capitolo
8
UN
APPUNTAMENTO SINGOLARE
Crystal
fissava il soffitto di
pietra,
sdraiata sul suo letto al Rifugio. Sul suo ventre era appoggiato un
libricino
rosso dalla copertina logora, aperto sulla pagina della Runa della
Chiaroveggenza. Glielo aveva dato Gabe qualche giorno prima, dicendole
che era
il suo vecchio quaderno degli appunti, risalente a quando aveva preso
lezioni
di Runologia all’Istituto di Los Angeles. Aveva studiato
tutto il pomeriggio, e
ora stava cercando di ricordare le linee che componevano alcune rune.
Immaginò
di tracciare la runa della Chiaroveggenza sul soffitto di roccia con
l’indice e
che questa iniziasse a brillare di luce propria.
Sollevò il libro per
guardare la runa
un’ultima volta. Accanto al disegno, simile ad un occhio
aperto, c’era una
breve annotazione. Crystal posò la punta del dito sulla
carta, seguendo la
calligrafia di Gabe. Non se lo immaginava per nulla seduto dietro ad un
banco,
chino su quel quaderno a prendere appunti.
Una fitta di nostalgia le strinse
il
cuore. Gabe era uscito quella mattina assieme a tutti gli Shadowhunters
meno
che Julie, la quale era rimasta a farle da guardia. Ricordava
l’espressione
dura di Gabe e il suo tono intransigente mentre diceva alla rossa di
tenerla
d’occhio. Per quanto ne sapeva, erano andati in missione a
San Diego per conto
del Conclave.
Chiuse il libro e lo
posò sul comodino di
legno scuro. Lei e Gabe non avevano ancora avuto modo di parlare di
quello che
era successo nel pianerottolo di casa sua, dopo che lei aveva ucciso il
demone.
Al solo pensiero di Gabe che le si avvicinava e le stringeva i fianchi
sussultò. Si portò una mano sul viso, sfiorandosi
le labbra con le punte delle
dita. Il modo in cui l’aveva baciata era stato duro e dolce
al tempo stesso,
come una magnifica rosa opalescente che abbia centinaia di spine
acuminate come
punte di coltelli.
Si mise seduta sospirando. Il
display del
suo cellulare segnava le otto di sera. Julie era passata dalla sua
stanza circa
mezz’ora prima per chiederle se avesse voglia di mangiare
qualcosa, ma Crystal
aveva risposto di no. Ora, però, il suo stomaco vuoto
gorgogliava.
Se pensava a come la sua vita era
stata
completamente sconvolta nel lasso di un paio di settimane scarse, le
girava la
testa. Aveva trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza tra le
quattro
fredde mura dell’orfanotrofio di Seaside Park, immaginando
come sarebbe stata
la sua vita una volta che fosse uscita di lì. Aveva sognato
mille versioni del
suo possibile futuro, ma nessuna si avvicinava minimante a quello che
stava
vivendo adesso. Alloggiava in una specie di scantinato insieme a
ragazzi
tatuati e addestrati per essere macchine assassine. Aveva perso
l’unico lavoro
che avesse mai svolto. Aveva sentito Vanessa darle della mezzosangue e,
sebbene
non avesse ancora approfondito la questione, si sentiva spaesata e
preoccupata
come al risveglio da una sbornia. Era stata strappata da morte certa
per ben
due volte dal ragazzo più sexy e insopportabile del pianeta,
il quale l’aveva
addirittura baciata. Aveva ucciso un demone utilizzando una specie di
spada
luminosa che assomigliava a quelle dei cartoni animati che guardava da
bambina.
E ora si ritrovava nella stanza di qualcun altro a consultare un libro
sulle
rune angeliche.
Si passò una mano sul
volto. Si sentiva
come se si trovasse in un incubo senza fine da cui non riusciva a
riemergere. A
volte, quando si addormentava al chiaro della stregaluce, sognava
Miranda che
le sorrideva da dietro quei suoi buffi occhialetti, oppure Oliver che
la
liquidava con freddezza. Lavorare all’Every Flavour Donuts
era la cosa migliore
che si fosse mai aspettata che le accadesse, e ora, a distanza di un
solo paio
di settimane dalla sua assunzione, quel posto era soltanto un brutto
ricordo.
Alcune notti si svegliava nell’oscurità, sudata e
in preda ai singhiozzi. I
suoi incubi si manifestavano in tutto il loro orrore, ricordandole che
Miranda
era morta in un bagno di sangue e che Oliver-il-demone era stato ucciso
brutalmente
da Gabe.
Si alzò in piedi
lentamente, rimpiangendo
per un momento l’orfanotrofio. Nella sala ricreativa, dove
lei andava ogni
pomeriggio, c’era un pianoforte nero davanti a cui si sedeva
ogni volta che si
sentiva un po’ giù. La musica era sempre stata un
ancora a cui aggrapparsi
quando si era sentita affondare nelle tenebrose acque della solitudine.
Avrebbe
voluto potersi sedere ancora di fronte a quel pianoforte e suonare il
primo
pezzo che le veniva in mente.
Poi ricordò.
C’era un pianoforte nella
Sala in cui aveva incontrato Victoria per la prima volta. Julie le
aveva detto
che avrebbe potuto visitare la Sala ogni volta che ne avesse sentito il
bisogno, che fosse per leggere un libro o per scrivere una lettera.
Decise che
ci sarebbe andata.
Quando entrò, la Sala
era fievolmente
illuminata da torce azzurre di stregaluce, ma nonostante la
semioscurità
Crystal non si sentiva a disagio. L’aria profumava di pagine
di libri antichi e
di inchiostro. Camminò verso il pianoforte, i passi attutiti
nei pregiati
tappeti persiani. Si sedette davanti alla tastiera, posando le punte
delle dita
sui tasti d’avorio.
Premette qualche nota a caso,
godendosi il
dolce suono della musica che rimbombava nella stanza silenziosa.
Crystal si
sentì svuotare di ogni sorta di preoccupazione e
iniziò a suonare, lasciando
che il suo cuore la guidasse. Per troppo tempo era stata lontana dalla
musica,
tanto che si chiese come avesse fatto a resistere. La musica era la sua
essenza, come per gli Shadowhunters lo era l’uccidere. Bel paragone, pensò.
Si perse nelle sue stesse melodie
per un
tempo indecifrabile. Minuti, forse ore. Non avrebbe smesso fino a che
non le si
fossero indolenzite le dita.
«Allora è
vero…»
Quella voce la fece trasalire. La
musica
s’interruppe con un accordo sgraziato. Quando
guardò oltre il pianoforte, vide
Gabe sulla soglia, appoggiato ad uno stipite.
«No, non smettere. Per
favore», aggiunse
incamminandosi nella sala.
«Da quanto sei
lì?», gli chiese lei
imbarazzata.
Il bagliore delle torce lo
illuminava di
azzurro, addolcendo la sua mascella tesa e schiarendo i suoi capelli
corvini.
Indossava una t-shirt nera e le sue braccia erano fresche di Marchi. Un
grande Iratze gli adornava
l’avambraccio
destro. Non le rispose.
Crystal sistemò la
seggiola e si diresse
verso di lui. Notò che le sue spalle larghe e muscolose
erano rigide come
quelle di un manichino. «Come stai?»,
ritentò.
«Bene», rispose
fermandosi a mezzo metro
da lei. «Siamo stati attaccati da alcuni demoni Shax mentre
cercavamo il
passaggio per…». Sollevò una mano in
aria. «Non importa. Piuttosto, come ti
senti?»
«Gabe, perché
ho la brutta sensazione che
tu mi stia…», replicò lei guardandolo
dritto negli occhi verdissimi.
«…evitando?»
«Non capisco. Cosa vuoi
dire?»
«Non lo so»,
mormorò. «Ogni volta che mi
parli ti interrompi come se ci fosse qualcosa che non vuoi dirmi.
Nell’ultima
settimana non hai risposto a nessuna delle mie domande. Che cosa
c’è?»
Gabe sospirò e il suo
sguardo scivolò
oltre la spalla di Crystal. «Suoni molto bene il
pianoforte.» La sua voce era
un sussurro.
Lei guardò dietro di
sé. «Me la cavo. Era
il mio passatempo preferito all’orfanotrofio.»
Gabe annuì.
«Crys… C’è una cosa che devo
dirti.»
«Sentiamo.»
«Riguarda le tue
origini.» Cercò la mano
di Crystal nella semioscurità e la strinse nella sua.
«È da un po’ che volevo
parlartene, ma volevo prima esserne assolutamente certo.»
Il cuore di Crystal
iniziò a battere
freneticamente. Lo sentiva pulsare attraverso le dita strette in quelle
di Gabe.
«Quando sei entrato poco fa hai detto: “Allora
è vero”. A che cosa ti
riferivi?»
«Vedi, quelli come te
hanno un talento
innato per la musica. Riescono persino ad incantare
gli umani…»
«Quelli come me?», lo interruppe.
«Vuoi dire che io e te non…»
«Non siamo la stessa
cosa, no.»
Lo sguardo di Crystal
vagò disperato per
la stanza. «Ma lo hai detto tu. Io ho sangue angelico. La
spada…»
«Lo so. Caliel ti ha
risposto perché nel
tuo corpo scorre anche sangue angelico.»
«Caliel? È
così che si chiama la tua spada?»
«In un certo senso. Ad
ogni spada angelica
deve essere assegnato un nome prima di essere utilizzata in battaglia.
Nomi di
angeli, s’intende.»
«Capisco»,
rispose lei. «Ma se hai detto
che in me c’è sangue angelico, cos’altro
c’è che… che non va?»
Gabe strinse la mano di Crystal con
più
decisione, quasi da farle male. «Il fatto
è», mormorò. «che
l’altra parte di te
non è fatta di sangue umano, come lo siamo noi Nephilim, ma
di sangue…
demoniaco.»
Crystal sbiancò. Non
poteva credere alle
sue parole. «C-cosa?», balbettò.
«Deve essere uno scherzo. Io non posso essere…
non posso essere come quegli esseri ripugnanti che… che
abbiamo ucciso.»
Gabe la guardò
intensamente. I suoi occhi
emanavano puro dispiacere. «È
così», confermò in un sussurro.
«Ma solamente in
parte. Il sangue angelico predomina sull’altro, altrimenti
Caliel non avrebbe
reagito quando l’hai presa. Le spade angeliche sono costruite
con l’Adamas, uno
speciale metallo anti-demoni.»
«Questo non mi rassicura
affatto», mormorò
Crystal. Aveva la sensazione che la terra le stesse franando sotto i
piedi e
che presto sarebbe stata risucchiata dal pavimento per scomparire negli
Inferi.
Gabe le accarezzò il
mento. «Sei una Seelie,
Crystal», le disse. «Una delle creature
più meravigliose ed interessanti di
questo mondo.»
«Una che?»
«Una Seelie. Fai parte
del mondo fatato,
come Julie», rispose. «Solo che tu… sei
un po’ diversa.»
Crystal si stava spazientendo.
«In che
senso diversa?!»
«Crys, sei una
sirena.»
Lei lo guardò in
cagnesco. Niente di
quella conversazione aveva un senso. «Una… sirena?
Vuoi dire quelle con le
pinne?»
«Quali altre, se
no?», ribadì. «Ricordi il
modo in cui ti ha chiamato il demone? Iwak.
È in un’antica lingua polinesiana. Significa
‘pesce’.»
«Quindi loro…
i demoni… lo sanno. Sanno
che cosa sono.»
«Sì»,
obiettò. «Entrambi i demoni che ti
hanno attaccato avevano sembianze di esseri marini. Questo ci ha
portati a
pensare che provengano da Oceanus, un luogo remoto fra le isole
polinesiane. È
lì che si trova la Corte delle Sirene.»
«Ma non è
possibile», continuò Crystal
confusa. «Se sono una sirena, dove sono le mie pinne?
Perché accidenti non vivo
in una vasca per pesci?»
Gabe sorrise. «Riesci a
fare
dell’umorismo. Mi piace.»
«No, seriamente,
Gabe.»
Lui si strinse nelle spalle.
«Non lo so.
Dobbiamo ancora scoprirlo. In realtà
c’è una leggenda che racconta di sirene in
grado di uscire dall’acqua e trasformare la loro coda in
gambe umane...»
«Come ne ‘La Sirenetta’?»
«Che?»
Crystal strabuzzò gli
occhi. «Walt Disney.
Davvero non sai...? Be’, lasciamo perdere.
Continua.»
Gabe increspò le folte
sopracciglia nere. «È
solo una leggenda, appunto. E in ogni caso la storia dice che le sirene
non
potevano allontanarsi per troppo tempo o troppo lontano
dall’acqua, perché il
richiamo degli abissi glielo impediva. Non si spiega perché
tu sia vissuta per
tutto questo tempo sulla terraferma.»
«Forse vi siete
sbagliati. Forse io non
sono…»
«Lo sei»,
replicò. «Su questo non c’è
dubbio. Hai la bellezza di un essere angelico… e sei
tagliente come un demone.
Hai un talento smisurato per la musica. E la tua voce ha il potere
persuasivo
dei Seelie.»
Crystal esitò. Sentiva
le guance scottare
per l’imbarazzo, ma non sapeva se fosse perché si
sentiva offesa o lusingata.
«Doveva essere un complimento, il tuo?»
Lui sorrise, e i suoi denti
brillarono
d’azzurro al chiarore delle stregaluce. Passò un
polpastrello sulla guancia di
lei, disegnando linee contorte come stesse tracciando una runa.
La sua pelle era liscia e perfetta
come
quella di Julie, pensò Gabe con un tonfo al cuore, e quindi
identica a quella
dei Seelie. Come aveva potuto non farci caso prima? Le ragazze
dell’età di
Crystal solitamente avevano il viso cosparso di brufoletti purulenti,
pelle
secca e acne, invece il suo era liscio come una tavola da surf.
«Dove sei stato tutto il
giorno?», chiese
lei senza quasi accorgersene. Era persa negli occhi di lui, a
contemplare quanto
verdi fossero le sue iridi anche sotto la luce azzurrina emanata dalle
torce.
«Perché, ti
sono mancato?»
Crystal non era certa che ci fosse
del
sarcasmo nella sua domanda. Terribilmente,
avrebbe voluto rispondere, ma si limitò ad una smorfia
seccata.
Lui si dondolò sul
posto. «Julie mi ha
detto che non hai voluto cenare.»
«Non avevo
fame», si giustificò malamente.
«E ora ne hai?»
Crystal accennò un
sorriso. «Un po’»,
ammise.
«Perfetto, allora
sarà meglio che io vada
a darmi una ripulita, uh?», disse abbassando lo sguardo sulla
sua maglietta
imbrattata di sangue secco. «Non è il caso che
esca conciato così.»
«Uscire?»,
domandò sorpresa. «E dove
andiamo?»
Lui le pizzicò
leggermente il mento. «A
mangiare qualcosa di buono. Ad essere sinceri anch’io ho una
certa fame.»
Crystal annuì piano.
Era… era un
appuntamento, quello che Gabe le stava offrendo? Si trovò
confusa al riguardo.
Negli ultimi giorni Gabe non era sembrato molto propenso a dare un
seguito, o
almeno una spiegazione, a ciò che era successo in quel
pianerottolo. Ora aveva
cambiato idea?
«Ci vediamo
nell’atrio fra una ventina di
minuti, ti va?», le chiese.
«Va bene»,
concluse lei.
Fece per avviarsi verso la sua
stanza,
quando sentì le mani di Gabe sui fianchi. La pressione di
lui la costrinse a
voltarsi, e ora improvvisamente i loro nasi si sfioravano. Gabe la
guardò per
un lungo momento, mentre lei sentiva una strana sensazione sulle
labbra, come
se le prudessero. Un impulso sconosciuto le suggeriva di protendere il
viso
verso quello di Gabe e colmare il vuoto che c’era fra le loro
labbra, ma
un’altra sensazione, più intensa e viscerale,
glielo impedì. Era come se fosse
attratta e spaventata da lui allo stesso tempo.
«Gabe…»,
sussurrò, e quando lo fece il suo
labbro inferiore sfiorò quello di lui.
Lo shadowhunter era serio, la
mascella
serrata. I suoi occhi erano incatenati in quelli di lei, in una sorta
di legame
silenzioso che lui non riusciva a spezzare. Fu lei a scioglierlo, poco
dopo,
scostando lo sguardo sulla sua t-shirt macchiata.
Gabe sospirò.
Picchiettò l’indice sulla
clavicola di lei, rigido come un burattino, poi la
allontanò. «Si sta facendo
tardi», obiettò.
Crystal assentì, il
cuore che ancora
scalpitava per la vicinanza con Gabe, e a passo indeciso
uscì dalla Sala.
Quando Crystal giunse
nell’atrio, vestita
con una lunga gonna nera che le sfiorava le caviglie e un top bianco
incrociato
sulla schiena, la prima cosa che vide fu Gabe, informale in jeans e
giacca di
pelle, che parlava a bassa voce insieme a Julie. Più che
parlare, constatò
Crystal con una seconda occhiata, si stavano sussurrando
all’orecchio. La mano
di lui era posata sulla spalla di lei in un modo che, per qualche
ragione,
attivò un moto di gelosia nello stomaco di Crystal. Julie,
in tenuta da
cacciatrice, aveva invece un’espressione tra il preoccupato e
l’incerto.
Accarezzò una guancia di Gabe con il dorso della mano, prima
di fare un sorriso
amareggiato e sgusciare nel corridoio che portava alla Sala.
Crystal, il cuore che batteva
impazzito,
attese qualche attimo prima di raggiungere Gabe. Quando lui la vide, i
suoi
occhi si illuminarono. «Hey», lo salutò,
cercando di mitigare la gelosia.
Lui le sorrise.
«Accidenti», mormorò
lanciandole un’occhiata da testa a piedi. «Sei
davvero…»
«Andiamo?», lo
interruppe lei. «Comincio
ad avere i crampi per la fame.»
Gabe la guardò di
sbieco. «Certo», disse
con incertezza.
Quando uscirono nel buio di Liberty
Court,
Crystal rabbrividì per il calo repentino di temperatura.
Lasciò che Gabe la
precedesse lungo il vicolo e procedette in silenzio, facendo attenzione
a dove
metteva i piedi.
Dopo qualche metro sfociarono
sull’illuminata Pacific Palisades, che a quell’ora
della sera era ancora
piuttosto trafficata. Il cielo era torbido, e l’aria odorava
di smog e pioggia.
«Stammi
vicino», le disse Gabe offrendole
la mano. «Questa strada pullula di demoni
Du’sien.»
Crystal fissò la mano
protesa verso di
lei… e la rifiutò scostando lo sguardo verso
l’altro lato della strada. Tre
ragazzi malconci si stavano riscaldando al tepore di un fuoco acceso in
un
bidone, all’imbocco di un vicolo. «Quindi fammi
indovinare: siete voi che avete
creato tutto quel casino nelle ultime settimane?»,
domandò.
«Già»,
rispose Gabe ripensando a quando,
due settimane prima, era finito contro la vetrina di un negozio di
biciclette
durante uno scontro con un Eidolon. «I demoni hanno iniziato
a materializzarsi
quando hanno scoperto che ce ne siamo andati da Los Angeles. Questo
posto, a
differenza dell’Istituto, non è consacrato, quindi
possono girare indisturbati.
Di solito se ne stanno qui nei paraggi in cerca di un Nephilim con cui
fare
merenda.»
«Bello»,
ironizzò lei. «Ora che ci penso non
mi hai ancora detto perché ve ne siete andati.»
Gabe si voltò a
guardarla e schiuse la
bocca, come se per un momento avesse deciso di parlare. Ma poi la
richiuse con
una smorfia, lasciando Crystal in preda alla curiosità.
«Non manca molto»,
disse tornando a guardare davanti a sé.
Nel punto in cui la Pacific
Palisades
s’intersecava con Elm Avenue, Crystal si ritrovò a
chiedere a Gabe di
rallentare il passo. Aveva il fiato corto: stare dietro alle sue
falcate decise
era un’impresa non da poco.
Gabe alzò gli occhi al
cielo. «Ti ci vorrà
un bel po’ d’addestramento»,
obiettò con più asprezza nella voce di quanto
avrebbe voluto. «Nelle tue condizioni non riusciresti a
sfuggire ad un
Behemoth.»
«Mi rincresce, signor Moorefield», lo
schernì lei imitando la voce tagliente di Victoria.
«del fatto che io non sia una podista. O che non sia in grado
di arrampicarmi
lungo i muri come un ragno. O che non faccia roteare la spada come un
samurai.
Mi dispiace così tanto di
non
soddisfare le Vostre aspettative!»
Gabe arricciò il naso.
«Già», disse, parlando
quasi fra sé. «Avevo ragione. Sei proprio un mezzo
demone.»
Crystal sentì montare la
rabbia. Per un
attimo ebbe l’impulso irrefrenabile di rompergli il naso, ma
qualcosa la
trattenne. Forse,
rifletté, è
perché è la verità.
Quel pensiero le invase la mente.
Lei era
in parte demone, fatta della stessa sostanza di quei mostri che la
gente
attorno a lei era abituata ad uccidere. I Cacciatori erano nati per combattere quelli come lei, e
Crystal si ritrovava a
convivere con alcuni di loro.
Ripensò
all’espressione di Gabe quando le
aveva detto che lei e Julie erano entrambe delle Seelie. La prima volta
che
Crystal aveva incontrato Gabe, Cole e Julie, li aveva sentiti
farneticare sul
fatto che quest’ultima era una mezza fata. Mezza.
Cioè meno sangue demoniaco di quanto non ne avesse Crystal.
E in ogni caso,
Julie era troppo bella, affascinante e gentile per poterle rinfacciare
di
essere in parte un demone. Lei, invece, non era niente di tutto
questo… o
almeno ne era convinta.
Ad un tratto Gabe si
fermò. Crystal,
ancora immersa nelle sue congetture, non se ne accorse e
andò a sbattere contro
la sua schiena. «Accidenti!», brontolò
scostandosi.
Gabe si voltò
corrucciato. «Sei anche
impacciata come una mondana»,
replicò. «Questo è il posto»,
aggiunse indicando alla sua destra. «Siamo
arrivati.»
Crystal seguì lo sguardo
di Gabe e si
ritrovò a fissare l’insegna spenta di un
supermercato. «È uno scherzo?», chiese
esterrefatta. «Perché non è molto
divertente.»
Gabe si avvicinò alle
vetrate del negozio,
posando le mani sul vetro freddo. «Niente affatto.»
«Io… io che
credevo che…»
Il ragazzo si volse a guardarla con
un
sorriso sbilenco. «Credevi che ti saresti rimpinzata di
champagne e caviale?»,
domandò ridacchiando.
«No, per l’amor
di Dio», rispose esasperata.
«Ma nemmeno questo. Non ho intenzione di compiere
un’effrazione.»
«Okay, allora
vorrà dire che te ne starai
ad aspettarmi qui fuori a pancia vuota, mentre io sarò
lì dentro a imbottirmi
di patatine e coca cola. Ci stai?»
Crystal sbuffò. Mai
nessuno aveva sfidato
il suo autocontrollo quanto Gabe. Era certa che prima o poi
l’avrebbe fatta
scoppiare, e allora nessuna runa sarebbe riuscita a salvarlo dalla sua
furia.
«D’accordo, aspetta. Vengo con te.»
Gabe sogghignò.
«Ti conviene fare piano.
Io ho questa», mormorò indicandole una runa che si
era tracciato alla base del
collo. «Ma tu potresti far scattare l’allarme. E
non credo sia il caso che la
polizia ti scopra a rubare in un supermercato, uh?»
«Dammi il tuo
stilo», replicò lei. «Me la
traccerò anch’io. L’ho studiata, so come
è fatta.»
«In
realtà», fece Gabe. «Non è
decisamente
il caso. Non ho la minima idea di che effetto potrebbe fare su di
te.»
«In che senso,
scusa?»
«Nel senso che soltanto
coloro a cui
scorre sangue angelico nelle vene possono tracciarsi le rune.»
«Ma io ho
sangue angelico!»
«Già»
Il suo tono di voce era imbarazzato.
«Ma devi sapere una cosa. Le rune bruciano, a contatto con il
sangue demoniaco.
In quel caso moriresti lentamente, sciogliendoti come se ti avessero
gettato in
una vasca piena d’acido fluoridrico. Se vuoi il mio modesto
parere, te lo
sconsiglio vivamente.»
Crystal lo fissava sconvolta,
immobile
come una statua di cera. «Quindi… stai dicendo che
mi hai dato da studiare un
libro a proposito di cose che su di
me risulterebbero letali?!»
Gabe non sembrava molto
preoccupato. Si
strinse nelle spalle. «Perché ancora non ne ero
certo. Neanche ora lo sono, in
realtà. Caliel non ti ha bruciato
quando…»
Lei si gettò in avanti e
lo afferrò per il
colletto della giacca. «Sarei potuta morire,
razza di idiota!», gridò. «Ti
è mai passato per l’anticamera del cervello che
avrei potuto tentare di tracciarmene una?»
«No», rispose
con nonchalance,
scrollandosi di dosso la ragazza. «E parla piano. Quei
mondani ti stanno
fissando come se fossi una pazza.»
Crystal si volse lentamente.
Aldilà della
strada, una coppia di uomini sulla cinquantina la stavano osservando
con
un’espressione mista tra curiosità e compassione.
«Dannazione», mormorò a denti
stretti. «Non riesco ad abituarmi al fatto che voi siate
invisibili agli occhi
dei mondani.»
«Allora,
andiamo?», la esortò Gabe. Aveva
lo stomaco che brontolava e non aveva intenzione di rimanere su quella
strada ancora
a lungo. Meno restavano negli spazi aperti e meglio era.
«Seguimi. Entreremo dal
retro.»
«Hai detto che io e Julie
siamo entrambe
Seelie», obiettò Crystal mentre seguiva Gabe
all’interno di uno stretto vicolo,
buio e maleodorante. «Allora perché lei
può tracciarsi le Rune e io no?»
«Prima di
tutto», rispose lui con voce
seccata. Schivò un sacchetto di immondizia con un salto
aggraziato. «Julie è
dovuta passare sotto l’esame del Clave di Idris per diventare
una Shadowhunter.
Ha ricevuto il suo primo Marchio durante l’assemblea del
Conclave, dove ha
pronunciato il Giuramento.» La voce di Gabe si
addolcì mentre parlava di Julie.
«Compirò la mia missione
con il coraggio
degli angeli. Servirò la giustizia degli angeli. E la
servirò con la pietà
degli angeli…»
«Sul serio dite queste
cose?», domandò
Crystal stupefatta.
Gabe sembrò non
sentirla. «Inoltre»,
seguitò. «Julie è soltanto per
metà Nascosta. Sua madre era una fata, mentre
suo padre uno Shadowhunter. Questo significa che, a conti fatti,
è demone
soltanto per un quarto.», le spiegò.
«Sai, le Rune bruciano sulla sua pelle in
modo leggermente diverso dal mio, o di qualsiasi altro comune
Shadowhunter… E guarisce
più in fretta rispetto a noi, anche senza usare l’Iratze. E, come avrai sicuramente notato,
la sua bellezza non è
terrena. Su questo ha preso da sua madre.»
Crystal sentì una fitta
al cuore. Pensò
alla prima volta che aveva visto Julie, il passo deciso mentre
attraversava la
sala, il corpo longilineo di una modella, i capelli ramati che le
contornavano
il viso lattiginoso. Riportò alla mente il ricordo di quel
volto ovale e
perfetto, senza l’ombra di un brufolo o una ruga
d’espressione. Ricordò anche
quando l’aveva rivista al Rifugio, claudicante e ferita, e
con una cicatrice
che le tagliava le labbra. Nonostante quel difetto così
evidente, aveva pensato
Crystal, Julie rimaneva perfetta come una bambola di porcellana.
«Crys», si
sentì chiamare. «Ci sei?»
La ragazza si rianimò
con un brivido e la
figura di Gabe nell’ombra si rimise a fuoco. Lo vide
leggermente proteso in
avanti, una mano a tenere aperta la porta dell’ingresso sul
retro del
supermercato.
«Ma
come…» Prima di terminare la domanda,
Crystal notò la runa di Apertura disegnata sulla maniglia.
Brillava di un tenue
bagliore azzurro.
«Sei pronta?»,
le chiese Gabe. «Se non te
la senti puoi rimanere qui. Ci metterò soltanto qualche
minuto.»
La luna proiettava dei riflessi argentati sui capelli di Gabe, facendolo quasi sembrare biondo, e accentuava le linee dure del suo naso e della sua mascella. Crystal rimase a contemplarlo per qualche secondo, prima di annuire con un velo di incertezza. «No, vengo con te.»
Ciao! Che ne dici di recensire? Ti ci vogliono soltanto due minuti e per me significherebbe molto! Grazie :)