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Autore: kenjina    17/08/2016    1 recensioni
La situazione peggiorò quando trovarono un tavolo da biliardo libero e pronto solo per loro e, ovviamente, finì invischiato in un due contro due in coppia con la sua manager - almeno quella era una piccola fortuna in mezzo a tanta sfiga, si disse per farsi forza. Non avrebbe saputo di che morte morire, se avesse dovuto scegliere tra il Porcospino e la Scimmia; per non parlare della nuotatrice che, grazie a Buddha, non aveva mai giocato a biliardo e non sapeva neanche da che parte iniziare.
«Ehi, guarda che hai le palle piene tu, intesi?», gli fece Hanamichi, puntandogli la stecca contro.
Rukawa sollevò gli occhi al cielo. «Scimmia, non c'era bisogno di dirmelo. Che ho le palle piene di te lo sapevo da tempo».
(Tratto dal capitolo 17)
I ragazzi selvaggi son tornati, più selvaggi di prima... Ne vedremo delle belle!
Storia revisionata nell'Agosto 2016
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hisashi Mitsui, Kaede Rukawa, Nobunaga Kiyota, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Wild Boys'
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Ni-hao a tutti

Capitolo 18

Ce la faremo.

 

 

 

Nessuno di loro aveva chiuso occhio quella notte, per la preoccupazione di aver lasciato Yoehi, Tetsuo e le rispettive bande nelle mani dei delinquenti di Toshiro. Li avevano trascinati in una questione che non li riguardava affatto, a parte il vecchio amico teppista di Mitsui che voleva vendicarlo, e i rimorsi non li avrebbero abbandonati se fosse successo qualcosa di grave. Hanamichi era stato l’intera notte a fare avanti e indietro nella sua stanza, le mani che cercavano con nervosismo i capelli rossi e qualche borbottio sommesso tra le labbra, mentre Hime, seduta sul suo letto con le gambe strette al petto, non smetteva di mangiarsi le unghie – una brutta abitudine che aveva perso da tempo, ma che in quella situazione non poté trattenere – gettando di tanto in tanto un’occhiata alla finestra, nella speranza di vedere Yohei rientrare a casa sulle sue gambe. Kaede, che per la prima volta in vita sua non riuscì a prendere sonno, aveva invece deciso di recarsi al suo campetto di basket preferito, per scaricare la tensione a canestro. Ryota era rimasto con lui. Se non fosse stato ugualmente preoccupato, l’avrebbe sfottuto a vita.

Fu con occhiaie profonde e facce funeree che quella mattina arrivarono a scuola. I gemelli avevano atteso invano il ritorno del loro amico e avevano persino chiesto alla madre se fosse in casa. Quella aveva risposto che fosse rimasto a dormire da Takamiya per una partita di poker durata troppo a lungo e, nonostante tutto, i due avevano tirato un sospiro di sollievo. Almeno non erano finiti in ospedale.

L’unica che sembrava sapere cosa fosse successo era Ayako che, vedendo le condizioni in cui Ryota si era presentato quella mattina, l’aveva messo sotto torchio finché non le aveva confessato la verità. Come sempre, Ayako sapeva essere convincente.

Lei e Hime si scambiarono un’occhiata tesa, ma la prima manager era segretamente sollevata dal fatto che i rimanenti del quintetto base, e soprattutto il suo compagno, avessero preferito fare un passo indietro per non rischiare di finire peggio di Mitsui.

«Notizie dei ragazzi?», domandò Ayako, stringendo con forza la mano di Ryota.

«Nessuna, per ora», fu la risposta dell’altra ragazza. «Takamiya ci aveva detto che i genitori sarebbero stati fuori casa per qualche giorno, immagino siano rintanati lì in attesa che i lividi più visibili spariscano».

«E perderci il momento di gloria nel mostrare le cicatrici di battaglia?», domandò una voce alle loro spalle.

«Ehi!», esclamarono in coro i gemelli, correndo a sincerarsi delle condizioni degli amici. Erano più che ammaccati, chi con un occhio gonfio e violaceo, chi con le nocche fasciate, ma erano persino in vena di battute e stavano bene. Il sollievo fu così grande che Hanamichi li sbaciucchiò tutti senza ritegno, il ché per poco non fece vomitare i quattro in barba al loro momento di gloria.

Alla tacita domanda di come fossero andate le cose, Yoehi strizzò l’occhio sano e un sorriso malandrino gli increspò le labbra tumefatte. «Se le cose sono andate come previsto, quello stronzo si sta leccando le ferite in una cella».

«E che ci rimanga», fu il buongiorno di Kaede Rukawa, che aveva preferito arrivare a scuola a piedi per non rischiare di ammazzarsi in bicicletta.

«Davvero?», esclamò Hime sbarrando gli occhi.

«Qualcuno del vicinato deve aver chiamato la polizia», spiegò Noma, stringendosi nelle spalle. «Abbiamo fatto in tempo a salire in moto con quei brutti ceffi di Tetsuo proprio quando stava arrivando la volante, ma siamo riusciti a non farci vedere».

«Così siamo tornati indietro a piedi per goderci la scena e abbiamo visto quel Toshiro che le stava suonando ai suoi uomini che volevano darsela a gambe levate».

«E incacchiato com’era ha messo le mani addosso a uno dei poliziotti».

«Li hanno arrestati subito dopo».

Nonostante la gravità della situazione scoppiarono a ridere e persino Kaede si lasciò scappare uno sbuffo di sollievo, mentre tutta la stanchezza della notte in bianco iniziò a farsi sentire come un pugno sullo stomaco.

I Gundam riferirono loro come fossero andate le cose non appena li avevano lasciati soli, raccontando che persino Hotta e i suoi si erano uniti alla festa per puro caso; nessuno dei quattro si risparmiò epiche scene di combattimento che avrebbero fatto invidia persino a un film di Jackie Chan, ma nessuno osò metterle in discussione.

La prima campanella suonò e i ragazzi si salutarono, dandosi appuntamento per pranzo al terrazzo sul tetto che ormai era diventato di loro proprietà – per sommo orrore di Rukawa, che ormai non conosceva più il significato di tranquillità neanche in pausa – e si avviarono alle rispettive classi per sonnecchiare un poco. Fu un duro colpo per i gemelli e gli ammaccati scoprire che alla prima ora ci fosse Yoshikai e non fecero in tempo a poggiare il capo sulle braccia che furono rispediti in corridoio.

«Beh, almeno ora si può dormire in santa pace!», esclamò Hanamichi dopo un lungo sbadiglio, mentre si trascinava in terrazzo come se fosse troppo faticoso mettere i piedi uno davanti all’altro. Per una volta neppure Hime, che in qualsiasi altra occasione sarebbe stata oltraggiata dalla punizione, ebbe da ridire sull’ora d’aria che si erano guadagnati e si accoccolò sulla spalla del fratello non appena si sedettero. Come prevedibile, Rukawa era già lì che ronfava beatamente alla faccia di tutto e tutti e Ryota li raggiunse poco dopo per il medesimo motivo.

Purtroppo, o per fortuna, si addormentarono così profondamente da non sentire le successive campanelle, finché non furono svegliati da qualcuno che li punzecchiava senza ritegno.

«Oh, Kami, guardate la faccia di Yoehi-kun!».

«Ma che diavolo hanno combinato?».

«Mitsui, se non stai attento quella stampella rischi di ritrovartela su per qualche orifizio».

«Nah, guardali. Non hanno neppure la forza di svegliarsi».

Fu il ventaglio di Ayako, giunta in quel momento come un tornado più livida che mai, a smentire le parole della guardia dello Shohoku. Con un colpo pauroso, percosse Ryota con tutta la forza di cui disponeva – ed essendo incavolata nera era notevole. Solo quello bastò a farli saltare sui loro deretani dallo spavento.

«A-Ayakuccia!», piagnucolò il bastonato, mentre si accarezzava il nuovo bernoccolo. «Che modi sono?!».

«Che modi sono?», ripeté inviperita quella, regalandogli un’altra sventagliata. «Avevamo la prova di chimica in coppia oggi! E l’ho dovuta fare da sola! Sai cosa significa?». E giù a dargli un’altra botta di ventaglio, che lo stese in modo definitivo.

Hime si stropicciò gli occhi assonnati. «Aya-chan, perché ti scaldi tanto?», domandò perplessa. «Insomma, tra tutti noi sei probabilmente la più secchiona, sarà andata bene comunque, no?».

«Abbiamo preso una F per colpa sua!», fu l’inaspettata replica. Fu solo quando si rese conto di averlo sbandierato ai quattro venti, incrinando irrimediabilmente la sua cristallina immagine di studentessa modello, che la prima manager si tappò le labbra con le mani e divenne più rossa dei capelli dei Sakuragi. «Guarda cosa mi hai fatto dire, razza di idiota!», sbraitò contro il compagno, che ormai non mosse più un muscolo all’ennesima sventagliata. Hime temette che fosse morto e tirò un sospiro di sollievo quando lo sentì gemere dal dolore. Forse, si disse, avrebbe avuto meno lividi partecipando alla rissa della sera prima.

Calò un'improvvisa quiete in terrazzo, scandita solo dal respiro pesante di Rukawa, ancora tra le braccia di Morfeo e ignaro di tutto. Fu molto difficile trattenere le risate a discapito della manager, ma c’era la loro incolumità in gioco e nessuno voleva rischiarla.

«Non prendertela con me», borbottò Ryota, dopo aver ritrovato la forza di parlare. «Se sei una frana in chimica non è colpa mia, Ayakuccia».

«Ayako è una frana in chimica?», sussurrò Hime al fratello, ancora troppo rincoglionito dal sonno per capire cosa diavolo stesse succedendo. Purtroppo per lei la diretta interessata udì il tono divertito della rossa e non poté risparmiarle ripercussioni, ferita nell’orgoglio.

Hisashi ghignò. «O-ho, si scoprono gli altarini».

«Mitsui, non credere le stampelle ti salvino dalla mia ira», lo minacciò Ayako. «Noi donne sappiamo tenere rancore a lungo».

Kiyo annuì a quelle parole. «Vedi di ricordartelo, Mitsui».

«E comunque non si può essere perfetti», sbottò la prima manager, incrociando le braccia sotto il seno.

«Dai, Ayako, non prendertela. Ogni tanto capita, no? È solo che mi è caduto un mito», si difese Hime, con labbro inferiore all’infuori.

«È caduto Mito?!», strillò Hanamichi, che balzò in piedi e si affacciò oltre la balaustra, cercando il cadavere dell’amico qualche piano più in basso.

«Demente, sono qui», lo rimbeccò Yoehi, con un debole calcio al di dietro.

«A proposito», riprese Mitsui, ora più seriamente, «che avete combinato voi quattro?».

I Gundam scambiarono un’occhiata con gli altri giocatori, che si strinsero nelle spalle. In un modo o nell’altro l’avrebbe scoperto; erano più che sicuri che Tetsuo o Hotta l’avrebbero messo al corrente alla prima occasione. Così gli raccontarono dell’accaduto, sotto il suo sguardo impassibile e quello stordito di Kiyo, che non credeva alle proprie orecchie.

Hime le batté qualche pacca sul braccio. «Questo è quello che guadagni avendo dei buoni amici ma un po’ teppisti».

«Vedo», replicò la nuotatrice, indecisa se ridere per il sollievo o incavolarsi per il rischio che avevano corso. Scambiò un’occhiata con Hisashi, che le rispose con un sorriso sbieco, e per la prima volta dopo mesi si sentì serena. Toshiro era in cella – e probabilmente ci sarebbe rimasto per un bel po’, dato che aveva pestato un ufficiale; neppure suo padre avrebbe potuto fare qualcosa a riguardo, e magari gli avrebbero fatto passare tutta la voglia di rompere le palle agli altri – e aveva dei nuovi e sballati amici che erano pronti a tutto pur di difendersi a vicenda. Erano situazioni pericolose e non accettava certo la violenza per risolvere i problemi, ma per una volta decise di fare uno strappo alla regola. Del resto, se fosse stata forzuta come loro, avrebbe pestato l’ex con le sue stesse mani.

«Non so cosa dire», borbottò Mitsui, passandosi una mano tra i capelli corti. «Avete rischiato grosso per cosa? Una stupida vendetta? E c’era addirittura la polizia di mezzo!».

«Tsk. Ringrazia che Hicchan ha insistito tanto per non unirci al party, Mitchi», fece Sakuragi, stiracchiando i muscoli indolenziti di braccia e gambe.

«Deficiente! E la promessa al Sensei Anzai?».

Hanamichi gonfiò le guance. «Non lo avrebbe mai saputo. Eravamo in superiorità numerica, ne saremmo usciti illesi», replicò saccente, incrociando le mani sulla nuca.

«Do’aho, non usare paroloni di cui non conosci il significato».

«E tu torna a fare quello che ti riesce meglio, Kit: dormi».

«Onestamente, Mitsui», disse Yoehi. «Tu cosa avresti fatto al nostro posto?».

Hisashi non replicò, ma la sua espressione e la mascella contratta fu una risposta sufficiente. «Vi ringrazio, ragazzi».

Mito agitò una mano fasciata, come per scacciare una mosca fastidiosa. «Nessun problema. Eravamo da parecchio senza sfogarci; ne avevamo bisogno».

«Comunque, dobbiamo andare in infermeria a disinfettare quei tagli, brutti mascalzoni», disse Hime, alzandosi finalmente in forze. «Conoscendovi, neppure li avete lavati».

Noma alzò le mani, in segno di resa. «Colpa di questo maiale, gli viene sempre una gran fame dopo una rissa», fece, indicando Takamiya.

«Quando mai non ha appetito?», replicò Okusu, scrollando le spalle con rassegnazione.

«Non abbiamo neppure fatto in tempo ad aprire bocca, che lui ce l’aveva già piena di hamburger».

«Non mi pare che voi vi siate lamentati molto, eh», si difese l’accusato.

«Dai, andiamo, che non voglio che s’infettino», insistette Hime, afferrandone due per la collottola. Venne seguita da Ayako, ancora infuriata per quella pecca imperdonabile sulla pagella – e dire che aveva fatto di tutto pur di non far sapere ai ragazzi il suo punto debole! – e nessuno di loro sperò di finire tra le sue grinfie. Incavolata com’era, probabilmente avrebbe aggiunto altri lividi invece che curarli.

Sanako avrebbe tanto voluto seguirli per dare una mano, ma non voleva rischiare di svenire per il sangue. Aveva dovuto ricorrere a tutto il suo autocontrollo alla vista di quei lividi e gli occhi gonfi. Yoehi, notando il suo sguardo impensierito, le fece l’occhiolino e lei non poté fare a meno di sorridere.

Appena il gruppo di dementi si fu allontanato con le due manager, Ryota distese le gambe, osservando il ginocchio fasciato e immobile del compagno di squadra. «Come procede?».

Mitsui si strinse nelle spalle. «Procede. Fa male se solo oso poggiare il piede a terra, ma la ferita dell’intervento sta iniziando a chiudersi. Suo padre è stato bravissimo con i punti», disse rivolto a Rukawa, che solo in quel momento ricordò di dover pranzare.

Ci fu un lungo istante di silenzio ma i pensieri di tutti erano rivolti verso la stessa cosa: il campionato invernale. Senza la loro guardia e il miglior tiratore che avessero, difficilmente sarebbero arrivati alla finale. Il Miuradai poteva ancora essere una squadra di pivelli, per quanto ne sapevano, ma era praticamente già scritto che i prossimi avversari sarebbero stati quelli del liceo Kainan. Le elevazioni di Kiyota erano già state un problema per i tiri fuori area di Mitsui, ma con qualche tattica ben studiata avrebbero potuto benissimo bloccare la Scimmia Saltante. Con la loro guardia fuori e il morale a terra, sarebbe stato molto più complicato.

«Ce la faremo», disse Mitsui, spezzando il silenzio. Cinque paia d’occhi si spostarono su di lui, in attesa che continuasse. «Ce la faremo. Kimi Shimura sarà un degno sostituto, ne sono sicuro. Me ne occuperò personalmente già da questo pomeriggio».

Ryota annuì. «Sono d’accordo, è un bravo giocatore. Ma in quattro giorni cosa credi che possa fare?».

Fu Rukawa a parlare, inaspettatamente. «Il Do’aho ha imparato il rimbalzo in una sera e i tiri liberi in una settimana. Se ce l’ha fatta lui, tutto è possibile».

Tra le risate sguaiate di Hisashi e Ryota, i due acerrimi amici iniziarono a darsele di santa ragione sotto lo sguardo attonito delle ragazze che, non per l’ultima volta, si chiesero in che razza di gruppo di deviati fossero finite.

Kiyo si alzò raccogliendo la sua cartella e la sacca della piscina. «Vi lascio. Cercate di non ammazzarvi».

«Dove vai?», domandò Mitsui, sollevando lo sguardo sulla ragazza.

«Allenamento. Domenica ho i quarti».

«Ma sono solo le tre e hai appena mangiato!», esclamò Sana, alzandosi a sua volta. «Kiyo, ti stai strapazzando troppo».

«Non sto andando a nuotare, per il momento, mamma. Ho un riscaldamento sostanzioso sulla terra ferma, prima», replicò lei. «E poi è il minimo che possa fare, se voglio battere Azamui».

Nell’udire quel nome, suonò un campanello d’allarme e Rukawa rovistò tra le ragnatele della sua memoria, cercando di ricordare chi diavolo fosse Azamui. Un sorriso da ebete e una risata vomitevole lo fecero pentire di esserci riuscito e tentò inutilmente di scacciare dalla testa l’immagine dei due cugini Sendoh che ghignavano come iene alla faccia del suo malumore. Non gli interessava il nuoto, ma sperò con tutto il cuore che la Kobayashi la stracciasse, solo per il dispiacere che una sconfitta della cugina avrebbe provocato all'ex numero 7 del Ryonan.

«Ci vediamo dopo», fece Kiyo con un ultimo sguardo a Hisashi, che la salutò con un cenno del capo.

«Bene, io mi metto a studiare, allora», decretò Sana. «Tra un’ora ho le prove per il concerto e poi turno al bar. Kimi non verrà, quindi?».

Mitsui fece spallucce. «Se dovesse suonare da schifo, probabilmente si tratta di Eichiro che tenta di sostituirlo senza che nessuno se ne accorga». Vedendola sconsolata, si affrettò ad aggiungere: «Gli allenamenti iniziano alle cinque, per un’oretta sarà dei vostri».

«Oh per fortuna, altrimenti chi la sente mia zia».

Un brivido di terrore attraversò le schiene dei ragazzi, al ricordo della signora Tsukiyama e del suo piccolo problema di schizofrenia.

 

*

 

Quel pomeriggio gli allenamenti furono più tesi del solito. L’infortunio di Mitsui non giovava alla squadra e neppure le sue parole di incoraggiamento furono molto d’aiuto. Gli unici che parevano essere rilassati erano i gemelli Shimura, che non perdevano la calma neppure con una pistola puntata alla tempia. Hanamichi aveva ripreso a fare lo spaccone come al solito, gridando al mondo che con lui in piena forma nessuno aveva speranze di vincere, ma il Capitano Miyagi non aveva alcuna voglia di scherzare: erano in visibile difficoltà, se ne rese conto fin dai primi esercizi. Movimenti rigidi, occhiate troppo spesso rivolte al ginocchio di Mitsui che alla palla, imprecisioni nel tiro. A quattro giorni dalla prima partita era una situazione catastrofica e Ryota stava perdendo la pazienza.

«Fermi tutti!», gridò battendo le mani, mentre Ayako fischiava per richiamarli.

Sorpresi per l’improvvisa interruzione, la squadra gli si avvicinò, spalle basse e visi abbattuti.

«Così non va bene», esordì Ryota. «Non va bene per niente. Se questa è la grinta che avrete mercoledì, allora vi chiedo di stare a casa. Ci risparmieremo una bella figura di merda».

«Ma, Ryo-chan–», iniziò Hanamichi, subito zittito da un dito del Capitano.

«Voglio ricordarvi che Mitsui non è crepato, anche se delle volte me lo auguro».

«F0ttiti, Miyagi», sbottò il diretto interessato che sedeva accanto all’allenatore, mostrandogli il dito medio.

«Per quanto la sua presenza in campo sia di fondamentale importanza, lo è anche dalla panchina», continuò Ryota, ignorandolo. «E lo è la vostra. Non è la prima volta che accade e purtroppo non sarà neanche l’ultima. Ogni volta ci siamo rialzati e abbiamo reso onore alla maglia che indossiamo. Oggi stiamo solo facendo schifo».

Nessuno osò ribattere a quelle parole dure ma veritiere, trovando più interessante la punta delle proprie scarpe che lo sguardo del loro nuovo numero 4. Hanamichi sollevò lo sguardo su Mitsui poi su Anzai, e strinse i pugni. Il Tappo aveva ragione, si disse, sebbene lui ce la stesse davvero mettendo tutta. Era stato difficile ritrovare il ritmo dopo la riabilitazione e ora che era finalmente riuscito a riprendere al meglio, ecco che Mitchi non avrebbe giocato le prime partite. Era stato duro dover accettare il fatto che il Gorilla non fosse più in squadra, ma avere il sostegno in campo di Ryota e del Baciapiselli era per lui un punto fermo. Ora anche quello era incrinato e, per la prima volta nella sua breve carriera di cestista, temette di non potercela fare da solo. I gemelli Shimura erano in gamba, Eichiro in particolare gli piaceva molto, ma non era la stessa cosa. E di certo non avrebbe trovato il supporto della Volpe. O forse era lui che se la stava prendendo troppo?

Ryota stava ancora parlando ma lui ormai non sentiva più nulla. Guardò Hime, che si mordicchiava le labbra in tensione, ma quando si accorse del suo sguardo, gli sorrise con fare confortante. Quanto l’aveva aiutato la sua presenza in panchina? E quella del signor Anzai? E quella dei suoi migliori amici e di Harukina-cara?

Batté il pugno sul palmo della mano, interrompendo il discorso di Miyagi, che lo osservò con un cipiglio perplesso e irritato.

«Ce la faremo», disse Hanamichi, ripetendo le parole di Mitsui di poco prima. «E sapete perché?», domandò, ignorando le loro facce rassegnate.

«Ecco che ricomincia», sbuffò Rukawa alle sue spalle, esprimendo il pensiero di tutti. Diamine, che avevano da guardarlo così? Per una volta che voleva dire qualcosa di serio!

«Perché abbiamo la panchina migliore di tutto il Giappone!», esclamò come un invasato. «Abbiamo non una bensì due manager che sbraitano dall’inizio alla fine per supportarci!», iniziò a elencare. «Abbiamo le riserve più casiniste di tutto il torneo; il migliore Nonno del mondo ad allenarci; il Gorilla sarà in tribuna a fare il tifo per noi; e Mitchi sarà lì, con loro, a sostenerci! Ce la faremo!», gridò, alzando il pugno al cielo.

Per quel bel discorso di incoraggiamento si aspettava cori da stadio e trombette d’elogio, non certo quel silenzio attonito condito solo dalle cicale in sottofondo. Notò con timore che una vena stava pulsando pericolosamente sulla fronte di Miyagi, mentre gli altri lo mandavano gentilmente a quel paese e riprendevano gli allenamenti. Solo Eichiro, ridente come se niente fosse, gli batté una manona sulla spalla.

«Ho detto qualcosa di sbagliato, Chiro-kun?».

«No, anzi. Hai appena ripetuto quello che avrebbe finito di dire il Capitano se non lo avessi interrotto. Lo stavi proprio ascoltando, eh?».

Rosso come i suoi capelli, Hanamichi iniziò a ridere per nascondere l’imbarazzo, mentre Ryota gli faceva fare il giro del campo a suon di calci e Hime si copriva il viso tra le mani per non vedere.

«Beh, dai, ha colto il messaggio, no?», tentò di sdrammatizzare Ayako, tra le risate.

Gli allenamenti ripresero con un po’ più di vigore e Hisashi notò il signor Anzai annuire tra sé e sé, sereno come un Buddha. 

«Sai, Mitsui, i tuoi due compagni hanno ragione», disse, intrecciando le mani sulla pancia. «Abbiamo davvero buone possibilità di vincere. Dopo la partita contro il Sannoh, avete dimostrato di essere capaci di fare qualsiasi cosa. Persino Rukawa, che è fondamentalmente un giocatore concentrato su se stesso, è riuscito a fare gioco di squadra. Sai perché?». Hisashi attese che continuasse. «Perché è circondato da giocatori che darebbero tutto pur di vincere. Akagi ha lottato con tutte le sue forze pur di portare la squadra ai massimi livelli; Sakuragi si è infortunato pur di salvare un pallone; tu stesso hai perso i sensi pur di spingerti al limite e non mollare. Quindi lascia che ti dica una cosa: non sentirti in colpa per la tua assenza. Se la squadra è arrivata a essere ciò che è oggi, lo deve anche a te e alla tua determinazione. Non sentirti inutile stando in panchina; la tua sola presenza è fondamentale per tutti loro».

Mitsui sentì gli occhi bruciare, mentre un nodo in gola gli strozzava il respiro. «Grazie, Sensei», mormorò, con voce tremante. «Grazie di tutto, davvero».

Quello gli batté una mano sul braccio e si alzò con incredibile agilità, per uno di quella robustezza ed età.

«Un’ultima cosa, Mitsui», disse, senza voltarsi a guardarlo, ma con gli occhi puntati in campo a seguire un’azione di Rukawa. «Dopo il torneo di Dicembre, alcuni di voi riceveranno una convocazione per l’All-Star Game tra le migliori Prefetture del paese, che si terrà a fine anno scolastico. Le prime quattro squadre di Kanagawa potranno portare un massimo di tre giocatori ciascuno. Voglio che ti riprenda al meglio, per quel momento».

Hisashi rimase senza parole, forse per la prima volta in vita sua, e l’allenatore, cogliendo il suo stupore, lo salutò con il consueto oh oh oh, mentre si allontanava dalla palestra, conscio che i ragazzi avrebbero proseguito alla perfezione anche senza la sua presenza.

Abbassò lo sguardo sul ginocchio fasciato e asciugò con determinazione le lacrime dagli occhi. La fiducia del Signor Anzai, dopo tutto quello che era successo in quegli ultimi mesi, era l’unica cosa che gli stava dando la forza per andare avanti. Non l’avrebbe deluso per niente al mondo.

«Ehi, Mitchi, tutto bene?», domandò Hime, notando gli occhi arrossati.

Quello annuì, ma non aggiunse altro. Osservò i giocatori in campo e si chiese chi tra loro sarebbero stati convocati per l’All-Star Game – a parte Rukawa, che pareva una scelta tanto ovvia quanto sensata, per quanto la cosa gli rodesse il fegato. Il Capitano probabilmente sarebbe stato il terzo. Sgranò gli occhi, terrorizzato all’idea di doversi sorbire Sakuragi che menava le palle a tutti per non essere stato convocato, lui che era il Genio delle Star!

«Sicuro che vada tutto bene?», ripeté Hime, ora preoccupata nel vedergli quell’espressione impaurita.

Gli allenamenti giunsero a termine alle sette inoltrate, ma qualcuno decise di rimanere un altro poco. Tra questi, oltre Kimi che avrebbe iniziato il suo lavoro speciale con Mitsui, anche Miyagi e Hanamichi, per la loro consueta esercitazione sugli scarti e le smarcature. Hime e Ayako s’intrattennero al tavolo delle manager, per aspettare fratello e fidanzato, e nel mentre facevano i compiti per la settimana successiva.

Kiyo li trovò così, tra consigli vari e il ritmico rumore del pallone che rimbalzava sul parquet lucido.

«Ehilà!», la salutò Hime, che fu la prima ad accorgersi della sua presenza. «Com’è andato l’allenamento?».

«Direi bene», replicò quella, passandosi una mano tra i capelli ancora bagnati. «Qui?».

«C’è un po’ di tensione, ma date le circostanze credo sia normale».

Gli occhi della nuotatrice trovarono subito Mitsui, che sedeva su una sedia sul fondo del campo, sotto canestro, e dava continue indicazioni a uno dei gemelli Shimura – non avrebbe saputo dire quale dei due fosse. Era talmente concentrato in ciò che stava facendo che non avvertì il suo sguardo.

«Le qualificazioni di domenica saranno sempre qui?», domandò Hime, stiracchiandosi e dimenticando per un momento i compiti.

«No, saranno al Ryonan. Si cambierà anche per semifinali e finali: Kainan e Shoyo».

«Oh, in trasferta!», fece la rossa. «E a che ora sono?».

«Alle 10:30 inizia la prima batteria; io dovrei essere alla terza».

«Ci sarò! E mi trascinerò dietro tutti i tuoi tifosi», fece la seconda manager strizzandole un occhio.

La notizia, invece che rincuorarla, la terrorizzò. Non aveva certo dimenticato di cosa fossero capaci quei pazzi sugli spalti.

«Potrei chiedere anche a Kiyota di venire... o dite che Maki li sta ammazzando di allenamenti anche il fine settimana?».

«Forse dovremmo lavorare anche noi la domenica», mormorò Ayako, battendosi la matita sulle labbra carnose.

«Non dirlo a voce alta, Aya-chan, o rischi il linciaggio», la mise in guardia Hime, reprimendo a stendo uno sbadiglio. «Sono sicura che non ci sarà bisogno di fare le ore piccole».

Riportarono l’attenzione in campo: da una parte la pacatezza di Kimi Shimura, che tirava a canestro dalla linea dei tre, seguendo i consigli del suo senpai senza battere ciglio; dall’altra le urla di Miyagi e Hanamichi, il primo che si lamentava della mancanza di attenzione di uno, e l’altro che blaterava qualcosa sul suo essere bravissimo anche senza la baby-sitter che gli diceva cosa fare.

Si erano fatte le otto e mezza di sera, tra allenamenti extra e chiacchiere tra ragazze, quando i cestisti finalmente si fiondarono a farsi una doccia, affamati come bisonti. Hisashi si avvicinò lentamente alle tre, stando ben attento a non muovere il ginocchio leso, e salutò la nuotatrice. «Kobayashi».

«Mitsui».

«Kimi?», domandò Hime, alzandosi e recuperando i palloni per rimetterli nel cesto.

«È molto rapido e preciso», annuì Hisashi, ripensando all’allenamento, mentre si sedeva. «Ma è facile fare canestro da fermi. Domani voglio che Rukawa e Sakuragi s’intrattengano con noi per metterlo sotto pressione. Vedremo come si comporterà».

«Mi sembra una buona idea», convenne Ayako. «Vi ho osservati, non credevo avessi così tanta pazienza come insegnante, Mitsui».

Quello scrollò le spalle. «Infatti non ne ho. Ma per fortuna si tratta di uno dei gemelli Shimura, non dei Sakuragi».

«Ohi, tu!».

Kiyo si morsicò il labbro pur di non ridere. Per tutti i Kami, era dall’epoca Sengoku che non sorrideva così tanto in una sola giornata!

«Come ti senti?».

Si sorprese nel rendersi conto che quella domanda non fosse rivolta al giocatore infortunato, bensì a lei. Spostò lo sguardo sugli occhi color nocciola della Sakuragi e mosse il capo in un cenno affermativo. Capì subito a cosa si riferiva.

«Va meglio. Decisamente meglio, grazie». E non mentiva di certo. Da quella mattina era come se le avessero sollevato un macigno dalle spalle e, per quanto questa nuova circostanza la debilitasse un poco, si poteva concedere un po’ di tranquillità, almeno per qualche tempo. Poteva concentrarsi unicamente sulle sue gare e aveva addirittura fatto nuove e buone conoscenze.

Mitsui, seduto accanto a lei, le allungò una mano sulla nuca, tra i capelli biondi e umidi, accarezzandola come avrebbe fatto con un gatto. Kiyo chiuse gli occhi, serena, finché l’ennesimo battibecco tra Ryota e Hanamichi, reduci dalle docce, non la riportò alla realtà.

«Non mi interessa se avevi intenzione di andare alla dannata sala giochi: domani ti voglio qui alle tre, altrimenti ti lascio in panchina a vita», sbottò Ryota.

Hanamichi parve sconvolto. «Non puoi lasciarmi in panchina, Pigmeo! Così perderemo di sicuro!».

«Aya-chan, non lo sopporto più», piagnucolò il Capitano. La manager, capendo l’antifona, sfoderò il suo micidiale ventaglio e il rossino, alla sola vista di quell’arma di distruzione di massa, si ammutolì imbronciato.

La coppia d’oro dell’anno li salutò poco dopo e Hime, dopo aver fatto uscire tutti, chiuse la palestra.

«Ehi, Mitchi, come ci torni a casa?», domandò Sakuragi, la borsa dell’allenamento su una mano, e l’altra sulla spalla della sorella.

La Guardia dello Shohoku indicò una macchina dai fari accesi parcheggiata fuori dal cancello d’ingresso del liceo.

«Salve, ragazzi!», fece un uomo dal familiare sorriso oltre il finestrino dell’auto. «Volete un passaggio anche voi?».

«Eh?», fece Hanamichi. «Io non salgo in macchina con gli sconosciuti».

«Ohi, demente! Quello è il padre di Sendoh!», lo rimbeccò Hisashi, tirandogli una stampella in testa.

«Il padre dell’Istrice?», ripeté il rossino. «Peggio ancora! Magari è un pervertito come il figlio!».

«HANAMICHI!», strillò la sorella, in visibile imbarazzo. «La prego di scusarlo, signor Sendoh. Mio fratello non sa quello che dice per il 99% delle volte in cui apre bocca», si scusò la ragazza, inchinandosi un paio di volte e trascinando con sé l’ala grande. L’uomo, ovviamente, era scoppiato a ridere. Tale padre, tale figlio.

Kimi declinò con gentilezza, dal momento che non abitava molto lontano da lì, e anche i fratelli Sakuragi, dopo le dovute presentazioni, preferirono farsi due passi piuttosto che imporre la loro presenza. Solo Kiyo accettò il passaggio, dato che fosse praticamente impossibile dire di no a Goro Sendoh che, non appena capì che fosse la ragazza del suo “figlio adottivo”, non volle sentire alcun rifiuto.

Hime e Hanamichi rimasero soli e in silenzio per un lungo istante, mentre camminavano lentamente verso casa. Poi il ragazzo chiese: «Ma perché il padre del Porcospino è passato a prendere il Teppista?».

«Non ne so molto, ma credo che Hisashi e la madre si stiano trasferendo da loro, per via del signor Mitsui. Ho sentito Akira parlarne con lui, in ospedale».

«Mitchi a casa dei Sendoh?!», esclamò Sakuragi. «Ma così va a stare dal nemico! E rischia seriamente che quel maledetto hentai gli faccia qualche agguato! Così infortunato non potrà neppure difendersi! Hicchan, dobbiamo fare qualcosa!».

«Intendi per la testa bacata che ti ritrovi? Temo che non ci siano più speranze, Hana».

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

A-ehm.

*agita una manina*

Sì, sono io, non è il mio fantasma che scrive. Vi devo delle spiegazioni dopo quasi quattro (QUATTRO?!) anni di nulla, è il minimo che possa fare.

Sono successe parecchie cose, in questo lunghissimo lasso di tempo, tra cui un anno di Erasmus in Svezia, tesi e laurea. Non avevo tempo per dedicarmi alle mie passioni, cosa per cui ho sofferto molto, ma non potevo fare altrimenti. I problemi sono giunti dopo aver preso il tanto agognato pezzo di carta. Ho speso più di un anno a cercare lavoro e spedire curriculum e portfolio senza ottenere risposte. Forse ne ho ricevute 10 su 1000, ma sto esagerando. Dire che avevo il morale a terra è un eufemismo bello grosso, perché sarei molto lontana dalla verità. So che molte persone impiegano molto più tempo a trovare lavoro, ma ero demoralizzata e non riuscivo a vedere che un muro nero di fronte a me. Ho provato a cercare lavoro qui, all’estero, sulla luna... niente. Nada.

Neppure la scrittura e il disegno, che solitamente mi rilassano, sono serviti a tirarmi su.

Finché il lavoro l’ho trovato, più di un anno fa. Non è una posizione sicura, la paga è minima, ma sono ancora lì, faccio ciò che amo e le cose, per il momento, vanno bene.

Nonostante la tranquillità ritrovata, questa pausa lunghissima dalla scrittura non ha aiutato per nulla il mio stile. Sono mesi, ormai, che provo a buttare giù qualche idea che mi gironzola da troppo nella testa, ma credo di aver perso tutto l’entusiasmo e la facilità con cui scrivevo un tempo. Mi sono detta: devo solo riprendere la mano e poi sarà di nuovo tutto in discesa. Non è stato così – infatti questo capitolo mi fa veramente schifo. Ma è un passo gigante, rispetto al nulla, quindi posso dirmi soddisfatta. Con le Olimpiadi è ritornato anche lo spirito sportivo che animava questa storia e con esso l’amore per i nostri ragazzi selvaggi, che si sta facendo sentire più forte di prima.

Quindi rieccomi qui. Come ho sempre detto, prima o poi le mie storie avranno un finale, solo che bisogna essere pazienti per raggiungerlo.

Ad ogni modo, filippica a parte, ho riletto tutti i capitoli precedenti per riprendere il filo della storia e ne ho approfittato per correggere errori e sviste varie che, dopo tanto tempo, sono saltati agli occhi immediatamente. Ho ben in mente – così è sempre stato – cosa succederà nei prossimi capitoli e spero che, nonostante la schifezza che ho scritto (e che scriverò), continuiate a stare con me.

Questo mondo mi è mancato, i ragazzi mi sono mancati, voi tutti mi siete mancati. E a voi che non mi avete abbandonata neppure in questi anni (sapete chi siete), solo una cosa: GRAZIE DI CUORE. Vi adoro, sul serio.

Spero possiate perdonare questo tremendo ritardo e questo terribile capitolo.

 

A presto (spero) e buone vacanze!

Marta

   
 
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