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Autore: Mary_la scrivistorie    18/08/2016    0 recensioni
Falk/Grace – Mini-long – 1980.
Grace Montrose, per Falk De Villiers, è un criptico enigma. Sin dal momento in cui l’incontra per la prima volta, è una figura annebbiata dalla magia di un misterioso gioco. Per riuscire a conquistarla, Falk deve collezionare un poker d’assi – picche, fiori, quadri e cuori. Ogni asso gli viene assegnato quando riesce ad avanzare mosse in quell’offuscata scacchiera – il cuore della ragazza.
«Fu durante una fresca mattina di mezz’estate che m’imbattei nella Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco per la prima volta ‒ o almeno quella che all’epoca reputavo esserlo.
Avevo sedici anni, una manciata di caramelle alla menta in tasca ‒ quelle che avevo furtivamente sgraffignato la sera prima dalla dispensa in cucina ‒ e una brutta scia di graffi sanguinolenti che avevo rimediato durante i miei abitudinari pellegrinaggi in città. Londra era indubbiamente lo scenario perfetto per incorniciare le piccole avventure di un adolescente come me: rappresentava un enigma offuscato da una fitta nebbia d’argento e ottenebrato dai più arcani segreti ‒ l’amavo.»

[Prima classificata al contest “Tante canzoni, una storia” indetto da Mokochan sul forum di EFP.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Falk de Villiers, Grace Shepherd, Lord Lucas Montrose
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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s  s  o    d  i    c  u  o  r  i  
                       
  
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Disclaimer: Questi personaggi non m’appartengono e non sono assolutamente usati a fine di lucro.
 
 
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      Capitolo II ‒ Asso di fiori
 
         
{Sulle note di New Divide,
brano dei Linkin Park
e colonna sonora del film
Transformers}
 

 
 
1981.
 
 
 «È fantastico, papà.», stava snocciolando lei con la sua voce insopportabilmente melodiosa. Possibile che riecheggiasse come il suono delle dolci campane argentate della cattedrale di St.Mary-le-Strand? Possibile che fosse una carezza proibita e lasciva che non soddisfaceva a pieno il mio desiderio ‒ di possederla, di renderla mia oltre i confini dell’umanità?
Forse era soltanto un’altra delle mie paranoie, che erano in numero davvero eclatante in quei tetri giorni d’inverno. Stavo appunto consultando le cartelle dell’archivio alla ricerca di titoli inerenti al conflitto seicentesco con l’Alleanza Fiorentina, scartandone alcune e piazzandole su una grossa pila di fascicoli che si erano rivelati inconcludenti, quando la sagoma slanciata della ragazza rossa di capelli che infestava le mie notti insonni si materializzò davanti a me. Avanzò con passo aggraziato nella stanza, sbottonandosi malamente il cappotto signorile e gettandolo sulla scrivania vuota che, come tutto il resto dell’edificio, apparteneva a suo padre e quindi era una prolifica sezione del suo patrimonio ereditario. A mio malincuore, dovevo riconoscere che il clan dei Montrose progrediva nel bel mezzo dei più confortevoli agi che potesse accaparrarsi una ricca famiglia londinese: dopo la recente morte del nonno Kenneth ‒ avvenuta non più di due mesi prima ‒ era diventato Gran Maestro il suo devoto seguace Lord Lucas Montrose, comportando la naturale ascesa del suo lignaggio. Una delle regole più ferree della Loggia era che la successione seguisse il principio elettivo: i De Villiers più fanatici come mio padre avrebbero preferito la forca piuttosto che assegnare il proprio voto a un membro della casata “rivale”, tuttavia gli altri non concordavano con le loro tesi e avevano optato per affidare il delicato incarico all’uomo con maggior esperienza in campo cronografico, ovvero il vecchio e ammuffito patriarca dei Montrose. Si diceva che fosse già così decrepito perché aveva come primogenito un uomo già bell’e fatto e finito, il padre della futura viaggiatrice Lucy, che aveva concepito quand’era poco più che un adolescente e che si era trasferito da poco non-so-dove per evitare ogni genere di contatto con i consanguinei. Ammiravo quell’uomo audace: perlomeno, aveva avuto il fegato di affrontare i suoi parenti e sfuggir loro come la peste ‒ il passo che mio padre non aveva il coraggio di compiere.
I miei zii avevano prontamente dilapidato tutta la parte loro attestata del patrimonio del nonno, sperperandola nel gioco d’azzardo o nei capricci più superflui ‒ mastodontiche Ferrari o grandiose Jacuzzi incorporate di idromassaggio. Si erano ben presto rivolti all’unico fratello non rimasto al verde, ovvero mio padre, che aveva rimandato il suo verdetto, indeciso sul da farsi: aveva più volte confessato il suo timore che un rifiuto potesse un giorno essergli ritorto contro e che potesse più che altro danneggiare gli interessi di me e Paul in futuro. Odiavo quando ci utilizzava come giustificazione per la sua codardia. Lui aveva escluso a priori l’eventualità di consumare i lasciti del nonno: per lui si trattava di denaro maledetto, intavolato dal suo genitore come un anatema indelebile. Era il pegno di tutti i suoi sacrifici durante la vita e pareva che ringhiasse: “Non siete nient’altro che traditori del vostro stesso sangue.” Mio padre era da tempo ossessionato dagli spettri dei suoi demoni: le ombre della mamma e del nonno non facevano altro che perseguitarlo e condannarlo a quello stato catatonico di allucinazioni da cui non era più emerso da anni a quella parte ‒ beato lui, che s’era smarrito nelle dune della propria mente. C’era chi, come me, si perdeva da tutt’altre parti e non riusciva più a darsi una scrollata.
Fui interrotto da quel cruccio da un soave fruscio piuttosto vicino a me. Quando parli del diavolo...
Grace Montrose era tutt’altro che una creatura infernale: elegante nei suoi abiti sofisticati, con gli elfici lineamenti perpetuamente serrati in un’espressione serafica e un portamento decisamente regale, somigliava più che altro a un angelo.
Il suo arrivo fu suggellato dalla vellutata musica di “Claire de lune” di Debussy, trasmessa da quella microscopica radio che Lord Montrose s’ostinava ad accendere giusto per alleggerire l’atmosfera ‒ che secondo me si stava facendo invece sempre più greve, chissà perché ‒ e portare armonia perfino in quell’anfratto dimenticato da Dio.
Un singolo e furioso battito di cuore m’artigliò la gola mentre mi drizzavo di scatto e appoggiavo su un comò vuoto un vecchio scatolone polveroso che conteneva volumi di antiche profezie dei Guardiani. Non guardarla, non devi guardarla.
Sfiorai l’involucro di cartone con metodica perizia, esaminando il suo spessore e decidendomi soltanto all’ultimo momento a strapparlo con forza ‒ una cruda metafora con lo stato del mio cuore.
Non guardarla. Mi parve essere la sfida più astrusa a cui avessi mai acconsentito, non girarmi verso di lei e contemplare il suo corpo formoso e sodo sbucare dagli indumenti. Attinsi a ogni briciola d’energia per non esitare sui suoi fianchi a clessidra e non mettere in moto le mie fantasie giovanili più sfrenate.
Si trattava tuttavia di un proposito molto arduo da rispettare. Indossava una gonna scura stretta in vita da una cintura eburnea e una blusetta altrettanto candida e attillata che non celava a dovere le sue grazie femminili. Rivolgendomi un altro dei suoi abitudinari sorrisi burleschi appena accennati, si scostò dal volto i boccoli scarmigliati e li riordinò a casaccio in una coda di cavallo. Probabilmente il suo intento era quello di provocarmi. In verità avevo già assaporato il suo profumo di nascosto: applicava sui capelli uno shampoo ai fiori di pesco e all’albicocca. L’odore che sprigionava era delizioso: una miscela floreale decisamente appetibile nel bel mezzo dell’opacità del freddo invernale.
Lord Montrose, ancora dedito a catalogare brani degli Annali nel suo studio privato adiacente all’aula dove mi trovavo, gracchiò: «Falk, fatti pure aiutare da Grace. È insolitamente brava a sbrigare faccende del genere.»
Non guardarla. Percepii l’inebriante fragranza della sua pelle perlacea nel momento in cui si chinò ad aiutarmi a raccogliere i tomi che avevo ammucchiato sul pavimento. Le sue mani agili si muovevano svelte sulle rilegature, esplorando i volumi con ineccepibile rapidità e operando una minuziosa selezione fra di essi ‒ come le avevano più volte fatto notare, aveva la stoffa del Guardiano. Peccato che le donne fossero estromesse a priori dall’iniziativa: sarebbe stato tutto molto più divertente, con un paio di belle ninfette a vivacizzare quel fosco ambiente. Magari non saremmo stati a tal punto ossessivi verso gli ingarbugliati indizi lanciati dal Conte, se avessimo avuto pane per i nostri denti. Inoltre, il clan femminile delle Montrose non era così scarseggiante di belle risorse: sebbene quelle donne dannate avessero tutti i capelli da strega, erano tutte avvenenti, nei propri limiti. Perfino Glenda, una bisbetica irascibile da cui mi ero a stento liberato, aveva un fascino tutto suo. Avrei preferito tuttavia collaborare con una dolce schiera di aspidi piuttosto: quando si trattava di lei, conveniva scappare a gambe levate ‒ e io ero uno dei pochi che c’era riuscito indenne.
Grace non si dilettò in chiacchiere o in altri svaghi: con la coda dell’occhio, ebbi l’occasione di constatare che sembrava più che altro impegnata a meditare. Oh, quanto avrei voluto conoscere i suoi pensieri! Chissà cosa diavolo stava architettando nella sua mente diabolica. Pensai che forse mi detestava perché avevo chiuso con tanta brutalità con la sua adorata sorella maggiore ‒ ironia della sorte. Le uniche volte che non le avevo viste discutere animatamente era alle riunioni della Loggia, quando si erano limitate a occhiate in cagnesco e squallidi insulti a bassa voce ‒ avevo intuito che il vero conflitto sarebbe stato rimandato a un momento più opportuno. Quanto mi sarebbe piaciuto assistere a una loro lite e imprimere quelle scene nella mia temprata memoria! Magari si sarebbe rivelato spassoso: ce le vedevo, lei e Glenda, a battersi alla spartana in un’arena.
Risi al pensiero con sana spensieratezza, tuttavia ben presto un dolce impatto mi trascinò verso la deriva della realtà.
Fu in effetti l’unico contatto che ebbi con lei: le nostre dita s’incrociarono inavvertitamente sullo stesso libro. Senz’alcuna esitazione, avevo adagiato i polpastrelli su una copertina color verde bottiglia per inquisirne i tratti distintivi e valutare se fosse da stilare o meno sulla mia nuova lista, e così aveva fatto anche lei. La sua carne si dimostrò, come al solito, un caldo e accogliente invito di primavera: la sua consistenza era soffice, aromatica, sublime. Era un tessuto impregnato dell’essenza delle meteore e di quella lunare, proveniente da altre galassie e lontano dallo sferzante gelo che soffocava i corpi e le menti in quei mesi freddi. Sembrava che fosse un velo d’avorio offuscato dalla solennità dei libri che ci attorniavano e che facevano scemare ogni confine di quel mondo terreno. Esaminai inconsuetamente le piccole pieghe sulle sue falangi, gustandomi la morbidezza con cui s’arrendeva alla mia indagine e al mio tocco inesperto. Non mi degnò comunque di un’occhiata ‒ neanche una minima bozza ‒ e proseguì a scartabellare l’elenco che teneva sottobraccio a mo’ di diario segreto. Alzai il capo con l’intenzione di incontrare il suo sguardo e di smarrirmi almeno vagamente nel mondo di luce che celavano, ma così non avvenne: come ogni altro scorcio di lei, era distante anni luce da me. Non so quante fossero le preghiere che invocai in quel momento per farla fondere con me almeno emotivamente. Come prevedibile, Dio non m’ascoltò: non l’aveva fatto al funerale di mia madre ‒ quand’ero ancora un bambino fedele alla dottrina spirituale ‒, non l’aveva fatto a quello del nonno ‒ quand’ero un adolescente in disgrazia prostrato dinnanzi a innumerevoli fardelli ‒ e non l’avrebbe fatto per esaudire la mia fresca brama d’amore ‒ ed ero un giovane uomo aggravato da sacrifici portentosi che non volevano saperne di darmi pace. Non era che Dio ‒ intendo l’entità suprema per eccellenza, venerata sia dai cattolici che dagli anglicani ‒ avesse una gran considerazione di me: forse ero il primogenito del malaugurio, quello su cui ricadevano le più gravose responsabilità e a cui toccava rimboccarsi le maniche per compiere il lavoro sporco ‒ rinunciando alle promesse di gioia che talvolta facevano capolino da un orizzonte a me estraneo. Uno di quei piccoli miracoli era Grace Montrose: sfavillante d’energia e di vitalità, era un respiro profondo concesso durante un’apnea. E, come quel minuscolo sollievo, era illecita.
«Levati dai piedi.», sibilai a denti stretti, furibondo perché rifuggiva le mie attenzioni come un’agile gazzella braccata da un leone. Sfogai la collera su un documento, artigliandolo con malagrazia e scaraventandolo sulla sua mensola con uno scatto violento.
Tutto ciò che avrei voluto fare era voltarmi e urlarle a pieni polmoni di non scappare via da me ‒ d’altra parte, rientrava nei divieti della mia vita.
Lei si voltò a scrutarmi con un’espressione d’artefatta innocenza che non lasciava affatto presagire la crudeltà interiore con cui mi respingeva da sempre ‒ svettava il famigerato asso di picche. Dapprima insofferente e in seguito scintillante di un nuovo moto di scherno, non si scostò di un millimetro. In compenso, incrociò le braccia e mi concesse una breve smorfia sprezzante ‒ da quando s’era azzardata a fregarmi il ruolo? Aveva rubato a Glenda quel cipiglio d’incontestabile superiorità che sfigurava le sue eteree fattezze.
«Come ben sai, Falk, sono la figlia del tuo capo e non una qualsiasi sguattera che obbedirà ai dettami di un insolente bambino come te. Impara a portare rispetto ai tuoi superiori e avrai già appreso il modo con cui fare carriera.»
Lapidaria.
Chiusi gli occhi, indugiando a lungo sul tono tagliente eppure inconsapevolmente ammaliante della sua sentenza. Aveva discorso con appena un filo di voce eppure aveva polverizzato con una certa facilità la corazza della mia anima.
«Le tue insinuazioni mi sembrano piuttosto ingiustificate, stupida Pel-di-carota.»
L’insulto con cui avevo chiuso la frase risuonò infantile e patetico persino a me stesso. “Stupida” non era davvero, considerando quanto aveva già potuto dedurre sulla Loggia e su come si era spremuta le meningi sui suoi segreti; quanto a “Pel-di-carota”, mi parve quantomeno assurdo denigrarla per una delle caratteristiche che contribuivano a renderla così affascinante ai miei occhi ‒ era la mia Montrose proibita, nel bene e nel male.
Distolse di nuovo gli occhi, uccidendomi un’altra volta ancora nel suo poco, e bisbigliò: «Parla per le tue, Occhi-gialli».
Esalai un sospiro di compiacimento, mentre rimuginavo sulle sue parole. “Occhi-gialli” era una frecciata migliore di “insolente bambino” e su questo non c’era dubbio: significava che mi aveva esaminato quanto bastava per scorgere sprazzi piuttosto definiti del mio aspetto. Inoltre, ammetto che il colore delle mie iridi era uno dei tratti di cui andavo più orgoglioso e sapere che lei l’aveva notato mi faceva stare meglio ‒ molto meglio.
Un sorrisetto compiaciuto mi comparve a fior di labbra mentre mi davo da fare per soppesare altri due manufatti che intuii fossero di vecchia data. Il suo sguardo si soffermò su di me solamente per un istante, giusto perché era una delle sue prerogative, essere inevitabilmente stregata dai misteri più arcaici custoditi dalle pergamene più antiche. Sbirciò il tesoro fra le mie mani con un’espressione avida, quasi famelica, aggrappandosi a uno scaffale per sporgersi verso l’enigma cartaceo che stavo srotolando con lentezza.
«Non c’è bisogno che tu mi osservi in quel modo, Montrose. Sono già a conoscenza della mia incredibile avvenenza.», sussurrai, perdendomi nei deliziosi petali delle sue palpebre che si dischiudevano rivelando quegli occhi incantati ‒ oltre che incantevoli.
Grace si ricompose freddamente in un solo attimo, drizzando la schiena e le spalle. Mi scoccò un’occhiata in tralice ‒ totalmente contrapposta alla premura che rivolgeva alle risorse bibliografiche ‒ e rise beffarda, contrattaccando con destrezza alla mia stoccata un po’ fiacca.
«Quando ti guardo, Falk De Villiers, non vedo altro che un giovane Peter Pan rinchiuso nella sua stessa fiaba e incapace di dar adito al proprio cervello. Per quanto ne so, poi, l’avvenenza non è da annoverare all’esigua manciata di virtù che puoi vantare. Potrei sempre sbagliarmi e avere un cattivo gusto in fatto di ragazzi, sai. Non prendertela troppo, in ogni caso: essendo a conoscenza della tua vena da predatore di donne e della tua inconfessabile mania verso le fanciulle più giovani, non ti enumererei fra i tizi più raccomandabili in circolazione. Inoltre, hai spezzato il cuore di mia sorella Glenda e non riuscirò mai a perdonarti l’insensibilità con cui l’hai rovinata. È il caso di dirlo: tu mi repelli
Sorridi, Falk, che la vita è bella.
Dovevo farlo, in ogni caso: quei fendenti erano più laceranti di qualsiasi altro colpo io avessi subito nel corso della mia breve esistenza. Mi sforzai di superare a cuore aperto quegli anatemi scagliati con immensa ferocia e di affidarmi a quell’accenno di resistenza che si stava facendo strada fra i miei bronchi per prendere il sopravvento sulla mia anima dolente. Sorrisi debolmente ‒ le eco delle sue accuse, un vivido richiamo nel vento ‒ e mormorai: «Beccato.»
Una volta tanto, piantò gli occhi sui miei ‒ schierando una scia di brividi sulla mia spina dorsale ‒ e ribatté seccamente: «Non riesco ancora a capire perché tu l’abbia mollata. Sei un tipo decisamente indecifrabile, quando vuoi.»
Le sue dita tremolarono quando estrassero alcuni libri dalle loro dimore originarie per concedere alla loro proprietaria di identificarli. Sì, era decisamente infuriata con me.
Osservai i suoi movimenti leggiadri e un po’ affettati, consistenti in guizzi fulminei del polso, che le permettevano di muoversi con sicurezza fra i titoli in esposizione. Consultava i volumi con foga, i nomi che comparivano via via sulle sue labbra purpuree che li pronunciavano senza appellare la propria voce, le dita atte a scendere soavemente sulla carta e a carpirne le nozioni più rilevanti. Dopodiché, riponeva il tomo alla sua postazione primigenia e passava a quello accanto.
Fu sempre con lo sguardo inchiodato sul suo ritratto animato che replicai: «La speranza è l’ultima a morire.»
Si voltò verso di me, quella volta, mollando persino il tomo che stava reggendo. Pensai che forse quelle parole, esalate come la confessione di un moribondo, avrebbero sortito un qualche effetto positivo: lo avevo da sempre ritenuto troppo banale, giocare con i cuori delle donne. Erano pedine estremamente manipolabili, al punto che una singola farsa sentimentalista poteva riuscire a ingannarle. Non ero mai rimasto attratto dalla supremazia ancestrale che caratterizzava l’uomo, a differenza dei miei avi ‒ si narrava che il Conte fosse un maschilista convinto che aveva rinnegato la compagnia femminile.
Come avrei dovuto aspettarmi, Grace non rispettava la tradizione: mi venne addirittura il dubbio che fosse una donna e, acciuffando al volo l’occasione, valutai le curve del suo sedere. Non aveva mai manifestato, in oltre un anno, delle preferenze sessuali: quand’era reclusa negli uffici del padre, era un’affidabile assistente concentrata esclusivamente sui propri doveri. Sebbene scorrazzassero per quei corridoi i più bei rampolli De Villiers ‒ compresi i nativi della Svezia, dotati di corpi imponenti e di occhi color verde mare ‒ lei non aveva mai infranto il suo protocollo di severità e non si era mai soffermata sui loro volti, a differenza della sorella che invece aveva sfoderato tanto d’occhi dinnanzi a tanta virilità.
Dopo che mi ebbe squadrato dall’alto in basso, con le braccia occupate a cingersi protettiva e a difendersi dalle mie frasi menzognere, sbuffò furtivamente e alzò gli occhi al cielo.
Cos’è andato storto, stavolta? Ignorai il sordido batticuore che mi stava sfiancando e provai a sospirare e accettare quegli schiaffi morali come se non fossero pubbliche umiliazioni bensì suggerimenti confidenziali. Era una squisita idea solo nella mia immaginazione.
«Mi odi, Falk?», domandò a bruciapelo, come se non fosse più in grado di tollerare quella buia coltre di tempeste che s’interponeva fra di noi.
, avrei voluto dire, tanto. Grace Montrose era stata la prima femmina a respingermi con tanta fierezza e a mandarmi segnali così contraddistinti e inequivocabili ‒ la sua maledetta carta da gioco. L’avevo a lungo considerata una delle sfide più accattivanti della mia vita ma mi ero ben presto rassegnato: dopo cinque volte che avevo insistito a seguirla per ravvicinarla, mi era sfuggita. In compenso, avevo catturato le attenzioni di sua sorella che non aveva affatto disdegnato il mio aspetto e si era presentata sempre più spesso alla sede a Temple. Uno scambio di sguardi, un paio di sorrisi, un bacio nello sgabuzzino: io e Glenda Montrose ci eravamo fidanzati in un intervallo imprecisato dell’autunno appena trascorso. Non era andata molto bene: dopo appena una settimana, avevo già  pianificato di rompere con lei. Non avevo affatto scordato sua sorella ‒ la cui essenza ormai scorreva nelle mie vene insieme al sangue ‒ ed era diventata decisamente insopportabile. Gelosa di quella, gelosa di quell’altra, gelosa perché aveva un brufolo e Grace no, gelosa perché il tizio più carino della squadra di badminton aveva ammiccato solo alla sua amica e non a lei, gelosa che io non ero abbastanza protettivo nei suoi confronti: in breve, una ragazzina appiccicosa che non riuscivo a scrollarmi di dosso.
Odiavo Grace Montrose? La verità era che non la odiavo, nemmeno un po’, nonostante mi avesse fatto sudare le sette camicie e non fossi stato comunque all’altezza delle sue criptiche prove. Probabilmente è così, quando ci s’imbatte nell’amore puro: nessuna fatica conta, purché si raggiunga il risultato. Io avevo fallito in ogni caso, oppresso dall’incommensurabile rete di insidie che m’avevano assalito: il verdetto era stato quello ‒ l’asso di picche, il simbolo della mia sconfitta. Colmo di rammarico, m’ero rintanato in me stesso e avevo convissuto con i brucianti echi di quel fiasco, limitandomi ad andare avanti e a reprimere ripetutamente il risentimento che mi straziava.
«Non ti ho mai odiato, Grace, neppure quando mi hai rifiutato.»
Quella conclusione, sospirata flebilmente, parve raffigurare la frattura del mio petto. Da un lato, una frazione si sentiva tradita ‒ stupido, stupidissimo orgoglio ‒, la vittima mietuta in un complotto ordito dal folle Amore che mi teneva in suo pugno; dall’altro, la diga incustodita che manteneva integro il confine fra sogni e verità si era spaccata, rivelando al mondo cosa celavo nell’anima. Forse Grace era insaziabile anche per quanto riguardava i miei sentimenti, chissà.
Per una volta, s’accostò a me, chinandosi per sussurrarmi all’orecchio: «Non ti ho mai rifiutato. Ti ho solo dato il primo degli assi. Stava a te giocare.»
Stava a te giocare. Quella frase palpitò nella mia mente come se fosse incatenata ai battiti del cuore: la scandivo con perizia mentre mi rimbombava nelle arterie, pompata insieme al sangue e vibrante d’elettricità. Mi colse un moto di vertigini mentre i miei pensieri, disorientati da quella strana confutazione, si perdevano nelle memorie.
«Stronzate.», sentenziai, infine, con le nocche talmente contratte da esser diventate smunte. «L’unico gioco a cui ho partecipato è stato uno da Inferno in cui ho perso la mia testa e la mia vocazione. Volevi maledirmi sin dal principio.»
Mi fissò tristemente, come se mi fosse sfuggito proprio il fulcro della sua strategia. I suoi occhi azzurri scintillarono d’oro e d’arguzia quando si spalancarono per spiegarmi con urgenza: «Dovevi soltanto giocare.» Detto ciò, si sistemò gli indumenti e ritornò a lavorare come se niente fosse. Gli arti nivei di Grace costellavano i ripiani e accarezzavano i libri trepidanti dell’amore che riservava solo a loro.
Quando registrai le sue parole, pensai che fossero soltanto calunnie improvvisate in quell’istante. In un secondo momento, mi fermai a riflettere e giudicai che forse avevo davvero combinato un casino: avevo terribilmente frainteso il suo messaggio. Il primo era stato l’asso di picche. “Almeno non è un due di picche.” Era stato il commento del nonno Kenneth quando aveva distinto la carta fra le mie mani. Picche: il primo dei semi neri. Quello più fatidico da conquistare e la parte del gioco che io non ero riuscito a terminare in quell’intervallo di tempo ‒ un anno e qualcosa in più.
La rivelazione arrivò sferzante come il vento e altrettanto rimpianta: mi ero arreso al vuoto quando avrei potuto proseguire e vincere senza dar dimostrazione di viltà. Il mio blocco non era stato nient’altro che un’inerzia: scaraventato contro la colonna delle negazioni, non avevo potuto fare a meno di sfoggiare la mia corazza d’acciaio e di ricercare la catarsi nello scempio che stavo vivendo.
L’asso di picche, nitido negli alvei del mio cervello, non era null’altro che il vessillo d’inizio nella scacchiera ideata da Grace: non era un pegno d’arresto bensì un invito a procedere con le altre tappe ‒ gli altri assi. Dovevo arrivare a collezionare un poker d’assi per aver il trionfo ‒ quella intricata femmina di una Montrose ‒ in pugno. Sigillai le labbra per qualche altro attimo e assaporai le dolci sfaccettature di quel silenzio profetico: non m’aveva scacciato via, allora. Ero ancora salvo.
Eppure mi domandavo se la pausa di quell’anno trascorso nell’erudizione eremitica non facesse la differenza.
«Quindi ho perso?», chiesi infine, sputando fuori il quesito che tanto m’angosciava. «È finito il gioco, giusto?».
Non volevo sapere la risposta: m’avrebbe assillato, torturato, reso folle. Quelle afflizioni erano semplicemente troppo asfissianti per me.
Preferivo crogiolarmi nella meraviglia per quel brusco risveglio che patire per un altro insuccesso, quella decisivo.
«Il gioco è nelle tue mani e solo tu puoi decretarne la fine.», rettificò Grace, sempre dedita ai suoi fascicoli e senza studiare la mia reazione.
«Tu cosa preferiresti, che io giocassi o no?», pretesi ancora di sapere. Senza accorgermene, m’ero pericolosamente appressato a lei e potevo quasi lambire i suoi capelli con le labbra. Il suo alito era un morbido spiffero di gigli. Sebbene avesse il respiro smorzato dalla vicinanza, insisteva nell’ignorarmi.
«Onestamente, non sarei qui ad aspettare come un’ebete se non lo volessi ‒ se non ti volessi ‒ con tutta me stessa.»
Non rimuginai oltre: ritenni che il pensiero per un uomo non fosse nient’altro che un impertinente brusio che destava i cuori dalla collina delle follie ‒ ed io desideravo ardentemente smarrirmi in quel dolce oblio. L’afferrai per i fianchi, sbattendola malamente sullo scaffale dietro di lei. Mi avrebbe presto riempito di ceffoni, perciò non esitai oltre e, prima che potesse in alcun modo effondere veleno dalla bocca, le catturai le labbra fra le mie.
Non so da quanto tempo anelassi il tepore di quel bocciolo che si dischiudeva soltanto per profetizzare la mia rovina: forse da mesi, forse sin da quando l’avevo conosciuta, forse era scritto nelle stelle. La strinsi tra le mie braccia, giacché era vera, e la sistemai gentilmente in un angolo della scrivania abbandonata, percorrendo con le mani la sua pelle lattea che si cospargeva intanto di brividi. Non so che tipo di bufera mi stesse dilaniando per essermi ridotto a una tale bestia.
Quel che sapevo era che lei aveva un gusto prelibato, così invitante che non fui capace di rinunciare al suo dono neanche per riprendere fiato. Le labbra che prima mi sembravano sacre erano lì, schiuse sotto le mie, ormai incandescenti per l’irruenza che ci trascinava sempre più oltre, ai confini del desiderio, di quell’oceano di carta e passione che s’intrecciava tra di noi.
Non riuscii a contenermi e con le mani perlustrai la pelle bollente protetta dai vestiti, sfiorandole il ventre e risalendo fino alla gola.
Fu allora che Grace Montrose si stancò della mia ispezione e prese l’iniziativa ‒ un modo delicato per lasciar intendere che s’avventò su di me per vendetta. Era spietata perfino nei baci: deliziava le mie labbra arpionandole alle sue e insinuava la lingua contro la mia, per poi lasciare insoddisfatto il mio anelito ed esasperarmi con le sue lievi carezze di velluto. Mi sfiorò con le dita ‒ che avevano sperimentato fino a quel momento soltanto la rigidità dei libri ‒ e scese lungo il mio petto e sostò sui miei addominali.
Un piccolo gemito risuonò nell’aria, incontrollato: realizzai sconvolto che apparteneva proprio a me. Lei, evidentemente compiaciuta d’avermi strappato quell’impulso di passione, sorrise sulle mie labbra e mormorò: «Taci, o mio padre s’accorgerà che il suo dipendente non rispetta le sanzioni da lui previste.»
«Al diavolo le sanzioni!», mi sfuggì mentre tentavo inutilmente di riprendere possesso sul suo corpo. Istintivamente indignato, le feci anche notare: «E io non ero quel tizio poco raccomandabile che ti repelleva?».
Lei s’aprì in un sorriso sghembo fulgido di splendore che avrebbe fatto invidia al sole per la sua lucentezza. «Ognuno ha i suoi vizi.»
Avrei voluto aggredire le sue labbra solo per quella perla di saggezza ma decisi che era anche il mio compito estenuare il suo corpo.
«E non mi odiavi per ciò che ho fatto a tua sorella?», indagai, lascivo, giocherellando con i riccioli sfuggiti dalla sua acconciatura.
Mi fissò e parve accorgersi che avrebbe dovuto mantenere il suo cipiglio iracondo piuttosto che gettarsi fra le mie braccia. Infine optò per un «Al diavolo Glenda!» e s’appigliò alla mia spalla.
Mi prese la mano con amabilità e la perlustrò a fondo, esitando sulle increspature ricurve sul palmo e accarezzandola da cima a fondo. Con sollecitudine sospinse la mano verso la tasca della sua gonna e lì mi lasciò indugiare. Esplorando il tessuto potei percepire una carta sottile e tagliente come una lama: seppi cos’era ancor prima di estrarlo con impeto ‒ l’asso di fiori. Lo appoggiai sul tavolo e tornai a dedicarmi alla piccola dea fra le mie braccia, che si dimenava per assumere il controllo della situazione, com’era suo solito.
Ripresi a baciarla con foga, giusto perché anche lei mi repelleva, e pensai che forse ne era valsa la pena di quell’anno anno di solitudine. Posai le mani sui suoi fianchi e la strinsi ancor di più a me ‒ doveva comprendere che prima o poi avrei vinto perfino l’asso di cuori.
Sbirciai da sopra la sua spalla la carta luccicante sotto i raggi che sbucavano dalla vetrata cristallina dell’aula: avevo completato il duo dei semi neri.
Mi mancavano soltanto altre due carte.

 
   
 
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