True
Jack non era mai stato puro. Era
sempre stato
sporco, sbagliato; solo il suo corpo splendido impediva di scorgere la
brutalità che, strisciante, covava nel profondo del suo
animo. I suoi innocenti
occhi smeraldini erano solo una maschera, un muro che copriva il suo
vero Io fatto di discordia e
orrore, di
follia. All’apparenza era solo un giovane ragazzo, bello come
il sole, che
vendeva il proprio corpo.
Lui stesso
l’aveva definita un’azione sporca, nel
momento in cui gli era stata proposta – “Hai
un viso davvero carino, dovresti prostituirti”, gli
aveva detto Lacie, quel
giorno freddo in cui si era seduta di fianco a lui, scrutandolo
curiosa.
Nonostante l’imbarazzo iniziale, non aveva potuto far a meno
di sentirsi
adulato, ricevendo quello che in apparenza sembrava un complimento.
Jack non si
era mai definito bello; a malapena rammentava i tratti del suo volto,
quando
era lì, per strada, a portare avanti una vita misera. E fu
forse proprio quel
commento – magari pronunciato più per pena che per
altro – a stimolare i suoi
demoni interiori, quelli che per tanto tempo aveva combattuto ed
erroneamente
pensato di aver sconfitto.
Il fatto che
l’avesse mormorato lei, lei che non
aveva la minima idea di chi fosse, lei che era giunta lì per
puro caso, lei
che, con i suoi occhi scarlatti e luminosi, gli aveva sorriso, in
quella buia
giornata ordinaria ed eguale alle altre, lo faceva sentire in qualche
modo
importante. Perché lei l’aveva definito bello,
così, a primo impatto. Non gli
aveva dato del barbone come tutti gli altri; lei aveva riconosciuto la
sua
bellezza esteriore, ignara dell’orrore che vi era
all’interno. Se ne
rammaricava, il giovane ragazzo, che la povera Lacie fosse morta senza
sapere
realmente chi fosse Jack Vessalius. Quello vero, non quello stupendo.
Quello
brutale, folle e tremendamente ossessionato da lei.
Lacie probabilmente lo amava – almeno lo sperava
-, cantava sempre per lui quelle note malinconiche quanto romantiche.
Ma così
com’era arrivata improvvisamente nella sua vita,
improvvisamente se n’era
andata, trascinata da suo fratello nel profondo del baratro.
Poi era nata Alice, medesimo aspetto delicato e
gentile della madre. Stesso carattere mite, stessa dolcezza di Lacie,
stessa
ossessione di Jack nei suoi confronti.
Gli occhi di lei non erano cremisi, eppure la
figura tanto amata della madre si sovrapponeva, e a Jack sembrava che
non fosse
mai morta.
Si comportava con lei nella medesima maniera,
forse un po’ più gentile – era pur
sempre una ragazzina -, e nella medesima
maniera si instaurò nella mente di Alice la figura di Jack
come benevola e
innocua. Lui non voleva fosse così, entrambe lo amavano
– perché Lacie era viva
in ogni gesto della figlia – per ciò che di buono
c’era in lui: i serafici
occhi verdi, la chioma color oro, il sorriso perennemente dipinto in
volto.
Qualche volta si chiedeva a come sarebbe stato se
Alice avesse scoperto la sua vera natura – innocente
com’era, quella bambina
non s’era nemmeno resa conto dell’ossessione che
l’uomo aveva nei suoi
confronti. Forse l’avrebbe abbandonato, così come
aveva fatto quella traditrice
della madre del nobile. Forse sarebbe rimasta vicino a lui
incondizionatamente.
Gli sarebbe piaciuto, pensava, se qualcuno avesse
saputo chi fosse realmente Jack Vessalius. Non avrebbe dovuto indossare
quella
maschera per compiacere gli altri, avrebbe potuto interpretare la parte
dell’uomo brutale che interiormente era.
Dire che la servitù lo adorava era poco: la sua
gentilezza innata – finta – aveva colpito nel
profondo gli animi di coloro che
abitavano in quella regale magione, in cui anche lui da poco sostava
– se
pensava che prima viveva per strada, gli veniva quasi da ridere
amaramente.
Anche quel bambino dagli occhi eterocromi, uno
dorato e l’altro cremisi – proprio come quello di
Lacie – si era affezionato a
lui. Jack gli voleva bene, rammentava ancora in che stato aveva trovato
lui e
suo fratello. Se non erano morti era tutta fortuna, un miracolo.
“L’ennesima violenza subita per quello”,
aveva spiegato il più grande, il corvino dagli occhi
ambrati, marcando
particolarmente l’ultima parola e alludendo con un cenno del
capo all’occhio
vermiglio del minore. Jack si era fin da subito affezionato a quei due
ragazzini, forse perché la loro umanità e la loro
innocenza l’avevano colpito
nel profondo – forse un tempo anche lui era così.
Avrebbe tanto voluto
essere in quel modo,
innocente come la gente lo dipingeva. Anche Vincent, il suo
“fratellino e
servo”, e Gilbert, il maggiore, erano cascati nella trappola
dell’uomo nobile
d’animo. Ed anche con loro avrebbe dovuto fingere per sempre.
Nella ristretta cerchia di persone che considerava
“più che conoscenti”, l’ultimo
elemento era Glen – Oswald.
L’aveva da
subito incuriosito, in particolare il
rapporto di parentela con la sua Lacie. Ed era per questo che
l’odiava. L’aveva
lasciata morire. Lui, che era il suo adorato fratello,
l’aveva lasciata
appassire nel nulla di Abyss. Ma era destino, si diceva. Gli occhi di
Lacie la
classificavano come di natura non umana, come Figlia del diavolo, e quella era l’unica scusa
con cui
tirava avanti, l’unica che gli impediva di non accanirsi
contro i Baskerville –
ed odiava anche Lacie, nonostante non lo volesse ammettere a
sé stesso, perché
se n’era andata. E faceva buon viso a cattivo gioco anche con
loro, con lui.
L’aveva sempre paragonato all’acqua, Glen.
L’acqua è insidiosa, bella quanto
letale – quante volte la sua adorata giovane dagli occhi
vermigli era affogata
nel suo finto Io?
Era come acqua, diceva.
Non si riusciva a scorgere
la sua vera natura.
Poi, dopo la nascita di Alice, fu un lento
processo di degrado. Forse la stessa apparsa della ragazzina fu
essenziale per
lo scaturirsi del suo essere “pazzo”.
E Jack era terribilmente
normale e innocente nella
sua pazzia. Lo faceva per Lacie, per portare il mondo da lei. Quale
azione
poteva essere più nobile?
Dopo successe quel che successe: la maschera di
gentilezza si sciolse, il lato brutale venne fuori. E la
città venne
risucchiata nell’Abisso. E tradì la fiducia di
tutti. E mostrò chi era Jack
Vessalius. Il vero Jack Vessalius. Senza bellezza o allegria, solo la
sua
cattiveria. L’avrebbero odiato, ma era il suo vero Io.
Dopo che fu passato un secolo dalla tragedia,
quando controllava corpo e
mente di Oz Vessalius – anche se il corpo non gli apparteneva
completamente,
anzi, affatto -, del B-Rabbit,
rammentava ancora compiaciuto le urla sconcertate di Gil, lo stesso
servo che
cent’anni prima aveva trovato in stato pietoso. Lo stesso
servo che, durante la
tragedia, con freddezza e precisione, aveva colpito brutalmente.
L’aveva ferito
sulla schiena, e se non fosse stato uno di loro
sarebbe morto irrimediabilmente. Poi erano passati anni, e i loro
sguardi si
erano incrociati di nuovo. Forse per la perdita di memoria, forse per
ceca
fiducia, ma il ragazzo gli aveva creduto quando aveva affermato che
quella
ferita era stata causata dal tentativo di proteggere lui, Jack, da
Glen. Ed
invece era stato totalmente il contrario, era stato lo stesso Vessalius
a colpirlo,
pronunciando poi quelle piatte parole –
“Glen… getta la spada, prima che uccida
il tuo piccolo e dolce servo”.
Poi fu un susseguirsi
d’eventi che dal corpo di Oz
– povero illuso che ancora sperava nel non essere un falso – non riusciva a
distinguere accuratamente. Rammentava solo
quelle urla assordanti, quelle di chi è appena stato vittima
di una tremenda
consapevolezza – come quella di essere stati totalmente
imbrogliati.
Quando Gilbert si era
reso conto che tutto ciò che
gli aveva detto era falso, Jack si era sentito quasi bene. Quando quel
ragazzo
tanto impacciato e incredibilmente gentile aveva sparato ad Oz,
associando la
sua figura a quella dell’”eroe”,
Jack, dall’interno di quell’effimero corpo, non
aveva potuto far a meno di
sorridere mellifluo. Quando aveva notato l’odio impresso
negli occhi dorati del
corvino - non l’adorazione verso la figura gentile e bella
del biondo, ma un
autentico sentimento di rancore verso il vero Io dell’uomo -,
Jack si era
sentito improvvisamente in pace con sé stesso. Gilbert lo
odiava. Lo odiava
talmente tanto da riuscire a sparare al proprio padrone, quello la cui
vita
avrebbe dovuto paradossalmente proteggere. E Jack avvertiva una
sensazione di
serenità espandersi in testa, perché, diamine,
non era più visto come
“l’eroe”, ma come “il
mostro”, quello che davvero era.
Ed anche se era odiato, era sé stesso. La sensazione di
essere riconosciuto per
quello che era veramente era più gratificante dei sorrisi
pacati che la gente
rivolgeva all’altra faccia della medaglia, a Jack,
“il bravo ragazzo”. Forse
perché per una volta non era più visto come il
giovane dalla bellezza delicata,
ma come un viscido verme che, per raggiungere i propri scopi, non si
sarebbe
fatto scrupoli ad usare chi gli stava intorno – e aveva
sempre fatto, ad
insaputa di tutti. E si sentiva terribilmente bene mentre brandiva
quella
spada, macchiata del sangue degli innocenti.
Finalmente non avrebbe
più dovuto nascondersi.