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Autore: Nia
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Titolo: Il
Cacciatore e l’antieroe.
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Fandom: Hunger
Games
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Personaggi: Haymitch
Abernathy e il suo fratellino.
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Tipo di coppia (se presente): non
presente
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Genere/i: malinconico,
introspettivo
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Rating: verde
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Note dell’autore o breve introduzione: in
questa storia ho lasciato libera la mia immaginazione riguardo un
particolare che viene rivelato – nel terzo libro della saga – sul
personaggio di Haymitch, quando quest’ultimo rivela che la sua
famiglia fu uccisa dopo la sua vittoria.
Mi sono attenuta solo e
unicamente a ciò che viene rivelato nel libro:
Haymitch parla di
una madre e di un fratellino. Non parla di suo padre, né rivela dei
nomi. Ho quindi agito di conseguenza anche io, concentrandomi
maggiormente sul ruolo del fratello più piccolo. Mentre il padre,
nella mia storia, non viene mai menzionato (proprio come nel
libro).
Non ho voluto, inoltre, dare un nome al fratello. È stata
una mia precisa scelta lasciare questo vuoto, visto che nella storia
originale, nemmeno questo, viene svelato.
Il
Cacciatore e l’antieroe
Fin
da quando era nato, quel piccolo esserino
aveva sempre dimostrato uno strano, quanto disinteressato, interesse
nei suoi confronti.
Ad esempio, quando Haymitch faceva capolino
sulla sua culla quello in tutta risposta si zittiva di colpo – a
volte sembrava quasi smettesse di respirare per qualche istante – e
si immobilizzava a fissarlo, totalmente assorto.
Vi erano dei
momenti in cui il piccolo Haymitch si ritrovava infastidito da così
tanta attenzione. Quegli occhi erano fin troppo grandi, fin troppo
indagatori malgrado lo scricciolo ancora non parlasse.
Però
infondo non era male averlo per casa. All’inizio aveva temuto che
una bocca in più da sfamare, piangente e urlante, avrebbe creato più
problemi del dovuto, invece fin da subito quel marmocchietto aveva
imparato a non lamentarsi troppo, quasi avesse intuito fin dal primo
istante quale fosse l’andazzo del mondo in cui era capitato. A ben
pensarci, ne andava quasi fiero.
Così, malgrado quegli occhi,
quello sguardo indecifrabile che spesso si ritrovava puntato addosso,
a lui non dispiaceva ritrovarselo in braccio di tanto in tanto,
giocarci insieme o anche solo rimanere seduto in camera sua, ad
ascoltare i suoi versetti incomprensibili: tentativi infiniti di
pronunciare le prime parole.
Aveva così assistito a tutte le
fasi fondamentali della sua crescita: la prima parola, il primo
dentino, i primi passi e così via.
Era sveglio e taciturno.
Osservava il mondo in modo diverso, di questo Haymitch ne era
convinto.
A volte lo ritrovava in mezzo all’erba, sdraiato sotto
il sole a fissare le nuvole. Totalmente imbambolato.
Non
si lamentava per il poco cibo, non gli aveva mai sentito profferire
un solo lamento al riguardo.
Alcune volte temeva che avesse
imparato, prima ancora di compiere cinque anni, ad arrendersi ed
accettare inerme ciò che accadeva intorno a lui.
E andava bene.
Andava bene perché forse non ci sarebbero stati drammi, shock, e
momenti strazianti, perché in realtà era proprio quello che lo
spaventava più di ogni altra cosa. La reazione di suo fratello.
Lo
osservava spesso quando prendevano parte alla visione della
mietitura, anno dopo anno.
Entrambi ancora troppo piccoli, se ne
stavano in disparte vicini alla loro mamma, ad ascoltare l’inno, il
solito proliferare di parole inutili e poi il pescaggio. L’estrazione
dei due tributi che quasi certamente non sarebbero mai più
tornati.
C’era stata solo un’occasione in cui Haymitch si
stupì della reazione di suo fratello, in genere sempre
imperscrutabile durante tutte le mietiture.
Era stato estratto un
nome. Un ragazzino di appena dodici anni, un tipetto dall’aria
malaticcia e poco agile.
Le probabilità di rivederlo tornare nel
distretto erano praticamente inesistenti.
Nessun applauso di
incoraggiamento, nessun rumore. In tutta la piazza si espandeva un
silenzio raggelante mentre quel ragazzino si faceva strada tra la
folla.
Quando salì sul palco, il silenzio venne interrotto da un
urlo straziante. Una donna dal volto deturpato dalle lacrime e dalla
fatica di una vita nel Distretto 12, stava correndo verso il palco
gridando il nome di quello che doveva essere suo figlio. Il ragazzino
dall’aria malaticcia appena estratto.
Era la madre di un
tributo, non c'era condanna peggiore.
Venne subito fermata dai
Pacificatori, ma nemmeno questo sembrò intimorirla.
Una madre
disperata per la sorte del figlio, per quanto fosse deperita,
riusciva sempre a trovare una forza a lei stessa estranea.
Era
quasi arrivata al palco, le mani protese verso il suo bambino che,
preso dal panico, iniziò a piangere allungando a sua volta le mani,
probabilmente temendo per la sorte della madre.
Non
riuscirono a toccarsi. Uno dei Pacificatori fu più veloce e col
calcio del fucile le assestò un colpo netto allo stomaco.
La
donna venne portata via e Haymitch non la incontrò mai più per il
Distretto. Come il figlio del resto, che non fece mai più ritorno a
casa.
Dopo quella volta, i controlli durante le mietiture
divennero più rigidi. Il numero dei Pacificatori venne
raddoppiato.
Mentre la donna priva di sensi veniva
allontanata, Haymitch guardò suo fratello, ritrovandosi a sgranare
gli occhi stupito per ciò che vide.
Le manine erano serrate alla
gonna della loro madre, gli occhi lucidi, pieni di lacrime. Tremava
visibilmente, ma non emanava un suono. Né un lamento né un segno
che confermasse la sua ricerca di conforto.
Si imponeva
l’impassibilità, malgrado tutto dentro di lui stesse
urlando.
Quella visione lo terrorizzò più di qualsiasi cosa, più
di qualsiasi mietitura a cui potesse mai assistere.
Era solo un
moccioso che portava una maschera dilaniata da piccole crepe che lui,
da solo, si premurava di riparare. Costantemente. Giorno per giorno.
Senza chiedere il conforto di nessuno.
Si inchinò vicino a
lui, senza dire niente, solo guardandolo. Subito il suo fratellino
puntò gli occhi nei suoi, lasciandosi vedere così scoperto.
Uno, due secondi, e lasciò la presa sulla madre per buttare le
braccia al collo del fratello maggiore.
Sconfitta la nuova ondata
di stupore che lo investì dopo quel gesto, Haymitch ricambiò subito
quella stretta.
Ancora non udì niente. Né un singhiozzo, né
un sussulto. Si aspettava di sentire la schiena di suo fratello mossa
dal respiro mozzato del pianto.
Non avvenne niente del genere.
Il
marmocchio lo stringeva, ma non gli permetteva di far parte del suo
dolore.
Lo ammirò e lo odiò, sentendo un moto di rabbia del
tutto sconosciuta nascere dentro di lui.
Sei
solo un moccioso dannazione! Reagisci! Piangi! Disperati! Fa
qualcosa!
Rimasero
fermi qualche istante, almeno finché non sentì la presa del
fratello affievolirsi, fino a staccarsi lentamente.
Stava
riprendendo il controllo della situazione.
Quando alla fine si
separò da lui, gli prese la mano stringendola con la sua. Non gliela
lasciò mai, fino alla fine della mietitura, fino al loro ritorno a
casa.
Quel pomeriggio si nascosero fuori, sul retro della loro
vecchia casa. Sotto l’albero dove spesso si
appisolavano.
Rischiavano grosso se fossero stati scoperti: tutti
dovevano guardare gli Hunger Games.
“Raccontami una
storia.”
Fu Haymitch ad uscirsene con quella strana
richiesta che creò qualche istante di silenzio tra i due.
Il più
piccolo sollevò lo sguardo verso di lui, guardandolo incuriosito,
dubbioso sull’aver capito o meno.
“Una storia?”
“Sì,
una storia. Inventala.”
Di nuovo qualche istante di silenzio.
Sul volto di Haymitch si dipinse un leggero, sarcastico sorriso nel
vedere quegli occhi smarriti puntati su di lui.
“Una storia…
tipo?”
“Oh insomma! Una storia!”
Anche Haymitch
sosteneva il suo sguardo, desideroso di ricevere quello che solo lui
poteva dargli.
“Portami da un’altra parte. Fammi un po’
vedere dove ti rifugi marmocchio. Voglio andare lontano il più
possibile dal Distretto 12.”
Potevano sembrare decisamente
parole fin troppo difficili da capire per un bambino così piccolo,
ma il suo fratellino era sveglio. Molto, molto sveglio.
E infondo
Haymitch stava solo rivelando a quel furbetto di aver capito fin da
subito il suo segreto.
La sua maschera era venuta allo scoperto, e
lui l’aveva vista, l’aveva quasi toccata.
“Non voglio
una fine.”
Disse poi il più piccolo, lasciando nei suoi occhi
una visibile titubanza nel non aver colto il significato di quella
frase.
“Non mi piacciono le favole.” Continuò allora a
spiegare, lasciandosi sfuggire un sospiro impaziente, che per un
istante irritò il maggiore.
“Dopo
la fine non c’è più niente, invece la mia storia deve
continuare.”
Prese un legnetto giocando con un po’ di terra,
ma gli occhi ritornarono presto su quelli di Haymitch.
“La
mia storia finisce quando finisco io.”
Sentenziò infine.
Aveva
messo in chiaro le regole, e ad Haymitch sembrarono condizioni più
che plausibili.
“E… la costruiamo
insieme.”
“Insieme?”
“Insieme.” ripeté il più
piccolo, annuendo deciso. “Una parte ciascuno. Io inizio, e quando
tocca a te continui dal punto in cui mi sono fermato. Ma a quel punto
sei tu che comandi, tu che decidi che scelte fare.”
Si zittì un
istante, il suo sguardo era tremendamente enigmatico.
“Pensi
che sia stupido?”
Si stupì di quell’ultima domanda, si
aspettava potesse dire di tutto, ma non quello.
“No. Certo che
no.”
“Ok.” Ritornò con lo sguardo verso il terreno, il
legnetto ancora stretto in mano.
“È un cacciatore.”
Continuò qualche istante dopo.
“Chi?”
“Il mio eroe.”
Si imbarazzò a pronunciare quelle ultime parole, Haymitch lo capì
subito. Lo trovò persino tenero.
“Un cacciatore?” chiese
sorridendo, cercando di spronarlo a continuare, dimostrandosi davvero
interessato.
“Sì.” Sorrise appena, senza smettere di giocare
col legnetto.
“Un cacciatore che vive nei boschi. Lui è libero
di andare dove vuole. Sa sopravvivere in qualsiasi situazione. Non
dipende da nessuno, sono gli altri che dipendono da lui! Perché lui
sa cacciare, lui porta il cibo a chi ne ha bisogno!”
Più
parlava e più la sua foga aumentava. Muoveva veloce il legnetto sul
terreno, disegnando cerchi e linee senza fine. Come uno scrittore
travolto dalle sue stesse idee, bisognoso di liberarle e dar loro
vita.
Quei personaggi, quei boschi di cui parlava, spingevano per
uscire fuori. E lui li stava finalmente portando alla luce.
Sembrava
quasi trarne un sollievo fisico vero e proprio.
Haymitch lo
osservava e lo ascoltava rapito, come raramente gli succedeva.
Si
ritrovò talmente immerso in quel mondo creato dal suo fratellino
che, quando all’improvviso si interruppe guardandolo in attesa, non
poté fare a meno di ricambiarlo con uno sguardo di disappunto.
“Ora
tocca a te.” Spiegò lui, intuendo i suoi pensieri.
Non era
pronto ad una cosa del genere, ma non si sarebbe di certo tirato
indietro a quella sfida.
Il
Cacciatore aveva dimostrato un coraggio non comune a sfidare le
guardie dell’Imperatore, a ribellarsi al suo regno di oppressione,
per poi fuggire nei boschi in attesa del momento propizio per
sferrare un degno contrattacco.
Le guardie lo braccavano, ma lui
non era mai demoralizzato. I boschi erano la sua casa e nessuno
poteva eguagliarlo se si trattava di arrampicarsi su un albero o di
procacciarsi del cibo.
E in realtà il Cacciatore non si limitava
solo a questo. Cacciava per poi aiutare le famiglie che vivevano di
stenti.
Il Cacciatore era una leggenda. Era un salvatore. Era la
speranza.
Quel
Cacciatore divenne così il loro compagno di giochi e avventure. Un
esempio a cui fare affidamento ad ogni nuova mietitura.
Andò bene
così per molto tempo. Quello era il loro rifugio. Il fratello
maggiore finalmente condivideva qualcosa col minore.
Qualcosa
si incrinò al dodicesimo compleanno di Haymitch.
Non fu un giorno
felice (non che in genere festeggiassero i compleanni in modo
eclatante) ma tutti in casa sapevano cosa avrebbero vissuto da quel
momento in poi.
Quella mattina sua madre lo aveva svegliato
dandogli un bacio sulla fronte, facendogli trovare un pezzo più
grande di pane a tavola e, alla fine, era persino riuscita a trovare
il coraggio di sussurrargli spaventata un flebile “buon
compleanno” .
Fu esattamente a quel punto che suo fratello lo aveva guardato con
talmente tanto disprezzo che per un attimo fu quasi tentato di
chiedergli scusa.
Era poi uscito veloce di casa per andarsi a
rintanare sotto il loro solito albero.
Quel giorno non ci fu
traccia del Cacciatore.
Lo osservò tenendosi a distanza, mentre
teneva in mano il solito legnetto intento a tracciare mondi
invisibili sul terreno sabbioso.
Non provò ad avvicinarsi né a
parlargli. Sapeva che doveva stargli alla larga, che qualsiasi cosa
gli avesse detto non sarebbe mai stata quella giusta.
Soffriva.
Soffriva come pochi altri bambini potevano soffrire alla sua età.
Perché lui non piangeva, non esternava niente.
Quel giorno suo
fratello stava disperatamente combattendo di nuovo contro le crepe
della sua maschera.
Era solo una questione di assestamento. A
breve sarebbe tornato come nuovo.
Doveva solo convincersene.
Il
piccoletto gli concesse una tregua superata la prima
mietitura.
Haymitch non era stato estratto, era tornato a casa con
loro. Per quell’anno erano salvi.
Quel pomeriggio il
Cacciatore diede il meglio di sé, ingannando i sicari
dell’Imperatore con una trappola e riuscendo persino a fare colpo
su una principessa di un paese lontano.
Risero tanto, storcendo il
naso all’apparizione della principessa. Come ci era finita lì?!
Il
Cacciatore ormai aveva vita propria, governava le loro avventure. Ma
una principessa per loro non era allettante quanto un’
avventura!
Ogni anno osservava in silenzio la
battaglia silenziosa che il suo fratellino, ormai sempre più grande,
ingaggiava con se stesso.
Alla seconda mietitura di Haymitch aveva
iniziato ad isolarsi una settimana prima dell’estrazione.
Il
Cacciatore si prendeva una pausa, spariva dalla sua visione. A volte
se lo immaginava svanire tra la radura dei boschi, senza lasciare
traccia, affidandolo così a suo fratello, che lo custodiva
gelosamente.
Dopo, sì dopo,
tornava più energico che mai. Sentivano le urla degli oppressi che
lo acclamavano, che lo invocavano.
Sapevano che sarebbe tornato!
Perché lui tornava sempre.
Al
suo quindicesimo compleanno Haymitch si pose una domanda che scacciò
con la stessa velocità con cui era giunta.
Cosa avrebbe fatto
quando anche il suo fratellino avrebbe avuto dodici anni?
Quel
pensiero gli attanagliava la gola, procurandogli un vero e reale
dolore fisico.
Né il lavoro, la scuola, né la fatica di aiutare
sua madre a portare a casa del cibo, sembravano poter eguagliare
quel… quel male.
Per la prima volta capiva pienamente lo sguardo
di risentimento e rabbia che suo fratello gli aveva riservato il
giorno del suo dodicesimo compleanno.
Se il sangue non mentiva,
probabilmente Haymitch si sarebbe ritrovato a fare lo stesso con
lui.
Anno dopo anno la sua ansia cresceva. Così come le
tessere col suo nome. Un argomento fin troppo pungente che aveva ben
evitato di affrontare in presenza di suo fratello. A volte temeva che
fosse riuscito a scoprire tutto e che per questo provasse ancora più
risentimento nei suoi confronti.
Altre volte pensava fosse solo
frutto della sua immaginazione e che in realtà il fratellino non
sospettasse niente.
Quell’anno venne estratto un suo
compagno di classe. Non fu facile vederlo salire sul palco.
In
quei momenti si ritrovava a pensare al Cacciatore con un certo
bisogno inespresso.
A volte provava vergogna di ritrovarsi a fare
simili pensieri a quindici anni. Ma il suo fratellino era felice in
quei momenti, lui non ne faceva una questione di età. Il Cacciatore
esisteva nelle loro vite, punto e basta.
“ Ancora tre
volte.”
Se ne uscì con questa frase mentre tornavano a casa
dopo la mietitura. Uno strano sorriso sghembo stampato sul suo
volto.
“ Tre volte cosa?”
Forse aveva già capito cosa
intendeva, ma non voleva esserne certo. Sperava di aver frainteso
quel sorriso pieno di aspettative.
“Ancora tre volte e sarai
libero.”
Rimase in silenzio a metabolizzare quelle parole,
ritrovandosi fin troppo stupito da quel tono ottimista e
tremendamente pieno di speranza che mai, prima di quel momento, gli
aveva sentito.
La testa gli girò, sentendo subito dopo una fitta
allo stomaco. Lo guardò ancora.
Sorrideva stringendogli la
mano.
Lo stava facendo sul serio. Dannazione, quel moccioso stava
davvero sperando.
Cinquantesima
edizione.
Nuove regole: quattro tributi per ogni distretto.
Di
nascosto dal fratello, Haymitch aveva iniziato ad allenarsi coi
coltelli, dimostrando di possedere anche una discreta abilità.
Il
suo nome compariva fin troppe volte per potersi prendere il lusso di
non pensarci.
Il Cacciatore quell’anno venne nominato
decisamente poco. E quelle sporadiche volte fu lo stesso Haymitch a
tirarlo in gioco.
Aveva
notato come suo fratello si stesse richiudendo in se stesso,
consapevole che quella speranza che gli aveva visto negli occhi
l’anno precedente l’avrebbe fatto soffrire più di ogni cosa.
Non
riuscivano a parlarsi, a dedicarsi del tempo. Quando si ritrovavano
insieme, seduti sotto il loro albero, per lo più rimanevano in
silenzio. Uno vicino all’altro.
Infondo era piacevole anche
quello.
Il giorno della mietitura fu il più atroce di tutti.
Fin dal risveglio.
Lo aveva sorpreso in flagrante mentre
conficcava uno dei suoi coltelli – chissà poi come aveva fatto a
trovarli – contro la corteccia dell’albero.
“Sei
impazzito?!”
Veloce l’aveva bloccato, portandogli via l’arma
dalle mani. Quello in tutta risposta si era voltato verso di lui, lo
sguardo liquido carico di rabbia.
La vedeva ancora, come
quella mattina di tanti anni prima. Quando quella donna venne
allontanata con forza dal figlio estratto come tributo.
La sua
maschera stava andando in mille pezzi.
Faceva male. Faceva
terribilmente male ad entrambi.
Si prepararono per la
mietitura in un silenzio tombale.
Mentre uscivano di casa si
chiese come il Cacciatore, nella mente del suo fratellino, avrebbe
affrontato tutto quello.
Ogni anno aveva preso l’abitudine
di voltarsi a cercare sua madre e suo fratello, prima e dopo il
pescaggio.
Non poteva più stare vicino a loro, non poteva più
stringere la mano al piccoletto facendogli coraggio.
Ora
lui faceva parte del gioco, e doveva stare in mezzo agli altri
giocatori.
Sapeva meglio di chiunque altro quanto quel momento di
separazione fosse causa di infinita sofferenza per il suo
fratellino.
Così si voltava, lo cercava, lo guardava. A tredici
anni gli aveva fatto una linguaccia, riuscendo a strappargli un
sorriso anche se poco convinto.
Le altre volte si limitava a
sorridergli. O semplicemente a guardarlo.
Man mano che crescevano
notava le differenze. Sia in se stesso che nel fratello.
Lui
se ne stava lì, lo sguardo indecifrabile a fissare un punto
imprecisato verso il Palazzo di Giustizia. Non ascoltava né l’inno
né le parole che seguivano.
Sapeva bene che drizzava le orecchie
solo al momento dell’estrazione.
Tutto il resto del tempo era
dedicato al suo nascondiglio dietro la sua maledetta
maschera.
Sempre, dopo l’annuncio del nome del tributo
maschile, Haymitch si voltava verso di lui, cercava il suo sguardo,
si guardavano in silenzio. In quei momenti il suo fratellino gli
dedicava un flebile, debole sorriso.
Quelli erano i momenti in
cui più di tutti si rivelavano l’uno all’altro. Scoprendosi di
tutto, mostrandosi per quello che erano.
Un bambino terrorizzato
all’idea di perdere un fratello maggiore. E un fratello maggiore
preoccupato a morte per il suo
piccoletto.
“Haymitch
Abernathy.”
Il nome riecheggiò per tutta la piazza.
Rimase immobile un secondo, non abbassò lo sguardo. Non mostrò
paura. Mentire e ostentare una certa sicurezza – di sé soprattutto
– era il suo forte.
Si incamminò verso il palco facendosi
strada tra la gente intorno a lui.
Questa volta non si voltò.
Non ci fu nessuno scambio di sguardi tra lui e suo
fratello.
Vennero scortati tutti e quattro all’interno
del Palazzo di Giustizia, per venire poi separati in quattro diverse
stanze.
Dopo averlo accompagnato dentro, i Pacificatori lo
lasciarono solo, informandolo che presto avrebbe avuto modo di
salutare un’ultima volta i suoi familiari.
L’attesa era più
atroce di qualsiasi altra cosa.
Si aggirava per la stanza
nervoso cercando di fare mente locale sulla situazione. E mentre
nella sua testa si susseguivano frenetiche immagini su immagini delle
edizioni passate degli Hunger Games, si rese conto che l’unica cosa
che davvero lo terrorizzava, lì in quell’istante, era dire addio
al suo fratellino. Alla sua famiglia.
Si lasciò ricadere sul
divano, deglutendo a fatica. La testa gli girava a mille. Non era
pronto ad affrontare tutto quello.
Non era pronto per
niente.
Calmati.
Si
ordinò repertorio.
Solo lui sentiva quella paura. Solo lui
sentiva quel dolore farsi largo dentro ogni anfratto del suo
corpo.
Mentire. Nasconderlo. Costruire la sua maschera. Sì,
poteva farlo anche lui. Nessuno doveva scoprire la
verità.
“Haymitch…” riconobbe la voce ancora prima di
girarsi.
Il volto di sua madre era rigato dalle lacrime che subito
si premurò di asciugare appena lui le andò incontro.
“Haymitch
mi… mi…”
“Sì. Lo so.”
Si lasciò andare e la
strinse a sé. Sicuro e protettivo.
Solo quando fece capolino
dalla spalla della madre vide la figura di suo fratello ancora vicino
alla porta. Era immobile, e lo fissava con una rabbia e un odio che
quasi lo raggelarono.
Eccola di nuovo quella fitta.
Faceva
male. Faceva un male cane!
“Non lasciargli prendere le
tessere.”
Sussurrò vicino all’orecchio della donna “Mai.
Capito mamma? Non lasciargli mai prendere le tessere!”
Lei
annuì decisa, come se quelle fossero parole superflue su cui non
c’era certo bisogno di discutere.
Solo in quel momento si rese
conto di quanto sua madre si sentisse in colpa nei suoi
confronti.
Gli prese il viso tra le mani e baciò suo figlio sulla
fronte.
“Tu sei forte e noi crediamo in te. Sempre.”
Anche quello faceva male.
Guardò sua madre negli
occhi. Aveva i suoi stessi occhi grigi, solcati dalle occhiaie e da
notti insonni. Si chiese se le fosse stata vicina quanto ne aveva
bisogno.
Quando si staccò da lei puntò subito lo sguardo su
di lui.
Era
ancora vicino alla porta, non si era mosso di un millimetro.
Continuava a guardarlo nello stesso modo in cui si guarderebbe un
traditore che ci ha pugnalato alle spalle.
Si accorse che aveva i
pugni serrati, stretti. Era teso come la corda in violino. Capì che
stava affrontando la più grande battaglia di sempre, quella più
difficile.
Fu quindi lui a prendere l’iniziativa
avvicinandosi per primo, avevano pochissimo tempo e non avrebbe detto
addio a suo fratello in quel modo.
“Adesso smettila. Lo so
che sei furioso ma… ehi! Guardami.” Fece per mettergli una mano
sulla spalla, ma quello si scansò di colpo, respingendo con violenza
la sua mano.
“L’anno prossimo avrò dodici anni!” sbottò
feroce, pieno di rabbia inespressa.
Sapeva perché lo stava
dicendo. Nessuno conosceva Haymitch meglio di suo fratello. Non
avevano bisogno di parole, entrambi sapevano cosa all’altro facesse
male più di ogni altra cosa. E adesso quel marmocchio del suo
fratellino voleva ferirlo e basta.
Ancora una volta si ritrovò ad
ammirarlo e odiarlo.
Ed ebbe in effetti successo, perché quel
pensiero lo distrusse ancora di più.
L’Arena, il numero
raddoppiato dei tributi… tutto quello a cui stava per andare
incontro passò velocemente ed incredibilmente in secondo
piano.
Avrebbe lasciato solo suo fratello ad affrontare gli anni
peggiori della sua vita, e il solo pensiero che potesse finire anche
lui nell’arena lo investiva di un immenso senso di colpa e paura.
Non gli aveva insegnato quasi niente! Non gli aveva spiegato come
sopravvivere!
Un fratello maggiore dovrebbe essere una specie di
guida… un mentore! E lui non aveva fatto niente di niente per suo
fratello! Si odiò così tanto in quel momento.
Fu allora che
iniziò a farsi strada quel peso che, per sempre, per tutta la vita,
si sarebbe portato appresso. Un peso insopportabile da gestire, che
ogni anno gli veniva sbattuto in faccia da tutti i tributi morti del
Distretto 12.
Non era in grado di fare il mentore.
“E
forse prenderò anche le tessere!”
Glielo sbatté in faccia in
quel modo. Con rabbia e aria di sfida. Quasi a volergli dire “cos’è,
pensavi fossi davvero così stupido da non sapere delle
tessere?”
“Adesso
smettila!”
Fu lui questa volta ad alzare la voce, scuotendolo
forte e obbligandolo a guardarlo.
“Smettila di dire cavolate!
Smettila di fare il moccioso! Lo sai cosa devi fare! Devi stare
vicino alla mamma, devi aiutarla! E non hai bisogno di prendere le
tessere, ti ho spiegato a chi chiedere aiuto e da chi stare attento.
Puoi farcela anche senza di me, e lo sai anche tu!”
Parlava
sicuro, veloce, riempiendolo di parole senza dargli il tempo di
metabolizzarle. Le avrebbe rielaborate dopo, capendone da solo il
significato.
“Non voglio rimanere da solo…”
Lo
aveva sussurrato piano, mentre cercava di mantenere il controllo
sulla sua voce.
La fitta, stavolta, arrivò dritto al suo petto.
Trafiggendolo come una freccia.
“Non sei solo.” Rispose
subito, con la stessa sicurezza di prima, ma dimostrando decisamente
più dolcezza.
“Non voglio che li guardi…” - continuò,
guardandolo negli occhi - “Non voglio che guardi gli Hunger
Games.”
Aveva alzato lo sguardo verso sua madre, incontrando di
nuovo il suo viso rigato da nuove lacrime che si asciugò subito. Era
forte, si stava obbligando anche lei a mantenere il controllo. La
vide annuire di nuovo decisa, non c’era bisogno di dire altro.
Sarebbe stato impossibile, in realtà lo sapevano entrambi. Forse
solo chiudendolo a chiave nella loro camera avrebbe potuto impedire
una cosa del genere.
Azzardò troppo forse. Regalandogli un
sorriso, passandogli una mano tra i capelli…
“Lo sai cosa
facciamo oggi no? Torniamo a casa e il Cacciatore ci porta lontano da
tutto questo.”
“NO!”
Per un attimo pensò di averla
vista. Aveva visto l’esatto istante in cui la maschera del suo
fratellino – costruita con perizia e accuratezza per anni e anni –
in meno di un secondo si era sgretolata, andando in mille pezzi.
“La
storia è finita! Non c’è più niente! NIENTE!”
Gli occhi gli
si riempirono di lacrime, aveva iniziato a tremare, spaventando
persino sua madre che non l’aveva mai visto così
sconvolto.
Un’altra fitta al petto, come una lama tagliente.
Avrebbe voluto urlare e spaccare qualcosa.
Stava per rispondergli,
stava per dirgli che la storia non era finita, che poteva custodire
il Cacciatore dentro di lui, che poteva farlo vivere di nuovo, poteva
dirgli che forse era giusto avere quella fiamma di speranza a
riscaldarlo e portarlo lontano.
Stava per dirgli tante cose in
realtà, probabilmente tutte sconnesse l’una dall’altra. Ma
ancora una volta fu il piccoletto a precederlo.
Gli buttò di
colpo le braccia al collo, stringendolo con forza, sprigionando tutto
quello che si portava dentro.
Sentì la sua paura, il suo dolore…
ogni cosa. Finalmente gli fu concesso di essere partecipe a quella
sofferenza. Anche Haymitch la provava.
“Giurami che
tornerai.”
Un’altra richiesta che lo investì all’improvviso,
lasciandolo inerme senza parole.
Lo sentì lasciarsi andare alle
lacrime. Alla disperazione. Sentiva la sua schiena mossa da
singhiozzi incontrollabili. Piangeva così tanto che lo sentiva
persino faticare a respirare di tanto in tanto, cercando aria intorno
a sé, ma per niente intenzionato ad affievolire la presa. Così
disperato da provare un reale dolore fisico. Ne era certo, perché
anche lui lo sentiva. Sentiva tutto in quel momento.
“Giuramelo!”
Non
poteva esserci niente di peggio dentro l’Arena, vero?
Sentì
gli occhi bruciare. Li serrò all’istante perché non poteva
permettersi di piangere davanti a loro. Lo strinse a sé, forte. Più
forte che poteva.
Cercava disperatamente di scacciare quel dolore
che sentiva invadere il suo corpo ed espandersi come un virus.
Era
atroce, era insopportabile. E pregò che finisse subito.
Sussurrò
poi il suo nome, vicino al suo orecchio
“Ti voglio bene.”
In
risposta lo sentì singhiozzare di nuovo, ancora annaspava aria.
“Anche io!”
riprese frettoloso, la voce spezzata.
Terribilmente sincero.
Quando ritornò ad essere
di nuovo da solo nella stanza, ad aspettare che gli dicessero cosa
doveva fare, si ritrovò a serrare la mano sulla camicia, all’altezza
del petto. Si sentiva come se fosse rimasto in apnea per tutto quel
tempo.
Continuava a deglutire, ma non trovava saliva. Si avvicinò
alla finestra e preso da quell’impeto d’ira furiosa che aveva
trattenuto fino a quell’istante, scagliò un pugno contro il muro.
Fece male, ma non male come quello che stava provando.
Appoggiò
le mani, la fronte, contro il vetro, cercando di trarne un po’
refrigerio.
La finestra era chiusa, serrata. Non faticava a
capirne il motivo.
Sollevò lo sguardo e vide un uccello librarsi
tra le nuvole.
Sperò con tutto se stesso che suo fratello,
almeno per quel giorno, almeno per un’ultima volta, si rifugiasse
nel mondo del Cacciatore.
In quell’istante se lo immaginò del
tutto diverso. Come mai l’avevano descritto.
Un Cacciatore
dotato di ali – forse artificiali, non era chiaro – in grado di
volare e fuggire nel cielo. Tra i rami dei boschi.
Chiuse gli
occhi un istante, sentendo il dolore della consapevolezza. Non
avrebbe mai potuto condividere con suo fratello quella nuova,
bellissima immagine del loro eroe.
Mai più.
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Fu
lui stesso ad uccidere il Cacciatore.
Ogni ricordo ad esso legato,
ogni avventura, ogni incontro vissuto da quell’uomo inesistente,
spariva nel nulla.
L’Imperatore, le sue guardie, i suoi sicari,
i villaggi, quei magnifici boschi che descrivevano sempre con
meticolosa dovizia nei loro racconti… tutto venne brutalmente
cancellato.
La loro storia era diventata una semplice e squallida
favola.
“Non
mi piacciono le favole. Dopo la fine non c’è più niente, invece
la mia storia deve continuare.”
Implorava
alla sua mente di tacere. Arrivava a colpirsi talmente forte da
pensare che prima o poi si sarebbe ucciso.
Nessun cacciatore
sarebbe mai esistito. Non vi erano più uomini coraggiosi nella loro
epoca.
E lui, Haymitch Abernathy, si considerava il primo tra i
codardi.
Il ruolo del Cacciatore venne presto spodestato
dall’alcool. L’alcool era l’unica cosa che lo salvava dai
ricordi.
Viveva in un vero e proprio delirio quando veniva a
mancare.
Sentiva il Cacciatore deriderlo, ridere a crepapelle di
quel misero uomo che si era lasciato sfuggire tutto ciò che aveva di
più importante. Rideva, perché ad uno come lui era stato affidato
il ruolo di mentore. Di guida.
E lui, proprio come con suo
fratello, continuava a fallire, anno dopo anno.
Più diventava
lucido e più i ricordi si facevano strada nella sua mente. Era
allora che il dolore diventava impossibile da gestire. Da
controllare.
Distruggeva. Semplicemente distruggeva tutto ciò che
si ritrovava intorno.
La casa in cui si ritrovò a vivere -
totalmente diversa e opposta a quella in cui aveva vissuto con la sua
famiglia - fu presto irriconoscibile. Ogni mobile, ogni oggetto,
riportava le cicatrici della sua ira.
Urlava fino a sentire la
gola graffiare, fino a tossire e sentirsi impossibilitato a
pronunciare anche solo una parola.
Non c’era salvezza da quel
dolore. Non c’era salvezza per un antieroe come lui.
Aveva
ucciso l’eroe di suo fratello. Aveva ucciso il sangue del suo
sangue.
L’unica cosa di cui aveva bisogno era solo
l’oblio.
“Alla salute Haymitch!”
Il Cacciatore
sollevava il suo calice traboccante di vino, ridendo
sguaiatamente.
“Alla salute, vecchio inutile derelitto!”
__
“Guardatela!
Guardate questa qui! Mi piace! Ha un gran… fegato!”
Lasciò
la presa su Katniss e si rivolse poi verso le telecamere
“Più
di voi!”
Lo
sguardo rabbioso, la bocca storpiata in un’espressione piena di
disgusto.
Più di
voi.
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Piccola
Nota:
Le
ultime parole in corsivo, pronunciate da Haymitch in presenza di
Katniss, sono tratte dal primo libro della saga, così come
sono.
Questa è una storia vecchissima che partecipò ad un contest altrettanto vecchio (https://slashtheatrearena.wordpress.com/2013/04/15/hunger-games-contest-bando/)
Solo oggi mi sono decisa a postarla, senza nessuna ragione particolare.