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Autore: Rowelence    05/08/2016    0 recensioni
Da piccoli si desidera diventare grandi per essere più liberi, incapaci di vedere le prigioni che ci attendono lungo il cammino. Essere più consapevoli del mondo che ci circonda è allo stesso tempo un dono e una condanna. Barattiamo la nostra innocenza per la conoscenza e, come dei moderni Adamo ed Eva, passiamo dall'eden dei nostri primi anni all'eterna lotta per affermare la nostra presenza nel mondo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il pupazzo di neve fu la prima cosa che vidi in quella fredda mattina di dicembre. Oltre il vetro sporco della finestra i suoi occhi di bottone mi fissavano; due piccoli abissi desiderosi di inghiottirmi. La carota che aveva al posto del naso era piccola e storta. Poco sotto di essa, tanti piccoli sassolini formavano un sorriso sinistro. Rabbrividii. La camera da letto era più gelida del solito. Pensai che forse sarei potuto tornare sotto il piumone a scaldarmi; dopotutto non avevo nessun impegno urgente. Non lo feci. Rimasi affacciato alla finestra ad osservare il pupazzo di neve con ostinazione, un po’ come se volessi sorprenderlo a muoversi.
Lo trovavo molto brutto. Chiunque lo avesse costruito non si era per nulla sforzato di renderlo gradevole: occhi asimmetrici, naso troppo vicino alla bocca, totale assenza di indumenti. Inoltre, la neve con cui era stato realizzato era sporca. Faticavo a staccare gli occhi da quello spettacolo grottesco e non riuscivo a smettere di chiedermi chi potesse averlo creato. Nessuno dei vicini aveva dei bambini e gli scorsi inverni non avevo mai visto un pupazzo di neve in uno dei loro vialetti. Per gli abitanti di quella strada, me incluso, la neve non era una fonte di divertimento, bensì una terribile seccatura. Ne bastavano alcuni centimetri per rendere le strade un inferno popolato da ritardatari e da geni convinti di risolvere tutti i loro problemi suonando il clacson all’infinito. Agli abitanti di via Rossi mancavano le caratteristiche necessarie ad essere dei costruttori di pupazzi di neve e non erano nemmeno propensi a farsi degli scherzi a vicenda. Chi era stato allora a creare quell’abominio? E, soprattutto, perché lo aveva realizzato con il volto rivolto verso casa mia? Ero certo di non sbagliarmi: il brutto muso del pupazzo guardava proprio in direzione della mia stanza.
Mi sedetti sul letto e cercai di riflettere. La mia fronte era sudata e provavo una strana sensazione dalle parti dello stomaco. Nonostante la mia scarsa lucidità riuscii ad elaborare una possibile spiegazione; forse durante la notte qualche ragazzino privo di sonno e di cose da fare aveva pensato che costruire un pupazzo di neve davanti a casa mia fosse un buon modo per ammazzare il tempo. Sì, mi dissi, deve essere andata così. Mi avvicinai alla finestra ed abbassai la tapparella in fretta. Non aveva alcuna voglia di vedere ancora il pupazzo e la neve che scendeva copiosa dal cielo.
Sarebbe stato poco piacevole dovermi recare a lavoro in una giornata simile. Per mia fortuna, le ferie erano iniziate prima che la neve iniziasse a rendere le strade impraticabili. Mi ero ripreso quasi del tutto da quello spiacevole risveglio e decisi di fare una doccia per rilassarmi e riscaldarmi. Anche se non fu facile, feci del mio meglio per non pensare più al pupazzo di neve.
 
Un’ora dopo decisi di uscire per fare degli acquisti. Natale era alle porte e non avevo ancora recuperato tutti i regali. Non ero un grande amante della festa in sé, tuttavia la trovavo una bellissima occasione per rivedere parenti lontani e amici sempre più impegnati con lavoro e famiglia. Presentarsi alla loro porta con un pacco a tema natalizio in una mano e una scatola di dolci nell’altra era sempre un ottimo modo per riallacciare i rapporti. E a Natale più che mai avevo bisogno di stare in compagnia delle altre persone, lontano dalla mia solitudine e da pensieri di cui avrei fatto volentieri a meno. Quando uscii in giardino vidi che il pupazzo era ancora lì. Ovvio, mi dissi, non può certo andarsene in giro da solo. Visto da vicino era ancora più sgraziato e inquietante. Solo a stare di fianco a lui mi sentivo a disagio. In un impeto di rabbia, afferrai la pala appoggiata di fianco al garage e la abbattei con violenza sul cranio del mostro di neve. La carota storta rotolò a terra e i sassi schizzarono via come piccoli proiettili. I bottoni rimasero ancorati ad un grosso pezzo di neve che cadde a terra vicino alle mie scarpe. Lo calpestai, ben intenzionato a non vedere più quegli abissi neri. Con un altro violento colpo distrussi la parte inferiore del pupazzo. L’impatto fece schizzare un po’ di neve sulla mia faccia; me la scrollai di dosso con un gesto secco. Un poco ansimante contemplai la mia opera di distruzione con una certa soddisfazione. Dall’altra parte della strada, una delle mie vicine mi osservava perplessa. La salutai senza ricevere risposta e allora la mandai a quel paese nella mia mente. Non mi era mai piaciuta quella donna; troppo ficcanaso e petulante per i miei gusti. Sapevo che amava parlare male di me in mia assenza. Trovava discutibili le mie relazioni occasionali e a suo giudizio essere un web designer non era un vero lavoro. Se lei era rimasta al medioevo non era certo colpa mia e quel che facevo tra le lenzuola non la riguardava proprio. Non mi sentivo per niente in colpa a non essermi ancora sistemato e la sua visione retrograda del mondo mi lasciava indifferente. Guadagnavo bene ed ero libero di fare quello che desideravo. Non avevo alcun motivo per rinunciare al mio stile di vita.
Riposi la pala dove l’avevo trovata e poi sollevai la serranda del garage. Osservai per qualche istante la mia utilitaria blu elettrico, cercando qualche buon motivo per preferirla ai mezzi pubblici. Non ne trovai neanche uno. Odiavo guidare quando nevicava e non avevo alcuna voglia di impazzire in mezzo al traffico. Decisi di prendere l’autobus e di lasciare quello sgradevole compito ad un autista stipendiato. La fermata distava solo pochi metri da casa mia; li percorsi con calma, consapevole del fatto che l’autobus non sarebbe arrivato prima di venti minuti. La neve caduta durante la notte non era ancora stata spazzata via del tutto e si era accumulata ai margini della strada. Dopo qualche minuto di cammino vidi una giovane donna sbucare da una strada secondaria. Anche lei sembrava diretta alla fermata dell’autobus. Indossava degli stivali neri di pelle con un tacco alto poco adatto ad una giornata come quella. Le sue forme non mi dispiacevano per niente, ma in tutta onestà ciò che mi colpì di lei furono i capelli neri e lucidi come le penne di un corvo. In una giornata in cui tutto sembrava bianco spiccavano più che mai. Erano lunghi fino alle spalle e ad ogni suo passo ondeggiavano leggermente. All’improvviso, la vidi scivolare e cadere sul marciapiede. Con prontezza mi avvicinai per sincerarmi delle sue condizioni.
«Ti sei fatta male?».
Un po’ frastornata, lei voltò la testa nella mia direzione. I suoi occhi erano color nocciola.
«Sto bene. Ho preso solo una botta». La aiutai a rimettersi in piedi e lei mi ringraziò. «Mettere questi stivali in una giornata simile non è stata una buona idea», borbottò. Ero d’accordo con lei, ma preferii restare in silenzio. «Ti offrirei un caffè per ringraziarti, ma ho un autobus da prendere».
«Anch’io stavo camminando verso la fermata». «Oh, davvero? Allora potremmo fare la strada assieme, così se dovessi cadere di nuovo potresti aiutarmi». Si mise poi a ridere e io la imitai. Riprendemmo a camminare uno affianco all’altra, in perfetto silenzio. Avrei voluto parlarle di qualcosa, ma ogni argomento interessante sembrava aver abbandonato la mia mente. Per fortuna fu lei a spezzare il silenzio quando giungemmo alla fermata.
«So che può sembrare strano, ma non mi piace molto la neve».
Parlare del meteo non era il massimo della vita, però lo preferivo comunque al silenzio.
«Non piace nemmeno a me. Paralizza il traffico e rende tutti incapaci di guidare. O almeno così pare a me». «È per questo che oggi hai deciso di prendere l’autobus?».
«Già, è proprio così. Sei anche tu nella stessa situazione?». Lei sorrise e scosse la testa.
 «No, io…Bè, io sono un caso un po’ particolare. Ho scelto di non possedere un’auto per non inquinare ulteriormente l’ambiente. Molti mi giudicano pazza per questo, però mi piace pensare di aver fatto la scelta giusta». Non ero proprio un’ambientalista, tuttavia era un discorso che potevo condividere. «Un po’ ti capisco. Se per certe cose non fosse necessaria farei a meno anch’io della macchina. Insomma, non nego sia utile, ma in certe giornate la gente ti fa proprio passare la voglia di guidare». «Wow. Pensavo che mi avresti dato della svitata! Comunque non credo di essermi presentata. Mi chiamo Chiara».
 Mi porse la mano e io esitai prima di stringerla. Chiara era un nome che riportava alla mente molti ricordi. Nonostante fosse passato tanto tempo non riuscivo ancora a restare indifferente quando lo sentivo. «Qualcosa non va?», chiese lei notando la mia esitazione. «…No, è tutto a posto». Sorrisi per rassicurala e le strinsi la mano. Era morbida e piccola rispetto alla mia. Nonostante la giornata fredda emanava un piacevole tepore. «È un piacere. Io mi chiamo Andrea». Mentre eravamo in quella posizione, con le mani strette l’una nell’altra, sentii per la prima volta il profumo che indossava. Era un’essenza floreale dolce, non fastidiosa come tante altre. Mi piaceva, eppure allo stesso tempo mi rattristava. In quel profumo c’era qualcosa di nostalgico che non riuscivo a decifrare; era come se il mio cervello lo avesse ricollegato a qualche ricordo spiacevole del mio passato. Se la mia vita fosse stata un romanzo di Joyce, con ogni probabilità quello sarebbe stato il momento dell’epifania. Non fu così. Nessuna rivelazione improvvisa invase la mia mente portandomi a comprendere meglio la mia vita. In fondo certe cose accadono solo nei romanzi. L’arrivo dell’autobus distolse la mia attenzione da quel profumo nostalgico. Per mia fortuna era mezzo vuoto. Salendo salutai l’autista con un cenno del capo e obliterai il biglietto con un gesto rapido. Raggiunsi il primo sedile vuoto e mi accomodai. Poco dopo, Chiara si sedette accanto a me.
«Scendi in centro?» le chiesi. Speravo in una risposta affermativa. La trovavo una donna affascinante e non mi sarebbe dispiaciuto invitarla a bere qualcosa. Se si era seduta accanto a me, forse anche lei condivideva il mio interesse.
«No, scendo all’ospedale», disse, frantumando le mie speranze. Non le chiesi per quale motivo stesse andando lì. Ci conoscevamo appena e non volevo essere indelicato. Mentre l’autobus riprendeva la sua marcia la vidi togliersi dal collo la sciarpa rossa.
«Non mi piace mettere la sciarpa», affermò come per giustificare quella sua azione. «La metto solo perché detesto il mal di gola ancora di più».
 Non riuscii a fare a meno di ridere. «Nemmeno io sono un grande amante degli indumenti invernali. E nemmeno dell’inverno in generale, a dirla tutta. Sopporto più il caldo del freddo». Mi sorrise senza smettere di sistemare la sciarpa sul suo sedile. «A quanto pare abbiamo qualcosa in comune».
Era vero, ma questo non ci impedì di passare i successivi cinque minuti in silenzio. Quella mattina ero proprio a corto di argomenti. Per non pensare a quella situazione imbarazzante, mi misi ad osservare la città innevata dal finestrino. Vidi dei bambini giocare a palle di neve in cortile, privi di qualsivoglia preoccupazione e invidiai la loro libertà. Avrei dato qualunque cosa per tornare anche solo per un’ora nella mia infanzia e riottenere quella purezza ormai svanita da anni. Da piccoli si desidera diventare grandi per essere più liberi, incapaci di vedere le prigioni che ci attendono lungo il cammino. Essere più consapevoli del mondo che ci circonda è allo stesso tempo un dono e una condanna. Barattiamo la nostra innocenza per la conoscenza e, come dei moderni Adamo ed Eva, passiamo dall’eden dei nostri primi anni all’eterna lotta per affermare la nostra presenza nel mondo.
L’autobus si fermò ad un semaforo rosso. Ora fuori dal finestrino potevo vedere il giardino di una villetta a schiera; alcuni bambini si stavano divertendo a creare un pupazzo di neve. Non potei fare a meno di ripensare al mio orribile risveglio e di chiedermi, per l’ennesima volta, chi avesse potuto creare quel pupazzo così brutto proprio di fronte alla finestra della mia camera. Con la coda dell’occhio notai che anche Chiara era intenta a scrutare fuori dal finestrino.
«Da piccola avevo paura dei pupazzi di neve», mi confessò. «Non so spiegare perché, ma ogni volta che ne vedevo uno provavo l’impulso di correre il più lontano possibile. Qualche volta lo facevo davvero. I miei genitori continuavano a ripetermi che non avevo nulla da temere e che quei pupazzi non mi avrebbero mai fatto del male, eppure io non riuscivo a crederci. A volte di notte li sognavo intenti ad inseguirmi armati di lunghi coltelli e mi svegliavo in lacrime. Se devo essere sincera, anche ora che sono cresciuta continuano a non piacermi».
Mi chiesi perché lo stesse dicendo proprio a me. Certo, lei non poteva conoscere il mio passato, eppure sembrava essere uscita direttamente da quei giorni lontani. Cercai di non dare troppa importanza a quelle che erano delle semplici coincidenze e, mentre l’autobus ripartiva, le risposi così: «Da bambini sono in molti ad avere delle paure strane. Io ricordo che a quattro anni avevo una paura matta della vecchia lavatrice di mia nonna; faceva dei rumori che non mi piacevano proprio». Risi e lei fece lo stesso. «Per quanto riguarda i pupazzi di neve, devo dire che fino agli otto anni li adoravo. Mi piaceva un sacco costruirli e mi divertivo a fare a gara con gli altri bambini del vicinato a chi lo rendeva più bello. Poi…Bè, poi hanno iniziato a piacermi sempre meno e ora non ne subisco per niente il fascino. Pensa che qualche ora fa ne ho trovato uno davvero brutto in cortile costruito da chissà chi. L’ho distrutto senza pietà con la pala».
Risi di nuovo, ma stavolta Chiara non si unì a me. Sembrava improvvisamente preoccupata e mi fissava in modo strano.
«Stai dicendo la verità?». «Su cosa?». «Sul pupazzo di neve che hai trovato in cortile».
Il suo tono era cambiato. Quel che le avevo raccontato l’aveva allarmata.
«Sì. Stamattina mi sono svegliato, ho aperto la finestra ed era lì».
«Oh, merda…Non può essere! Stamattina è successa la stessa identica cosa anche me!».
Trasalii. Le coincidenze stavano iniziando a diventare troppo numerose e strane per i miei gusti. Se c’era una spiegazione razionale a quella situazione faticavo a trovarla.
«Magari stanotte qualcuno si è divertito a creare dei pupazzi particolarmente brutti in giro per la città», azzardai.
«Potresti avere ragione, ma…Io non ne ho visti altri in giro. Ho provato a chiedere anche a qualche vicino di casa, ma nessuno sembrava saperne nulla. Forse qualcuno ha voluto mandare un qualche messaggio a noi due e…»
Si fermò all’improvviso e strabuzzò gli occhi guardando oltre il finestrino.
«Oh no, ho saltato la fermata!». La vidi scattare in piedi e fiondarsi a chiedere all’autista di fermare l’autobus. Per sua fortuna avevamo superato da poco la fermata dell’ospedale e l’autista acconsentì a farla scendere in un posto tranquillo. Mi salutò da lontano con la mano.
«Aspetta, non abbiamo ancora finito di parlare!», esclamai, ma fu fiato sprecato; lei scese rapidamente dal mezzo e l’autista ripartì prima che io potessi anche solo pensare di seguirla. Con un sospiro sprofondai nel sedile. Non avevo la minima idea di che costa stesse succedendo. Perché qualcuno aveva costruito dei pupazzi di neve davanti a casa mia e a quella di Chiara? E perché lei, che era parsa così allarmata da tutta la faccenda, era scesa dall’autobus senza nemmeno lasciarmi il suo numero di cellulare? Per il resto del viaggio quelle domande ronzarono nella mia mente come delle mosche moleste. Quando infine giunsi alla mia fermata notai che sul sedile lasciato vuoto da Chiara era rimasto qualcosa: la sua sciarpa rossa.
 
Passai il resto della giornata in centri commerciali e negozi più affollati che mai. Non ero un grande amante del caos, ma quel giorno lo trovai una manna dal cielo. Mi aiutava a non pensare agli strani eventi di quella giornata. Passando da un negozio ad un altro sgusciavo tra le persone leggero come un’ombra, presente eppure invisibile agli occhi di chi non era interessato a vedermi. Tra le mie mani il numero di sacchetti di plastica aumentava ora dopo ora. Attorno al collo avevo la sciarpa rossa di Chiara e continuavo a respirare il profumo nostalgico di cui era impregnata. Non mi dispiaceva per niente.
Terminai la mia epopea di shopping attorno alle sei di sera. Lasciandomi alle spalle i negozi pieni di luce e musica mi inoltrai nelle buie strade della città. Anche se aveva smesso di nevicare, il cielo era ancora avvolto da nubi minacciose. La luce arancione dei lampioni guidava i miei passi verso la fermata dell’autobus, come una fioca lanterna in mezzo alle tenebre. Ora che tornavo a calpestare la neve, mi era impossibile non ripensare al pupazzo di neve e allo strano incontro con Chiara. Quelle coincidenze avevano un qualche significato o non erano altro che un beffardo scherzo del destino? In ogni caso non ero in grado di ignorarle. Avrei voluto rivedere Chiara, restituirle la sciarpa e parlare a lungo con lei di tutti i pensieri che tormentavano la mia mente. Non avevo però alcun modo per contattarla. Potevo solo sperare che i nostri destini fossero destinati ad intrecciarsi di nuovo. Sull’autobus semideserto continuai a ripensare a lei e a quel lontano giorno d’inverno della mia infanzia.
Verso mezzanotte andai a letto, nella speranza di addormentarmi subito e di non pensare più a nulla. Fui uno stolto a sottovalutare la capacità della notte di trasformare la mente in un calderone ribollente. Dopo un’ora passata nel letto con gli occhi spalancati, allontanai con rabbia le coperte e balzai in piedi. Mi vestii in fretta, senza badare troppo a quel che indossavo. Sentivo il bisogno di uscire, di camminare per le strade deserte e di soffocare i miei pensieri.
La notte era gelida e il vento portava con sé la neve che aveva ripreso a cadere copiosa dal cielo. Se fossi rimasto all’esterno troppo a lungo mi sarei di certo ammalato. Dopo venti minuti di cammino giunsi di fronte ad un pub nel quale non ero mai entrato. Fui sedotto dall’idea di annegare i miei tormenti nell’alcool e varcai la porta senza esitare.
Pochi avventori sedevano attorno ai tavoli del locale sorseggiando alcolici e scambiando qualche parola. Un vecchio mal vestito sedeva da solo ad un tavolo in fondo al locale e teneva la testa tra le braccia come se stesse dormendo. Vicino a lui c’erano tre bottiglie di birra vuote. Augurandomi non fare mai quella fine, presi posto su uno degli sgabelli vicino al bancone. Il barista, un omone sulla cinquantina con le braccia tatuate, mi salutò con un cenno del capo. 
«Un altro che non riesce a dormire, eh? Cosa vuoi da bere?».
«Una vodka liscia», risposi senza pensarci troppo. Quando posò il bicchiere colmo di liquido trasparente di fronte a me lo ringraziai. Sorseggiando la vodka provai la familiare sensazione di bruciore alla gola. Qualche minuto dopo vidi il barista avvicinarsi ad una delle finestre del bar e osservare la notte.
«Che tempaccio», commentò ad alta voce.
«Non è bello girare per le strade in queste condizioni».
Gli diedi ragione. Due uomini si avvicinarono al bancone e pagarono in fretta il loro conto. Quando aprirono la porta per uscire il gelo entrò nel locale e io rabbrividii.
«Cosa ci fa un giovane come te in giro per pub da solo?», mi chiese il barista mentre puliva alcuni bicchieri. «Bè, non riuscivo a dormire. Questo periodo riporta alla mente ricordi di cui farei a meno».
«Ti capisco», disse lui e mi sembrò sincero.
«Io detesto il periodo natalizio e tiro sempre un sospiro di sollievo quando finisce».
Non gli chiesi perché. Non lo conoscevo e non ero il tipo d’uomo da farsi gli affari degli altri. Fu lui a dirmi tutto. Non so perché scelse di dirlo a me. Forse sentiva di aver trovato uno spirito affine o forse aveva solo bisogno di togliersi un peso dalla coscienza.
«Non ho sempre fatto il barista», fu questo l’inizio della sua confessione.
«Più di vent’anni fa ero un camionista. Trasportavo merci per varie aziende e passavo quasi tutta la settimana lungo le strade di tutta Italia. Lo adoravo. Mi piaceva mordere l’asfalto con il mio camion e vedere sempre posti nuovi. Per qualche strana ragione sentivo che quella era la vita adatta a me». Indicò una vecchia foto appesa sopra ad un jukebox. Ritraeva il barista con la schiena appoggiata ad un grosso camion grigio. Il volto dell’uomo era sereno ed esprimeva un forte orgoglio per la propria professione.
«Come puoi notare, in quel periodo ero davvero felice».
«Che cosa accadde in seguito?».
Emise un sospiro sconsolato e poi riprese il suo racconto.
«A quel tempo pensavo che nulla potesse andare storto. Avevo tutto quello che desideravo, tranne una moglie e di quest’ultima non sentivo poi un gran bisogno. Ma mi sbagliavo. Bastò un singolo errore a cambiare tutto. Era un giorno di inverno, non molto diverso da oggi. Stavo attraversando la città per consegnare della merce ad una fabbrica in periferia. Nevicava e la visibilità era ridotta. Non andavo veloce, ma col senno di poi avrei dovuto andare ancora più piano. Ad un certo punto…». Sentii la sua voce esitare. Ora che era arrivato al dunque sembrava spaventato. Si tolse il berretto che indossava e si asciugò la fronte con un panno. Fece poi un gran respiro.
«Di punto in bianco una bambina attraversò la strada. Era vicina…Troppo vicina. C-cercai di frenare, ma non ebbi abbastanza tempo. La investii e morì sul colpo».
Non potevo crederci. Ero entrato in quel pub per scappare dai miei ricordi, eppure mi avevano inseguito anche lì. Non sapevo più cosa fare. Il passato continuava ad inseguirmi e nessun nascondiglio era sicuro. Avevo paura e non riuscivo a capire che costa stesse succedendo. Non potevano essere tutte coincidenze. Gli eventi di quella giornata erano stati scritti nel mio destino da tempo immemore. Avrei voluto alzarmi, urlare a squarciagola e correre nella notte fino a perdere i sensi. Ma non lo feci. Rimasi immobile, con il mio bicchiere di Vodka vuoto stretto nella mano destra. Il barista mi guardava, forse in cerca di un giudizio. Se lo avessi condannato non avrei fatto altro che condannare me stesso. Non eravamo dei colpevoli, eravamo delle vittime degli eventi.
«È terribile…Davvero terribile. Ma non è stata colpa tua. Non potevi fare nulla per evitarlo».
Il suo vacuo sguardo era fisso sul pavimento. Provava troppa vergogna per alzare la testa.
«È quello che mi ripeto da anni per non impazzire. Ma quando arriva l’inverno non riesco più a crederci. Mi sento un assassino e mi detesto. Ho stroncato la vita di una bambina, per l’amor di dio! Il pensiero che avrei potuto fare qualcosa per salvarla mi strazia…».
Restammo in silenzio a lungo, entrambi immersi nei nostri pensieri; due innocenti che non potevano fare altro che sentirsi colpevoli del peggiore dei crimini. Dopo un tempo che non fui in grado di calcolare, mi alzai dallo sgabello e pagai il conto.
«Grazie per avermi ascoltato», mormorò il barista dandomi il resto.
 
Tornando a casa, feci quello che avevo evitato di fare per tutto il tempo: ripensai al giorno in cui la mia migliore amica era morta. Nella mia memoria era tutto nitido come se fossero passate solo poche ore. Senza sforzarmi potevo vedere il piccolo me stesso e Chiara giocare assieme nel giardino della mia vecchia casa, entrambi intenti a costruire un pupazzo di neve. Era uno dei nostri passatempi preferiti in inverno e attendevamo con ansia le giornate di neve solo per quello. «Il tuo pupazzo è brutto»: fu questa la frase che trasformò quella bella giornata in un inferno. Chiara reagì a quella mia stupida critica scoppiando a piangere e correndo verso la strada. Fu in quel momento che arrivò il camion…
Era colpa mia se era morta. Lo avevo sempre saputo. Se solo non le avessi mai detto che il suo pupazzo era brutto quel giorno non sarebbe mai successo niente di brutto. E ora, ventitré anni dopo la sua morte, il destino stava riaprendo le mie ferite mostrandomi pupazzi al risveglio, facendomi incontrare una donna col suo stesso nome e l’autista che aveva involontariamente causato la sua morte. Non riuscivo a capire che cosa volesse il destino da me. Voleva punirmi? Non avevo forse sofferto abbastanza a causa dei sensi di colpa in tutti quegli anni? Non lo sapevo, ma ero certo che quella non fosse una normale giornata.
Ebbi ulteriore conferma di quel presentimento quando tornai a casa e vidi qualcuno intento a costruire un pupazzo di neve nel mio giardino. Sentii montare una rabbia cieca dentro di me.
«Ehi! Che cazzo stai facendo?!».
 Mi avvicinai allo sconosciuto e lo costrinsi a voltarsi verso di me. Con stupore realizzai che era lo stesso vecchio ubriaco che avevo visto al pub.
«Tu?! Che cosa stai facendo qui?!».
Mi rivolse un sorriso sdentato. Puzzava di alcol e la sua folta barba grigia era sporca di vomito.
«Vedo che ti ricordi di me».
«Certo che mi ricordo. Ti ho appena visto al pub. Un momento…Ma tu eri ancora lì quando io sono uscito. Come hai fatto ad arrivare prima di me?».
La mia mano era stretta attorno al bavero della giacca che indossava. Con un forte schiocco lo vidi sparire e materializzarsi a pochi passi da me. Ora la mia mano non stringeva altro che aria. «Ma che diavolo?!».
«Non mi riferivo al nostro incontro di stasera al pub, ma al nostro incontro di tanti anni fa».
Non riuscivo a capire a cosa si riferisse. Ero certo di non aver mai incontrato quello strambo individuo in tutta la mia vita. Eppure lui sembrava conoscere la parte più marcia del mio passato. Doveva per forza aver giocato un ruolo di qualche rilevanza negli eventi.
«Ora non ti ricordi, ma presto lo farai».
Tornò ad occuparsi del pupazzo di neve. Prima del mio arrivo aveva costruito il “corpo” della creatura, ma mancavano ancora tutti i dettagli del viso. Tirò fuori una carota storta da una tasca della giacca marrone e la conficcò senza troppe cerimonie nella palla di neve più piccola.
«Chi sei?».
«Non è facile da spiegare. Immagino che potresti considerarmi un Agente del Destino».
Che il destino fosse dietro a tutti quelli strani avvenimenti lo avevo capito da un pezzo, tuttavia non riuscivo a comprendere che cosa intendesse quello strano uomo con “Agente del Destino”. Gli chiesi di fornirmi una spiegazione più accurata, anche se essendo abbastanza agitato non credo che usai proprio queste esatte parole.
«Il mio compito è assicurarmi che il destino di ogni persona si compia nel modo previsto. Per farlo a volte sono costretto a modificare eventi non previsti o a forzare le coincidenze. Non posso fare le cose a mio piacimento, però, ci sono delle regole precise da seguire. L’Agenzia del Destino è molto scrupolosa su certe cose».
Non avevo alcun problema a credere nel destino e nella predeterminazione degli eventi, tuttavia l’idea di un’intera agenzia dedicata a raggiungere tale scopo suonava ridicola alle mie orecchie. Per me il destino era il flusso naturale degli eventi, non l'’intervento di un gruppo di uomini pronti a cancellare ogni imprevisto dall’esistenza. Questo affronto alle mie convinzioni mi spinse a mettere in dubbio le parole dell’uomo. «Perché mai dovrei crederti? Non puoi provare ciò che affermi».
Lui smise di costruire il pupazzo e si voltò verso di me.
«Stamattina hai visto un pupazzo di neve al risveglio».
«Grazie tante, lo hai costruito tu la scorsa notte!».
Alzò una mano per fermarmi e riprese a parlare: «Dopo per non pensarci hai fatto una lunga doccia. Sei uscito a fare compere, ma hai scelto di non utilizzare l’automobile e di prendere l’autobus. Lungo il tragitto verso la fermata hai incontrato una donna di nome Chiara che ti ha ricordato la tua migliore amica morta tanti anni fa. Guardando dal finestrino dell’autobus hai visto dei bambini giocare e hai invidiato la loro libertà. In seguito…».
«Ok, basta! Ti credo!».
Chiunque pedinandomi avrebbe potuto scoprire le mie azioni, ma non potevo mettere in dubbio la sua capacità di conoscere pensieri che non avevo mai rivelato a nessuno. Di fronte alla mia reazione lui sorrise, compiaciuto.
«Dimmi un po’, Agente del Destino: per quale motivo mi hai fatto passare la giornata ad incontrare persone collegate in un modo o nell’altro all’incidente di tanti anni fa? E perché hai costruito un pupazzo di neve anche di fronte a casa di Chiara? Che cosa stai cercando di dirmi?».
Lui si fece improvvisamente serio. Lo vidi scrutare il cielo nuvoloso, come se la risposta fosse scritta lassù, da qualche parte.
«Prima di rispondere a queste domande, ho bisogno che tu ricordi l’ultima volta in cui ci siamo incontrati». Mi sforzai, ma nella mia memoria non vi era alcun ricordo associato all’uomo. «Non mi viene in mente nulla. E, senza offesa, non sei il tipo che si dimentica una volta incontrato. Sei abbastanza eccentrico».
Lui scoppiò a ridere. «Nessuna offesa, è la verità dopotutto. Ad ogni modo il nostro incontro è avvenuto tanti fa, quando tu eri ancora un bambino. Io indossavo un certo costume e lavoravo in un super mercato».
Nella mia mente scattò qualcosa. Di punto in bianco ricordai una lunga barba bianca e un buffo cappellino rosso.
«Non può essere…Eri tu!».
Ora ricordavo. Alcuni giorni dopo la morte della mia migliore amica avevo incontrato Babbo Natale in un supermercato del centro. Lui mi aveva chiesto che cosa desideravo per Natale e io non ero riuscito a rispondergli. Me lo aveva chiesto di nuovo, con più gentilezza, e allora ero scoppiato a piangere di fronte a lui. «T-ti prego! Riporta in vita Chiara! N-Non desidero altro!», era stato quello il mio unico desiderio. Col passare del tempo avevo scoperto che Babbo Natale non esisteva e avevo rinunciato alla speranza di rivedere Chiara.
«Ora mi ricordo. Tu eri quel Babbo Natale…».
«Lo ero. Sai, anche gli Agenti del Destino hanno bisogno di arrotondare lo stipendio, ogni tanto. E per quanto riguarda il tuo desiderio…».
«Non hai potuto esaudirlo», tagliai corto io. «In quanto Agente del Destino non puoi certo riportare in vita i morti».
Lui annuì nervosamente. C’era qualcosa di strano nel suo atteggiamento; continuava a giocherellare con le dita e sembrava agitato.
«È come dici tu. Gli Agenti del Destino non possono riportare in vita le persone, possono solo annullare le morti non previste dal destino. E sfortunatamente la morte di Chiara era scritta nel suo destino. Tuttavia esistono delle alternative alla resurrezione diretta…». Ancora non riuscivo a capire dove volesse andare a parare, ma sentivo che stava per rivelarmi una verità sconvolgente, in grado di cambiare radicalmente la mia vita.
«Non ho riportato in vita Chiara, ma ho salvato una versione precedente alla sua morte che condivide con lei il nome, l’aspetto fisico e la personalità, ma non i ricordi dei primi otto anni di vita. Le ho dato dei ricordi falsi e l’ho affidata ad una giovane coppia a cui ho modificato la memoria. Ero certo che un giorno o l’altro vi sareste incontrati di nuovo…Il destino avrebbe trovato un modo per modificarsi da solo».
Rimasi schiacciato dall’enorme peso di quella rivelazione. In una forma o nell’altra, Chiara esisteva ancora, ma allo stesso tempo restava morta. Come dovevo sentirmi? Meno in colpa con me stesso? Contento per la possibilità di incontrarla di nuovo? Non lo sapevo, stava accadendo tutto troppo in fretta. Ci misi un po’ a realizzare che la Chiara che avevo incontrato sull’autobus era la stessa di cui mi aveva parlato l’Agente del Destino.
«E quindi oggi il mio destino e il suo si sono finalmente incrociati di nuovo dopo ventitré lunghi anni…».
«Sì, è proprio così. C’è però un problema: gli altri Agenti del Destino hanno lottato per anni affinché ciò non accadesse. Vedi, quel che ho fatto per esaudire il tuo desiderio ventitré anni fa viola le regole dell’Agenzia del Destino ed è la ragione per la quale sono stato licenziato. Già, io ormai non sono più un agente del destino. Ho sacrificato la mia carriera per il desiderio di un bambino…»
Finora avevo solo pensato all’impatto delle azioni dell’uomo sulla mia vita; in quel momento realizzai quanto lui avesse sacrificato per rendermi felice. L’aspetto da senza tetto ubriacone non era una maschera atta a nascondere la sua vera identità. E il suo sacrificio era stato vano: per anni io e Chiara non ci eravamo mai incontrati.
«Ma se l’Agenzia ha impedito che io potessi incontrarla per tanto tempo, perché oggi è successo?».
«Sono stato io. Ieri ho sabotato l’agenzia e ho reso impossibile a tutti gli agenti lavorare per almeno un paio di giorni. Questa breve pausa mi ha dato la possibilità di manipolare il tuo destino e di spiegarti la situazione». «E io ti ringrazio per questo, ma…Perché lo hai fatto proprio ora?».
Sorrise con amarezza.
«Perché ritengo di aver vissuto abbastanza. Opporsi al volere dell’agenzia equivale ad una condanna a morte e di certo tra non molto verrò giustiziato per quello che ho fatto. O perlomeno una morte dolorosa verrà improvvisamente inserita nel mio destino…Ma non importa. Non sono poi molto attaccato alla vita che conduco in questi giorni».
Ero una vittima del corso degli eventi, in grado solo di subire passivamente tutto quello che stava accadendo. Non potevo fare nulla per salvare l’uomo misterioso dall’Agenzia e lo sapevo bene. Mi sentivo impotente e minuscolo. Lui notò quel mio stato d’animo.
«Non sentirti in colpa e non dispiacerti per me. Fammi solo un favore: non sprecare il dono che ti ho fatto. Non rinunciare a Chiara. Ora che vi siete incontrati, il filo invisibile che vi unisce è stato ricucito e l’Agenzia del Destino non può spezzarlo tanto facilmente. Cercarla in un lungo e in largo. Probabilmente la troverai in ospedale nei prossimi giorni, sua madre è malata. Incontrala, parlaci, restituiscile la sciarpa. E poi fai quello che desideri. Diventa suo amico o suo fidanzato, se preferisci, ma non lasciare che gli eventi vi separino di nuovo. Tanti anni fa mi hai chiesto in lacrime di riportarla in questo modo e io l’ho fatto. Accetta il mio dono, anche se in ritardo».
Sentii i miei occhi riempirsi di lacrime e non riuscii ad impedire che iniziassero a scorrere lungo il mio viso. «Prometto che la troverò ad ogni costo. Non lascerò che il destino me la porti di nuovo via. G-Grazie per tutto quello che hai fatto per me…».
L’uomo mi sorrise per un’ultima volta e poi si incamminò nella notte. Lo seguii con lo sguardo finché riuscii, ma il buio e la neve furono veloci ad ingoiarlo.
Afferrai tra le mani la sciarpa di Chiara, la avvicinai al naso e respirai avidamente. Non ero ancora riuscito a capire dove avevo già sentito quel profumo, ma non aveva importanza. Per me ora era diventato il profumo di Chiara, l’essenza che avrei sempre ricondotto a lei. Con gesti attenti piegai la sciarpa, ben intenzionato a trattare con cura quel delicato filo rosso del destino.
 
 
 
  
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