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Autore: BrokebackGotUsGood    10/08/2016    4 recensioni
In cambio di dettagli su un caso particolarmente intrigante, Sherlock, seppur inizialmente riluttante, si ritrova ad accettare di vedere uno psicologo, scelta che Mycroft, preoccupato per le condizioni del fratello, ritiene necessaria.
Nessuno degli esperti contattati dal maggiore degli Holmes, però, sembra essere intenzionato ad andare oltre la prima seduta.
Nessuno...tranne uno.
[Johnlock]
Ispirata al film ''Good Will Hunting''
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Scusate per averci messo così tanto :c
In questo capitolo (che è stato un vero e proprio parto) comincia a capirsi sul serio che la storia è ispirata a Good Will Hunting :3 Ho inserito molte scene ispirate a quelle del film e mi sono permessa di rubare anche alcuni dialoghi (come farò ancora nei capitoli successivi). Vi lascio in fondo i link delle scene da cui ho preso spunto ;)
Spero tanto che sia worth the wait, buona lettura e grazie infinite per le recensioni già ricevute! <3


 


Capitolo I




 

«Si rilassi, signor Holmes. Lei ora è avvolto da una rassicurante e calda nube di beato torpore e sta facendo un lungo viaggio indietro nel tempo, fino a penetrare nel cuore pulsante della sua infanzia. Faccia un lento e profondo respiro e si concentri. Ora mi dica: dove si trova?».
La voce baritonale del dottor Richardson rimbombò tra le pareti bianche del piccolo studio, mentre Mycroft, seduto compostamente su una poltroncina in pelle dietro di lui, osservava la scena con aria annoiata.
«S-sono...sono in un parco» rispose Sherlock titubante, sdraiato ad occhi chiusi su un divano dall'aspetto non particolarmente comodo e rivestito di un tessuto dalla fantasia orribile.
«Com'è questo parco?» proseguì lo psicoterapeuta.
«È...è grande. L'erba è ben curata, ci sono delle altalene, uno stagno e una fontana».
Mycroft aggrottò lievemente la fronte sentendo una nota di inquietudine nella voce del fratello minore.
«C'è qualcun altro, oltre a lei?»
«È deserto, sono da solo...No, aspetti, si sta avvicinando qualcuno. Due persone»
«Le riconosce?».
Sherlock strizzò le palpebre in quello che sembrò uno sforzo di concentrazione, per poi aprire la bocca con stupore.
«Una delle due persone è lei, dottor Richardson!».
L'interessato si voltò verso il maggiore degli Holmes, a cui lanciò un'occhiata stranita, scuotendo la testa.
L'altro alzò solennemente un sopracciglio.
«Io? E chi c'è con me?»
«Una donna. Ha i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo e indossa vestiti sportivi. La sta tenendo per mano, sembrate molto intimi, ma non è sua moglie, la quale compare nella bella fotografia incorniciata sulla sua scrivania; no, direi che assomiglia in maniera piuttosto impressionante alla sua collega Olivia Carter».
A quel punto il tono inquieto e spaurito era decisamente scomparso, rimpiazzato dalla solita sciolta e arrogante parlantina; Mycroft, a cui il gioco del minore era ormai piuttosto chiaro, alzò gli occhi al cielo con un lieve sospiro esasperato e si alzò dalla poltroncina, avendo ormai capito che la seduta poteva considerarsi conclusa.
Sherlock aprì gli occhi e si tirò su con un agile balzo sotto lo sguardo sconcertato del povero dottor Richardson, per poi fare il giro del divano con un sorrisino soddisfatto.
«S-signor Holmes, senta...»
«Le consiglio di dire la verità a sua moglie e porre fine al suo matrimonio in maniera pacifica, finché è in tempo»
«Non ho idea di che cosa stia parlando!» esclamò con indignazione, rivolgendosi poi a Mycroft. «Sto sprecando il mio tempo, qui»
«Ce ne andiamo, signor Richardson. La prego di scusarmi per l'inconveniente».
Sherlock prese le chiavi della macchina dell'analista dalla scrivania e cominciò a farle penzolare avanti e indietro davanti allo sguardo ammonitore del fratello. 
«Guardami attentamente...» disse Sherlock con voce scherzosamente ipnotica, imitando lo psicoterapeuta nel chiaro tentativo di parodizzarlo.
«Sherlock»
«Non mi serve la terapia...».
Mycroft gli tolse le chiavi di mano più bruscamente di quanto ci si potesse aspettare da lui, rimettendole al loro posto e incamminandosi poi verso l'uscita dello studio, seguito da uno Sherlock piuttosto divertito e soddisfatto di se stesso.


 

***

 

Vennero contattati altri quattro rinomati analisti, ma ogni tentativo di far collaborare Sherlock in modo serio o quantomeno soddisfacente andò miseramente in fumo: la pazienza e l'autocontrollo di tutti e quattro vennero meno a causa delle corrette e per questo indesiderate deduzioni del minore degli Holmes, che, d'altro canto, trovava l'intera faccenda assai divertente.
Uno era diventato da poco dipendente dal gioco d'azzardo, un altro aveva parecchi problemi irrisolti coi propri genitori, un altro ancora frequentava gente poco raccomandabile in un giro di marijuana e l'ultimo aveva evidentemente finito col detestare la propria professione: tutti questi dettagli sulla vita privata degli psicoterapeuti erano venuti a galla in nientemeno che un quarto d'ora di seduta, oltre cui nessuno di loro aveva osato andare.
A quel punto Mycroft, non sapendo più dove sbattere la testa, aveva deciso di fare quattro chiacchiere con il suo cocciutissimo fratellino: una fredda mattina piovosa, armato di una discreta dose di pacatezza, lo aveva invitato a prendere una tazza di té nel bar accanto al 221B di Baker Street.
C'erano solo altri sei clienti oltre a loro; la pioggia cadeva incessante e, in contrasto all'atmosfera resa buia e cupa dall'assenza di luci accese, nell'aria aleggiava un leggero e piacevole odore di caffé e cioccolata calda.
«Avevamo fatto un patto, Sherlock» disse Mycroft con rimprovero, le mani intrecciate tra loro sul tavolo sgombro se non per le due tazze di té e un giornale stropicciato.
Sherlock si lasciò andare contro lo schienale della sedia, prendendo un piccolo sorso dalla sua tazza e guardando il suo riflesso nello specchio sulla parete di fronte a lui.
«Sì, e io l'ho rispettato. Non ho forse sopportato ben cinque sedute di sostegno psicologico?»
«No, tu hai volontariamente indotto gli analisti a rinunciare alle suddette sedute molto prima che esse terminassero. Lo scopo non era mettere in mostra le tue doti intellettive, fratellino»
«Erano tutti dei noiosi e perfetti idioti. Prendi il signor Richardson, ad esempio: più che uno psicologo si credeva un poeta. "Una rassicurante e calda nube di beato torpore"? Per favore!»
«Sherlock...»
«Se dobbiamo fare un patto, voglio poter stabilire anche le mie condizioni. E in questo caso ho solo una richiesta. Pensi di essere in grado di soddisfarla?».
Mycroft inclinò leggermente il capo di lato, ricambiando lo sguardo di sfida di Sherlock, che riprese a bere il suo té con disinvoltura e compostezza.
Si inumidì le labbra e fece un sorrisino tirato, consapevole di non avere altra scelta. «Sentiamo».
Il minore posò la tazza ormai quasi vuota sul tavolo e congiunse i polpastrelli sotto il mento. «Se vuoi che io mi sottoponga ad un' analisi assolutamente inutile in cambio di indizi sugli omicidi dell'MI6 lo farò, ma è ovvio che dovrai trovare qualcuno di effettivamente competente, e il fatto che gli analisti da te contattati non siano stati in grado di gestirmi per più di quindici minuti li esclude automaticamente da questa categoria. Non mi soprenderebbe se mi avessero già dato dello psicopatico senza nemmeno essere andati in fondo a quelli che tu credi siano i miei problemi».
Mycroft fece per ribattere, ma Sherlock, prevedendo una paternale su come i suoi si potessero considerare eccome dei problemi, non glielo lasciò fare.
«Trova qualcuno che sappia svolgere il proprio lavoro in maniera adeguata e che non sia noioso. A quel punto potremo riparlarne».
Il maggiore lo guardò in silenzio, con un'idea che già faceva capolino da un angolo della sua mente: un'idea che, doveva ammetterlo, gli faceva storcere il naso, ma che avrebbe potuto rivelarsi una carta vincente.
«Qualcuno ci sarebbe».
Sherlock sbatté le palpebre una volta. «Chi?»
«Un professore di psicologia della Quintin Kynaston. È...» Mycroft esitò, cercando una definizione adeguata per quell'uomo con cui non aveva avuti contatti negli ultimi quattro anni. «...Una mia vecchia conoscenza»
«Oh, vuoi dire una persona comune che hai intenzionalmente coinvolto nei tuoi affari di Stato al fine di raggiungere i tuoi scopi, sconvolgendogli inevitabilmente l'esistenza in maniera pressoché irreversibile?».
Mycroft sospirò, scuotendo lievemente la testa e sollevando le sopracciglia chiare. «Io non ho...non avevo...»
«D'accordo, ti concedo di risparmiarmi i dettagli. Un professore...Ha mai praticato delle sedute?»
«Non che io sappia, ma posso assicurarti che fa al caso nostro»
«E cosa ti dice che accetterà di farti questo...favore?»
«Lo convincerò».
I due fratelli si guardarono per qualche istante, non accorgendosi nemmeno che la pioggia aveva smesso di cadere.
Sherlock sollevò l'angolo della bocca in un sorrisino che diceva "sono curioso di vedere come farai", per poi mandare giù gli ultimi sorsi del té diventato ormai tiepido.


 

***

 

«...Perché la nostra società è avvelenata dal pregiudizio sin dall'alba dei tempi? Cosa ci spinge a criticare, giudicare, deridere o disprezzare qualcosa con cui non abbiamo mai avuto realmente a che fare e su cui, di conseguenza, non abbiamo elementi sufficienti per trarre delle conclusioni affidabili? Ma la domanda più importante è: cosa possiamo fare per combatterlo?».
Nell'aula calò il silenzio, disturbato solo dal tamburellare di qualche matita o di qualche piede; una ragazza prese a mangiucchiarsi una ciocca di capelli, un ragazzo ad accartocciare dei foglietti di carta.
«Parker, vuoi essere così gentile da condividere una tua opinione?».
Lo studente interpellato sobbalzò leggermente sulla sedia, chiudendo di fretta il quaderno su cui stava scarabocchiando. «B-beh, ehm...penso che l'uomo abbia sempre avuto paura di ciò che non conosce» balbettò, annuendo poi a se stesso come per convincersi che la sua risposta non fosse poi così male. 
«Molto bene, sono d'accordo. Spesso è la paura dell'ignoto che ci porta a formulare pensieri infondati. Qualcun altro? Collins?».
Matthew Collins non fece in tempo a rispondere, interrotto dalla lenta apertura della porta dell'aula.
Il professore si voltò con un sorriso cordiale, immaginando fosse un bidello venuto ad informarlo di un'altra comunicazione da parte del preside (sarebbe stata la terza, quel giorno), ma il sorriso svanì di colpo dalle sue labbra quando vide la figura che gli si presentò davanti.
Un uomo alto dall'abbigliamento impeccabile, accompagnato dal suo inseparabile ombrello, lo osservava con il suo sguardo di ghiaccio, una gamba elegantemente piegata dietro l'altra e il mento leggermente sollevato che gli conferiva un'aria di potere e superiorità.
John Watson si raggelò sul posto.
Serrò le labbra e deglutì, un'opprimente sensazione di disagio ad un improvviso riaffiorare di spiacevoli ricordi; gli studenti, a cui quella reazione non passò inosservata, puntarono tutti gli occhi su quell'ospite inatteso.
Il professore, ancora pietrificato, boccheggiò alla ricerca di qualcosa da dire. «S-signor Holmes» fu tutto ciò che uscì dalle sue labbra.
«Professor Watson» rispose Mycroft con un cenno del capo.
Dio, non lo vedeva da almeno quattro anni. 
Quattro anni in cui aveva cercato di dimenticare, di andare avanti, di scacciare le immagini di un passato le cui ferite bruciavano ancora. Cosa aveva spinto quell'uomo a cercarlo di nuovo?  
Se solo avesse avuto la faccia tosta di pretendere un suo coinvolgimento in uno dei suoi sporchi affari, John avrebbe fatto un uso alquanto inappropriato di quell'elegante ombrello, questo era sicuro.
Deglutì di nuovo, sentendo la salivazione quasi azzerata, e riuscì a voltarsi nuovamente verso i ragazzi, tenendo però lo sguardo basso e sentendo la necessità di appoggiarsi alla cattedra, i palmi sulla superficie liscia e lucida.
«Per oggi abbiamo finito, potete andare» disse con il tono più normale che gli riuscì. «La prossima volta portate il volume A. Parleremo dei disturbi psicosomatici e delle loro cause».
Mycroft si scostò dalla porta per permettere agli studenti di uscire dalla classe e, una volta che essi si furono affollati in corridoio diretti verso l'ingresso principale, si avvicinò con passo lento e studiato al professor Watson, che si sollevò dalla cattedra e, quasi non rendendosene conto, si mise sull'attenti, senza nemmeno provare a nascondere il turbamento sul suo volto.
Mycroft lo squadrò da capo a piedi. «A proposito di disturbi psicosomatici», disse con un irritante sorrisetto, «come va la gamba?».
John ignorò volutamente la domanda, cosa che per il politico equivalse alla più chiara delle risposte (la zoppia, seppur più leggera –non c'era traccia del bastone– non era affatto passata, il che significava che l'insoddisfazione per la propria vita era tornata a fargli visita) e ne formulò una nuova. «Cosa ci fa qui?»
«Immagino sia sorpreso di rivedermi dopo tutto questo tempo»
«Non piacevolmente sorpreso».
Mycroft inarcó un sopracciglio, per poi far roteare l'ombrello e prendere a passeggiare tra i banchi, guardando con disinteresse le cartine geografiche appese alle pareti. 
«Allora? Cosa vuole?»
«Sono solo venuto a chiederle un piccolo favore».
John assottigliò lo sguardo e strinse i pugni in un riflesso spontaneo, aprendo la bocca con sconcerto e stizza. «Un favore? Vuole scherzare! Devo ricordarle cosa è successo l'ultima volta che le ho fatto un favore?» disse con rabbia.
Il politico sospirò. «Non ha niente a che fare con quella storia, John, né con faccende simili. Non ci sono in gioco delle vite...O meglio, credo che lei potrebbe contribuire a salvarne una».
Riuscì quasi a vedere un bagliore di risentimento attraversare gli occhi del professore, che tuttavia tornò ad ascoltarlo.
«Riguarda mio fratello Sherlock. Ha sempre avuto un carattere difficile e ha sempre mantenuto un determinato atteggiamento nei confronti delle persone che lo circondano, tant'è che il suo nome viene ormai automaticamente associato all'arroganza, alla rudezza, alla presunzione. Ha una mente brillante, ma al posto di sfruttarla per scopi realmente utili preferisce utilizzarla per...risolvere crimini, soprattutto omicidi. O per i suoi insulsi esperimenti, i quali molte volte richiedono l'uso di parti umane che, ahimè, conserva nel frigorifero insieme al minimo necessario di cui si nutre. Come se non bastasse, non sono rari i casi in cui ha messo a repentaglio la sua vita con la droga».
John ascoltava con le braccia incrociate al petto e un'espressione indecifrabile persino per il maggiore degli Holmes.
«Non ha mai avuto amici o qualcuno che si prendesse cura di lui, non li ha mai voluti. Perciò ho ritenuto necessario che fosse un esperto a...farlo ragionare. Tuttavia, a causa di quelle sue caratteristiche che le ho elencato poco fa, nessuno degli analisti da me contattati è riuscito a concludere la prima seduta».
Il professore capì immediatamente dove Mycroft volesse arrivare e fece una breve risata sarcastica, scuotendo la testa con incredulità. «E pensa che io invece potrei sbloccare la situazione?».
Il politico fece un lieve sorriso, avvicinandosi di qualche passo. «Non lo penso. Ne sono certo»
«Ah sì? E come mai?»
«Lei ha carattere, John. È stato un soldato, sa prendere decisioni con ammirabile fermezza e non si lascia mettere i piedi in testa da nessuno, e questo ho potuto verificarlo di persona, in passato. Se c'è qualcuno in grado di tenere testa a Sherlock, quello è lei».
John arricciò le labbra e, mani sui fianchi, abbassò lo sguardo sulle opache piastrelle marroni del pavimento. «Senta...Non credo di voler avere di nuovo a che fare con uno di voi. Con un Holmes. E poi io mi limito ad insegnare, non faccio sedute»
«Naturalmente sarei disposto ad offrirle una generosa somma di denaro»
«Oh, certo, per lei ruota tutto attorno a quello...»
«Non finga di non averne bisogno».
Il professore irrigidì la mascella e dovette chiudere gli occhi per un istante per riuscire a mantenere la calma. «Adesso controlla anche i miei registri bancari?» chiese con voce piatta, dosando il respiro.
Mycroft sollevò le sopracciglia. «Può decidere lei il numero di sedute, così come il luogo e il giorno in cui effettuarle. Sappia solo che avrei altri mezzi per convincerla»
«Oh, vuole ricattarmi?»
«Spero di non dover arrivare a tanto».
I due uomini si guardarono in silenzio per qualche secondo, l'elettricità che quasi si poteva toccare con mano.
John, non avendo idea di cosa fosse più giusto fare, esitò.
Da una parte la sola idea di entrare in contatto non solo con uno, ma con entrambi gli Holmes, nome che lui aveva cercato di seppellire per via dei ricordi e delle vicende ad esso correlati, gli faceva venire i brividi; dall'altra gli era sembrato che dal volto di quell'uomo di ghiaccio davanti a lui trasparisse un velo di appena visibile ma sincera preoccupazione, il che significava che questo Sherlock doveva essere davvero nei guai (la droga era una prova sufficiente), e se Mycroft si era ritrovato a ricorrere proprio al suo aiuto voleva dire che non aveva effettivamente altra scelta.
Si passò la lingua sull'interno della guancia, indeciso, e inclinó lievemente il capo. 
Se doveva vedere il lato positivo, quella sarebbe potuta essere l'unica opportunità per molto tempo a venire di far succedere qualcosa di diverso nella linea piatta e monotona che era diventata la sua vita da quattro anni a quella parte.
Sperò davvero di non doversi pentire della decisione che stava per prendere, spinto anche da un'inconsapevole e malsana curiosità di conoscere questo strambo fratello.
«Possiamo fare una seduta di prova sabato mattina alle dieci, nel mio ufficio» disse con voce bassa e grave, puntandogli poi l'indice contro come segno d'avvertimento. «Ma deciderò io se continuare. E non voglio i suoi sporchi soldi».
Mycroft sembrò sinceramente sorpreso. «Non le ho ancora detto la cifra»
«Fa lo stesso, non mi interessa».
Il politico lo scrutò attentamente, cercando forse di dedurre il perché di quel rifiuto (anche se poteva benissimo immaginarlo), poi, consapevole del fatto che insistere non sarebbe servito a nulla, sorrise con fare cordiale, porgendogli la mano.
«La ringrazio molto per la collaborazione, John. A sabato mattina».
John lo guardò dritto negli occhi, rivedendo in essi gli eventi che avevano segnato la sua vita in maniera indelebile.
Passò qualche istante prima che si decidesse a ricambiare la stretta.


 

***

 

Non lo avrebbe mai ammesso, ma era curioso di incontrare la persona che Mycroft riteneva adeguata all'arduo compito di gestire un paziente come lui e non vedeva l'ora di verificare la veridicità di quell'ipotesi, probabilmente perché voleva studiare il modo migliore (e più divertente) per metterlo alla prova.
E la curiosità aumentava a causa del fatto che quella persona, tra l'altro, facesse parte dell'oscuro e segreto passato politico di suo fratello e, malgrado avesse dichiarato di non avere la necessità di conoscere i dettagli, non poteva fare a meno di chiedersi in che modo il suo nuovo terapista (anche se non proprio in regola) ne fosse stato coinvolto.
Professor John Hamish Watson.
Il nome, per qualche motivo a lui ignoto, gli ispirava fiducia, ma di certo non si sarebbe lasciato ingannare dalle apparenze: in fondo, da quello che gli aveva detto Mycroft, si era sempre limitato ad insegnare, quindi non era affatto detto che sapesse mettere in pratica le sue conoscenze.
Ma, per quanto detestasse dirlo o anche solo pensarlo, suo fratello non sbagliava mai. O quasi.
Una volta scese alcune rampe di scale e percorsi i lunghi corridoi della Quintin Kynaston, i due fratelli giunsero davanti alla porta vetrata dell'ufficio del professor Watson, situato a poca distanza dall'uscita d'emergenza (interessante); Mycroft bussò due volte e, senza nemmeno aspettare una risposta, fece il suo ingresso nella piccola stanza, trovando John seduto alla sua scrivania, intento a scribacchiare qualcosa su un block notes.
«Buongiorno, John».
L'uomo alzò velocemente il capo e sbatté le palpebre con stupore, poi, quando vide chi era appena entrato, si rilassò e fece un lieve ed educato sorriso.
«Oh, buongiorno, signor Holmes. Puntuale come un orologio svizzero» disse alzandosi dalla sedia, per poi avvicinarglisi e stringergli la mano.
Il suo sguardo si posò poi su Sherlock, di cui notò immediatamente il contrasto tra i riccioli scuri e la pelle candida del viso, sul quale brillavano due iridi azzurrissime e spiccavano due zigomi alti e marcati.
«Lei dev'essere Sherlock Holmes. John Watson, piacere di conoscerla» disse gentilmente, porgendogli la mano.
Sherlock gliela strinse e fece un lieve cenno con il capo, ma non parlò, prendendo invece a scrutarlo con attenzione da capo a piedi (uomo sulla quarantina, piuttosto basso ma dal fisico allenato, capelli biondi in un taglio militare, occhi blu, viso gentile e nel complesso piacente: insomma, niente a che fare con i precedenti psicologi, e questo era già un considerevole vantaggio); il professore sembrò non accorgersene o, se lo fece, sembrò non darci molto peso (ipotesi più probabile. A quanto pareva era già preparato a tutto quello che ci si poteva aspettare da un Holmes).
«Molto bene, vi lascio dunque alla vostra chiacchierata, avrete occasione di presentarvi meglio durante la seduta. Ho delle questioni piuttosto urgenti che richiedono la mia attenzione» disse il maggiore degli Holmes, lanciando un'occhiata al fratello. «Comportati bene, Sherlock»
«Oh, come osi insinuare che farei il contrario?» rispose l'altro con un sorrisetto sghembo.
Il politico sospirò e alzò gli occhi al cielo, per poi voltarsi e incamminarsi verso la porta, che venne chiusa una volta oltrepassata.
Fu così che Sherlock e il professor Watson rimasero da soli.
Il gioco era iniziato.
«Uh...prego, si accomodi» disse John dopo qualche istante di silenzio, posizionando due sedie una di fronte all'altra al centro della stanza. «Non è il massimo della comodità, ma...»
«Andrà bene» lo interruppe Sherlock, togliendosi il lungo e raffinato cappotto e appendendolo allo schienale della sedia su cui prese posto.
Il professore sorrise e, dopo aver riordinato alcuni fogli sulla sua scrivania, si sedette di fronte a lui; per qualche secondo si massaggiò distrattamente la gamba destra, poi intrecciò le mani e se le posò sul grembo.
«Allora...Quanti psicologi ha visto prima di me?» chiese pacatamente.
Il moro sollevò un sopracciglio. «Dipende da cosa intende. Nelle ultime settimane ne ho visti cinque. In tutta la mia vita...beh, non saprei dirle, è un'informazione inutile che ho volontariamente rimosso».
John inclinò il capo e sbatté velocemente la palpebre, aggrottando di poco la fronte. «E nessuno le è stato d'aiuto?»
«Ma che brillante deduzione, sono colpito. Oltre al fatto che sia stato Mycroft a mettersi in testa la ridicola convinzione che io abbia bisogno d'aiuto, quelli da lui contattati erano idioti di prima categoria. E non posso essere sicuro che lei faccia eccezione».
Il professore assottigliò lo sguardo e arricciò le labbra, accavallando le gambe; Sherlock osservò quella reazione e riuscì a leggerci chiaramente un primo accenno di nervosismo.
«Dunque, suo...suo fratello mi ha detto che le piace risolvere crimini» disse con tono ancora calmo, dopo essersi schiarito la voce. «Posso sapere com'è nata questa passione?».
L'altro fece una smorfia offesa. «Ne parla come se fosse un hobby da casalinga. Non è una "passione", è un lavoro»
«Quindi lei lavora per la polizia?»
«Lavorare per quegli idioti di Scotland Yard? Dio, no. Loro consultano me quando brancolano nel buio, il che accade praticamente sempre»
«Ma la polizia non...non consulta i dilettanti».
Sherlock lo trapassò con lo sguardo e lasciò trascorrere parecchi istanti di silenzio teso, disturbato solo dal ticchettare delle lancette dell'orologio.
Poi lo scansionò come aveva fatto poco prima, stavolta per ricavare informazioni diverse dall'aspetto fisico.
«Lei è un ex soldato che non è mai riuscito a riabituarsi alla vita civile, dopo il congedo non ha avuto altra scelta se non quella di dedicarsi alla sua attuale professione, che però non è di certo la più adatta a soddisfare il suo innato desiderio d'azione. Conseguenza: zoppia psicosomatica, ho avuto modo di notarla quando si è alzato per stringere la mano a mio fratello. È stato sposato, ma sua moglie è morta: ho visto la fede sulla sua scrivania accanto alla sua foto. Il suo orologio da polso è un costoso modello che di certo lei non avrebbe comprato da sé, considerando che indossa vestiti vecchi di almeno tre anni e compra dopobarba economici, perciò lo indossa perché ha un particolare valore sentimentale: è un regalo di sua moglie. Non è un amante della tecnologia: nonostante la scuola sia dotata di computer, non ce n'è traccia in questo ufficio, infatti lei preferisce usare appunti cartacei; la calligrafia sulla cartolina appesa alla bacheca dietro di lei è inconfondibilmente femminile: le è stata mandata da sua sorella, non da un'altra parente, poiché, dato il suo passato militare, non credo abbia una famiglia molto allargata, o almeno non ne è in contatto. Come vede, aveva ragione»
«Avevo ragione...su cosa?»
«La polizia non consulta i dilettanti».
Calò il silenzio e John lo fissò a bocca aperta senza muovere un muscolo: l'unico movimento percettibile era l'alzarsi e l'abbassarsi del suo petto per il respiro leggermente accelerato.
Poi sbatté le palpebre e scosse leggermente la testa, sbalordito. «Ed è riuscito a dedurre tutto questo solamente...osservando?»
«Oh, è stato piuttosto semplice».
Il professore fece una breve risata incredula, inumidendosi poi le labbra; non c'era da sorprendersi più di tanto, si disse, i due fratelli Holmes dovevano pur somigliarsi in qualcosa, e cos'altro, se non l'incredibile intelligenza?
Sherlock posò i gomiti sui braccioli della sedia e congiunse i polpastrelli sotto il mento, andando più a fondo nella sua analisi. «Ho saputo che lei ha collaborato con mio fratello in una delle sue missioni top secret e che voi due non siete in ottimi rapporti. Cosa può essere successo? Non credo certo sia una questione di soldi, quindi forse è una vicenda personale, forse era coinvolto qualcuno che lei conosceva. Forse c'entrava sua moglie»
«Forse dovrebbe andarci piano».
Le labbra di Sherlock si stirarono in un sorrisetto quasi provocatorio. «Ci ho preso, non è vero?»
«La smetta».
La voce di John non era più gentile e pacata, bensì ridotta a qualcosa di molto simile al basso ringhio di un cane che, prima di mordere, avverte chi lo sta infastidendo; normalmente Sherlock avrebbe tranquillamente ignorato quell'avvertimento, continuando a parlare con noncuranza fino a distruggere la sua vittima pezzo per pezzo.
Ma non quella volta.
Quella volta l'aspirante detective ebbe la sensazione che non si sarebbe sentito soddisfatto e compiaciuto di se stesso una volta fatte crollare le difese dell'uomo seduto di fronte a lui.
Chi sei tu, John Watson?
Dopo aver sostenuto lo sguardo scuro e minaccioso del professore per un tempo che nemmeno lui seppe definire, si alzò dalla sedia e recuperò il cappotto, infilandoselo lungo il breve tragitto verso la porta; prima di uscire si girò un'ultima volta, sollevandosi il bavero. «Ci vediamo, John».
John rimase a fissare il vuoto fino a quando i passi di Sherlock non si furono dissolti lungo il corridoio, per poi alzarsi con rabbia, sedersi alla sua scrivania e scaraventare dei fogli in aria con una manata.
Appoggiò i gomiti sulla superficie in legno e si passò una mano sul viso, fermandola sulla bocca.
Diavolo, neanche dieci minuti con quell'uomo e quello era  il risultato. Come avrebbe fatto a continuare, se quella scena si fosse ripetuta ad ogni incontro?
Non aveva pensato all'eventualità che Sherlock potesse arrivare volontariamente a toccare tasti dolenti, o meglio, aveva sperato che non accadesse, ma si diede dell'idiota per aver anche solo preso in considerazione l'idea che un Holmes potesse curarsi dei sentimenti altrui.
Eppure sentiva una strana sensazione.
Era nervoso e irritato, questo sì, ma quando guardò la sua mano sinistra, a cui aveva un tremore intermittente (in passato da lui scorrettamente diagnosticato come disturbo da stress post-traumatico), e la vide perfettamente immobile, una voce nella sua mente gli disse che quello era proprio ciò di cui aveva bisogno: qualcuno che lo stimolasse, che facesse uscire il soldato che era in lui.
Quella con Sherlock Holmes sarebbe potuta diventare una sfida personale.
Si sfilò il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni e cominciò a digitare un messaggio, cercando di non premere i tasti con troppa violenza. 

A: Mycroft Holmes
Martedì, alle quattro. Si assicuri che venga.
[10:18 a.m.]




 

Prima e terza parte: https://youtu.be/oY13UXa7yU8
Quarta parte: https://youtu.be/LPy2DW-H3-I

   
 
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