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Autore: Kimmy_90    17/08/2016    1 recensioni
La Regio è salda da millenni, sostenuta da una forte e solida gerarchia meritocratica: in cima, i Philosophi, sotto, la Gens. In mezzo v'è la colla della Regio, i Custodes, a guida delle milizie. Vestiti di nero, hanno il volto scuro e le mani chiarissime. Puliti, alti, statuari.
I bambini li chiamano Ombre.
Le Ombre prendono i bambini.
E mentre la società rimane ferma, inamovibile, la tecnologia avanza – tanto lenta quanto inesorabile, fino al punto di non ritorno.
Il rinculo.
Ecco cosa significava davvero.
La spalla che sussulta. La presa che sembra sfuggire.
L’impulso.
Odore di bruciato, e di metallo rovente.
Saeb lasciò che lo guardassero, mentre si calmavano. Un rumore del genere non lo avevano mai sentito, se non durante un temporale. Ma quella era la natura.
Miran, invece, fra le mani serrava un oggetto puramente umano. Preciso e geometrico come solo l’ingegneria della Regio sapeva fare.
“Questo.” disse poi il Rector, facendosi sentire da ognuno di loro “Era uno sparo.”
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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14. Sparare



Gli allenamenti che seguivano il primo assaggio di SubSphaera sfioravano sempre il prodigioso.

I sei stelle infrangevano ogni limite che pensavano di aver avuto sino al giorno precedente: correvano più in fretta, saltavano più in alto, mantenevano le isometrie più a lungo. Tutto era portato all’eccesso: avevano tanta di quell’energia, in corpo, che l’impossibile si faceva possibile.

Se mai si concedevano d’esser distratti per un solo attimo, quella distrazione era la stessa per tutti: sparare.
Che significava, sparare?
Quando mai lo avrebbero visto, lo sparare?
I bambini del Ludus stavano lontani dalle armi da fuoco. Dal fronte. Da tutto ciò che era la guerra. La violenza a cui forse avevano assistito in passato, nei villaggi o a Pagus, era fatta di pugni, schiaffi, calci; al più lame e bastoni. A stento potevano collegare quella nuova parola a un contesto del genere.

Sparare.
Assomigliava a separare. Cosa?
Come?
Pazienza.
Bisognava avere pazienza.

Pazientarono per cinquanta giorni.
Le lezioni si susseguivano sempre più intense, le notti in parte spese a ripassare, rivedere, o cercare di capire quanto era sfuggito loro durante il giorno per non giungere alla lezione successiva impreparati, col rischio di non comprenderne una sola parola.
Sarebbe stata la fine.
Ma bisognava anche dormire, o il danno si sarebbe equivalso. Questo lo ben sapevano.
I pasti erano diventati l’occasione per chiarirsi le idee fra loro. Sapevano benissimo che tutto quel che veniva loro insegnato avrebbe avuto enorme importanza nel momento in cui avrebbero iniziato a sparare.
Qualsiasi cosa volesse dire.
Ma i collegamenti non erano immediati: da decine di giorni quel che facevano era pura matematica a non finire. Concetti sempre più astratti. Conti sempre più rapidi.
Mal di testa atroci, da smaltire nelle ore di allenamento.
Avrebbero continuato ad apprendere, a dare tutto quel che potevano, per aver libera la strada e poter sparare.

“Due ics.”
“Due.”
“Due ics quadrato.”
“Quattro ics.”
“Numero perfetto alla ics.”
“Numero perfetto alla ics.”
“Trigonometria.”
“No, dai!”
“Seno!”
“Coseno!”
“Coseno!”
“Meno Seno!”
“Tangente!”
“Cotangente!”

Jukka tirò uno scappellotto sulla nuca di Miran: “Ma sei stupido?”
“Coseno alla meno due.” Corresse Asha: ormai veniva usato come enciclopedia ambulante. C’erano voluti anni, ma il suo continuo leggere e studiare stava dando i suoi frutti. Abbondanti frutti: a pranzo e a cena, li dirigeva lui.
“Oppure?” chiese, continuando la sua mansione di interrogatore onnisciente.

“Uno più tangente alla seconda.” Rispose Zara. Quando faceva questi conti, la bambina aveva lo sguardo puntato in mezzo al tavolo, concentrato. Sembrava anche lei far fatica a starci dietro.
Tutte le tavolate dei sei stelle erano così: gruppetti organizzati a continuare la lezione insieme, o singoli intenti a studiare per conto loro. L’una non escludeva l’altra: Kisanee, ormai allegata al gruppo di Jukka, tendeva sempre ad isolarsi un pochino per studiare da sola. Mentre in sottofondo sentiva gli altri derivare o integrare – a seconda del giorno – le formule proposte da Asha, lei si esercitava sulla statistica: viaggiava da mesi con appresso pacchi e pacchi di fogli bianchi, che riempiva di conti.
“Cotangente di ics quadro!”
Silenzio.
“No.” Si arrese Jukka.
“Non ce la faccio.” Miran con lui.
Zara tacque: desistere non era da lei. Si prese qualche altro istante.
“Meno due ics cotangente quadro di ics quadro.” Asha annuì, insieme a Kisanee – la quale nemmeno si rendeva conto di stare compiere quel gesto.

“Andiamo a metterci i pesi –” mormorò Jukka, alzandosi in piedi con il vassoio in mano. “O Asha deriverà anche me.”
“Agricola.” Fu la risposta del ragazzino.
Miran raccolse la sopravveste: il tintinnio del campanello era diventato un’abitudine tale da far sì che, ormai, molti di loro non ci prestassero più attenzione.

Ogni tanto, Miran cercava la testa rossa di Radi con lo sguardo: la trovava sempre appostata fra i primi banchi. Sola. Non sembrava che la cosa la affliggesse in alcun modo – anzi, aveva la stessa espressione di tutti gli altri, fra l’esausto e il concentrato. A volte persino entusiasta.
Dall’inizio del sesto anno, Miran era stato talmente impegnato a tenere il passo con tutte le nozioni e gli allenamenti che gli venivano propinati, da non avere il tempo materiale di far qualcosa che lo portasse da Isia. Radi, evidentemente, sì: già tre volte l’aveva scorta con la schiena bendata.
Aveva ancora in mente quell’assurda conversazione cui l’aveva costretto la ragazzina: in parte sperava nell’arrivo di una sessione di sopravvivenza, così da pedinarla e, una volta che fosse stata oltre la cinta, capire cosa diavolo ci fosse di tanto importante nello scavalcare. In fondo lo avevano fatto quasi tutti. Perché per lei era diventata una cosa tanto eclatante?
Questi pensieri erano però solo echi, nella testa di Miran – sempre tutta protesa verso lo scoprire cosa significasse sparare. Non aveva tempo di preoccuparsi anche di Radi, e non doveva farlo, si diceva ogni qual volta si scopriva a cercarla. Non è affar tuo, si ripeteva, quando notava le sue bende. Hai cose più importanti.
Hai cose molto più importanti. Non te ne curare.
E alla fine, smise.

Non se ne curava più.
Flesso per legare i pesi ai polpacci – un gancio in meno del solito, doveva essergli ancora cresciuta la gamba – l’unica sua preoccupazione era assicurarsi di non dimenticarsi, durante la notte, quanto imparato durante il giorno.
Silenzio.
Levò il capo, insospettito dallo scemare dei rumori, sino al sentire solo i respiri dei compagni: scostò lo sguardo, finché non vide che sulla soglia era apparso un Custos.
Come gli altri, s’immobilizzò.
Saeb, fermo, silente, le braccia conserte, attese senza dir nulla d’avere l’attenzione di ognuno di loro. Non ci volle molto.
Entro meno di un minuto ogni paio d’occhi era per lui.
Alla luce del giorno, il suo volto era notevolmente irregolare. Un susseguirsi d’ombre, più dense e meno dense, e – gli occhi. Gli occhi erano strani. Nel buio della SubSphaera, non si potevano notare. Adesso sì. Almeno in parte.
Opachi.
“Seguitemi.”

Corsero per fasce intere. Due, forse tre.
Tramontò il sole.
Erano anni che non correvano per così tanto tempo: rigorosamente in fila, seguivano lungo sentieri mai battuti chi li precedeva. Nel crepuscolo, circondati da alberi e arbusti, scorsero una radura in lontananza. Il tempo di arrivarci e posizionarsi, in righe, ed era scesa la notte.

Mai buia quanto lo era stata l’oscurità della SubSphaera.
Sembrava però che ai Rectores le tenebre fossero care. I quattro, sempre loro, si allinearono nuovamente di fronte agli allievi: i ragazzini già preventivavano lunghi silenzi d’attesa. Preparati al logorante scorrere del tempo, Saeb li colse invece alla sprovvista: “Vi trovate al poligono di tiro.”
Senza neanche salutare.
“Ora.” Fece un cenno agli altri tre. “Per arrivare fino a qua, con il passo che abbiamo tenuto, ci vogliono circa cento cinquanta minuti. Prendetene nota, perché quando sarete chiamati al poligono non avrete un preavviso maggiore di questo. Verrete a turni: i primi si svolgono all’inizio della prima ora e gli ultimi alla mezzanotte. Dovete essere sempre pronti. Così funziona nella vita reale.”
Gli altri tre Rectores distribuivano loro dei pacchi, piccoli e pesanti, avvolti in buste di plastica scura.
Come Miran ebbe l’oggetto fra le mani, non poté non notare la massa con cui gravava. Doveva essere denso, compatto. Pesava poco meno dei pesi agli avambracci.
Lo guardò.
No.
Tornò a guardare il Rector.
Attendi, agricola.
Hai atteso due mesi, aspetterai un altro minuto. Finì la consegna. Altro tempo.
Tempo.
Tempo.
Maledetto tempo.
“Potete aprire.”
Sfilò il cofanetto dalla busta.
Aprì.
Rimasero impalati a guardare quell’oggetto. Una volta aperta la custodia, appoggiato su della spugna bugnata, un pezzo di ferro; a lato, tre scatole più piccole, perfettamente allineate.

Guardando, Miran attese.
Attese.
A ben pensarci, si disse – non aveva detto nulla, il Rector.
Aveva detto di aprire.
Non di non toccare.
Gli altri sembravano non azzardarsi a muovere un muscolo, se non per quelli che dirigevano il loro sguardo.

Ma non lo aveva detto, si ripeté Miran. Poligono di tiro. Tirare. Lanciare. Balistica.
Proiettili.

Urti.
Momento. Energia.
Urti.
Elastici.
Anaelastici.
Unire.
Separare.
Sparare.
E mentre legava questa catena di concetti, dimentico dell’universo intorno a lui, fece scivolare l'indice sul rilievo del mirino, quasi tagliente, e continuò poi sul carrello, freddo. Osservò con minuzia le sfaccettature del metallo argenteo, che in taluni punti riluceva, nonostante la notte. Scavalcò la traccia di mira, scendendo sull'impugnatura. Seguì la curva del fusto, che rientrava bruscamente e risaliva con dolcezza. Ne annusò l'odore, avvicinandosi un poco: pungente. Cadde fino al buco del caricatore, vuoto, risalendo poi l'impugnatura dall'altro lato. Tastò l'anello del grilletto, osservando la strana levetta, e risalì fino alla canna.

Prese il pezzo di ferro in mano.
L'impugnatura gli risultò naturale: l'indice destro finì diritto sul grilletto.
Pesava.
Lo avvicinò al volto – di poco. Lo allontanò, intuendo che non era saggio portarlo così vicino alla testa.
“Ti ho detto forse di prenderla in mano?”
Saeb era di fronte a lui.
Miran risollevò di scatto gli occhi, drizzandosi e guardando il Rector.
“No.” Fu la sua risposta.
L’uomo aveva veramente degli occhi strani.

Asimmetrici. Il destro era opaco, perlaceo – quasi bianco. Sul sinistro si allungava una macchia dello stesso colore.
Pareva latte versato.
Saeb continuò a guardarlo, senza un fiato. Attendeva che Miran finisse la frase. Glielo leggeva negli occhi che voleva finire la frase.
Finisci la frase.
Dillo.
Avanti.
“Non hai detto di non farlo.” Saeb sorrise.

Stava lavorando.
Un poco alla volta, uno per volta. Con Miran era stato facile: si era già innamorato di quell’oggetto. Non gli sarebbe mai servito nient’altro.
Custos e finis. Serviti su di un piatto d’argento.
Quello era il suo mestiere: capire cosa più si addiceva a loro. Guidaci tu, diceva il saluto: non erano parole da prendere alla leggera. Da anni Saeb conduceva per mano i sei stelle alla loro futura mansione – la principale, per lo meno. Ognuno era diverso. Ognuno aveva il suo modo di combattere, studiare, affrontare l’esistenza. Se i Rectores lo individuavano per tempo, il sistema aumentava di efficienza.
E Saeb era particolarmente portato, per la mansione.
L’uomo indicò il limitare della canna: “Da lì esce la pallottola.” Spiegò. “Premi.”
Miran premette la piccola leva metallica: oppose una resistenza inaspettata. Poi, a un certo punto, superò la soglia. Sentì: clic.
Il Rector gli prese la custodia di mano, estraendone una delle tre scatole.
“Adesso è scarica. Metti i proiettili.” Disse, porgendogli il caricatore.
Miran si illuminò.
Proiettili.
Aveva capito. Aveva già capito.
Infilò il caricatore nel calcio, finché non lo sentì bloccarsi.
“La sicura.” Mostrò Saeb. “Adesso è inserita.”

Controllò attorno a lui la disposizione dei ragazzini: erano abbastanza larghi da poter avere un canale sicuro.
Abbastanza sicuro.
“Spostati di un passo a sinistra.”
Miran obbedì.
“Stendi il braccio.”
Chiuse un occhio.
“Il mirino.” Indicò. “Allinealo.”
Sei anni e mezzo al Ludus servono a questo.

L’intuizione arriva da sola. Pensare rallenta. Ascoltare i superiori evita gli effetti collaterali.
Saeb vide Miran portare la mano sinistra, libera, a coprire il resto del calcio: affiancata all’altra, i due pollici erano pressoché uniti. Il carrello era libero. Bene.
Il ragazzino non si mosse, in attesa.
Dopo qualche secondo, iniziò a far scivolare la gamba sinistra in avanti. Più comodo.
“Così si toglie la sicura.”
Gliela disinserì lui. Miran faceva lenti e profondi respiri.
“Un proiettile uccide, Miran. Bada che davanti sia libero. Presa salda. Attento al rinculo.”
Sentì i muscoli tendersi nel torace, come intenti a organizzarsi da soli ad attutire il colpo. Non aveva idea di quanto sarebbe stato potente.
La posizione non era perfetta, ma per essere istintiva era delle migliori.
Il Rector serrò le braccia al petto, decretando mentalmente che nessuno si sarebbe infortunato.
Saeb stava lavorando. “Quando vuoi.”

Un sussulto come non ne compivano da molto tempo.
Quasi terrore. Un colpo. Un’esplosione. Un lampo.
Il tuono a due metri di distanza.
Per alcuni un sibilo all’orecchio.
Si voltarono verso Miran, il cuore che pompava all’impazzata: quello tremava, le sopracciglia alte sulla fronte sorpresa, gli occhi sbarrati – le labbra, dapprima dischiuse per lo stupore, s’incurvavano sempre più.

Gioia pura, che montava sull’inquietudine.
Qualsiasi fosse il nome dell’oggetto che aveva in mano, quell’oggetto era mostruosamente potente. S’era scosso nelle sue mani, vibrando, come volesse lanciarlo all’indietro.
Il rinculo.
Ecco cosa significava davvero.
La spalla che sussulta. La presa che sembra sfuggire.
L’impulso.
Odore di bruciato, e di metallo rovente.
Saeb lasciò che lo guardassero, mentre si calmavano. Un rumore del genere non lo avevano mai sentito, se non durante un temporale. Ma quella era la natura.

Miran, invece, fra le mani serrava un oggetto puramente umano. Preciso e geometrico come solo l’ingegneria della Regio sapeva fare.
“Questo.” disse poi il Rector, facendosi sentire da ognuno di loro “Era uno sparo.”
Saeb stava lavorando.


***


Al poligono di tiro avrebbero quindi imparato a sparare. A prendere la mira, a discernere i bersagli, a muoversi con le pistole in mano e a essere reattivi nello scaricare e ricaricare.
Miran lo adorava.
Ogni pallottola era un sussulto, una scarica di adrenalina che gli inondava le vene. Per quanto si fosse abituato al rumore, all’odore, alla sensazione dell’esplosione nella mano, continuava a esaltarsi. Ogni volta.
Entro breve la calibro 45 divenne un’estensione naturale delle sue braccia.
“Andate, e che nessuno con meno di sei stelle alla manica sappia.”
Questo era il congedo tipico dei Rectores. Così Saeb li aveva fatti rientrare alla Sphaera la prima volta, e così gli veniva detto ogni volta in cui abbandonavano il poligono.
Dopo un po’ ebbero una fondina da mettere alla cintola.
Al poligono non si limitavano ad esercitarsi con l’arma: la smontavano, pulivano, lubrificavano – ne analizzavano a fondo il funzionamento. Potevi voler modificare un po’ il calcio, per aver più salda la presa. O preferire un tipo di pallottole ad altri.
Le lezioni teoriche calavano di tenore, e l’attenzione ritornava sul corpo: l’equilibrio era divenuto l’argomento principe. Fisico e mentale.
“State entrando in una fase delicata della vostra vita. È il momento in cui siete più fragili e più potenti. Il modo in cui gestirete questa transizione determinerà non poco il tipo di Custos o Philosophus che sarete una volta del tutto adulti. Non sottovalutate l’adolescenza.”
Esercizi di cognizione motoria, uniti a tecniche di rilassamento e meditazione, avrebbero fornito loro la strumentazione con cui affrontare quest’ultima fase dello sviluppo. Per alcuni era già iniziata: Asha aveva superato Jukka in altezza. Miran mostrava qualche manciata di brufoli sul volto, oltre ad assumere pasti ancora più traboccanti del suo solito.
C’era chi si assentava per i primi incontri con gli accompagnatori.
“Ho mal di stomaco.”
“Dovrebbe interessarmi?”
Da qualche mese Kisanee leggeva con lo stesso tenore di Asha. Se non di più. Non scostava gli occhi dai fogli senza un motivo estremamente valido.

“Non ho mai visto quelle formule –” continuò ad importunarla Miran.
“E non le vedrai mai.”
“Te li ha dati un Rector, quegli appunti?”
“Sì. Lasciami in pace.”
Miran fece spallucce, spostandosi verso gli altri. “Vai da un Medicus!” sbottò Kisanee, sentendolo allontanarsi. “Perché aspettate tutti che vi ci mandi un Magister?!”

L’altro non sapeva proprio come rispondere. Sembrava un’osservazione piuttosto valida.
Anzi. Ormai doveva essere in grado di decretare se un suo problema valeva o non valeva il tempo di un Medicus. Per ora, decise, la situazione non era affatto grave.

No, non ci sarebbe andato. Non poteva disturbare un Medicus per una cosa di poco conto. Avrebbe aspettato.
Passerà, si disse.




_______

NDA

Salve ragazzi; grazie a tutti quelli che passano di qui! Spero che ci sia un po’ di senso fin qua, e che i personaggi riescano a difendersi bene. Sto cercando di dare un’idea di normalità nella routine assurda di ‘sto pischelli, giusto per non far pensare che siano macchine. Mi piace molto farli interagire fra di loro, ma devo stare attenta a non deviare. :|

Segnalatemi, nel caso, errori e incongruenze – ve ne prego. Ciaociao!

Pandi

   
 
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