada, nascondendosi dietro l’edificio di fronte.

Fece appena in tempo ad appoggiare la schiena al muro che un proiettile scheggiò lo spigolo dell'abitazione.

Il ragazzo accanto a lui stava letteralmente tremando e Seeley non aveva idea di come calmarlo. Avrebbe dovuto dirgli che sarebbe andato tutto per il meglio? Ma cos'era questo meglio? Sopravvivere e restare un giorno in più a farsi consumare dall'ansia e dai sensi di colpa oppure morire e non sentire più niente?

... Niente...?

A quel pensiero Booth si spaventò, temendo per la persona che stava rischiando di diventare. Per un attimo la sua fede aveva vacillato, e il dubbio che non ci fosse nessuno lassù a vegliare su di lui lo fece sentire terribilmente vulnerabile e solo. Abbandonato a se stesso, ai suoi sbagli. Ad un possibile errore di calcolo che molto probabilmente l'avrebbe ucciso.

C'era davvero un Dio? Chi aveva pregato in tutti quegli anni? A chi aveva affidato la sua vita ogni volta che aveva rischiato di morire? Si sentì un peccatore. Situazioni come quella avrebbero dovuto rafforzare la fede, ma su di lui stava avendo l'effetto contrario. Era convinto che Dio mettesse ogni persona davanti a scelte difficili per insegnare a non dare nulla per scontato, ma Seeley ne aveva abbastanza. Riteneva di aver sofferto a sufficienza nella vita, quindi perché il Dio che tanto rispettava e amava continuava a sottoporgli tanto dolore? E la guerra in cui era immischiato in quel momento non c'entrava.

Si sporse di poco, giusto per capire la posizione dei terroristi. Ne individuò tre: uno era esattamente nella sua traiettoria di tiro, il secondo era sul tetto di una casa di un solo piano, acquattato dietro una barricata di cianfrusaglie, proprio sopra il primo. Non era un bersaglio imprendibile. Non per un uomo dotato di una mira come la sua.

L'ultimo, invece, era una ventina di metri più indietro. Probabilmente aveva delle granate da lanciargli contro per coprire le spalle dei due compagni più avanti.

Prese un respiro e caricò l'arma. Si sporse di nuovo, appoggiando il fucile allo spigolo di cemento per tenerlo fermo e non sprecare nessuna munizione, poi sparò a quello sul tetto, poiché aveva una posizione più strategica e vantaggiosa rispetto a loro.

Lo sparo scheggiò un barile della barricata improvvisata, mancando il bersaglio per pochi centimetri.

Imprecò. Aveva sprecato un colpo e rivelato la sua posizione.

Una scarica di proiettili venne sparata nella loro direzione, il ragazzino vicino a Booth teneva il fucile stretto al petto e gli occhi serrati. Un solco più chiaro sulla guancia sporca gli fece intuire che gli fosse sfuggita una lacrima, e Seeley rivide Parker in quel giovanotto impaurito.

«Come ti chiami, ragazzo?» Doveva distrarlo.

Lui deglutì, aprendo gli occhi e rivelandoli lucidi. «… Matthew»

«D'accordo, Matthew, ora calmati.» Inspirò profondamente. Doveva calmarsi per poter tranquillizzare qualcun altro. «Sono rimasti solo in tre, non ci daranno problemi. D’accordo?»

«Sì.»

«Bene.» Si passò ancora una volta il palmo sul viso, poi guardò i tre giovani dietro di lui. «Fate il giro da dietro e lanciate le granate al terrorista che copre le spalle a quelli davanti. In questo modo dovrei avere qualche secondo di tempo per ucciderli.»

«Quante ne lanciamo, Signore?»

Seeley spostò lo sguardo sul ragazzo che aveva parlato, quello in fondo alla fila. Ostentava coraggio, ma gli tremavano le labbra. «Una a testa. Coprirete un’area maggiore e con un po’ di fortuna dovreste colpirlo. Poi tornate indietro e restate qui fino ad un mio segnale.» Annuirono tutti nonostante la paura, ma si fecero coraggio e si allontanarono per aggirare l’edificio, lasciando Booth da solo. Pregò che quei ragazzini non venissero ridotti come colabrodo nel giro di venti secondi, perché tre vite così giovani non le voleva sulla coscienza. Non avrebbe sopportato un peso del genere.

Si appoggiò contro il muro e iniziò a contare in silenzio. Sentiva solo qualche sparo, ma dalla sua postazione vedeva il terrorista sul tetto mirare ai suoi compagni nascosti dietro il palazzo di fronte al suo, quindi il bersaglio nelle retrovie era a corto di munizioni. Deglutì. Forse la fortuna girava dalla loro parte, potevano farcela. Poi tre esplosioni consecutive gli confermarono che i tre ragazzi erano riusciti nell’impresa.

Ora o mai più.” Si sporse oltre la parete e un muro di polvere e calcinaccio sgretolato lo investì ancora, ma stavolta non si trattenne. Tossì forte un paio di volte e aprì gli occhi nonostante gli bruciassero. Non riusciva a vedere oltre i cinque metri tanto la nube era spessa, ma gli spari erano cessati, ciò stava a significare che gli altri due terroristi si erano semplicemente distratti oppure impossibilitati a mirare a causa del polverone.

Ne approfittò.

Imbracciò meglio il fucile e uscì dal riparo correndo tra i detriti, i cadaveri e le armi dei deceduti sparpagliate a terra. Strisciò su una gamba per un paio di metri sfruttando la velocità della corsa fino a nascondersi dietro ad un pezzo di cornicione sopravvissuto alle bombe, avvalendosi ancora della poca visibilità per tirare su la testa e studiare le posizioni dei nemici. L’uomo a terra era nascosto probabilmente nel suo stesso modo, ma quello sul tetto era ben visibile. Booth lo colpì in pieno petto mentre imprecava nel ricaricare il fucile.

Ancora uno. Ancora uno e sarà tutto finito.” Ricaricò anche lui l’arma e si spostò di lato restando accucciato. I quadricipiti doloranti non lo deconcentrarono e Seeley si spostò ancora di qualche metro, raggiungendo il centro della strada. Ormai aveva l’adrenalina in circolo, sentiva di essere ad un passo dalla vittoria e, preso dall’entusiasmo, uscì allo scoperto per raggiungere i compagni nascosti dietro il palazzo alla sua destra. Percorse cinque metri, la schiena piegata per non dare nell’occhio e le mani sudate che a malapena tenevano il fucile.

Fu un attimo.

Nel silenzio si udì uno sparo ovattato, lontano. Avanzò ancora di un metro per inerzia, poi l’adrenalina calò di colpo e i muscoli si fecero deboli.

Non era successo, vero? Non di nuovo. Seeley abbassò con consapevolezza gli occhi sul suo addome, notando la giacca mimetica sporca di sangue all'altezza del fegato.

L'avevano colpito. Era successo davvero, alla fine. E il colpo non l'aveva neanche sentito partire, dannazione. Si era reso conto di tutto solo quando un bruciore fottutamente familiare al ventre l'aveva paralizzato, facendogli cedere le ginocchia e costringendolo a cadere a terra a peso morto.

Un comilitone l'aveva soccorso subito, gettandosi su di lui, mettendolo supino e premendo entrambe le mani sul buco che aveva sotto le costole. Lo riconosceva: era John, un uomo in gamba e un buon amico. Avevano passato serate tranquille a raccontarsi aneddoti divertenti sulle loro vite, e in quel momento pensò che gli sarebbe piaciuto offrirgli un caffè in un contesto sereno. Magari al Royal Diner.

John tolse una mano dalla ferita per dargli un paio di schiaffi. «Resta con me, Booth, per carità di Dio.» E lui avrebbe voluto dargli retta, ma respirare era diventato così faticoso e doloroso che dubitava ce l'avrebbe fatta. «Resisti!»

Provò a deglutire e gli occhi spaventati dell'omone che tentava disperatamente di tenerlo in vita gli ricordarono quelli di Bones quando, anni prima, una sospettata squilibrata gli aveva sparato in un locale. Gli si strinse lo stomaco ripensando a lei e a come avrebbe preso la notizia del suo funerale. Autentico, stavolta.

Le palpebre si abbassarono da sole, divenute ormai troppo pesanti. Era abituato a quella sensazione, era come crollare di sonno davanti alla TV, eppure, nonostante fosse avvezzo, la odiava. Detestava essere vivo ma impotente. Non era da lui affidare la sua vita a terzi.

«Booth!» Aveva gli occhi mezzi rivoltati, era ad un passo dalla morte, eppure continuava a pensare che la vita non avesse pietà di lui neanche in quel momento. La voce di John divenne improvvisamente acuta, femminile, così simile a quella di Brennan. La sentiva chiaramente spaventata, non smetteva di chiamarlo, e per quanto Booth desiderasse darle retta, tutti i suoni si fecero a poco a poco ovattati e lontani. Nelle orecchie rimbombava il battito del suo cuore, sempre più debole e lento, ma Bones continuava a chiamarlo.

«Seeley!» Ormai aveva gli occhi chiusi, eppure trovò la forza di aggrottare un po’ la fronte. Era strano sentirsi chiamare per nome dalla voce di Temperance, non l’aveva mai fatto, ma gli piacque nonostante tutto.

Di colpo non percepì più dolore e le fastidiose pietruzze su cui aveva appoggiato la testa quando era stato messo supino non gli diedero più noia. Era morto? Pregò Dio di perdonarlo se pochi minuti prima aveva messo in discussione anni di fede, Booth sapeva di essere una brava persona, e le brave persone non possono che avere un destino felice una volta passate a miglior vita, no?

Provò ad aprire di poco gli occhi temendo ciò che avrebbe visto, ma una luce accecante lo investì in pieno.

«Seeley, svegliati!» La voce cambiò ancora, seppur fosse sempre di una donna. E questa volta non era in lontananza, ma forte e chiara, a pochi centimetri dai suoi timpani. Non era quella di Bones.

Le ciglia incollate gli impedivano di vedere chiaramente chi fosse la persona davanti a lui, ma dopo aver sbattuto le palpebre un paio di volte iniziò a distinguere i capelli. Erano biondi. Nel giro di pochi secondi tornò completamente lucido e, nonostante un dolore lancinante alle tempie, riconobbe la sua camera da letto. In un attimo capì di aver sognato e che la voce che aveva confuso con quella Bones era, in realtà, di Hannah.

Impallidì, temendo che lei capisse.

«Calmati, hai fatto solo un incubo.»

Booth riatterrò sul cuscino espirando. Aveva la schiena e il collo bagnati di sudore, il cuore a mille e l’ansia nel petto. Non era normale quello che era successo. Non avrebbe dovuto pensare a Bones in punto di morte. Non con Hannah nella sua vita.

Deglutì sperando di riaddormentarsi in fretta. Si sentiva in colpa, soprattutto perché da un paio di giorni stava pensando di chiederle di sposarlo. Chiuse gli occhi sperando di calmarsi.

«… Hai sognato di essere ancora là? È passato, Seeley.» Infilò una mano tra i capelli dell’uomo sperando di dargli sollievo, ma lui si girò sul fianco, dando le spalle alla fidanzata.

«Provo a riposare, domani mi alzo presto.» Gli tremò la voce, ma non per i ricordi in Afghanistan.

Hannah non percepì nulla, acconsentendo alla sua richiesta. Se c’era una persona che poteva capire in parte cosa provasse, quella era lei. Hannah non aveva vite sulla coscienza, non aveva provato l’ansia e la paura di correre con un’arma in mano, di scappare strisciando tra la polvere e i cadaveri, ma aveva vissuto quell’inferno con lui, e non lo biasimava nel vedere che avesse ancora qualche trauma.

Gli si accoccolò contro la schiena per rassicurarlo, ma Booth serrò i denti, pensando di non meritare tanto affetto dopo ciò che aveva sognato. Forse fare ad Hannah la fatidica proposta non era una buona idea.
Forse Sweets aveva ragione. Doveva mettersi in gioco, ma con un’altra persona.

 

               The End.

   
 
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