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Autore: _Pulse_    27/04/2009    0 recensioni
Giocherellavo con le chiavi nella tasca dei jeans guardando per terra con il sorriso sulle labbra, pensando alla conversazione con il mio fratellino, quando mi ritrovai direttamente sulla moquette rossa del corridoio, culo a terra e vista offuscata da un’ombra su di me. Quell’ombra era sicuramente di un ragazzo: aveva jeans extra-large, maglietta bianca e un cappellino, anch’esso bianco, che gli copriva la faccia. Se lo tirò su e solo allora capii due cose: la prima, che la dea bendata aveva visto chissà che cosa in me tanto da premiarmi; e per seconda, realizzai che avevo di fronte Tom Kaulitz. Proprio lui, in carne ed ossa, il chitarrista dei Tokio Hotel. Non potevo credere ai miei occhi. Pensai di strofinarli, ma la mia coscienza intervenne: No, non farlo Ary, poi si sbava il trucco. Non li strofinai più, ma in compenso li chiusi e li riaprii più volte: non cambiò nulla. Era la realtà, la pura e così irreale realtà. Avevo avuto un contatto fisico (e anche abbastanza violento) con il ragazzo dei miei sogni, il ragazzo irraggiungibile, il ragazzo di cui ero follemente innamorata in tutti i miei strani sogni. Proprio lui.
Era davanti a me e mi guardava.
«Ahio», dissi toccandomi infondo alla schiena, distogliendo per poche frazioni di secondo lo sguardo dal suo viso.
Genere: Triste, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sogno che è Realtà'
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Leb’ die sekunde, hier und jetzt - halt sie fest
Leb’ die sekunde, hier und jetzt - halt sie fest
Sonst ist sie weg - sonst ist sie weg…

 

 Leb’ die Sekunde – Tokio Hotel

 

 

Mi svegliai di colpo e aprii gli occhi. Sobbalzai vedendo che Tom era ancora sopra di me, la mano intrecciata alla mia, le labbra che sfioravano il mio collo. Sentivo il suo respiro lento, tranquillo.

Tutto tornò chiaro e vivido nella mia mente, ripercorsi tutta quella fantastica notte in tre secondi nemmeno: io, una ragazzina sulla soglia dei quindici anni, avevo avuto la mia prima esperienza sessuale – parlando da grande – con Tom Kaulitz, il chitarrista del mio gruppo preferito.

Cercai di spostarmelo di dosso, possibilmente senza svegliarlo. Mi alzai e andai a chiudere la finestra. Faceva già abbastanza caldo, però c’era vento. Prima di chiuderla, misi la testa fuori e urlai. Dovevo sfogarmi un po’. Volevo urlare al mondo. Chiusi la finestra. Mentre mi giravo verso il letto, mi guardai: ero in mutande e canottiera. La domanda venne spontanea: Quando mi sono rivestita? E così pure la risposta, con tanto di grattata di testa: Boh, che casino.

Andai in bagno e mi guardai allo specchio, appoggiando le mani ai lati del lavandino. In quel momento, guardando la mia immagine riflessa nello specchio, mi venne un dubbio. Ma avevo fatto bene a gettarmi così fra le sue braccia? Avevo fatto bene a fidarmi del mio istinto, senza dare un minimo di importanza alla ragione?

Avevo sempre pensato che per la prima volta l’avrei fatto con quello giusto per me, uno che conoscevo già da tempo e con cui ci stavo insieme da un po’, ma con Tom era successo tutto così all’improvviso che avevo i miei dubbi.

Mi ero sempre chiesta come sarebbe stato dopo averlo fatto, cosa sarebbe cambiato in me. Beh, sicuramente non ero più vergine, ma mi sentivo uguale al giorno prima, non era cambiato nulla di così relativamente importante in fin dei conti.

Addosso mi sentivo ancora tutti i baci di Tom, e quel dubbio, quella sensazione di insicurezza, di andare incontro a qualcosa del tutto nuovo, di ignoto. Non sapevo che cosa sarebbe successo, e questo mi metteva un po’ a disagio.

Mi tuffai sotto la doccia e non potevo smettere di pensare a tutto quello che era successo in una notte sola e alle eventuali conseguenze. Ero spaventata, un po’. Era una cosa nuova per me, non avevo mai provato qualcosa del genere; per non parlare della confusione che avevo sui miei sentimenti: non sapevo con precisione ciò che provavo per Tom, era una cosa davvero strana.

Si sentiva solo il rumore del getto dell’acqua. Quando lo spensi non si sentì più niente.

Mi vestii velocemente, come per nascondermi, e iniziai a pettinarmi i capelli bagnati. Non avevo per niente voglia di asciugarli e poi non volevo che Tom si svegliasse, quindi ci passai su l’asciugamano e scesi di sotto fregandomene. Dovevo parlare assolutamente con Anto, ne avevo bisogno.

La vidi al bar, in piedi di fronte ad un tavolo, che parlava e rideva, ma muoveva la gamba come sempre quand’era agitata. Mi avvicinai sorridendo e le presi una spalla, guardai oltre lei e mi mancò il respiro.

«Oh mio Dio», balbettai.

Avevo i Tokio Hotel, ad eccezione di Tom, di fronte. Non potevo crederci. Certo che di cose strane ne succedevano parecchie in quell’hotel, avrei dovuto esserne abituata ormai, ma non era così semplice.

«Ary!», gridò prendendomi le braccia.

«Tu…», balbettai ancora.

«Io cosa?»

«Li conosci?», chiesi arrossendo, sentivo i loro sguardi addosso.

«Beh… sì…», stava arrossendo pure lei, così si girò e mi presentò.

«Ragazzi, lei è Arianna, la… la mia migliore amica.»

«Ciao», dissi con un filo di voce.

Tutti mi salutarono sorridendo, l’unico che ci mise un po’ di più, che mi guardò con attenzione dalla testa ai piedi, fu Bill, che dopo non so quanto tempo mi aveva sorriso. Tirai un sospiro di sollievo: avevo superato una specie di test, a quanto pareva avevo tutte le carte in regola.

«Senti, possiamo parlare un attimo?», le chiesi.

«Ok, va bene.» Si rivolse a Bill, Gustav e Georg e si scusò, poi andammo a sederci ad un tavolo un po’ più distante.

«Che c’è Ary? Sembri preoccupata.»

«No, non sono preoccupata, è che… è successa una cosa un po’ strana. Un po’ molto strana.»

«Sputa il rospo, che è successo?»

«Ieri sera», incominciai sottovoce, sporgendomi verso di lei, «ho conosciuto Tom.»

«Dai, davvero? Non ci posso credere!» Le tappai la bocca e quando fui sicura che non urlasse più la liberai e continuai ancora più piano.

«Sì, ma non è finita qui. Ci siamo anche baciati.» Stava per tirare un altro urlo, ma glielo impedì coprendole la bocca con tutte e due le mani. «E quando sono tornata in camera tu eri sparita, mi dici dove cavolo sei stata? Beh, comunque. Ah, dicevo che quando sono tornata tu non c’eri. Sono andata a dormire, no? Il solito. Verso le due sento bussare alla porta, indovina chi era? Tom. Mi si è buttato addosso e ha iniziato a baciarmi… e… e l’abbiamo fatto.»

Quelle parole mi uscirono smorzate, quasi le avevo dette in labbiale, ma lei capì perfettamente. Stavo per ricoprirle la bocca, ma sul suo viso apparve un’espressione tormentata e seria come non l’avevo mai vista.

«Anto ti prego, dimmi qualcosa», la pregai.

Non avevo riflettuto per niente quella sera, né alle cause né alle conseguenze. Avevo un unico grande difetto: l’impulsività, seguivo sempre e solo l’istinto e a volte non era un bene, ma per il resto mi definivo come una ragazza che prendeva sul serio i suoi impegni, soprattutto quelli affettivi, non mi ritenevo una puttana, ma la sua faccia mi fece pensare il contrario. Che quello fosse il primo passo?

«Non sono una puttana, vero?», chiesi senza voce.

Lei spalancò gli occhi e mi accarezzò le guance, sorridendomi dolce. «Ma no, sciocca. Sono solo un po’ sorpresa, tutto qui. Insomma, è stata la tua prima volta… Giuro, non avrei mai pensato… Ma hai fatto la cosa giusta?»

«Non lo so, ieri sembrava tutta un’altra cosa… E se non fosse la cosa giusta?»

«Pazienza. Dai, non ti demoralizzare. Adesso raccontami tutto!»

La guardai e risi, era troppo forte. Lei mi fermò e mi fece guardare verso le scale, con un sorriso a trentadue denti sulla bocca: c’era Tom che stava venendo verso di me sorridendo e con le mani in tasca. Salutò con un gesto della mano il tavolo di Bill, Gustav e Georg e poi si fermò accanto al nostro, guardandomi piegando la testa sulla spalla.

«Ciao», mi salutò passandomi una mano sulla guancia.

Anto mi tirò un pizzicotto sul braccio.

«Ciao Tom, lei è Antonia, la mia migliore amica. Anto, lui è Tom.»

Odiavo fare le presentazioni e lei lo sapeva. Sarei arrivata ad odiare pure lei se avrebbe continuato a sorridergli così mentre gli stringeva la mano. Ma ero gelosa? Non riuscii a rispondermi perché proprio lei mi tirò un coppino dolce e si alzò per raggiungere gli altri e sedersi accanto a Bill per gustarsi la scena.

Tom mise una sedia accanto alla mia e si mise con le braccia incrociate sul tavolo e il mento su di esse. Mi guardava sorridendo in quel modo che mi rese assai difficile ricordare che dovevo respirare.

«C’è qualcosa che non va?», chiese.

Avevo un nodo alla gola che mi intrappolava le parole e prima di comporre una frase di senso computo dovetti comunque raccogliere i resti del mio cervello interamente spappolato da quel raggio di sole in mezzo a nuvole nere.

«Che cosa non dovrebbe andare?»

«Mmm… niente. Però, visto che mi hai lasciato da solo in camera tua, mi chiedevo…» Appoggiò le chiavi della mia stanza sul tavolo e lasciò in sospeso l’argomento.

Mi guardò sorridendo e mi avvicinò alle sue labbra mettendomi una mano sul collo, mi baciò sorridendo e poi si ritrasse.

E questo che cosa mi rappresentava? Esitava e non lo sopportavo. Perché non mi mollava direttamente al posto di baciarmi, di fare il tenero e di fare tutte quelle cose che adoravo? C’erano fin troppe anomalie in quel Tom, ma forse era vero, non era il Tom Kaulitz descritto normalmente dai giornali.

Mi prese le mani nelle sue e io lo guardai negli occhi.

«Beh, che c’è?», chiesi, visto che non sembrava voler dire qualcosa e io qualcosa volevo sentirmi dire, non importava se era una cosa buona o cattiva. Certamente non volevo stare lì come una mongola a guardarlo negli occhi in silenzio!

«Lo so che è una cosa davvero strana, però… Credimi, ma non è come le altre volte», disse.

«E con questo cosa vorresti dire?»

«Che cosa faresti se rimanemmo così? Intendo… io e te.»

«Beh, no lo so. Prima dovrei capire che cosa siamo, perché non credo averlo afferrato.» Era un’altra delle sue stramaledette anomalie che mi mandavano nel pallone.

«Ti giuro, è la prima volta che… sento di chiederlo. A volte, con certe ragazze, sembrava tutto così scontato; a volte c’era solo la nottata e poi ciao, tanti saluti. Con te, invece… Sto bene con te, sul serio. So che non ci conosciamo ancora bene, ma quello che è successo ieri sera…»

Diventai paonazza e lui se ne accorse, mi prese il viso fra le mani per fissare i miei occhi nei suoi e rise a bassa voce.  

«Gradirei una risposta se non ti scomoda», disse. «O ci vuoi pensare?»

Questa volta mi venne da ridere a me. Che cosa dovevo pensare? Quella situazione era talmente strana che potevo andare solo ad istinto, come ero abituata a fare. In un primo momento ero rimasta senza parole sia alla semidichiarazione che alla sua proposta. Qualcosa c’era nei suoi confronti, solo che ancora dovevo capire che cos’era.

«Ho alternative?», chiesi.

Lui sorrise e mi sussurrò un no prima di baciarmi sulle labbra, mordendomi il labbro inferiore.

«Quindi… proviamoci», sfiatai.

«Quanta fiducia che riponi in me, eh.»

«L’hai detto tu che non ci conosciamo ancora bene.»

«Giusto. Ok, allora…»

«Allora…»

«Stiamo insieme, da quello che ho capito.»

«Sì, credo di sì», sussurrai.

«Bene. Che fai, vieni là con me?», indicò con la testa il tavolo con suo fratello e i suoi amici. Anto mi guardava con un sorrisetto che conoscevo bene, mi avrebbe riempita di domande, come minimo.

«No, preferisco… Ci vediamo dopo.»

«Ok, come vuoi.»

Ci alzammo contemporaneamente e, impacciati com’eravamo riuscimmo quasi a scontrarci, perché io dovevo andare da una parte e lui dall’altra. Sorrisi mettendomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e Tom mi baciò sulla testa tenendomi la mano, che poi lasciò quando si diresse verso il tavolo e io verso le scale.

Avevo le chiavi della mia stanza in tasca e mi ci misi a giocare mentre aspettavo Anto nella rientranza delle scale. Quando arrivò di corsa mi prese per il braccio e mi trascinò con lei in camera, ridacchiando. Sarebbe stato il peggior interrogatorio subito da parte sua, ma che ci potevo fare? Lei era lei, appunto.   

 

Tom si sedette al tavolo di fianco al gemello e incrociò le braccia sul piano di legno bianco.

«Ciao», disse allegro.

«Oh, si è ricordato di noi…», scherzò Bill. «Che vi siete detti?»

«E prima di tutto, chi era? Come fai a conoscerla?», chiese Gustav.

«Non dirmi che è quella di cui parlavi ieri sera! È una bambina!», sbottò Georg.

Tutti inchiodarono Tom con lo sguardo, soprattutto per il commento di Georg. Aveva suscitato scalpore.

«Però è vero Tom, è piccola per te», disse piano Bill girando il cucchiaino nella sua tazza. E menomale che lui la sera prima non c’era.

«Quanti anni ha?»

Tom tossì per finta coprendosi la bocca.

«Tom, quanti anni ha?!», insistette Gustav.

«Quindici», tossì Tom. 

Tutti rimasero col fiato sospeso e il silenzio appesantì l’aria già tesa. Ed era solo prima mattina.

«Ma dico, sei scemo?!», gridò a mezza voce Georg.

«Ma che cazzo te la prendi?! Non sono fatti tuoi, Georg!», urlò Tom, tanto che tutti i presenti si girarono verso di lui.

Sbuffò e si appoggiò allo schienale della sedia sulla quale era seduto, a braccia conserte.

«Ehi ragazzi, basta litigare», intervenne Bill. Prese il fratello per un braccio e lo guardò negli occhi. «Vedi solo di stare attento, ok?» Tom annuì e così Bill lo lasciò.

«Posso solo sapere che ci hai fatto?», chiese Georg. Sembrava preoccupato, forse per me, forse per la reputazione della band.

«Non sono fatti tuoi», rispose secco Tom.

«Abbiamo il diritto di sapere», disse Gustav.

«Da quando voi avete il diritto di sapere con chi sto?»

«Da sempre», ammise Bill, anche se a bassa voce.

Tom sospirò e spiegò loro tutta la storia, senza tralasciare nulla. Sperava che almeno loro sapessero spiegargli ciò che aveva provato quella sera, si era quasi sentito soffocare al bisogno di avermi di nuovo accanto a sé, ma dubitava che potessero aiutarlo. Loro non erano in lui e non potevano vedere le sue emozioni, tutti tranne… Bill. Forse Bill sarebbe stato l’unico che avrebbe potuto farcela.

«Tu…», chiese il fratello, «tu che provi per lei?» Giocava con il cucchiaino, lo sguardo perso sul fondo della tazza.

«Io?», chiese Tom.

«Sì, tu. Sai, dopodomani si parte, non vorrei che lei ne soffrisse.»

«Dopodomani?! Dio, me n’ero dimenticato!» Si mise una mano in fronte e chiuse gli occhi sospirando.

Però nemmeno Bill sembrava così contento di partire di nuovo, che fosse anche lui nella sua stessa situazione?

«Ti piace Antonia?!», chiese Tom con il sorriso sulle labbra, indicando il gemello. 

Bill arrossì leggermente e sistemò una ciocca dei suoi capelli neri accanto al viso, prendendola tra due dita. Si morsicò il sorriso e per Tom non fu difficile leggere la sua espressione, i suoi pensieri. Così simili, ma così diversi.    

Anche se con Anto non era successo ancora niente, più o meno, Bill provava qualcosa di forte verso di lei, sembrava sinceramente più coinvolto di Tom, lui non sapeva nemmeno che voleva dire essere innamorati.

«Allora tu? Anche tu sembri preso da lei, forse ti sei persino innamorato», disse Bill in sua difesa.

Le parole di Bill arrivarono dritte al cervello di Tom come se lui fosse la sua coscienza, gli fecero capire la sua grave situazione.

Tom era istintivamente contro al modo brusco del fratello nel dirgli che probabilmente si era innamorato, infondo era vero: se davvero era così, se davvero era innamorato, non voleva che tutto venisse profanato in giro come una notizia qualunque.

Non era mai stato bravo a parlare dei suoi sentimenti, anche perché le uniche persone con cui li condivideva erano i suoi amici e suo fratello gemello, quindi non aveva avuto molte occasioni per esercitarsi. Uno sguardo e la maggior parte delle volte capivano senza l’uso di parole. Questa volta avrebbe dovuto spiegare bene a Bill, sperando che ne uscisse qualcosa. Le domande erano tante: Perché provava quell’attrazione così forte verso di me, anche se ci conoscevamo così poco? Perché quella sera non era riuscito a resistere al pensiero di starmi lontano per qualche ora? Perché si sentiva strano ogni volta che mi guardava negli occhi? Che si fosse innamorato sul serio? Da solo non riusciva a darsi delle risposte, e per questo sarebbe intervenuto Bill.

 

Non ricordavo nemmeno più quante domande mi avesse fatto, avevo perso il conto alla cinquantaquattresima, forse avevo lasciato perdere direttamente. Ma lei non era mai soddisfatta delle mie risposte monosillabi, quindi ero colpevole in parte.

«Quindi, quando siete andati giù al bar che cosa vi siete detti?»

Quante volte le avevo risposto a quella domanda? Forse più di tre. Ma sorrisi e ripetei, che cosa potevo contro di lei, contro la mia migliore amica di sempre? Nulla, lei era tutto quanto e io ero tutto per lei. Questo l’avevamo sempre saputo, forse eravamo state sorelle gemelle in una vita precedente, si sarebbe svelato il mistero della nostra unione spontanea e inspiegabile.

Anto e Ary. A+A 4ever, scrivevamo sui banchi di scuola. E così era rimasto. Ci conoscevamo dalle elementari, mi ricordavo bene quel giorno in cortile. Eravamo sedute sull’erba, vicine. Anto prese una margherita e me la diede, sorridendo. Da quel giorno, il resto della mia vita l’avevo passata con lei. Le volevo un bene immenso e facevamo quasi tutto assieme, anche se a volte i suoi genitori erano davvero degli scassa palle. Come quella volta che non la lasciarono venire al mare da me per una settimana, oppure quando non l’avevano fatta venire con me a vedere quello che sarebbe stato il nostro primo concerto dei Tokio Hotel: dovevamo andarci assieme, con un’altra mia amica, ma mi ritrovai sola con l’altra mia amica, perché i suoi non si fidavano! Ma di chi, poi?! Di lei, di me o della mia amica?!

Antonia era affidabilissima, potevo contare su di lei in qualsiasi momento, per qualsiasi cazzata (quando i suoi non si mettevano in mezzo, ovviamente), lei c’era sempre stata e cercava sempre di aiutarmi. Ci intendevamo come nessun altro al mondo, manco fossimo gemelle, come nella mia teoria. Eravamo similissime e così diverse, quasi come Bill e Tom, uguali, ma opposte.

La mia Anto. Nessuno me la doveva toccare, non avrei permesso a nessuno di farla soffrire, e neanche di cambiarla. Era perfetta così per me: il suo modo di fare stravagante e il modo con cui trattava me, con la tenerezza di una sorella maggiore; ecco, per me era come una sorella maggiore. Era lei che, in qualche modo, mi proteggeva, che mi confortava e che mi aiutava sempre. Io non lo facevo quasi mai. Non che non volevo o che non ne ero capace, ma lei se la cavava sempre da sola, e riusciva sempre a raggiungere il suo obbiettivo, a qualunque costo. Per forza, con la testardaggine che aveva!

«Ora tocca a me con le domande», dissi sorridendo e interrompendola. «Dimmi dove sei stata tutta la notte.»

«Quando tu eri qui che te la spassavi con Tom? Uhm, non dovresti ringraziarmi? Ti ho fatto un favore!»

Ci guardammo e risimo, ma quanto era fuori?

«No, seriamente, dove sei stata?»

«Ma io non ho finito di farti domande! È ancora il mio turno.»

«Aspetta un po’», mi avvicinai e sfiorai una sua guancia rosea con il dito. «Ti vergogni di me?»

Lei rise e mi spinse via, riprendendo a farmi domande. Io non la ascoltai e incominciai un discorso mio: «A te piace Bill, questo mi è chiaro. Quindi, che hai intenzione di fare?»

Si mise appoggiata alla parete scoraggiata e guardò fuori dalla finestra. Alzò le spalle e non potei più stare zitta, vederla in quelle condizioni per me era una sofferenza.

«Ce la farai con Bill, come sempre, come tutte le cose che vuoi e tenti di raggiungere ad ogni costo. Ce la farai giusto? Non devi perdere le speranze.»

L’unico difetto che aveva, era quando l’ostacolo da superare era più grande di lei, come i suoi genitori o la sua grande e più profonda timidezza, allora tornava indietro e lasciava perdere. Solo in questi rari casi si arrendeva. E uno di questi casi era appunto la timidezza con i ragazzi: per lei Bill era un sogno irraggiungibile e solo il pensiero di raggiungerlo le faceva venire i brividi e la voglia di lasciar perdere.

«Non lo so Ary», tentennò.

«E cosa intendi fare? Aspettare lui, la sua prima mossa in eterno? È questo che vuoi? Lasciarlo fare? Se non ci provi tu, lui come fa a sapere che ti piace? Lui è cotto di te, si vede lontano chilometri! Da come ti guarda, come ti sorride, come ti parla... non puoi lasciar scorrere e vedere come va a finire, in fondo, che cos’hai da perdere?» Non mi ero neanche accorta che mentre le parlavo l’avevo presa per i fianchi. La guardavo e lei mi sorrideva.

Parlavo io, proprio io che ero andata a letto, e per la prima volta, con un ragazzo per il quale non sapevo ancora cosa provavo. Io davo consigli? Avrei dovuto consigliarle di non seguire i miei consigli, sarebbe stato meglio, ma lei non la pensava al mio stesso modo: infatti mi si gettò al collo abbracciandomi.

 

Quel pomeriggio sembrava non passare mai, ora dopo ora ne sentivo la mancanza e quando sentii bussare alla porta balzai in piedi e mi buttai addosso alla porta sperando che fosse lui, ma ne rimasi delusa. Il mio cuore fece crack e mi girai guardando Anto seduta sul suo letto a gambe incrociate, che ancora non aveva finito di farmi domande. Non ne potevo più.

«Anto, credo sia per te», dissi indicando Bill alla porta.

Anto alzò la testa e un attacco di timidezza acuta la travolse facendola diventare rossa come un peperone. Trattenni le risate quando si alzò e si sistemò la maglietta sui fianchi.

«Ciao», disse sorridendo impacciata.

«Ciao», le rispose Bill.

Mi tuffai di nuovo sul letto e mi coprii il viso con il libro aperto. Ma dove si era cacciato Tom? Perché non veniva da me? Già non ci eravamo visti per tutto il pomeriggio perché erano andati ad un’intervista ad una radio, in più non lo vedevo quando c’era? No, non mi stava bene. Ma perché mi comportavo in quel modo? Non riuscivo a stare senza di lui?

Certo!, pensai, ma forse non era proprio così. Che mi fossi innamorata per davvero?

«C’era Tom che non faceva altro che parlare di Ary. Ary di qui, Ary di là… Gustav e Georg non ce la facevano più. A dir la verità nemmeno io, però loro non sono abituati quanto me.»

Mi tolsi il libro dalla faccia e mi misi in ginocchio sul letto, rivolta verso di lui.

«Davvero non faceva altro che parlare di me?», chiesi agitandomi.

«Sì, ci ha fatto una descrizione dettagliata di te», sorrise malizioso e in quel momento volevo scavarmi una fossa e seppellirmici dentro. Aveva parlato di me con loro? La vergogna mi stordì per un minuto. Avevo provato più vergogna in quei giorni che in tutta la mia vita.

«Credo che Gustav e Georg te ne saranno grati se lo porti via da loro per un po’, non vedeva l’ora di vederti.»

«E allora perché non è venuto lui?», chiesi senza pensare, ma lo sguardo di Bill verso Anto mi fece capire tutto. «Ok, allora vado a salvarli.» Saltai giù dal letto e uscii dalla camera lasciandoli soli, ancora sulla porta.

Bill la guardò negli occhi e le sorrise. Anto credeva di morire davanti a quell’angelo sceso dal paradiso. Si piacevano però nessuno dei due aveva il coraggio di fare la prima mossa.

«Dai, andiamo a fare due passi.» Bill la prese per mano e la portò fuori dalla stanza, incominciarono a camminare per i corridoio fiancheggiando le stanze, ancora mano nella mano.

Anto si morse il labbro inferiore guardando la sua mano tenere la sua, il contatto con lui era peggio di un elettroshock, solo che era molto più piacevole, non si sarebbe staccata mai.

«Allora, come va?», le chiese.

«Bene, e tu?»

«Non c’è male.»

«Che avete fatto oggi?»

«Intendi all’intervista? Mm, è stata noiosa… Alla fine ci chiedono sempre le stesse cose.»

«Immagino.»

«Vi siamo mancati?» Sollevò il sopracciglio sorridendo e Anto ebbe paura di svenirgli tra le braccia, ma obbligò le sue gambe a camminare e il suo cervello a collaborare rimanendo lucido.

«Ary non faceva altro che lamentarsi. Ma quanto ci mettono, perché Tom non torna… Credo che si stia innamorando.»

«Io in verità…», Bill si fermò e la guardò negli occhi sorridendo e prendendole i fianchi. «Io in verità volevo sapere se io ti ero mancato.»

Anto impose ai suoi polmoni di continuare a fornire ossigeno in tutto il corpo, anche perché il suo cuore stava scoppiando e doveva pur calmarsi in qualche modo.

«Oh», disse a pochi centimetri di distanza dal suo viso.

Abbassò lo sguardo e si guardò lo smalto scuro sulle unghie appoggiando i pugni sul suo petto. Se non si perdeva in quegli occhi magnetici le era molto più semplice essere sé stessa, cioè senza arrossire e senza la voce che tremava come se fosse nelle vicinanze di un martello pneumatico.

«Sì, mi sei mancato. Abbastanza da non desiderare altro che stare di nuovo con te.» Alzò lo sguardo e non riuscì nemmeno a capire come, ma le labbra di Bill imperversavano già sulle sue.

Anto gli mise le braccia intorno al collo e si baciarono, lei in punta di piedi e lui che la teneva stretta a sé, facendole sentire il proprio cuore battere veloce nel petto. O era quello di lei?

 

Intanto io arrivai di fronte alla camera di Tom e stavo per bussare, quando sentii la voce di Georg parlare con lui.

«Devi dirglielo Tom», disse come se glielo avesse ripetuto un’infinità di volte.

«Lo so, lo so! Credi che non lo sappia?! Ma non so come dirglielo. Sembra così… sensibile. Come la prenderà?»

«Come qualsiasi ragazza, Tom. Che cosa pretendi? È il nostro lavoro, non possiamo fermarci in un posto in eterno, lei dovrebbe saperlo.»

«Sì, Georg ha ragione. È meglio se glielo dici subito, che all’ultimo momento. Dovete parlarne il più presto possibile.»

Non ci voleva molto per capire che stavano parlando del tour, della loro imminente partenza e di me. Che parlassero del loro lavoro non mi aveva scossa, ma piuttosto il fatto che si preoccupavano perché Tom doveva dirmelo era piuttosto strano. Che cosa provava lui per preoccuparsene così tanto? 

Chiusi gli occhi sospirando e bussai alla porta. Attesi che qualcuno venisse ad aprire, in modo tale da fargli finire il discorso. Venne Tom e quando mi vide mi abbracciò e mi diede un bacio leggero sulle labbra.

«Ciao», risposi.

A sentire quella notizia non mi ero sentita particolarmente triste, ma vedendo Tom e collegando che non l’avrei visto per chissà quanto, mi sentii mancare la terra sotto i piedi. Un dolore improvviso mi colpì in pieno petto e dovetti sbattere le palpebre per riprendermi del tutto.

«Andiamo a farci un giro?», chiesi raccogliendo la voce.

«Sì, certo.» Chiuse la porta dietro di sé e mi raggiunse prendendomi per mano.

Attraversammo il corridoio in religioso silenzio, ogni tanto Tom mi guardava senza farsi notare, e uscimmo nel cortile all’interno dell’hotel. Era uno spiazzo verde con delle aiuole in fiore e delle panchine, illuminato da qualche lampione.

Mi misi seduta su una panchina e raccolsi le gambe al petto, Tom era di fronte a me, appoggiato alla parete.

L’aria era afosa, pesante e faceva caldo. Era metà luglio. Non si sentiva niente. A parte il rumore del motore delle macchine che viaggiavano, in strada. Viaggiavano e pensavano solo alla loro meta. Non pensavano a quello che pensavo io. Non immaginavano neanche ciò che provavo. Il mio cuore era a pezzi, anche se non lo davo a vedere.

La tenue luce della luna ci illuminava.

Pensai a Tom che doveva partire, alla difficoltà che aveva nel dirmi che sarebbe successo. Ma non sarebbe stato un addio il nostro, vero? Chissà se ci saremmo rivisti, risentiti, riabbracciati, ribaciati. I suoi baci. I suoi caldi baci sulla mia pelle ricoperta dai brividi, come quella notte. Mi ritornò in mente la notte prima. E mi fece stare ancora più male. Come avrei fatto senza di lui? Tom mi avrebbe lasciata sola, sola con i bei ricordi. La mia stella, Tom, che mi illuminava con il suo sorriso. Ancora un giorno e il suo sorriso non l’avrei mai più visto a distanza ravvicinata. Mi avrebbe dimenticata, come tutte quelle che entravano e uscivano dalla sua vita, dalla sua camera da letto.

Che fossi stata solo una tra le tante? Mi venne la nausea e cercai di non pensarci più. Non potevo nemmeno pensarci.

«A che pensi?», mi chiese soffiando il fumo nell’aria. Non mi ero accorta che si era acceso una sigaretta, quant’ero rimasta a pensare escludendomi da tutto il resto?

I miei genitori fumavano tutti e due e oltre a non sopportare l’odore, non sopportavo le motivazioni stupide per la quale si facevano solo del male. Ma non sapevano che il fumo faceva male?

Nella mia scuola era più o meno lo stesso. Diciamo che un buon ottanta per cento di studenti fumava e io ogni giorno mi chiedevo sempre perché. Per essere più grandi? Per credere di esserlo? Perché ormai non potevano più farne a meno? Erano deboli, ecco perché non avevano la forza di dire di no. Difficilmente qualcuno di forte, se si impone degli obbiettivi riesce a non raggiungerli.

«Quando hai iniziato?», indicai con un movimento del capo la sigaretta che aveva fra le dita.

«A fumare? Mmm, un po’ di tempo fa.»

«E perché?»

«Georg, lui me ne ha offerta una e io ci sono cascato in pieno.»

Beh, perlomeno riconosceva che aveva sbagliato e ci era cascato come qualsiasi stupido che inizia.

«Anche i miei fumano», dissi guardando il cielo stellato. «Mi sono chiesta tante volte che cosa avrebbero fatto se anch’io mi mettessi a fumare. Che avrebbero da rimproverarmi? Come hanno sbagliato loro, potrei sbagliare anch’io, no?»

Lo guardai spegnere la sigaretta nel posacenere e togliersi la felpa. Si era accorto che mi stavo tenendo stretta il petto per il venticello fresco di quella sera. Me la diede e mi accorsi che ci stavo dentro cinque volte, ma il suo profumo era buono. Risimo guardandoci negli occhi e poi mi avvicinai e mi appoggiai con il viso nell’incavo della sua spalla.

«Puzzi di fumo», sbuffai muovendo la mano.

«Scusa.»

«Perché non smetti? Credi di essere più figo?»

«No, certo che no! Ma sai cos’è… l’abitudine.»

«Cazzata», gli puntai il dito sulla guancia. «È la solita frasetta insensata che si dice ai bambini. Sei solo debole se non riesci a smettere. Almeno questo è ciò che penso io.»

Tom rise a bassa voce e raccolse le mie gambe di traverso sulle sue, accarezzandomi la schiena con la punta delle dita, sotto alla felpa. Improvvisamente mi strinse al suo petto e con l’altra mano spostò i capelli dalla mia guancia e mi baciò teneramente. Il cuore mi batteva come se lo stessi baciando per la prima volta.

In quel frangente capii che non volevo che se ne andasse, non poteva lasciarmi. Era il loro lavoro, ma non volevo lasciarlo andare. Stava diventando troppo importante, lo sentivo, ma non facevo nulla per levarmelo dalla testa, invadeva i miei pensieri sempre, ovunque e comunque. Sarebbe stato difficile stargli lontano, era quasi una dipendenza ormai, e non volevo abituarmi alla sua assenza.

E sai perché?, mi chiese la mia coscienza con la voce di Anto, Perché sei innamorata!

Ero innamorata? Come facevo a saperlo?

«Tom?» Misi le mani sul suo petto e lo guardai negli occhi, era arrivato il momento. «Quando partite?»

La sola domanda mi aveva fatto più male del previsto, non immaginai la risposta. E sa avessi avuto troppo poco tempo? Come avrei fatto a metabolizzare la data della nostra separazione? Mi sentii morire e affondai il viso nel suo petto, ero innamorata e grazie a quel dolore nel petto ne ebbi la piena conferma.

«Ary», disse preoccupato accarezzandomi i capelli sulla schiena.

Scossi la testa e mi strinsi fra le sue braccia.

«Dopodomani», sospirò.

Rimasi impietrita a quell’unica parola. Poteva farmi così male? Era un normale effetto collaterale dell’amore?

«Ho fatto l’errore più grande della mia vita», dissi stringendo i pugni.

«Cioè?»

«Innamorarmi di te, farlo con te e mettermi con te. Ma guada, sono tre gli errori.»

«Ma sei sicura che...»

«Shhhhh, fammi finire. Però, se potessi tornare indietro, rifarei tutto quanto.» Tolsi il dito dalle sue labbra perfette e bisbigliai vicina al suo orecchio: «Tom, non voglio che tu te ne vada.»

«Lo sai che non posso fare altrimenti.»

Sfiorai il suo labbro inferiore con il dito e un brivido mi percorse, ma non avevo freddo, ero quasi del tutto sicura che fosse il mio cuore a vibrare nella cassa toracica.

«Ti sei mai innamorato?», gli chiesi a mezza voce con le labbra quasi sulle sue.

«No, non veramente», rispose. «Tu?»

Annuii e le sue labbra si incastonarono perfettamente tra le mie, respiro contro respiro.  

«Mi sono innamorata di te.» Gli accarezzai il collo e i nostri corpi erano così vicini che non riuscivo quasi più a capire cosa fosse mio e cosa suo.

Quanto avrei voluto mettere in sottofondo la canzone Leb’ die Sekunde dei TH. Era quello che dovevo fare, vivere il secondo, anche un secondo in più con Tom mi avrebbe fatta star meglio. Non dovevo già pensare al futuro, anche se non era poi così lontano. Mi sarebbe mancato da morire, lo sapevo. A lui sarei mancata?

Tom mi prese per mano e tornammo dentro, iniziava a farsi davvero tardi e visto che il giorno dopo sarebbe stato via con la band per una partecipazione televisiva doveva essere riposato.

«Ah, Bill prima è venuto a prendere Anto. Secondo te cos’è successo?»

Alzò le spalle, sorridendo: «E lo chiedi a me? Che ne so io? Dovrei chiedere al mio fratellino.»

Parlava di Bill con il sorriso sulle labbra. Era davvero legatissimo a lui, lo si capiva solo guardandolo: sorrideva, aveva gli occhi brillanti.

«Ma quanto vuoi bene a Bill?»

Tom arrossì un pochino: «Beh, in fondo è mio fratello.» Lo guardai con la faccia apprensiva e lui crollò: «È la persona a cui tengo di più al mondo, come farei senza di lui?», sorrise.

«Che bel sorriso che hai, te l’ho mai detto?»

«No, però grazie.»

«Sai, io, a dire il vero, so ben poco di te, della tua famiglia… Raccontami un po’», disse Tom, tutto curioso di sapere sulla mia vita di ogni giorno.

«Non so che dirti. Beh, vado a scuola, a settembre inizio la seconda. Faccio un liceo tecnico, turistico.»

«A Milano, no? Bello.»

«Sì. A me piace. Si fanno gli stage… E studiamo lingue estere: inglese, tedesco e dalla terza anche il francese. Però io lo odio il francese, oui!» Risimo. «Poi, che altro ti posso dire? In famiglia siamo in quattro: mio papà, mia mamma, mio fratello e io.»

«Hai un fratello? Come si chiama?»

«Davide.»

«Quanti anni ha? È più piccolo o più grande di te?»

«Ne ha fatti dieci a giugno.»

«E com’è?»

«È biondo…»

«No, non com’è lui fisicamente! Avere un fratello più piccolo.»

«Ah! Beh… com’è? Normale.» Arrossii, così non rimasi molto a parlare di lui. «E, invece, com’è avere un fratello gemello?»

«È una figata.»

«Magari ce l’avessi io una sorella gemella!»

«Beh, da piccoli, potevamo scambiarci, ci confondevano! Ci divertivamo come pazzi; poi, ci si capisce al volo, uno sguardo e ci capiamo, ma per il resto, niente di particolare, forse c’è un legame più profondo tra gemelli. Io non ce la farei senza Bill: è uguale a me, è una parte di me.»

«Come dite nella vostra canzone», feci notare.

«Sì. Ti piace?» 

«Un fracco, è bellissima, ogni volta che la ascolto mi viene da piangere. Anche ieri sera al concerto, a piangere come una scema. Poi mi piace la melodia, ma io non la so fare, uffa!»

«Suoni la chitarra?»

«Diciamo di sì, l’ho studiata alle scuole medie, ma poi ho abbandonato.»

«Ma la classica?»

«Sì, classica. Sai quale chitarra preferisco?»

«Tra le mie?»

«Si. La Gibson Les Pauls Custom nera.»

«Però! Te ne intendi, eh? Quella è una delle più belle secondo me, oltre che ad essere una delle migliori.»

«Ma anche quella bianca è bella.»

Tom mi attirò a sé e mi baciò un’ultima volta prima di andare verso la sua camera. Io ero di fronte alla mia e esitavo a lasciarlo, avevo paura di non trovarlo più la mattina dopo, ma mi dovevo controllare.

«Buona notte.» Mi accarezzò la testa e se ne andò, io lo guardai allontanarsi con le mani fredde e senza la sua felpa, ma sentivo ugualmente il suo profumo su di me.

«Tom!»

Si girò e mi guardò con quel sorriso che adoravo sulle labbra.

«Ci vediamo domani?»

Lui annuì e sparì dietro l’angolo, così anch’io entrai felice nella mia camera. Quand’eri innamorata vedevi tutto in maniera così felice? Forse anche quello era un effetto collaterale, uno dei peggiori.

   
 
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