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Autore: Chris Vineyard    08/08/2016    4 recensioni
Le persone Che ci vogliono veramente bene, sono quelle che apprezzano qualità come l'affetto, l'altruismo e il conforto in caso di necessità.
Le persone che vogliono rimanere con noi ogni istante della nostra vita, sono quelle che non si lasciano ingannare dai pregiudizi e dalle apparenze.
Quelle che non stanno a guardare se hai gli occhi storti o porti le protesi alle gambe...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Senritsu
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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- Il tempo si trascina,
Come fosse un gigante.
La natura si ostina,
coome se il mio ruggito si perdesse,
Inascoltato tra la gente.-
 
Palco.
Quante volte avrò pronunciato, e, allo stesso tempo, sentito questa parola...?
Quante volte avrò salito, ad uno ad uno, i gradini di una struttura gsormontata da pali adornati di luci colorate...?
Quante volte mi sarò mossa tra gli strumenti, le sedie e i panchetti lì presenti...?
Già, quante volte avrò fatto tutto questo nella mia vita...?
Ogni volta che monto su un palco, rievoco, anche involontariamente, dei momenti legati al cammino che ho intrapreso dieci anni fa.
 Tuttavia, così come alcune persone rivivono più volte gli stessi incubi; io, quando sto per cantare, rivivo sempre lo stesso ricordo. Quasi fosse un segnale automatico che mi invita a partire.
Spesso accade che il ricordo cominci a prendere forma proprio nel momento in cui nella sala si abbassano le luci e il pubblico si zittisce.
 
- Beep, beep, beep.-
Il trillo della sveglia spezzò in due il meraviglioso silenzio che aveva regnato fino ad allora.
Molte persone pensano che il silenzio se possa percepire solo attraverso l'udito; in verità, esso si configura anche attraverso il tatto, poiché lo si può percepire mediante i recettori della pelle del viso.
 Credo che questo concetto non sia ben chiaro, perciò vedrò di spiegarmi meglio.
Avete presente l'attimo in cui ci si risveglia da un sogno?
 Mi riferisco a quell’istante in cui si ha la sensazione di percepire un venticello fresco e leggero toccarci delicatamente le guance.
Ebbene, io, da qualche anno a questa parte, ho l'abitudine di attribuire quest'azione al silenzio.
Spensi la sveglia con un tocco lieve, privo di quella inutile rabbia che provano molti miei conoscenti quando eseguono la medesima azione.
 dopo tutto, quell'apparecchio stava semplicemente svolgendo il compito per cui era stato creato. E per tale motivo, secondo me, non avrebbe senso farlo tacere sferrandogli un calcio o assestandogli uno schiaffo.
Ad ogni modo, fatto ciò, mi rigerai sinuosamente nel letto in cerca di una posizione comoda.
 Tutt’ad un tratto, mi pietrificai di colpo, inerte come una statua.
La mia mano sinistra si era posata inavvertitamente sull'addome, tastando un lembo di pelle ruvida è piena di peli lunghissimi.
Ritrassi subito la mano, disgustata.
Nel frattempo, il cuore cominciò a battere alll'impazzata e le pupille si dilatarono enormemente.
Un istante dopo sfregai energicamente la mano contro le lenzuola bianche, tentando ad ogni costo di ripulirla; più dal pensiero di quel contatto, che dalla peluria.
Non osai muovermi un'altra volta. Avevo troppa paura di imbattermi in qualcos’altro di raccapricciante.
Intanto, continuai ad ansimare violentemente.
 Avvertivo un forte senso di pesantezza in tutto il corpo, come se la mia anima vi fosse entrata per la prima volta e si stesse ancora abituando.
Fu in quel momento,
 in quel preciso istante, Che capii Che cosa intendesse dire il filosofo greco Platone, quando sosteneva la sua teoria, secondo la quale l'anima e il corpo sono due cose nettamente separate e che L'anima è ciò che entra nel corpo per dargli vita.
ma la mia mente non aveva assolutamente voglia di rammentare Platone e le sue teorie.
No, la mia mente aveva voglia di rammentare la serata precedente al mio risveglio.
Una serata magnifica, stupenda, bellissima...
- No, no...- mi voltai di scatto verso la sveglia E per qualche secondo il mio sguardo si perse nel display.
 Volevo assolutamente soffocare un'immagine terribile che aveva invaso prepotentemente il mio cervello.
Distolsi gli occhi dal display, solo quando sentii che l'immagine era scomparsa del tutto.
Dopo di che, trassi un respiro profondo, poi un altro e un altro ancora. E intanto contavo, piano piano, ad agio ad agio; lo sguardo fisso sul soffitto.
Non appena arrivai a 128, mi fermai, certa di sentirmi un po’ meglio.
Ma mi sbagliavo.
Infatti, subito dopo ripensai nuovamente alla serata.
 Mi vidi seduta su un panchetto di fronte a un pianoforte a coda color panna.
Il primo brano che suonai fu il movimento numero uno della suonata “Al chiaro di luna” di Beethoven.
 Il pezzo successivo fu “Piccola serenata notturna” di Mozart.
 Ad esso seguì la “Danza del fuego” di DE Falla.
 E per finire, suonai la…
M’irrigidii, stringendo forte i denti, fino a farmi seriamente male alle gengive.
Senza che potessi accorgermene, le mie gambe avevano finito per accavallarsi, com’erano solite fare quando mi perdevo completamente tra i miei pensieri.
Di nuovo percepii quei peli lunghi, che sebbene fossero morbidi, il mio cervello li etichettava come lame taglienti.
Subito spalancai le gambe terrorizzata. Poi, di scatto, senza pensarci un secondo di più, mi alzai dal letto.
Volevo verificare, se ciò che percepivo, aveva a che fare realmente con l’immagine che era affiorata nella mia mente qualche istante prima e che avevo tentato, seppur inutilmente, di reprimere.
Così, corsi verso lo specchio appeso al guardaroba.
- AH!-
Urlai, prima di cadere rovinosamente a terra.
Un attimo dopo, le mie mani coprirono d’istinto il volto, come se già sapessero che avrebbero dovuto per forza eseguire quell’atto.
Delle grosse e calde lacrime cominciarono a sciovolare lungo le guance, per ricadere pesantemente sui palmi stretti tra loro a mo’ di coppa.
Piansi.
Piansi come una bambina a cui era stato tolto il suo giocattolo preferito.
Piansi come non avevo mai fatto in vita mia; nemmeno quando era morto quel buon uomo di mio padre.
Insomma, piansi disperatamente; tanto era grande il dolore che mi aveva gettata a terra.
- Cos’ho fatto…- dissi a me stessa, dandomi un forte schiaffo su una gamba.
- Cos’ho fatto… Oh…- ripetei angustiata dai singhiozzi, cingendo le ginocchia con le braccia e stringendole forte in una morsa debole ma forte allo stesso tempo.
Mi ripudiavo dal profondo del cuore!
Sollevai lievemente il capo in direzione dello specchio, ma invano. Gli occhi non si decidevano ad aprirsi. Avevano troppa paura di rivedere quella figura orrenda, quel rifiuto umano, quel… Non ci sono parole più dure per descrivere una cosa così orribile.
Mi misi nuovamente le mani sulla faccia, quindi affondai le unghie nella carne, desiderosa di strappare quello strato di pelle, quella che, fino a prova contraria, credevo una maschera di carta vetrata.
Affondai le unghie più che potei, dapprima comprimendole sulle guance, poi, quando avvertii dei rivoli di sangue caldo sgorgare da sotto la cute, spinsi le unghie più in là.
Una volta che mi fui martoriata per bene entrambe le guance, compii la stessa operazione con gli zigomi, fino ad arrivare al mento.
 Ma in questo modo non ottenni ciò che speravo; anzi, con quel gesto folle avevo peggiorato la situazione. Di fatto, ora la mia faccia, oltre ad essere contornata da uno spesso strato di pelle ruvida, era intrisa di sangue caldo e carne putrefatta.
Non so come, ma ben presto finì per addormentarmi in quella posizione, per quanto essa risultasse decisamente scomoda. Sicuramente, il pianto aveva risucchiato in un vortice invisibile tutte le mie energie.
Mi ridestai solo quando avvertii un tepore caldo e accogliente come le tazze di tè verde che bevo puntualmente ogni giorno alle cinque del pomeriggio.
 Soltanto che questo tepore non era quello del tè, bensì quello dei raggi del sole che si erano posati sul mio braccio destro, diffondendo in tutto il corpo una meravigliosa sensazione di pace e serenità.
Sorrisi a malapena, perlopiù di controvoglia.
 Se mai il Sole fosse stato il dio nel quale tanto credevo, allora per quale motivo aveva permesso che subissi un’atrocità così grande?
Per quale motivo mi aveva spinta a suonare quella melodia rigorosamente proibita?
Per quale motivo, eh!?
Altre lacrime presero a rigarmi la pelle del volto, facendola bruciare di dolore. Ciò nonostante, le asciugai con il dorso del braccio illuminato dal sole.
 Dopo di che mi alzai in piedi, quindi con un balzo andai alla finestra e, con un gesto brusco, abbassai la tapparella.
Volevo restare da sola. E comunque, non avevo bisogno di essere consolata da nessuno, tantomeno da chi mi aveva trascinata in quella strada pericolosa per poi abbandonarmi a me stessa.
Avanzai all’insegna dell’armadio, aprii un cassetto, dal quale trassi fuori un vestito da due soldi, adatto per stare in casa.
Una volta vestita, feci in fretta e furia il letto.
 Chi mi conosceva, sarebbe rimasto di stucco nel vedermi tirare le lenzuola alla meno peggio, senza curarmi di togliere le pieghe.
Ad ogni modo, fatto ciò, andai in cucina.
A fare cosa?
Non lo sapevo neppure io. Di far colazione non avevo la ben che minima voglia.
Di lavare il pavimento, idem.
Di rigovernare le stoviglie, nemmeno per scherzo!
  Accesi, dunque, la televisione.
- Ieri sera, al circolo Ponte alle Tavole di York Shin City si è esibita la grandissima pianista Senritsu!-
Spensi immediatamente lo schermo con il pulsante rosso del telecomando.
In un’altra occasione, non l’avrei mai fatto, anzi, sarei stata felicissima di riascoltarmi in televisione ed, eventualmente, sentire le opinioni dei critici più esperti in materia di musica.
Quel giorno, invece, non volevo saperne niente: ne di musica, ne di critici.
Mi alzai a fatica; dovevo ancora abituarmi a quel corpo che mi sembrava estraneo, ma che estraneo non era, giacché era il mio.
M’incamminai verso il salotto, dove, in un cantuccio vicino a un’ampia finestra, si trovava il pianoforte che amavo con tutta me stessa.
Una volta che vi fui davanti, tirai fuori il panchetto che tenevo sempre in castrato sotto la tastiera. Poi, con dita tremanti, sollevai il coperchio con inciso sopra il mio nome in rilievo.
Per prima cosa, poggiai la mano destra sull’ultimo tasto bianco, quindi provai a fare un glissando.
- Oh…- cacciai un gemito sordo, strabuzzando gli occhi.
Non ero riuscita a fare un glissando come si deve.
 La mano non era scivolata agevolmente sui tasti come sempre, al contrario, aveva prodotto un fischio acuto, prima di arrestarsi definitivamente al SI dell’ottava alta.
Spaventata, staccai ambedue i palmi dalla tastiera.
 Li contemplai, attonita, per non saprei dire quanto tempo.
 Alla fine, riappoggiai di nuovo la mano con cui avevo cercato di suonare il glissando.
 Pensai che magari non era niente di grave.
 Che qualche volta poteva capitare di sbagliare persino un esercizio così semplice
Ritentai.
Fallii anche questa volta.
Allora scattai in piedi, tremante.
Voltai lo sguardo dall’altra parte domandandomi continuamente, perché il pianoforte, il mio strumento musicale prediletto, mi stesse tradendo, invece di aiutarmi come aveva fatto in passato.
Lasciai la stanza, senza neanche rimetterla in ordine.
Mi gettai in bagno con l’intenzione di sciacquarmi la faccia con un po’ d’acqua fredda; se non altro mi avrebbe aiutato a calmarmi un po’.
Così, mi sciacquai la faccia, gettando degli spruzzi sulle guance e sulla fronte ancora doloranti.
Di seguito, chiusi il rubinetto e, mentre stavo per ritornare in posizione eretta, fissai con la coda dell’occhio la mia immagine riflessa sullo specchio.
Soffocai un grido strozzato.
Un millesimo di secondo più tardi, ripiombai dritta dritta in salotto, dove mi sdraiai sul divano.
Tenevo le braccia sotto il cuscino, perché, così facendo, avrei evitato qualsiasi contatto involontario con la pelle.
Mi prefissi di lasciarmi trasportare dall'immaginazione, in maniera tale da abbandonare quella realtà crudele ed opprimente.
Quella realtà che, in poche ore, si era insinuata nel mio corpo come se fosse stata un vestito troppo stretto, impossibile da togliere.
Caddi in un sonno profondo, ma nello stesso tempo, agitato.
Infatti, non appena ripresi coscienza È riuscii a mettere a fuoco ciò che mi circondava; notai che avevo scaraventato a terra con i piedi diversi quadretti appoggiati sul mobile di fianco al sofà'.
Non mi era mai successo.
Era la prima volta Che facevo una cosa simile.
Mi chiesi se quello non fosse stato l'inizio della mia fine.
 Della mia pazzia.
Della mia autodistruzione...
- No.- dissi con voce risoluta, - Il destino, in passato, mi ha afflitto con altri dolori immani, Che ho affrontato apertamente, Sino a sconfiggerli del tutto.-
Mi tirai su a sedere: - Orbene, lotterò con tutte le mie forze, finché non riuscirò a sconfiggere anche questo!-
Detto ciò, attraversai, dapprima il salotto e poi il corridoio che conduceva alla sala in cui si trovava il pianoforte.
Ancora una volta sedetti sul panchetto ornato da dei fregi stupendi.
Tuttavia, quella volta preferii iniziare non con un glissando, ma con una semplice scala qual è quella di do maggiore.
Inutile dire che fu un gioco da principianti, sebbene avvertii un certo tremore all'altezza delle falangi.
Risuonai nuovamente la scala, con L'unica differenza che al tocco delle mani si accompagnò il suono della voce.
- Do re mi fa sol là Si.-
- Sol la si do re mi fa sol.-
- Re mi fa sol là si do reeee…-
Non seppi nemmeno io come vi fossi riuscita, ma cantai tutte le scale maggiori, compresa quella di fa.
All’inizio la mia voce era uscita insicura e titubante, non per nulla avevo anche pensato di smettere.
Sotto sotto però, provavo una sensazione indicibile, indescrivibile, impareggiabile.
Decisi, dunque, di cantare anche le scale minori, o almeno, quella di Là.
- La si do re mi fa sol laaa....-
- Mi fa sol là si do re miii...-
Rimasi sorpresa da quella voce così melodiosa e perfettamente intonata.
Intonata al pianoforte.
Intonata alla mia anima.
Intonata al mio...
Nel ripensare al ricordo Del contatto avuto con il tessuto cutaneo del mio corpo, rabbrividii visibilmente.
Meno male che ci pensarono le mie mani a salvarmi; subito ripresi a suonare una nota canzone per bambini a cui ero molto affezionata.
- No che bel castello, Marcondiron dirondello.
Ma che bel castello, Marcondiron Dironda'.
Del mondo è' il più bello, Marcondiron Dirondello.
Del mondo è' il più bello, Marcondiron Dironda'.-
Man mano che suonavo, dentro di me si diffondeva una magnifica sensazione di quiete mista a felicità.
Mi sentivo come si sentirebbe una persona che sa di poter dominare il mondo intero.
Continuai a suonare e a cantare, estasiata, incantata dalla mia stessa voce.
E intanto sorridevo: un sorriso non da ebete, bensì da individuo consapevole di aver trovato uno scopo per cui è necessario rimanere in buoni rapporti con il mondo esterno.
Mi sentivo appagata, come non ero mai stata in tutta la mia vita.
Per quel giorno, smisi di suonare e cantare, solo a tarda serata.
 Dopo di che, preparai uno dei miei piatti preferiti, ossia lo sfornato di ricotta e spinaci.
Alle dieci e mezza andai a dormire, ciò nonostante, prima riassestai con cura i quadri che avevo buttato giù durante il riposo pomeridiano.
A partire dall’indomani, intrapresi una nuova vita; nel vero senso della parola!
Una vita che si sarebbe basata su dei piccoli grandi principi e dei piccoli grandi passi: innanzitutto, ritenni opportuno iniziare ad assimilare i concetti fondamentali del canto.
 Sì, perché anche il canto ha delle regole ben precise. Ad esempio, quando si canta, bisongna abbassare le mascelle, un po’ come quando si sta piangendo. Con questo non intendo dire che bisogna fare il muso lungo, assolutamente no, anzi, la parola d’ordine è sorridere!
In secondo luogo, è importante intonare bene le note; per questo motivo si può utilizzare il pianoforte, oppure le basi già registrate da professionisti che eseguono varie volte la melodia da intonare.
Insomma, a poco a poco, imparai tante piccole nozioni necessarie per il perfezionamento di quella voce celestiale che il Signore mi aveva donato.
Ah. A proposito di signore. In quel periodo riacquistai la fiducia che avevo perso nei suoi confronti.
 Ciò avvenne semplicemente perché ogni giorno, via via che miglioravo negli esercizi d’intonazione, riacquisivo fiducia in me stessa e nella fede.
purtroppo, non era tutta armonia, quella che producevo in quel momento, poiché restavo sempre in casa, senza mai uscire, nemmeno per andare a prendere il caffè nel mio bar preferito.
La spesa la ordinavo su Internet e me la facevo recapitare direttamente a casa.
 Stesso discorso per quanto riguarda i giornali e i periodici che seguivo.
Gli amici e i parenti li sentivo solo tramite cellulare e computer; dicevo loro che ero in vacanza, non rivelando, però, il luogo preciso.
Non ero pronta ad affrontare a tu per tu il mondo concreto e reale, fatto anche di sofferenze e traumi.
Avevo timore dei loro commenti, dei loro rimproveri.
Di notte facevo degli incubi spaventosi, nei quali delle mie amiche mi urlavano: - Bedi che cosa succede ad aver troppo amore per la musica, eh? Già ti stavi rovinando la vista e quelle belle mani. Adesso….-
Ogni volta mi risvegliavo con il respiro affannoso. Le tempie che mi dolevano come se avessi preso freddo.
 Del resto, però, le loro maldicenze erano pungenti come il vento d’inverno.
C’è chi sostiene che alcune persone preferiscano non condividere con gli altri i loro dolori più randi.
Sinceramente, penso che ciò accada, perché esse sono convinte, che né gli amici, né i parenti potranno mai capirli fin infondo.
È facile dire: - Ti capisco.- e liquidare in un secondo la questione; non è altrettanto facile, invece, evitare di compiere azioni o gesti apparentemente banali, ma che in realtà fanno soffrire ancora di più le persone malate nell’anima.
 Spesso si cerca di alleviare i mali di chi ci è caro, facendogli regali di un certo spessore o proponendogli di passare del tempo insieme a noi, senza neppure sapere quali siano le sue reali prerogative.
Ad ogni modo,non mi esposi al pubblico per diversi mesi.
Preferivo, piuttosto, architettare con pazienza un piano per mostrare ai miei conoscenti: sia il lato negativo di me, ovverosia il mio corpo logorato; sia la mia nuova dote, vale a dire il canto.
Nei tre mesi che seguirono alla mia totale reclusione in casa e, allo stesso tempo, al mio studio intensivo del canto, mi cimentai in diverse canzoni, suonandole sempre al pianoforte e, ne frattempo, cantandole.
Ricordo che la prima fu “Someone Like you” di una cantante bravissima di nome Adele, la quale aveva una voce che avrebbe fatto commuovere persino l’individuo più malvagio dell’universo.
Sul serio, tutt’ora mi persuado del fatto che quella donna abbia un timbro di voce celestiale, che suscita emozioni forti, che fa tremare violentemente le gambe dai brividi.
Confesso che nell’istante in cui suonai e cantai “Someone Like you” ero emozionatissima, benché non fosse presente nessuno ad osservarmi.
E’ un po’ come quando si visita un luogo sacro di grande fama e si hanno i brividi nel pensare: - Oh cielo, mi trovo sulla torre di…-
In ogni modo, la prova mi soddisfò a tal punto da voler ricantare un’altra volta quella canzone sbellissima.
Alla fine, finii per cantarla almeno una decina di volte nell’arco di un fgiorno, con il risultato che il pianoforte grondava più di lacrime, che di sudore!
Il mattino seguente scaricai da Internet il testo e la base di un’altra canzone, ovvero “Just the way you are” di Bruno Mars.
La mia scelta fu dettata dal fatto che mi ero persuasa che fosse giusto che imparassi: sia brani interpretati da voci femminili, sia qwuelli interpretati da voci maschili.
Frattanto, Bruno Mars possiede un timbro acuto, perciò non avrei incontrato note particolarmente basse e quindi, potevo stare tranquilla.
Il terzo giorno scelsi un altro pezzo.
Il quarto giorno idem.
Ormai vivevo esclusivamente di musica.
In un certo senso, i miei amici più intimi erano diventati i Queen, gli U2, gli One Republic e gli Evanescence.
Erano degli amici che non giudicavano, o meglio, che non potevano giudicare il mio corpo.
Una notte, però, tra un sogno e l’altro, mi venne in mente l’idea di fare una Cover di un brano, soltanto che…
Scrollai il capo.
Fare una Cover, avrebbe voluto dire mostrare il mio volto…
Alla fine, dopo lunghe ed estenuanti riflessioni, arrivai alla conclusione che avrei fatto sì una Cover, ma senza mostrare nessuna parte del corpo.
 Avrei, semmai, caricato delle immagini o il testo della canzone.
Non aspettai nemmeno che sopraggiungesse l’alba per mettermi all’opera: infatti, accordai il pianoforte, quindi presi il cellulare e registrai la mia versione personale dell’Otello di Giuseppe Verdi.
Dopo di che la riascoltai e, ritenendomi soddisfatta della performance, la caricai su un sito.
In pochissime ore ricevetti un sacco di complimenti del tipo: - Sei bravissima!- o, - Tu sì che hai un gran talentop per la musica?-
Dal canto mio, mi limitai a ringraziare solennemente tutte quelle persone, certa che se mai mi avessero vista, avrebbero subito cambiato opinione.
 Non mi avrebbero neppure dato il tempo di cantare.
Su Internet si può essere chiunque, poiché gli altri utenti non ci vedono in faccia e, quindi, possono solamente basarsi su ciò che raccontiamo loro e su come ci comportiamo nei loro confronti.
 Niente di più, niente di meno.
Nei mesi successivi, caricai altre Cover di tante altre opere classiche, ma anche di canzoni moderne.
Arrivò un giorno, però, in cui ero seduta davanti al computer per preparare l’ennesima serie di immagini d’accompagnare alla musica, tuttavia, stavo giusto per premere invio per visualizzare l’anteprima del video, quando mi bloccai di colpo.
Posai le mani sulla scrivania, lontano dalla tastiera e al contempo storsi il naso, amareggiata.
- Ma che gusto ci sto provando a postare cover su cover per ricevere complimenti da estranei, che quasi sicuramente, se vedessero il mio corpo, storcerebbero il naso come sto facendo io adesso?- mi domandai tristemente.
 
- Il Paradiso non esiste.
Esistono solo le mie braccia,
in questo piccolo mondo di oggi,
in questo piccolo mondo,
mondo infinito.
Il Paradiso non esiste.
Lo abbiamo lasciato a tutti gli altri.
Mi basta il piccolo mondo di oggi,
mondo infinito.-
 
grazie a quella breve, ma intensa riflessione, ebbi il coraggio di fare un passo avanti.
 Un grosso passo avanti.
 Forse più lungo della gamba, anche se, ripensandoci, credo che ne fosse valsa davvero la pena.
Contattai, dunque, il mio primissimo insegnante di pianoforte, chiedendoli gentilmente se sarebbe potuto venire a casa mia uno di quei giorni.
 Quando voleva lui.
 Io, del resto, nun avevo nessuna fretta, poiché nella vita avevo appreso che la fretta è cattiva consigliera, in quanto essa è sinonimo di bramosia e voglia sfrenata di successo .
Egli acconsentii calorosamente, asserendo che gli avrebbe fatto un’immenso piacere sentire a che livelli ero arrivata.
Da quel momento, cominciai a contare i giorni che ci separavano dal nostro incontro, finché, un giorno, con mia grande sorpresa, costui suonò alla porta di casa.
Non appena vidi dallo spioncino il suo viso rotondo e un po’ lentigginoso, arrossii per l’imbarazzo.
Ad ogni modo, prima di aprire, sfilai dall’attaccapanni un velo bianco che avevo comprato tempo addietro in un negozio di abiti da sposa.
Lo indossai, dopo di che, aprii la porta lentamente; volevo assaporare ogni singolo istante di quel momento magico, dacché molti anni fa mi ero presa una bella cotta per lui.
- Buongiorno Senry.- mi salutò sorridendo radiosamente.
- buongiorno anche a lei, professore.- ricambiai il saluto, sebbene in realtà avessi voluto dirgli qualcosa in più.
 Per esempio, avrei voluto comunicargli che pensavo a lui, ogni volta che suonavo.
Credetti di arrossire, nel ricordare tutti i momenti in cui eravamo stati insieme, fianco a fianco, perciò mi scostai dalla porta e lo feci entrare.
Tremavo da capo a piedi.
Ero emozionata all'idea di mostrare al mio insegnante prediletto quello che ritenevo il mio nuovo talento.
A quanto pare, egli si era accorto perfettamente della mia agitazione crescente, perché mi mise una mano sulla spalla sinistra, sussurrando: - Senry, tranquilla...-
So benissimo che anche lui non era mai stato tanto bravo con le parole quanto me.
 D'altrocanto, una caratteristica principale della sua indole era la modestia e non di certo l’estroversia.
Era stata proprio quella modestia incommensurabile a farmi saltare dalla semplice e pura cotta, a qualcosa di più.
No, non si trattava di amore, ma del piacere di stare in sua compagnia.
In ogni caso, la lontananza forzata per anni aveva dissolto qualunque sentimento che provassi per lui.
Lo condusse verso il salotto, senza dire una parola.
 Le mie labbra tremavano dall'eccitazione.
 Già mi figuravo tutta la scena; sapevo che con lui non avrei dovuto avere paura, tuttavia, sapevo anche che sarebbe rimasto scioccato alla vista del mio corpo deturpato.
Sempre senza dire una parola, mi sedetti di fronte al pianoforte, cominciando a suonare "Il Paradiso non esiste".
Una volta eseguiti i primi accordi, iniziai a cantare con voce tremolante e malferma.
Tuttavia, man mano che passavano i secondi, percepivo una maggiore sicurezza e quando venne il momento di cantare il ritornello, decisi di dare un tocco di grinta in più Al brano, dimostrando, così, gran parte delle potenzialità della mia voce.
Ricordo che durante la seconda parte dell'esecuzione non pensai assolutamente a niente. Cercando, più che altro, di divertirmi e di godermi quel momento, perché in fin dei conti è' questo che bisogna fare quando ci si dedica interamente ad attività che ci appagano.
Non appena ebbi terminato di cantare la canzone.
 Non appena le corde del pianoforte smisero di vibrare per l'ultima volta, un silenzio di piombo si insinuò tra quelle quattro mura ed io temetti di soffocare.
Il professore non aveva applaudito, come avrebbe fatto qualsiasi altra persona al suo posto.
 Non Che ciò mi stupisse, poiché raramente egli batteva le mani.
Fortunatamente, alla fine, decise di rompere quel silenzio, movendo qualche passo verso di me.
-Senritsu.- mi chiamò dolcemente.
 Mi è sempre piaciuto il modo con cui pronunciava il mio nome: all’inglese, con la E aspirata e la R moscia.
Lo guardai di sottecchi; teneva le braccia tese e lo sguardo rivolto verso il basso, segno che stava pensando.
Immediatamente, mi chiesi se per caso quell’uomo, così infinitamente sensibile, avesse capito tutto quanto.
 Forse, vedendomi con il volto coperto dal velo si era fatto già qualche idea.
Ok, forse la mia mente stava galoppando un po’ troppo.
- Perché non gli racconti la verità e la facciamo finita subito?- mi suggerì la voce della coscienza.
Sorrisi amaramente, abbassando, a mia volta, gli occhi. –
 - Infondo, non sei tu che l’hai costretto a viaggiare per sei giorni di seguito?- proseguì la vocina in tono alquanto malizioso.
-Professore…- esordii con voce stridula. Sentivo un nodo stretto alla gola. –
 - E’ giusto che lei sappia il motivo reale per cui l’ho contattata.-
Mi girai, volevo fissarlo negli occhi.
In quegli occhi verdi come i laghetti di rugiada tra i fili d’erba.
In quegli occhi che mi avevano trasmesso coraggio quando non ne avevo.
- Dieci mesi orsono…- farfugliai, -Durante un concerto tenutosi all’interno di un circolo prestigioso, suonai…-
- Fermati pure. Ho capito.- fece lui, posandomi nuovamente una mano su una spalla.
- No, aspetti! Vorrei spiegarle perché le ho inviato quel messaggio.-
- Senry, ho capito. Tu vorresti uscire fuori casa, ma non ti senti pronta.-
- Io non voglio perdere le mie amicizie.
 Per nessun motivo al mondo!
 Solo temo che le persone a cui voglio un bene dell’anima, non mi considerino più come prima.
 Per questo motivo ho imparato a cantare… per mostrare loro cosa si nasconde realmente dietro a questo corpo sfregiato!-
Una grossa lacrima si formò sul mio occhio destro, poi, quando fu abbastanza pesante da non poter più essere contenuta dalle ciglia, cominciò a scivolare sulla guancia e, infine, sul mento.
il professore se ne accorse.
Si sedette sul panchetto, proprio accanto a me, dopo di che mi cinse il bacino con le sue braccia calde come il calore del camino situato nel salotto della villa della nonna.
- Senry…- mormoròcommosso, - Sono contento del fatto che il canto ti abbia dato la forza per combattere questo male atroce che vuole distruggerti a tutti i costi.
 Ma non puoi pensare che con il canto sia possibile mantenere intatte tutte le tue amicizie.- mi strinse più forte, facendomi adagiare la testa sotto il suo collo un po’ tozzo.
–- Chi ti voleva veramente bene prima che accadesse tutto ciò, te ne vorrà anche adesso.
Le persone Che ci vogliono veramente bene, sono quelle che apprezzano qualità come l'affetto, l'altruismo e il conforto in caso di necessità. 
Le persone che vogliono rimanere con noi ogni istante della nostra vita, sono quelle che non si lasciano ingannare dai pregiudizi e dalle apparenze.
Quelle che non stanno a guardare se hai gli occhi storti o porti le protesi alle gambe.
Certo, mi dirai che sono davvero poche queste persone Che non prestano attenzione a questi particolari evidenti a prima vista. 
Lo so, ma non per questo devi scoraggiarti, perché con un poco di pazienza troverai qualcuno di questi individui.-
Posso dire che rimasi allibita dalle sue parole, quantunque lo ritenevo capace di discorsi simili.
Siccome i singhiozzi mi impedivano di parlare, presi delicatamente le sue mani possenti e le strinsi vigorosamente.
La mia voleva essere una stretta di ringraziamento, come quando si stringe la mano del futuro sposo durante la celebrazione del proprio matrimonio.
- Io ti capisco. Mi è capitata una situazione simile in passato.- proseguì.
Mi accorsi che il suo respiro stava diventando via via sempre più affannoso, segno Che stava per raccontarmi qualcosa di spiacevole inerente al suo passato.
 Decisi, dunque, di intervenire.
- Professore... Ho capito. Non serve che arriva ad esporsi tanto.- 
- No, cara. Così come tu mi hai confidato il tuo segreto più importante, io ti confiderò il mio. Dopotutto era da parecchi mesi che mi prefiggevo di dirtelo.- abbassò gli occhi.
Ed io lo imitai.
Le nostre pupille si incrociarono.
M'immersi perdutamente nelle sue iridi color cioccolato.
In quelle iridi perennemente lucenti, quasi fossero dei frammenti di una stella.
La sua voce da baritono mi sollevò dolcemente da quel mare marrone bagnato dalla luce del Sole.
- Mi hanno diagnosticato la malattia di Alzheimer.- 
Smisi di piangere all’istante.
Ero letteralmente paralizzata.
Sotto di me si spalancò un portone ed io precipitai nel vuoto.
Un misterioso vento gelido mi serrò la gola, cosicché le corde vocali divennero tante piccole stecche appuntite.
Per Giunta, come se ciò non bastasse, il mio cervello si divertiva a farmi vedere immagini raffiguranti il professore che tentava di picchiarsi.
 O peggio ancora, che era steso su un letto d'ospedale con lo sguardo perso nel vuoto.
Quantunque fossi deltutto paralizzata, riuscii a rabbrividire di fronte a quell'immagine orribile. 
- M-mi dispiace...- biascicai, cercando di contenere la saliva che si era impastata in bocca.
Per tutta risposta lui indietreggiò col capo.
- Io, invece, non me ne dispiaccio affatto, anzi!-
- Perché dice questo?-
- Perché questo male mi offre la possibilità di lanciare una sfida a me stesso.
 Se con l'esercizio fisico e con l'aiuto del pianoforte, riesco a tenerlo sotto controllo, allora significa che posso essere padrone del mio corpo e della mia mente.
 Ripeto, io non me ne dispiaccio, tanto non me ne vergogno.-
Quell'uomo era un Santo sceso tra noi comuni peccatori.
Ribadisco, un Santo in piena regola.
- Ti amo, Alejandro...- mi scappo'.
Ve lo giuro!
Ancora oggi non mi capacito di ciò.
- Scusi, scusi.- mi affrettai a dire, imbarazzata fino alla punta del mignolo del piede sinistro.
Senza contare che mi sentivo più rossa di un pomodoro e di un’aragosta messi insieme. Poi, se vogliamo, aggiungiamoci anche un peperone e l'effetto desiderato può dirsi ottenuto.
- Ah ah ah ah!- 
Mi rallegro' un monte la sua risata e la pacca che ricevetti sulla medesima spalla di prima.
Frattanto, non potei trattenere un leggero sorriso che mi era salito alle labbra, benché egli non potesse notarlo.
- Perché gli sto nascondendo persino un sorriso innocente…?- pensai dentro di me affranta.
- Perché sei una sciocca a non fidarti di lui.- mi rimbeccò la solita vocina.
Così, senza provare nessun ritegno.
 Senza troppe storie.
 Senza troppi problemi mentali,… sollevai con entrambe le mani il velo bianco che copriva il mio volto, mostrando al professor Alejandro cos’ero diventata.
Nel compiere quel gesto, mi venne in mente l’immagine che avevo visto riflessa sullo specchio del bagno.
 Rughe.
Peli.
Carne morta.
Occhi ridotti a fessure.
 Naso tale e quale a un becco di un merlo.
Labbra screpolate più di quanto le possa avere un individuo affetto da Erpes…
Non appena egli ebbe l’opportunità di vedermi, non disse niente, né si allarmò.
Sinceramente, penso che vedere il mio corpo a distanza ravvicinata, sia come vedere un corvo inghiottire dell’acido cloridrico per poi schiantarsi rovinosamente al suolo morto stecchito
- Sono convinto che tu abbia dentro di te la forza necessaria per superare questo dolore.- disse, riabbrracciandomi. –
 - Purtroppo, adesso devo andare. Ho degli alievi che devono diplomarsi.- soggiunse, sciogliendo dolcemente il fiocco che avevano creato le nostre braccia.
-  Ma ricorda: se mai avessi bisogno di me, per qualunque cosa, non esitare a scrivermi.-
È vero che queste parole siamo soliti ripeterle un po’ tutti, poi, quando qualcuno ci cerca, spesso brontoliamo come cornacchie perché in quel momento desideriamo ardentemente restare in santa pace.
 Tuttavia, ci sono alcune persone che quando asseriscono questa frase, sono estremamente sincere; sta a noi capire chi sono.
 Potrebbe essere il vicino dell’appartamento accanto che ogni mattina lascia acceso il motore dell’automobile per ore, prima di partire
.Come potrebbe essere una persona che non vediamo da tanti anni, e che quindi, pensiamo che si sia dimenticata di noi.
Tutto sta nel capirlo.
Però, non bisogna arrovellarsi più di tanto il cervello, altrimenti non lo capiremo mai.
Per capirlo, occorre, invece, conoscere: sia il vicino, sia la persona che è fisicamente lontana da noi.
 
Nella vita ho capito cosa voglio,
e chi sono.
Ad ognuno serve una lezione.
È così che ho imparato ad amarmi.
È così che ho imparato da me.
la natura mi sfida.
Il tempo si trascina,
come fosse un gigante.
come fa molta gente,
come se il mio ruggito si perdesse,
inascoltato tra la gente.
 
ed ora eccomi qui, su un palco a rimembrare quel ricordo carico di sentimenti ed emozioni tra loro contrastanti.
Indosso una camicia a maniche lunghe con dei quadri blu e bianchi, abbinata a un paio di pantaloni di jeans.
Inoltre, calzo delle scarpe dello medesimo colore dei capelli, i quali sono raccolti in uno chignon.
 Gli occhi, invece, sono celati da un paio di occhiali blu aventi le lenti a specchio. Non per mascherare i miei occhi, quanto per celare le lacrime di gioia che partono dal mio cuore ed arrivano ad annappare i cristalli delle lenti.
Sono sopra un palco.
Per la prima volta da tantissimo tempo, sono sopra un palco.
Impossibile tenere a freno tutta l’energia che ho dentro, per questo motivo, mentre canto, eseguo una specie di coriografia con le braccia che ho ideato qualche giorno fa.
Quanto mi mancava suonare il pianoforte davanti a un pubblico.
Quanto mi mancava il sapore dell’emozione., quella strizza alle coscie che viene ogni volta che mi trovo su un palco.
Quanto mi mancava condividere la mia sfrenata passione per la musica con altre persone
Mi sento rilassata, appagata.
Curvo le labbra in un mesto sorriso.
Non ci sono parole sufficienti per descrivere lo stato d’animo in cui mi trovo.
Una commozione che viene da dentro l’anima, che fa vibrare dall’emozione ogni singolo muscolo di questo corpo sgraziato.
Nel frattempo, lascio che la mia voce sia libera di esprimersi completamente.
Non devo imporle delle costrizioni; per nessun motivo, perché altrimenti non riuscirei a trasmettere neppure una parte dei sentimenti che sto provando in questo preciso istante.
Adesso che si avvicina la fine della canzone, mi sento più sciolta anche nei movimenti.
Sarà che devo riabituarmi all’idea di danzare in pubblico, pur non vestendo vestiti o gonne.
Con questo brano, intendo dimostrare a me stessa di essere riuscita a risollevarmi dopo aver subito un colpo durissimo.
Con questo brano, intendo riaprire le porte del mio cuore a chi mi accetterà così come sono diventata e per quello che sono veramente.
Con questo brano, intendo far comprendere alle persone frivole e succubi dei pregiudizi, che per quanto le loro parole possano ferirmi nel profondo, non mi piegherò alle loro volonta.
 
Il Paradiso non esiste.
Esistono solo le mie braccia,
in questo piccolo mondo di oggi,
in questo piccolo mondo,
un mondo infinito.
Il Paradiso non esiste,
lo abbiamo lasciato a tutti gli altri,
mi basta il piccolo mondo di oggi,
un mondo infinito..
 
 
 
 

Angolo dell'autrice
Lo so. Lo so. Mi starete odiando, perché questa shot è un concentrato di tristezza e dolore.
Purtroppo non posso farci niente.
Comunque, a parte questo, vorrei dirvi che dietro a questa storia si nasconde una parte di me.
Il professore a cui faccio riferimento esiste realmente ed è stato il mio insegnante di pianoforte.
Spero leggiate e commentiate in tanti.
Sono pronta a ricevere critiche d'ogni genere, purché siano costruttive.
Per sempre, 
la vostra Chris.
 
  
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