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Autore: Mary_la scrivistorie    18/08/2016    0 recensioni
Falk/Grace – Mini-long – 1980.
Grace Montrose, per Falk De Villiers, è un criptico enigma. Sin dal momento in cui l’incontra per la prima volta, è una figura annebbiata dalla magia di un misterioso gioco. Per riuscire a conquistarla, Falk deve collezionare un poker d’assi – picche, fiori, quadri e cuori. Ogni asso gli viene assegnato quando riesce ad avanzare mosse in quell’offuscata scacchiera – il cuore della ragazza.
«Fu durante una fresca mattina di mezz’estate che m’imbattei nella Ragazza-Dai-Capelli-Di-Fuoco per la prima volta ‒ o almeno quella che all’epoca reputavo esserlo.
Avevo sedici anni, una manciata di caramelle alla menta in tasca ‒ quelle che avevo furtivamente sgraffignato la sera prima dalla dispensa in cucina ‒ e una brutta scia di graffi sanguinolenti che avevo rimediato durante i miei abitudinari pellegrinaggi in città. Londra era indubbiamente lo scenario perfetto per incorniciare le piccole avventure di un adolescente come me: rappresentava un enigma offuscato da una fitta nebbia d’argento e ottenebrato dai più arcani segreti ‒ l’amavo.»

[Prima classificata al contest “Tante canzoni, una storia” indetto da Mokochan sul forum di EFP.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Falk de Villiers, Grace Shepherd, Lord Lucas Montrose
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Questi personaggi non m’appartengono e non sono assolutamente usati a fine di lucro.
 
 
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      Capitolo III Asso di quadri
 
         
{Sulle note di Beautiful Crime,
brano di Tamer
e colonna sonora del trailer della serie televisiva
Daredevil}
 
[2] Dal testo della canzone.

 
Mio padre abitava in una fortezza murata appena fuori Canterbury: attorniata da una fitta nebbia in cui sarebbe stato impossibile distinguere perfino la luce di un lampo, era soprannominata nella cittadina come “Castello degli Spettri” per via della sua atmosfera ermetica. Si vociferava che fosse infestata dai più temibili demoni infernali e che chi osasse sostarvi fosse automaticamente destinato alla dannazione eterna: chiunque vi risiedeva, anche per breve tempo, era ritenuto l’artefice dell’evocazione di quegli esseri mostruosi e quindi compartecipe dei rituali satanici svolti in quel luogo sinistro. Talvolta i passanti riuscivano a scorgere luci vivide dalle finestre: si trattava di bizzarri fulmini anneriti circondati da aloni rossastri ‒ e si diceva che ognuna di quelle saette sancisse l’arrivo di un nuovo demone sulla Terra.
Perfino l’arcivescovo aveva decretato che quel fosco meandro era soggetto alla supremazia di forze oscure e ignote e che pertanto fosse un posto da cui scappare, se possibile, a gambe levate. Non avevo idea di come un ragazzino come Paul fosse conciliante all’idea di giocare nel piccolo orto su cui s’affacciava l’edificio: non vi proliferava un filo d’erba e i protagonisti indiscussi in quello scenario erano gli avvoltoi, che s’acquattavano sugli alberi in attesa di mietere qualche vittima animale. Personalmente, io avrei avuto paura a mettere un piede fuori dalla soglia di casa ‒ e già quella non era nient’affatto rasserenante. Per mia fortuna, mio padre aveva traslocato lì dopo che avevo compiuto i sedici anni e quando stavo quindi soggiornando in affitto dal nonno ‒ per terminare i miei studi ‒, il cui appartamento mi era stato poi lasciato in eredità secondo le volontà del testamento in seguito alla sua scomparsa. Mio fratello era stato tuttavia costretto a trascorrere il suo tempo in quel maniero e ‒ fatto ancor più sconcertante ‒ sotto la tutela di nostro padre. I Guardiani s’erano più volte dimostrati contrari a quel proposito. Le fondamenta della loro logica analitica rimanevano le stesse: Paul non era un semplice futuro adepto bensì il nono dei viaggiatori nel tempo e, come tale, avrebbe dovuto vivere nel privilegio e nel prestigio ‒ come accordato dalle norme stabilite dagli Annali. Avrebbe dovuto seguire corsi specializzati in una serie di discipline in voga nei secoli passati e avrebbe dovuto essere controllato nella condotta ‒ che doveva essere degna di un galantuomo ‒, negli usi e nei costumi. Mio padre aveva replicato che per quelle emerite stronzate c’era ancora tempo e che, da quando era morta la mamma, era lui il tutore dei suoi figli. Alla fine, per nulla convinti, i Guardiani s’erano arresi all’evidenza: quell’avaro di un De Villiers aveva un aspetto talmente esangue che supposero sarebbe un giorno di quelli collassato a terra, stecchito, e loro non avrebbero dovuto far altro che aspettare quell’evento per poi calarsi in picchiata sul premio che tanto agognavano ‒ l’innocente anima di Paul. Per il resto, a nessuno importava che il mezzano della progenie di Kenneth De Villiers fosse uno schizofrenico sul punto di morire segregato in una roccaforte costruita, invece che in mattoni, d’incubi.
I miei zii paterni pretendevano soltanto un esito, quello dei soldi, e la mia zia di parte materna era all’erta perché consapevole che l’affidamento sarebbe toccato a lei ‒ sebbene non fosse così ben disposta verso di noi.
Su un singolo punto delle tesi di quei bastardi potevo trovarmi d’accordo: mio padre era ormai decrepito. Non si vedeva più traccia di muscoli sulle sue braccia e la pelle era così sottile da lasciar intravedere la sagoma delineata dalle ossa; sembrava ormai sbiadirsi fra le pareti lignee del suo studio mentre allungava gli arti una sola volta al giorno, per raggiungere ogni sera la lettera che aveva tanti prima abbozzato per la mamma ‒ prima della sua morte ‒ e che non aveva mai avuto il coraggio di spedirle. Pensavo che contenesse oscenità sul suo passato o vergogne mai esternate: quando la rimirava, era assorto nella sua malinconia da cui non si riprendeva per ore intere. Un altro fattore che rendeva mio padre un’eco delle tenebre era la perdizione espressa dai suoi occhi vitrei: si muoveva nell’ombra, rapito da chissà quale inquietudine, e aleggiava nell’oscurità come se ne fosse parte integrante.
Sembrava che il Castello degli Spettri rispecchiasse l’ecatombe che lo devastava: il compianto dovuto al lutto dei suoi cari corrispondeva a quell’angosciosa e sanguinaria scalinata tramite la quale si recava nel suo personale santuario ‒ un anfratto dedicato ai ritratti della mamma e ai pegni terreni che gli restavano di lei ‒ da cui si destava soltanto per concedersi una manciata d’ore di sonno. Nonostante il suo comportamento senza vita, s’ostinava a fingersi ancora un De Villiers, altezzoso e opportunamente risentito, e a bere come se fosse l’unica gradevolezza che gli fosse permessa.
Insistevo tuttavia nel giudicare l’esilio di mio padre come un onorevole martirio: dopotutto, stava compiendo quei sacrifici al fine di non vanificare i rigorosi precetti del nonno e di non farci diventare le copie viventi di ciò in cui lui s’era mutato ‒ un altro spettro riflesso allo specchio.
Facevo ricorrenti visite in quel luogo maledetto per assicurarmi che andasse tutto per il verso giusto e che mio padre non rovinasse anche l’infanzia del suo secondogenito. Ero sempre visibilmente preoccupato per Paul e per la sua educazione: non volevo che la disperazione che affliggeva nostro padre contagiasse anche la sua crescita. La mia apprensione non faceva che infastidire mio padre che riteneva che me ne curassi soltanto per i miei doveri di primo assistente della Loggia. Perciò tentai di sfoggiare un’espressione mite e pacata ‒ nonostante la bufera dentro ‒ non appena varcai quegli ombrosi confini.
Quando suonai il campanello e oltrepassai il vano fra il cancello in ferro battuto e il maestoso portone che forniva accesso all’atrio, riuscii a distinguere il pallido profilo del mio genitore che scrutava la propria immagine nello specchio annidato accanto all’entrata.
Notai che si era fatto ancor più smunto rispetto alla mia ultima visita: i capelli d’argento erano ormai sciupati e unti; il volto, che anni addietro era stato decantato da una sfilza di donne per la sua sontuosa bellezza, s’era trasformato nella sua versione incupita e deturpata dall’età; la sua corporatura non era più vigorosa e atletica bensì scheletrica e emaciata; la sua carnagione non era più levigata come un tempo ma sfigurata da grinze di depressione e rughe d’esperienza, oltre che ad apparire coriacea per lo sfiancante lavoro di tollerare tutte quelle catastrofi senza arrendersi all’ineluttabilità della vita. Le sue spalle ossute mi rammentarono quelle di Grace, quando le avevo strette con dolcezza durante il nostro primo incontro ‒ maledizione, non dovevo pensarci! Mi sforzai di pensare piuttosto a Kristen Hershey, che, sebbene presentasse un vago tessuto adiposo sui fianchi, aveva un davanzale stratosferico e non un paio di mozzarelle qualunque al posto del seno. Ecco, molto meglio.
«Che dispiacere vederti, figliolo. La Pel-di-carota se l’è data a gambe, non è così? Tutte quelle streghe lo fanno, prima o poi. Entra, che ti offro io un bel brandy toccasana.»
Paul poltriva sul divano e sorseggiava pigramente un bicchiere colmo di liquido ambrato che somigliava incredibilmente a birra. Mi studiò con zelo come se fossi un ispettore che gli voleva rubare le caramelle. Magari, se ce le avesse avute! Barcollai verso di lui, con aria inferocita, e iniziai a strillare come un oratore in piazza.
«Paul, molla immediatamente quella birra, prima che ti spedisca in gattabuia!», lo redarguii, fregandogli la bibita di mano e tracannandola tutta d’un fiato.
A mio padre brillarono gli occhi, come a dire: “Il vecchio Falk è tornato.” Non osò profanare quel momento di tregua più unico che raro con un’esplicita provocazione, nonostante gli leggessi il trionfo nello sguardo, ma s’azzardò a scaldare le acque: «Osservo con piacere che hai finalmente smesso di spacciarti per il damerino di quel vecchio brontolone di un Montrose.»
La microscopica vittoria sul suo antico rivale sfavillava nelle sue iridi come se fosse infervorato da un moto di pura ripicca. Quella rappresaglia sembrava essere destinata a non estinguersi mai, neppure tra le fiamme dell’Inferno.
Stentavo a credere che, sebbene si fosse ridotto a quella creatura macilenta, covasse ancora quel suo cruento rancore verso la famiglia che aveva sostituito il nonno sul trono della Loggia. Mio padre s’era ritirato tanti anni prima, per esaudire l’infausto desiderio di mia madre prima che ella spirasse, e non si era mai crucciato di quella scelta: forse per non disonorare la memoria di mia madre con un tale affronto; forse perché non aveva mai eccelso in quell’ambito o forse perché con il lutto di sua moglie aveva effettivamente perso ogni cosa. Rimaneva comunque preda dell’odio che l’aveva già avvelenato in gioventù, tanti anni prima.
La sua presenza in quella dimora demoniaca non guastava affatto: era l’ennesimo fantasma che invadeva il Castello degli Spettri, dotato di poca carne e una gracile ossatura.
Quando ebbi terminato la bevanda e la percepii ardermi nello stomaco, non indugiai ad afferrare un bicchiere di cognac ‒ intuii che mio padre avesse già consumato gli altri superalcolici ‒ e a svuotarlo in un sorso. Impulsività, Falk, impulsività. Rimasi un attimo spiazzato dal velo che cominciò a offuscarmi i sensi e mi smarrii in quel dolce torpore che non mi coglieva da tempo immemore. Ero disorientato dall’estasi di quell’ebrezza: prendeva il sopravvento sui miei pori e li armava di vertigini. Riconobbi in quello stato di semicoscienza uno squarcio salvifico: una visione così sfuggente delle cose, perlomeno, non aveva il potere di scalfirmi. Potevo già sciorinare una lista di ferite che non si sarebbero mai rimarginate: Grace Montrose non s’era trattenuta e aveva dato il meglio di sé con i suoi artigli affilati che m’avevano ripetutamente violato la carne. Scacciai lo stesso sconforto che m’attanagliava da un mese a quella parte e mi soffermai piuttosto sulla caraffa di cristallo da cui s’abbeverava mio padre. E così, per scampare ai mali del mondo, tutti i De Villiers prediligevano l’oblio dei sensi: buono a sapersi. Sarei diventato perfino io in quella maniera, un giorno? Mi sarei ridotto a un vecchio eremita segregato nella propria mente e accompagnato da ombre insonni? Sperai con ogni briciola del mio animo che non fosse così.
Mio padre mi scoccò il sorriso più sarcastico e sgradevole che potesse ideare: «Ora sì che ti riconosco, Falk. Dov’è la fattucchiera fulva?».
L’aveva chiamata così anche l’ultima volta che era venuta con me, ovvero circa un paio di mesi prima. Lei non se l’era presa soltanto perché l’avevo avvertita in tempo del disgusto che lui nutriva per i Montrose, a prescindere dalla generazione e dalle loro azioni.
Pensai amaramente di rispondergli: “È a farsi fottere, letteralmente.” Gli schiamazzi di una risata riecheggiarono nel mio cuore ormai marcio d’amore ‒ tante, troppe disillusioni. Rimuginai su di lei, sulle promesse che avevamo stretto avvinti sotto al firmamento ‒ “Sei mia?”, “Ti apparterrò sempre.” ‒, e sulla graduale metamorfosi che ci aveva condotto a quella scissione definitiva. In una scala da uno a dieci, io avevo sofferto cento e lei forse due, nonostante l’infinito che m’aveva giurato sotto il suggello del cielo.
Tra quelle promesse in cui io avevo investito ogni capitale di me stesso ‒ ben più caro del denaro ‒, ne aveva infrante la maggior parte. Se la memoria non m’ingannava, soltanto una era la superstite della sua strage ‒ “Quanto ci vorrà prima che io conquisti tutti gli assi?”, “Settimane, mesi, anni, forse di più.”
In effetti, l’asso di fiori risaliva esattamente a tre mesi prima. Scintillava ancora nella mia tasca come se fosse un marchio benefico piuttosto che la testimonianza della voragine in cui ero precipitato. Avevo sperato a lungo che, in quell’unico mese trascorso in serenità, Grace Montrose avesse potuto consegnarmi l’asso di quadri, la penultima tappa di quel viaggio negli abissi del suo cuore. Essere a metà strada, assurdamente, mi aveva dato sui nervi: mi ero sentito ancora impotente, come se non la conoscessi abbastanza, e ciò mi aveva reso sempre più ansioso e possessivo nei suoi confronti. Nonostante la relazione con lei non fosse né consolidata né ufficializzata, non tolleravo le occhiate moleste che i maschi rivolgevano alle sue floride forme. Quando glielo avevo fatto notare, senza astenermi dal palesare quella vena d’irritazione, lei era scoppiata a ridere ‒ sempre con quella sua straordinaria magia ‒ e mi aveva baciato la guancia, come se la mia gelosia non avesse fatto altro che intenerirla. Allora già avevo previsto che Grace m’avrebbe fatto ammattire, ma non sapevo fino a che punto.
Una settimana dopo s’era presentata nel mio ufficio con un’aria affranta ed io, senza riuscire a opporre resistenza ai miei impulsi primitivi, l’avevo abbracciata, tentando di consolarla e di rinsavirla da quella negatività che stonava decisamente sui suoi graziosi lineamenti.
“Mio padre l’ha scoperto. Si è arrabbiato perché non gliel’ho detto e perché stiamo infrangendo il protocollo in merito alla sfera privata dei segretari. Non ha potuto proteggermi dalle accuse dei tuoi parenti: è stato obbligato a licenziarmi.”
Avrei dovuto aspettarmelo: suo padre aveva già concesso un’eccezione per assumerla part-time come propria assistente, figuriamoci se avesse potuto permettersi di salvarla dalle proteste dei suoi colleghi dopo il pasticcio che avevamo combinato e sapendo che si trattava di una donna!
“Da’ loro tempo: si abitueranno a te, parola d’onore.” Erano le uniche menzogne che me la sentii di rifilarle: non potevo mentire ancora, non a lei. La verità era che il nostro amore sarebbe sempre stato mutilato dal richiamo del sangue, di quel sangue, portandoci a conseguenze ben peggiori di un rifiuto professionale.
“Falk, ho appena perso l’unica passione a cui abbia dedicato tutta me stessa.” Sembrava esausta, madida di disperazione e tremante per quell’estenuante diniego, e cercava una nuova flebile speranza nelle mie parole. Probabilmente fu in quell’attimo che mi giocai l’asso di quadri.
Non le offrii il sostegno di cui aveva impellente necessità. La baciai con premura, certo, cercando di cancellare la mestizia dal suo volto, ma dentro di me già sapevo che quella faida secolare avrebbe segnalato una frattura anche nel nostro rapporto. “Calma, hai me. Tutto si risolverà.”
Evidentemente quella minuscola bugia a fin di bene non bastò a rassicurarla.
Grace svanì d’improvviso, come la scia di cenere e fumo che cerchi di afferrare, senza più dare sue notizie per settimane. Talvolta mi decidevo a raggiungere Bourdon Place ma, prima che potessi richiamare l’attenzione di quel clan che m’era ostile, mi arrendevo e tornavo a rifugiarmi nel mio cappotto ‒ avevo bisogno di un nascondiglio anche da me stesso. Qualche volta, invece, visitavo i giardini fuori città, quelli in cui avevamo giaciuto nelle ore diurne, a contemplarci. Non avevo mai realizzato la beatitudine che mi dominava quand’ero con lei: era nei momenti d’assenza, quando il mio cuore strabordava di nostalgia, che me ne avvedevo. Il culmine del malumore era di notte, quando mi capitava di sognarla fuggire di soppiatto, di andarsene via da me ‒ proprio come, alla fine, aveva fatto.
Venni a conoscenza della fine di quel rapporto che s’era instaurato fra di noi non da lei, bensì da uno dei pochi amici che avevo avuto nel mio vecchio liceo prima di intraprendere gli studi specializzati per ordine della Loggia. Avevo legato con Gregory Sykes perché era l’esatto opposto di me: modesto, gentile, impavido, affettuoso e, in genere, una noia mortale. Aveva origini umili ma non aveva mai provato invidia nei miei confronti: come avevo già detto, era una persona così leale da risultare nauseabonda e così buona da poterci scrivere su una tediosa storia strappalacrime. Inoltre, era capitano della squadra di rugby ed era idolatrato dalla maggior parte delle ragazze della scuola.
Quando quel giorno si recò da me, pensai che gli occorressero dei soldi. Di solito, i pochi amici dei De Villiers venivano a cercarli dopo anni e anni e soltanto perché erano incappati in gravi crisi finanziarie. Stavo già per cantilenare: “Quanto ti serve?”, quando notai lo sfarzoso sorriso che sfoggiava. Il suo entusiasmo mi sconvolse e distrusse ogni mia ipotesi. Perché era lì? Era davvero talmente disperato da venire da me per potersi sfogare con un amico? Fui inorridito da tale possibilità.
“Falk, non indovinerai mai cosa mi è successo.” Non attese né un invito né una risposta: entrò nel mio appartamento sempre ridendo e mi strinse in un abbraccio soffocante. “Mi sono messo con Grace Montrose.”
Avevo creduto che fosse quello di Gregory l’universo delle brutte notizie e dei problemi caritatevoli sull’umanità, ma non impiegai molto tempo ad accorgermi che era il contrario. Fu il mio mondo a capovolgersi, fu il mio cuore a riempirsi di piombo dopo quella rivelazione, fu la mia anima a sbriciolarsi sotto il fardello della verità. Non risposi mai al mio amico: senza neanche una parola, lo congedai e gridai di rabbia finché non mi mancò la voce. Mi concentrai poi sulle carte che avevo depositato nel mio comodino preferito: non era che esigessi chissà cosa da quel rapporto improvvisato così su due piedi, ma di certo non m’aspettavo che mi tradisse così di getto, senza neanche degnarmi di una spiegazione. Fu allora che feci i conti con il segreto da cui mio padre non m’aveva mai risparmiato: i De Villiers non erano fatti per stare con le Montrose, punto e fine.
Mi ricomposi in quello stesso istante e replicai freddamente: «Non credo che tornerà più da me. Ha trovato una compagnia più desiderabile.»
Mio padre alzò il calice dell’amnesia e ammiccò: «Parole sacrosante, figliolo. Te ne avevo già parlato, mi sembra. Mai fidarsi di quelle meretrici.»
Brindai con lui e approfittai di quell’opportunità per informarlo sull’andamento del lavoro: «Il vecchio Montrose mi ha promosso a rango superiore: sarò il suo vice, d’ora in avanti.»
Lui scrollò le spalle come se non fosse affatto sorpreso da quel progresso. «Non credere che l’abbia fatto per nobiltà d’animo: è stato smosso dalla compassione, come farebbe ogni padre che è consapevole di avere come segretario il cornuto della figlia.»
Quelle parole, pronunciate dalla lingua senza scrupoli di mio padre, ebbero l’effetto di riempirmi di un’ira funesta. Allora era quello che ero a tutti gli effetti: un cornuto. Ero stato per tutto quel tempo la pedina sacrificale nel gioco di Grace: aveva carpito ogni piega di vita dall’anima che le avevo consacrato e m’aveva spezzato con una sola tattica.
«Padre, io l’amavo.» Era la prima e l’ultima volta che l’avrei detto: una singola lacrima tradì ‒ anch’essa ‒ il tormento che celavo e s’infranse sul tavolo dove mio padre custodiva i suoi amici redentori ‒ brandy, cognac e rum. Probabilmente anche quel piccolo sfogo corrispondeva ad altrettanta purificazione: dovevo esternare tutto il gelo che avevo dentro, che s’era fatto ingestibile. Mi abbandonai sul sofà e mi rannicchiai in posizione quasi fetale, raccontando tutta la verità che avevo taciuto: il primo incontro ‒ l’asso di picche ‒, la resa, il risveglio ‒ l’asso di fiori ‒, il suo licenziamento e la conseguente separazione. Se era stata bandita da Temple, era anche colpa mia ‒ colpa della mia natura di De Villiers e del cattivo sangue che mi scorreva nelle vene.
Mio padre mi scrutò con curiosità, come se l’amore fosse semplicemente un concetto astratto per la sua mente: «Tu credi di amarla, figliolo. Le donne non si amano: si possono avere, controllare, proteggere ‒ ma non amare. Sono soprattutto gli ingenui come te che devono guardarsi bene dalle illusioni amorose: potrebbero farti finire al manicomio o in carcere o, peggio, al cimitero. Alcuni crepano anche, nel nome dell’amore ‒ che in realtà è un brutto scherzo del destino. Guarda com’è ridotto il tuo vecchio: sleale, spietato, abrasivo, malvagio, malato. È così che ti trasforma quel sentimento che ritieni essere l’amore: ti corrode dentro, come un intruglio avvelenato, e non ti lascia più scappare, come la gabbia di una bestia. Prima te ne accorgi, meglio è.»
Paul, intanto, s’era addormentato: non era la prima volta che mi ritrovavo a confrontarlo con me stesso. Un sorriso amaro mi fiorì sulle labbra mentre vagavo a un anno e passa prima: sembrava esser passato così tanto tempo, da quando avevo invidiato le attenzioni che i Guardiani gli rivolgevano. In quel momento, gli invidiavo soltanto l’ingenuità giovanile ‒ volevo tornare a essere anche io un bambino meravigliato dal mondo che s’offriva alla sua indagine. Volevo tornare a essere un innocente.
«Da come ne parlate, padre, sembra che voi l’abbiate provato a vostre spese.», gli feci notare, giocherellando con il cristallo della coppa vuota fra le mie mani. Tintinnava, accompagnando il dolce crepitio del focolare, mentre lo colpivo con le unghie.
La sua espressione si rabbuiò, deformata dalla demoralizzazione che ormai aveva preso il sopravvento sul suo corpo e sulla sua anima, portandolo alla miseria peggiore del mondo ‒ l’aridità del cuore.
«Tua madre non era una Montrose, Falk: era, se possibile, una compagnia ancor più scandalosa. Avrei dovuto evitarla con tutto me stesso, per far bene. Io commisi il deplorevole errore di qualsiasi altro giovane uomo: spaccato fra coscienza e lussuria, preferii concedermi di incontrarla di nascosto. Lo feci e lo feci di nuovo, incurante degli effetti collaterali che tutto ciò avrebbe comportato, cominciando ad abituarmi e a essere dipendente da lei. Rimase ben presto incinta di te ed io, pur di non rovinarmi la reputazione, la sposai, dietro consiglio ‒ e minaccia ‒ di tuo nonno. Neanche a dirlo, divenni la vergogna della famiglia: spettegolavano tutti in merito alla faccenda, chiedendosi cosa m’avesse potuto indurre ad abbassarmi a un tale squallore. Alcuni parlavano di una stregoneria o di qualche altra diavoleria eretica da parte di lei; altri sostenevano che la vera stoltezza provenisse da me solo ‒ tra essi svettava tuo nonno, che non la smise mai di additarmi come “traditore della sua nobile stirpe”. Già, perfino lui era un fanatico: notevolmente migliorato con l’età, ma avresti dovuto vederlo nel fiore degli anni...Come diceva Dante per Caronte, aveva dei terribili “occhi di bragia”, che mi condannavano a priori.
I più vicini a me m’offrirono il loro contributo per ammazzarla senza destare sospetti: c’era chi proponeva una battuta di caccia, chi un infuso virale appena testato, chi una pillola letale... Quelle congiure non fecero altro che confermare le mie paure più luttuose: la vita di un De Villiers non è nient’altro che una recita da palcoscenico. Tutto dev’essere architettato nei minimi dettagli per funzionare a dovere.
Il mio matrimonio con tua madre non fu, quindi, semplice: rinnegati da chiunque, ci toccò trasferirci altrove per darti un’infanzia serena e spensierata ‒ lontano dai complotti orditi dai tuoi stessi consanguinei. Tua madre, come ben sai, dette alla luce tuo fratello e dopo poco morì, non si sa come ‒ tradotto: non si sa chi fu a ucciderla. Potrei essere stato perfino io in un impeto di sonnambulismo: non sai quante volte l’ho temuto, non sai da quanti incubi mi sono svegliato di soprassalto. Nel bel mezzo del suo mortifero delirio, mi fece giurare soltanto una cosa: la nostra famiglia avrebbe dovuto restare intatta, a ogni costo. Sapevo bene che intendeva che dovevo escludermi dalla vita di Guardiano e non esitai a darle retta: avevo già imparato la lezione a mio tempo. Quella vita era la firma di un documento falsificato, una congrega di malfattori coperti da pseudonimi di nobiltà. Non potevo rivelarvi la verità: era mio compito mantenere il segreto, sperando che un giorno ne veniste a capo da soli, compiendo la vostra scelta. Questi sono i vostri giorni e non i miei: non ho mai voluto essere un ladro di vite. Preferisco di gran lunga appassirmi come sto facendo ora, nel bel mezzo di una sbronza e assistito dagli occhi compassionevoli di mio figlio che si prende cura di me finché ne ha le facoltà. Guardami, Faulk: ho seguito la volontà di mia moglie, eppure lo sbaglio è stato quello antecedente ‒ infatuarmi di lei. Magari il suo decesso non m’avrebbe distrutto a tal punto ‒ magari sarei ancora vivo.»
Repressi un singulto, chinando lo sguardo a terra. Mio padre si era da sempre rifiutato di rivelarmi le cause della morte della mamma: nella caotica miriade di volte che glielo avevo chiesto, soltanto da una manciata di risposte avevo potuto dedurre qualche linea generale. Dicevano che s’era gravemente ammalata e che era crollata durante la sua infernale agonia: mio nonno aveva da sempre ribadito ‒ a labbra strette ‒ che mio padre l’aveva affiancata per tutto il tempo, leggendole nel frattempo i romanzi di Emily Brontë, che a lei piacevano tanto. Dicevano anche che, quando lui sfogliava le pagine di un nuovo capitolo, lei sorrideva perfino dal limbo dove si trovava, perché avrebbe tanto voluto pubblicare i suoi, di brani. Mia madre era stata un’assidua scrittrice: i più avevano paragonato la sua penna allo scettro di Nike, la dea della vittoria. Quando lei scriveva, nulla poteva interromperla ‒ non falliva mai. Mio padre era riuscito a salvare una dozzina di rimasugli bibliografici prima che il resto di essi, sotto la volontà della loro autrice, venisse bruciato. Avevo provato a leggerli ma avevo dedotto che quelle fossero le opere derivate dal suo periodo di traviamento: lì si narrava di cospirazioni a suo danno e di tradimenti da parte degli amici più affiatati. Acquisirono un senso compiuto soltanto dopo quel racconto.
«Pensi che l’abbiano uccisa?», domandai accigliato, più per sentirglielo dire ad alta voce che per altro.
Mi fissò con gli occhi stanchi, come se avessero assaporato la cruda essenza del mondo, e mormorò: «Credo proprio di sì, Falk.»
Annuii senza proferire. Quel silenzio era intriso di una condanna all’Inferno ancora da scagliare ‒ presto ne sarebbe stata l’ora. Sapevo che insistere sull’eventualità di un assassinio non m’avrebbe condotto a nessun chiarimento, perciò svicolai: «Perché la mamma era una donna così sconsigliabile, padre?».
Lui si rigirò l’anello dalle dodici punte fra le dita ‒ esaminando il pegno della sua vecchia appartenenza ‒, riflettendo con ogni probabilità su quale menzogna improvvisare quella volta, quando optò per l’onestà ‒ bagliori di luce ‒ e negò con il capo: «Ho giurato anni fa che il suo segreto sarebbe morto con me.»
Feci di nuovo un cenno d’assenso, quando gli rivolsi l’unico quesito per cui nutrivo davvero delle aspettative: «Accettereste che vostro figlio commettesse il vostro stesso errore di circostanza?».
Il tono s’era affievolito a metà frase: incrociai le dita, al di sotto dei guanti sgualciti che indossavo, e attesi.
Esitò a lungo, respirando i fiochi anelli di fumo disegnati dalle fiamme del camino, come se sperasse soltanto che il vortice della Morte venisse a sottrarlo da quelle risposte che non voleva porgere a nessuno. Esalò un sospiro, cristallizzato in un’espressione placida e al contempo meravigliata, e sorseggiò un altro po’ di brandy ‒ l’alcol doveva ormai pulsare nelle sue vene come il desiderio di vendetta.
«Come ti ho già detto, Falk, questo tempo non m’appartiene più. La scelta non è mia. Puoi benissimo sbagliare, per quanto mi riguarda.»
Era la cosa più simile a un consenso che m’avesse mai rivolto. Dischiusi le palpebre, stupito da quella resa ‒ la prima dinnanzi a qualche mia intenzione ‒, e non m’accorsi neanche che in un istante ero già in piedi, pronto per affrontare la ragazza degli assi.
«E, comunque, quella megera rossa sarebbe davvero un bel crimine da concedersi. Spero che tu ti giochi bene gli assi che ti rimangono, figliolo.»
Sorrisi alle pareti di gelo e di marmo. Quella, invece, era una benedizione.
 
 

 
 
Non mi sarei mai aspettato una torta di lamponi spiaccicata in faccia. Non avevo mai provato a fare una dichiarazione in pubblico ma di certo la crema non rientrava nelle mie ipotesi riguardanti i rischi di quel gesto avventato. Almeno, ero riuscito a sgraffignare l’asso di quadri, come previsto dal mio piano.
Larissa Crofts e Gregory Sykes erano per me nominativi privi d’importanza. Se, invece, sapevo una cosa di Grace Montrose, era che non era decisamente una ragazza accomodante. Io non potevo permettermi d’esser geloso del ragazzo con il quale era uscita per settimane dopo che i miei parenti l’avevano fatta licenziare ‒ ma ti pare? Era un’ingiustizia bell’e buona, ai suoi occhi ‒ tuttavia lei poteva accaparrarsi tutto il diritto di molestarmi con il cibo per aver scambiato due chiacchiere con la figlia del vecchio pupillo di mio nonno.
Uscii dalla stazione della metropolitana coprendomi con le braccia: avevo freddo perché il mio giaccone era finito in lavanderia, dato che le macchie di crema erano grosse come palle da rugby.
Mi voltai verso Leicester Square, la maestosa e luminosa isola che mi s’offriva dopo il buio di quella prigione sotterranea, e seguii i pedoni lungo la scia di botteghe. Avevo origliato la matriarca delle Montrose mentre diceva all’autista della Loggia che si sarebbero riuniti tutti là, in quel pomeriggio, in occasione del compleanno di Glenda. Che meraviglia.
Non credo di esser mai stato contento in quel modo per la fortuna della maggiore figlia femmina dei Montrose, che avrebbe compiuto diciott’anni quella sera e si sarebbe liberata dal peso della minore età.
Mi strinsi nel soprabito, sempre più infreddolito, e m’avviai a sud, nella direzione di Trafalgar Square. Ero tremendamente puntuale: secondo i miei calcoli, la famiglia sarebbe dovuta apparire all’orizzonte da un momento all’altro. Studiai nel frattempo i passi della gente: i più si muovevano con foga, attratti dalla prospettiva dello shopping e quindi animati da impeti di trepidazione; altri ancora procedevano con calma, fermandosi talvolta per contemplare qualche vetrina ben allestita che invitava all’acquisto; altri ancora erano cadenzati, malinconici, assorti in chissà quali melodrammi. Quella gente non era poi così diversa da me.
Buste d’oro scintillavano fra le mani dei passanti che le sollevavano con aria compiaciuta; altri erano rintanati nelle cabine telefoniche e parlottavano fitto, concentrati nel dialogo; altri ancora gesticolavano con le dita mentre discutevano in branco.
Poche persone erano sole. In quella categoria, rientravano perlopiù adolescenti, che divergevano dal resto del mondo e che non trovavano conforto nei gruppi di amici. Era una schiera di guerrieri nient’affatto deludenti.
Qualche ragazzo tirò fuori una radiolina e cercò compagnia nella melodia della musica  ‒ che aveva il potere di capire tutto il mondo nello stesso attimo ‒; qualcun altro sorpassò furtivamente le combriccole, tentando di non essere riconosciuto dalle persone; altri ancora indugiavano, proprio come me, in attesa di un qualunque segnale dal cielo.
Il mio segnale giunse quando distinsi una banda di persone per la maggior parte provvisti di chiome falbe. Glenda era riconoscibile a distanza, per via del suo trucco sfarzoso e del suo soprabito  stravagante ‒ probabilmente ripreso da una delle mode del Piccadilly Circus ‒; lo scricciolo al suo fianco, avvolta da indumenti più sobri e senza un filo di trucco, sorrideva con gusto. Notai che Grace stava discorrendo con i genitori: Lord Montrose scintillava del suo stesso sorriso ‒ era indubbia l’ereditarietà dei suoi geni ‒ mentre Lady Arisa negava con il capo, probabilmente reputando che quelle opinioni dovessero rimanere fra padre e figlia. Avevo da sempre notato quell’affinità tra Lord Lucas e Grace: il padre aveva un rapporto molto più stretto con lei che con Glenda o Harry. Continuarono a ridere, sempre trapelando quell’incanto tipico della loro dinastia, e simularono delle piroette da ballerina.
Il volteggio di Grace fu paragonabile a quello di una fata o comunque di un’entità ultraterrena, come al solito. Terminò con un leggiadro inchino la sua esibizione e rivolse un sorriso trionfante a Glenda che, neanche a dirlo, era già gelosa come un Otello di quella danza urbana in cui s’era appena dilettata la sorella.
«I talenti sono tali quando insegnano qualcosa a te stessa, non agli altri.», sentenziò Glenda, alzando l’indice con superiorità, «Non è che io recito per strada solo per farmi dire che sono una brava attrice. È una cosa triste, Grace.»
La sorella minore la fissò con tanto d’occhi, come se la stesse realmente ammirando per la sua arguzia: «Hai ragione, Glenda. Tu reciti sempre: non è possibile distinguere quale ruolo tu scelga nei vari momenti. Ora, lo confesso, somigli terribilmente alla Signorina Rottermeier di Heidi
Glenda avvampò furiosamente e accelerò il passo. Lady Arisa si concesse una breve risata prima di ritornare alla sua algida compostezza, senza però rinunciare al braccio che il marito gli offrì in quel preciso istante. Lord Montrose strizzò l’occhio alla figlia minore senza farsi vedere e la elogiò: «Brava, piccola. Gliene hai cantate quattro, a tua sorella.»
Grace s’illuminò in un altro dolce sorriso ma ben presto si smarrì nei suoi pensieri. Potevo quasi leggerle nella mente: c’era stata soltanto un’altra persona che soleva irridere in quella stessa maniera. Sperai che il suo divieto di rivolgerle la parola non fosse così solenne come sembrava.
Quando mi sporsi e Glenda alzò gli occhi, divenne ancor più rossa, tanto da far sembrare i suoi capelli giallognoli. Mi puntò addosso il suo famigerato indice accusatore ‒ con la stessa collera con il giorno prima l’aveva fatto la sorella ‒ e tuonò: «TU! Tu, cosa ci fai qui?».
Gli sguardi azzurri del resto della famiglia saettarono verso di me, accompagnati da diverse reazione. Lady Arisa sussultò e imprecò sottovoce: «Gesù Cristo, signorino Falk!»; Lord Montrose, quell’incredibile uomo che riusciva a prevedere ogni mia mossa, sorrise mestamente; Grace, invece, erede del padre, mi scrutò con i suoi occhi autorevoli e attese una mia iniziativa.
Il primo passo che avanzai fu accolto dagli acuti strilli di Glenda, che blaterava sfilze di frasi incomprensibili. «Ti sembra questo il modo? Ti ho già detto che ci siamo mollati...tu, per me, sei come il piscio, della stessa consistenza e della stessa importanza...!».
Fu sua madre a zittirla con parole carezzevoli: «Glenda, mia cara, credo che Falk cerchi Grace e non te.»
Ammirai seduta stante quell’intrepida donna.
La ragazza in questione ammutolì, sbiancando d’improvviso, e con malignità snocciolò: «Oh. Bene bene, non me n’ero accorta. Ne vedremo delle belle.»
Quella volta toccò a Lord Montrose bloccarla. «Figlia mia, credo che intendano parlare da soli.»
Da soli. Fissai Grace e mi chiesi se non pensasse a quella volta, nell’ufficio del padre, da soli. Evidentemente ci stava rimuginando, perché un lieve rossore costellò i suoi zigomi spigolosi.
Glenda incrociò le braccia al petto e annunciò: «Non capisco cos’abbiano da dirsi di così importante da essere rivelato in segreto. Parla forte e chiaro, Faulk.»
L’altra mi sondò con aspettativa, come se agognasse perfino lei una mia pubblica umiliazione. Stavolta no, pensai.
Mentre i genitori si occupavano di trattenere Glenda per le braccia con infinita pazienza ‒ si divincolava per seguirci come una bambina di cinque anni ‒, Grace s’avvicinò a me con aria sdegnosa.
«Cos’altro vuoi da me, Falk? Pensavo che quella torta esprimesse già a pieno il concetto.», proclamò, sfoggiando un sorriso soltanto per la soddisfazione d’avermi messo in imbarazzo davanti a metà Londra.
Prevedibile. «A dire il vero, sono tornato per consegnarti una cosa che ti è caduta ieri dalla tasca. Non sapevo quando potevo dartelo, dato che ieri sei fuggita in fretta e furia. Mi era sembrato di sentire che oggi v’incontravate qua, pertanto ne approfitto per recapitarti l’oggetto e togliere il disturbo.»
Quando estrassi dal mio marsupio l’asso di quadri e glielo porsi, sfoderò un sorrisetto mordace che sembrava voler canzonare la sua stessa stupidità.
«Ma certo», commentò, fingendosi sorpresa, «come diavolo ho potuto dimenticarmene?».
«Non so, l’ho raccolto da terra poco dopo che era caduto.», mentii spudoratamente, passandomi la mano sulla fronte imperlata di sudore. Ero abbastanza nervoso, già.
Grace si stancò di quella farsa e mi puntò il dito contro, scoccandomi un’occhiata guardinga e affilata.
«Quanto riesci a essere sagace, Falk! Per ironia della sorte, sei venuto a restituirmi uno degli assi che ti mancava per terminare il gioco. Direi che costruisci metafore più intriganti di qualunque altra storia romanzata.»
Constatai che era più distaccata del solito: la faccenda di Larissa doveva averla proprio infastidita. Con lei era impossibile stabilire un compromesso: non avrei mai potuto mettere una pietra sopra Sykes e lei sopra la Crofts, mai. Avrei dovuto sudare di nuovo per riconquistarla.
«Se vuoi, posso tenerlo io.», le feci l’occhiolino. Vai così, Falk.
Rise senza allegria. «No, grazie. Ridammelo.»
Fu allora che decretai che era il momento giusto. «Grace, ti amo.», dichiarai, tentando di sembrare quanto più austero possibile.
Lei dischiuse le palpebre con dolcezza: «Mi sono sorbita il tuo discorso strappalacrime ieri, non c’è bisogno che tu me lo riproponga. Stavolta non ho le buste per il vomito.»
«Certo che non mi rendi mica le cose facili, tu. Sei incredibilmente contorta, Montrose.»
Alzò le spalle e sorrise con soavità: «Cosa vuoi farci?».
Baciarti fino a sottometterti.
«Larissa Crofts è una sgualdrina e non la degnerei della minima considerazione se ho te accanto. Andiamo, Montrose, mica avrai davvero scelto di rimpiazzarmi con quello sfigato di un Sykes!».
«Sei più sfigato di lui!».
Quel battibecco si protrasse per circa mezz’ora, in cui ci insultammo reciprocamente. Le diedi della “secchiona” e dell’“ingarbugliata”, da parte sua lei mi additò come “ridicolo” e “cinico”. Furono molti altri gli epiteti ‒ anche non così carini ‒ con cui proseguimmo a etichettarci. I nostri sguardi erano intanto smarriti, dediti a rivelarsi qualcos’altro ‒ “Ogni respiro che prendi è mio”, “Ti ho dato ogni cosa, ed è un bel crimine[2] ‒ mentre continuavamo a bersagliarci instancabilmente. Ispezionai i suoi occhi di zaffiro e vi lessi, nel profondo, la stessa brama che ardeva nei miei. Attanagliato da quel desiderio proibito, non potevo pronunciare quelle verità inconfessabili e compresi che perfino lei l’aveva intuito, e aveva scelto di perdersi nell’ombra dei ricordi.
Alla fine, giunse l’ora della cena per la festa di Glenda e la famiglia fu costretta a ritirarsi, al completo.
Peccato che lasso di quadri sfavillasse ancora nella mia mano.

 
 
 
In lontananza, udii Lady Arisa indagare: «Vi siete rimessi insieme, per caso?».
La voce di lei si spezzò giusto all’ultimo. Per il resto, suonò abbastanza credibile. «Scherzi, mamma? Lui mi repelle!», bofonchiò.
Anche quella era una sorta di benedizione.

 
{The End}

 
   
 
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