Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: Manto    20/08/2016    17 recensioni
Prima classificata al contest "Situazioni XY" di Biancarcano e harriet;-) sul forum di Efp e vincitrice del premio speciale "XanaX".
Prima classificata alla sfida dei cliché indetta sulla pagina fb: "efp famiglia: recensioni, consigli e discussioni".
Ercolano, 24 Agosto, 79 d.C.
Due uomini, un servo e il suo padrone, e la morte: ricordata, temuta, combattuta, in una danza dove è soltanto lei, la grande montagna che sovrasta la città, a dominare.
Genere: Malinconico, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
pompei



L’Ultima Notte del Mondo




Ercolano, 24 Agosto 79 d.C., hora tertia [1].


Alzo la testa, un brivido ghiacciato che si fa strada nella carne, fino al cuore: un rombo cupo, intenso, serpeggia tra le colonne e i mosaici.
E poi, accade.

È un tremito leggero, appena percepibile, quello che increspa l’acqua nel ninfeo, riduce al silenzio le nostre voci e ferma le nostre mani; e per quanto cessi immediatamente, quasi fosse l’ultima immagine di un incubo, nessuno di noi osa muoversi, come se bastasse un solo, incauto movimento a far scuotere nuovamente la terra.
Per lunghi istanti il terrore ci stringe con i suoi artigli; poi la giovane Mirrina emette un gemito, e nascondendo il bel viso tra le mani scoppia in pianto e fugge nel
peristylium [2]. Nessuno di noi la ferma o la apostrofa con parole di rimprovero, ma in silenzio riprendiamo il nostro lavoro.
I minuti passano senza che più nulla accada, e la
domus ritorna a riempirsi di rumori e di ordini, di fruscii e passi affrettati; anche i singhiozzi di Mirrina finiscono per morire in flebili mugolii, e tutti ritornano tranquilli.
Io scuoto il capo nel tentativo di allontanare amari ricordi e sensazioni ancora più nere –
svaniranno mai dalla mia mente? –, e stacco la mano dalla colonna che sto pulendo e ripulendo forse da ore.
È la prima volta che vedo il marmo risplendere così.
Mi volto, e i miei occhi intimoriti incontrano quelli smeraldini, vividi, del giovane padrone. Dal suo sguardo profondo comprendo che mi stava osservando da tempo, con curiosità, come se
sapesse, e chino il capo.
Un mormorio diffuso, seguito da un grido acuto, supplicante, sale dall’
atrium e ferisce le nostre orecchie; odo poi un sospiro, e rialzo la testa appena il tempo di vedere lalta, slanciata figura del dominus allontanarsi, confondersi con le statue nella luce abbacinante che immerge il giardino.
Mentre lo osservo svanire, il cuore ha una stretta, un singhiozzo abbandona le mie labbra, lasciandomi sgomento e confuso; solamente il richiamo sussurrato di un altro servo mi libera dall
’orrenda sensazione che qualcosa stia per accadere.



Hora quarta.


Gli splendidi templi, le piazze e le terme sono deserte; solo il gorgoglio dell’acqua che scaturisce dalle fontane riempie il silenzio malato che imprigiona la città; e sono tanti giorni, ormai, che Ercolano trema.
Il rombo della terra squassata ci sta divorando lentamente la mente, conducendoci alla follia, e le notizie che giungono dalle città vicine non sono meno spaventose: in alcuni luoghi le fonti si sono prosciugate improvvisamente, mentre in altri emanano un odore ripugnante; sulle pendici del grande Vesuvio, nella notte, si vedono misteriosi fuochi e voci provenienti dal grembo della terra, e molti degli armenti che vi pascolavano sono morti [3].
Molti sono fuggiti in preda al panico, abbandonando ogni cosa: nelle
domus gli affreschi danzano sulle pareti senza nessuno a contemplarli, le placide ninfee si aprono solo per il cielo e le ricchezze giacciono dimenticate.
Quanto a noi, la malattia che da qualche giorno divora la nostra
domina ci impedisce di andarcene, e il padrone non abbandonerebbe mai la sua sposa.
Fermati, Aspasio.”
La gigantesca mole di Arianne mi blocca il cammino, le sue mani mi strappano dalle mani la pesante anfora ricolma d’acqua; ne osserva il contenuto, quindi il suo sguardo si rattrista, le sue labbra tremano.
Allora, la prendo per mano e la conduco via dai giardini, nell’angolo più buio delle cucine, dove nessuno può notarci; e qui la devo prendere tra le braccia, accarezzarla a lungo, per quietare il suo respiro affannoso e spingerla a parlare. “La padroncina si è risvegliata, ma... ma è come se fosse un’altra”, sussurra a fatica, dopo un silenzio teso. “Grida, geme, e ciò che dice non ha alcun senso. Per quanto continui a bere, la sua pelle è secca e bollente, il suo viso sempre più pallido; le labbra sono spezzate e sanguinanti... e gli occhi! Opachi, stanchi... così stanchi...” Una lacrima solca le sue gote purpuree. “Temo che entro la notte il male che nutre nel corpo se la porterà via. Quest’aria strana sta peggiorando ogni cosa, e...
e il mio ragazzo... il mio ragazzo sta impazzendo dal dolore a vederla soffrire così tanto; lo sento piangere, nella notte e nel giorno lo sento levare continue preghiere, una più angosciata dell’altra.
Aspasio... s
e la domina dovesse morire, lui la seguirà.” La sua voce si rompe, lascia sfuggire un singhiozzo per troppo tempo trattenuto. “La seguirà, comprendi? Se ne andrà con lei!”, grida, per poi affondare il viso nel mio petto e liberare un pianto così disperato da uccidere ogni possibile parola di conforto. Quello che ora rivela non è il dolore di una semplice balia, ma di una madre; e quando si stacca da me, il suo volto è quasi irriconoscibile da quanto è stravolto, eppure lei non tenta di nasconderlo. “Oggi è il suo dies natalis; chi potrà mai proteggerlo dal male? [4]” Si blocca, incapace di proseguire; indietreggia verso la porta, e dopo pochi istanti della dolce Arianne rimane solo il fruscio della sua veste che si allontana.
Le mie mani si chiudono, le unghie penetrano nelle carne; solo quando il battito del mio cuore è più calmo abbandono le cucine.
Immediatamente, percepisco sulla pelle la sensazione che un’ombra sia scesa sugli ambienti; sussurri e mugolii mi guidano verso il più lontano dei
cubicula che sorgono lungo l’atrium, fino a raggiungere quello padronale: e qui la porta semichiusa rivela, distesa sul largo talamo e a malapena nascosta dalle premurose ancelle, la figura della domina, che nel viso tirato e nel corpo scosso dagli spasmi reca ancora l’ombra della sua bellezza.
Seduto al suo fianco, incurante e sordo a tutto ciò che avviene intorno a lui, il giovane padrone le accarezza la fronte e le bacia le mani, senza sosta. Il pallore del suo viso e le labbra contratte mi riportano alla mente le parole di Arianne.
Improvvisamente, la
domina spalanca gli occhi e si riscuote dal torpore, si aggrappa con forza alle braccia dello sposo come se stesse per precipitare. “Amami”, dice, con la voce roca. Deglutisce, respira a fatica. “Amami un’ultima volta, perché presto sarai solo. Ho visto gli Inferi... mi stanno chiamando.”
Il
dominus chiude gli occhi, le sue palpebre tremano leggermente per domare il dolore; quindi annuisce e volge uno sguardo alle ancelle, che obbediscono al suo ordine silenzioso e abbandonano la stanza.
Con loro mi ritiro anche io, ormai consapevole dell’oscurità sempre più densa, intorno e dentro me.



Hora septima.



Il profumo intenso delle rose di Gallia riempie il tablinium [5] senza soffocare l’aria, mentre la rara bellezza dei loro cinque petali [6] rivaleggia con gli affreschi che le circondano, per poi vincerla.
Seduto al grande tavolo di pietra nera, il padrone accarezza lentamente lo straordinario dono giunto da Roma, poi lancia uno sguardo al lato opposto della stanza, dove un giovane dai capelli color grano e dallo sguardo infervorato si aggira senza pace.
“Ti prego di smetterla; non mi farai cambiare parere consumandoti i piedi”, mormora dopo un lungo silenzio.
Sei un folle!”, esplode l’altro, sferrando un pugno contro una parete.
Sono solo un uomo che teme per la salute della sua sposa.”
E che cosa pensi di ottenere restando ad Ercolano? Cecilia non guarirà a Roma, ma nemmeno qui; nemmeno gli Dèi potrebbero sanarla!”
Così i medici dicono.”
E tu sei così innamorato di lei da non crederci.”
Silenzio.

Marco, la situazione in queste zone è spaventosa.”
Lo vedo anche io quello che sta accadendo.”
E allora, se io fossi te... se io...”
Lo sguardo del
dominus si carica di lampi. “Forza, prosegui. Se tu fossi me, che cosa faresti?”
L
’altro deglutisce, ma non abbassa gli occhi; si avvicina al tavolo, afferra le mani dell’amico. “Partirei verso Roma, senza indugiare un solo istante. Ecco cosa farei.
Senza Cecilia, immagino.”
Il giovane china lo sguardo, imbarazzato, e il padrone volge il viso lontano da lui. “Non saresti l
unico”, sussurra, una bruciante amarezza nel tono.
Marco... non ti ha neppure dato un figlio.”
Silenzio.

Non pretendo che tu capisca o condivida i miei pensieri; ma non far entrare nella mia domus parole d’odio o biasimo contro Cecilia. Non vorrei mai allontanarti da me con ira e non desiderare più la tua compagnia.
Mi sei caro, amico mio, e non ti darei mai alcun motivo per scacciarmi; ma sono venuto qui per portarti a Roma. Stanne certo, riuscirò nel proposito, anche a costo di trascinarti.”
Allora, Gaio, dovrai rimanere qui ancora per molto... o forse solo per pochi giorni.”
E se in questi pochi giorni accadesse qualcosa?”
Gaio...”
Convincimi che tutto vada bene e che io non abbia alcuna ragione di preoccuparmi. Provaci.”
Il
dominus si volta verso di me, che fino ad ora sono stato in silenzio vicino alla porta, in attesa di comprendere per quale motivo sia stato chiamato con urgenza. “Avvicinati”, mormora, e il suo tono gentile non sfugge all’amico, che corruga la fronte e mi lancia uno sguardo penetrante.
Gaio è una delle persone più assennate e sagge che gli Dèi abbiano posto sulla mia strada, ma tiene così tanto a me che a volte queste doti vengono meno e lasciano il posto a timori ingiustificati. Ti ho chiamato per allontanare uno di questi.” Una pausa. “Io ero troppo piccolo quando successe e non ero neppure qui, quindi non posso rispondere; ma tu sì. Che cosa accadde qualche giorno prima del terremoto di sedici anni fa? [7]”
Le mie mani tremano leggermente, la voce diviene un sibilo.
Stabia. La mia domus... mio padre. Le mie mani sporche di sangue, le orecchie piene di grida... gli Inferi stessi. “N-non accadde niente, padrone. La terra tremò improvvisamente, senza che ci fosse alcun segno premonitore della sciagura imminente.”
Pensaci ancora qualche istante.”
Scuoto la testa, cercando di ricordare. “Non rammento alcunché, padrone.”
Le mie lacrime, quelle le ricordo bene: tante, tante lacrime. Un’intera esistenza svanita tra le rovine e la polvere.
Ci fu solo il terremoto, quindi.”
Sì, padrone. Soltanto il terremoto.”
Gli occhi scintillanti del
dominus si fanno attenti, mi scrutano a fondo; poi sospira, e la sua attenzione si sposta sull’amico. “Non ti devi preoccupare. Le scosse sono sempre più deboli, e presto cesseranno del tutto, come successe allora.”
La bocca dell
’altro si storce in una mossa di disprezzo mentre mi osserva, quindi si rivolge al dominus. “La parola di uno schiavo vale dunque più della mia?”
Una persona che ha già vissuto tutto questo, sia essa di condizione servile o libera, ha il diritto di parlare e di essere ascoltata.”
Un sorriso di scherno solca il volto del giovane. “E allora facciamolo parlare di più.” Si volta verso di me. “E in quanto alle morti insolite del bestiame, ai fuochi che danzano sul Vesuvio e al prosciugamento delle fonti che cosa sai dire, schiavo?”
Silenzio. “Non ho mai visto niente di simile.”

Come sospettavo: sei inutile.”
 “Frena la lingua, Gaio; non ti è permesso insultare i miei servi.” Il silenzio che segue sembra condurre verso il più furioso dei litigi, ma, ancora una volta, è il dominus ad allentare la tensione. “Ma tu non sei venuto qui solamente per portarmi via con te o discutere di morte e aria malsana, vero? Da quanto tempo è che non festeggiamo insieme il mio dies natalis? Ora che sei qui, non lasciamoci sfuggire l’occasione.
Passa qualche istante, quindi il volto contratto del giovane Gaio si distende lentamente in un sorriso, quindi annuisce, scuote il capo. “Sono uno stupido: passo metà dell
’anno lontano da te, e quando finalmente ti rivedo non faccio che iniziare discussioni.
Il padrone risponde al sorriso. “Io non sono da biasimare di meno, mio caro fratello. Aspasio, raduna gli altri servi: preparate subito il necessario per il rito, perché gli Dèi non sono pazienti né magnanimi con chi non rispetta i propri doveri.”

Obbedisco e lascio il tablinium; qualche istante dopo, latrium si riempie di voci concitate, mentre viene preparato l’altare e il fuoco, gli incensi e la focaccia bianca di farina e miele, con le candele pronte per essere accese e spinte ad ingaggiare una strenua lotta contro gli Spiriti maligni [4].
Avvolto nella veste cerimoniale, il
dominus compare quando ogni cosa è ormai pronta, con Gaio e Arianne al suo fianco; tuttavia, i festeggiamenti non hanno inizio fino a quando anche la domina, con l’aiuto di due ancelle, raggiunge il marito. Un silenzio rispettoso è il nostro dono per il padrone, perché il momento sia solo per lui e la sua sposa.
Ritorni questo giorno per anni e anni, mio signore”, mormora la padroncina, cercando di non mostrare la sua sofferenza; quindi un servo le porge la coppa ricolma di vino, e la cerimonia può avere inizio.
Il fumo del fuoco sacro e delle candele si eleva insieme all
’incenso e ai canti; e anche io, infine, riesco a mormorare una preghiera agli Dèi lontani.



Hora octava.



I giardini sono rimasti deserti, così che è solo dopo lunghi istanti, quando vi facciamo ritorno, che ci accorgiamo che qualcosa è mutato intorno a noi: nessun rumore, nemmeno il fruscio delle foglie nel vento, turba la strana quiete del perystilium, e un odore acre trasuda dal marmo; è lo stesso del pericolo imminente, quello che precede le tempeste e l’arrivo del terribile inverno.
La prima a rivelare l
’orrore è la domina: presa da una sorta di incontenibile frenesia, si libera dalla presa delle due ancelle incaricate di accompagnarla e corre verso il ninfeo; poi si ferma, e lanciata un’occhiata al sole si blocca, indietreggia per la paura.
Marco!”, urla spaventosamente, “Marco!”
Il padrone interrompe il suo discorso con l
’amico e lesto raggiunge la sposa, facendosi largo tra i servi atterriti e incapaci di muoversi.
La
domina alza una mano in risposta alla sua tacita domanda, e quando lui alza lo sguardo, i suoi occhi si caricano di sorpresa e confusione.
Lentamente ci avviciniamo lasciando la protezione del porticato, e i nostri occhi incontrano l
’impossibile: un’immensa nube bianca, silenziosa e viva, si eleva come un titano sopra il grande Vesuvio e si libra nell’aria; il vento la ghermisce, la trascina con sé verso Pompei. [8]


Non passano che minuti prima che il sole svanisca, inghiottito dalla nube.
Le mie percezioni abbandonano il corpo, perché è così che reagisco alla paura, allontanandomi da ogni cosa mi sia intorno e rinchiudendomi nel mio animo; e in questo modo giungono attutiti i gemiti, le preghiere, la lite furiosa che avvelena l
’aria mortifera.
Ti ho detto di lasciarmi! Lasciami andare!”
No! Non andrai da nessuna parte, ma rimarrai qui, dove sarai al sicuro!”
Una sottile pioggia di cenere accarezza i mosaici del ninfeo e scivola tra i fiori e l
’acqua, abbraccia le colonne e ricopre come un velo il volto delle statue, danza nell’aria e penetra con forza nella gola e negli occhi, facendoli ardere. Ma le parole che riempiono latrium sono ancora più acri.
Marco, Gaio, vi prego... non litigate...”, cerca di dire la domina.
Lasciami andare, per gli Dèi!”
Attendi ancora un poco, il tempo che tutto questo finisca!”
Non ho intenzione di restare un istante di più. Non vuoi venire con me? A questo punto non mi importa più. Ma io me ne andrò, me ne andrò da questa città maledetta!” Un grido roco. “Sì, gli Dèi vi hanno maledetto, tutti quanti! Tutti!”
Già da tempo, ragazzo.
La
domina abbassa il capo, un’onda color grano scende a nasconderle il volto. “Hai detto bene, Gaio. Gli Dèi mi hanno maledetto. Me, me hanno maledetto, non mio marito.” Una pausa. “Lui può venire con te.”
Il padrone, che fino a quell
’istante ha tenuto lo sguardo fisso sulle sue rose divenute dello stesso color della pietra, lo sposta sulla moglie; boccheggia, e afferrandole le braccia la scuote. “Che cosa stai dicendo?”
Lei lo fissa, la luce battagliera che illuminava i suoi occhi ora solo un triste baluginio. “Perché, amor mio? Il mio morbo distrugge i tuoi sogni e anche la tua vita. Perché ti lasci uccidere così?” Gli prende le mani, se le porta al volto. “Vuoi che io ritrovi la felicità? Segui Gaio. Lascia Ercolano e vai a Roma,
senza di me. Non proverò né invidia né ira se tra quelle antiche mura troverai un’altra sposa. Io sarò felice, se tu lo sarai; e sai bene che non puoi esserlo al mio fianco.
Il
dominus si stacca da lei, stringe i pugni fino a farsi sbiancare le nocche. “Chiama le serve, Cecilia, e fatti ricondurre al letto. La febbre si è presa anche le tue parole”, mormora, lo sguardo folle.
La padroncina non abbassa il suo. “Gaio, baderai a lui come se fosse il tuo più caro fratello, vero? Avrà bisogno di te.”
A quelle parole, il padrone indietreggia e si aggrappa alle colonne, lo sguardo che vola dall
’amico alla sposa. “Perché mi fate questo? Entrambi... io... io non...” La sua voce grida parole che non riusciamo ad udire, urla nel silenzio la sua rabbia; infine, lui abbassa lo sguardo al suolo per alcuni istanti, e quando lo rialza una lacrima imperla la sua guancia. “Questa è la dimora dei miei avi, di mio padre, mia. Gli alberi che custodisce sono cresciuti con me, gli occhi di queste statue mi hanno conosciuto ancor prima che fossi in grado di conoscere loro. Io non voglio andarmene... lasciare tutto questo alla polvere... non posso, non voglio!”
La
domina gli si avvicina, leggera come le rondini che tanto ama, e davanti ai nostri occhi gli cinge la vita con le sue braccia da fanciulla. “Io ti comprendo, mia vita, quanto ti comprendo. Questa dimora ha visto crescere anche me, non ricordi? Ero poco più di una bambina quando mi sciogliesti la cintura, e tu solo un giovane uomo.
Sono cresciuta tra le tue braccia e all
’ombra di questi soffitti, il respiro della tua casa è parte del mio quanto lo è del tuo.” Chiude gli occhi, le sue labbra tremano. “Ma dobbiamo accettare di lasciarla... e di lasciarci.”
Nessuno ha mai udito il pianto del padrone; ma ora le lacrime gli bagnano le mani come pioggia. “No, Cecilia. La abbandoneremo... insieme.” Quando rialza il capo, il suo sguardo è determinato, sicuro. “Spero che ci sia molto posto sulla tua nave, Gaio: perché saremo in tanti.” Senza attendere una risposta si volta verso di noi, ci guarda uno ad uno. “Cinque di voi rimangano con me, per aiutarmi a preparare ciò che non posso abbandonare. Tutti voi, portate solo il minimo necessario, ciò che avete di più prezioso, e restate pronti.”
Per qualche secondo nessuno si muove; poi, Gaio annuisce, la
domina si abbandona all’abbraccio del padrone e noi spariamo nella domus, resi ancora più veloci dal terrore di ciò a cui stiamo per sfuggire.



Hora decima.



Innumerevoli lucerne risplendono nelle stanze, per permetterci di vedere e portare a termine il prima possibile i nostri compiti: il cielo si sta già tramutando nella notte più nera che Ercolano abbia mai dovuto vedere.
Quei papiri, quei papiri! Presto, prendeteli!”
Tutte le coperte che potete trasportare, la domina ne avrà bisogno!”
Lasciate stare le statue, il padrone ha detto di occuparsi solo delle cose più leggere.”
Non puoi portare tutto! Non c’è spazio!
È in questo girotondo frenetico di passi in corsa, respiri mozzati dall
’ansia e lacrime che escono senza controllo, ordini e richiami, che la mano del dominus trova la mia spalla, la stringe con forza per avere la mia attenzione.
Alla mia espressione timorosa risponde la sua intensa, così profonda che mi pare di scrutare nel ventre del mare. “Seguimi”, dice, quindi mi conduce verso quella che è la sua biblioteca personale.
Io mi fermo a qualche distanza, tremiti gelidi che sconvolgono ben più che la mia carne. “Non posso... non posso”, dico d
’impulso, quasi urlando, gli occhi fissi sugli innumerevoli rotoli e papiri ordinatamente disposti sugli scaffali, fragili tesori svelati dalla porta socchiusa.
Puoi, invece.” Il padrone entra ma rimane sulla soglia, in attesa.
Una luce soffusa proviene dall
’ambiente... da un tempo lontano, che sembra sempre troppo vicino. Questo tempo porta con sé l’immagine di un’altra città, un’altra casa, un’altra biblioteca, dove un vecchio chino su un lungo tavolo cerca su di un papiro la via che conduce alla felicità.
Il vecchio alza gli occhi, ormai ciechi, e sorride.
“Aspasio, ragazzo mio! Epicuro non si lascia leggere dai miei occhi, ma sono sicuro che la tua voce lo saprà guidare fino a me.”
Aspasio.”
Riprendo il controllo sui miei pensieri, e vedo il
dominus porgermi un papiro. “Svolgilo”, mi ordina, e quando lo faccio – quanto tempo è passato? i miei occhi accarezzano lettere piccole, eleganti.
 “Omero”, mormoro, alzando lo sguardo, e vedo il padrone sorridere. “E da quando un semplice servo conosce il greco?” Non attende una risposta, ma mi passa un altro rotolo, e poi un altro ancora. Improvvisamente si ferma, ne apre uno. “Mio padre mi donò la sua intera biblioteca quando ero ancora un bambino”, dice senza staccare gli occhi dal papiro, quasi parlasse a sé stesso, “e sempre quel giorno, quando ritornò dal foro, tu eri con lui: un uomo alto, dai tratti non raffinati ma dalle mani splendide, senza un’imperfezione... mani non segnate dal lavoro, abituate ad amoreggiare con le parole e lo stilo. Mani che tremavano ancora, ma non per la paura di ciò che lo aspettava, ma per ciò che già era avvenuto.
Una pausa.

Mio padre ti aveva comprato perché tu divenissi il mio precettore: era tempo che gli antichi mi facessero udire la loro voce e io imparassi ad ascoltarla, e solo a pochissimi, a chi non voleva ascoltare, era sconosciuta la tua cultura. Il tuo padrone – padre – ti aveva reso così ricco di mente e saggio da renderti sgradito ai più, ma ammirevole agli occhi di chi, come la mia famiglia, pensa che gli schiavi non siano bestie, ma uomini, uomini come tutti gli altri.”
Chiudo gli occhi.
Non ho mai udito parlare con tanto amore dell’uomo al quale devo la vita, e ogni felicità.
Il tuo destino sembrava essere già stato scritto: mi avresti educato, mi avresti condotto sulla strada della filosofia, della poesia... ma tu hai rifiutato. Non sei nemmeno entrato nella biblioteca... non l’hai mai fatto. Eppure, il modo in cui parli... in cui osservi il mondo, ti rende diverso.
Sei esperto, sapiente... e sempre così triste.”
Smette di parlare, e io rimango in silenzio. Ma non per molto. “È accaduto così velocemente, padrone, che neanche io riesco a ricordare perfettamente come avvenne.
Il pavimento, le pareti tremarono, si spezzarono; ed è stata lei... la biblioteca... a separarci. Il
dominus... mio padre... non aveva ascoltato le mie grida che lo imploravano di uscire, forse non mi aveva neppure sentito. Cercai di raggiungerlo: i miei piedi si aprivano una via tra i mosaici rovinati e le statue distrutte, le mie braccia tentavano di afferrarlo, di trascinarlo con me... ma il soffitto lo raggiunse prima.” Deglutisco. “Non sono più riuscito a guardare un papiro. Sento la mancanza delle parole dei poeti... ma ne provo orrore. Ogni volta che vedo un rotolo, rivedo anche il sangue, e...” E il silenzio.
Il
dominus annuisce lentamente. “Lo so; e ho sempre compreso la tua scelta di essere un comune servo, anche se non lo sei mai stato.”
Sospiro. È ora di essere forti, e sinceri. “Anche tu sei sapiente, padrone, e saggio,
umano. Io vorrei... vorrei che tu non fossi così.”
Perché dici questo?”
Forte. Sincero.
“Perché sei come mio padre. E come lui, sembri cieco alla morte.”
Il
padrone volge lo sguardo lontano da me. “Ti sbagli. Io la vedo; ma non la accetto... io la combatto.” Si avvicina, mi prende dalle mani i rotoli e li ripone in un grande baule alle mie spalle. “La combatto in ogni modo, anche se non c’è alcuna speranza di vittoria. Ho lottato contro di lei fin dal primo momento che vidi questo mondo, e non ho mai smesso.
Fruga dentro il baule per qualche istante, quindi ne trae un oggetto tondo, avvolto accuratamente in un panno bianco; lo svolge, e la sua
bulla [9] risplende alla luce delle lucerne. La osserva per qualche istante, poi la ricopre nuovamente e la rimette al suo posto. “Perché dovrei arrendermi proprio oggi, nel giorno che mi ha consegnato alla vita?”
Non rispondo, e lui non prosegue.


Nel quasi totale silenzio apro e richiudo rotoli e rotoli, aiuto il dominus a riporre i più importanti nel baule pressoché vuoto.
Lui aggiunge poi qualche veste e tutto ciò che gli è più caro: accanto alla
bulla ripone il bracciale opalino della domina, quello che indossava quando lui la sposò, e un suo mantello; le rose che Gaio gli ha portato da Roma, l’anello che ha ereditato dal padre, le statuette dei Lari, protettori della famiglia.
Questi sono per te, Aspasio”, dice, prima di chiudere il pesante coperchio, consegnandomi tre papiri.
Padrone... non posso accettarli.”
Un sorriso amaro si dipinge sul suo volto. “Prendili comunque. Sono stati loro a renderti tale.”
In ogni aspetto di me.
Accetto, seppur con riluttanza, e a quel punto il padrone mi indica la porta. “Ora vai, preparati. Partiremo tra poco”, mormora.
Obbedisco, e dopo qualche tempo, uno dopo l
’altro, guidati da Gaio e dal padrone, abbandoniamo la domus che ci ha protetto fino ad ora, sapendo che non vi ritorneremo più. La cenere ci avvolge, ci stritola e riempie la gola appena i nostri piedi calcano le pietre della strada: è viva come la nube che ruggisce sul nostro capo.
Mi metto a correre; poi mi fermo, confuso. Non sento più nulla, non vedo niente.
Tendo le mani davanti a me: stringo solo nebbia, o buio.
Che cosa sta accadendo?



Fine della prima vigilia. [10]



Il rombo delle onde contro il porto e grida laceranti mi riscuotono con violenza, mi spingono ad aprire gli occhi e comprendere che... che sono disteso al suolo. Che non ricordo nulla di quello che è accaduto... e che sono solo.
Solo.

Gaio... Cecilia! Arianne! Dove siete?”, cerco di gridare, ma le parole, il mio stesso respiro sono solo un refolo di cenere che abbandona la mia bocca con lentezza, quasi con pigrizia.
Mi alzo sui gomiti, incurante del dolore che devasta anche le ossa.
La pioggia
cenerina è cessata, ora questa è divenuta una coperta grigia che ricopre cumuli informi, immobili, che si stagliano contro le tenebre sempre più fitte. No... grandi Dèi, dove siete?
Mi trascino verso il corpo – perché è un corpo, non mi devo illudere – a me più vicino, e lottando contro il mio stesso terrore –
fate che non sia Cecilia... non la mia Cecilia –, lo afferro e lo giro verso di me, pulisco il suo volto per riconoscerlo: è un giovane, poco più che un bambino, che non ho mai visto.
Lo lascio andare, abbassandogli le palpebre sugli occhi spenti, e mi trascino di cumulo in cumulo, togliendo la cenere, abbracciando corpi di sconosciuti e scoprendo anche quelli, invece, di alcuni dei miei servi.
La mia bocca non emette un grido, la voce se ne è andata per sempre;
le mie orecchie a malapena odono i gemiti dei sopravvissuti al soffocamento, i miei occhi spalancati non sentono neanche il dolore delle lacrime, mentre fissano le mani di Nigro, il più piccolo fra di loro, protese verso il cielo, verso quelle fredde stelle che non avrebbero mai potuto aiutarlo.
Le bacio, accarezzandogli i capelli dorati, e quando lascio cadere la mano il mio pianto si libera, sale come il volo di una colomba.

Cecilia... Cecilia, dove sei?”, riesco a mugolare, prima di rimettermi a vagare, in ginocchio, incurante della preziosa veste che si lacera sulle pietre, del mio sangue che stilla da ogni graffio, bagnando la strada.
La cerco,
li cerco: lei, Gaio, Arianne... Aspasio. Lui sapeva, lui vedeva... e io, sordo, non ho voluto dargli ascolto. “È tutta colpa mia. Colpa mia! Sono stato io a portare la morte!” La mia gola esplode in un urlo che rivaleggia con l’oscurità da quanto è terribile, la disperazione che in questi giorni ho domato ora cammina al mio fianco.
E grido, ancora e ancora, strappandomi i capelli fino a non sentire più niente, la testa che pulsa, le mani che tremano.
Morire nel giorno della propria nascita... non è lecito..., continuo a ripetere nella mia mente; ma, in verità, sono già morto.
Basta cedere, Marco. Solo cedere... e troverai la pace. Che cosa ti resta?
Resisto ancora per qualche istante, e continuo ad affrontare il marchio della morte, impresso su ogni volto che le mie dita sfiorano: non mi fermo nemmeno quando il mantello scarlatto di Gaio lambisce i miei piedi, svelandomi il corpo del mio migliore amico.
“Mi dispiace, fratello”, mormoro. “Ci rivedremo.”
No, Marco; è ora il momento. Anche i più valorosi guerrieri devono arrendersi al suo canto. Hai combattuto bene, ma la battaglia è cessata.
Chiudo gli occhi.
Le mie gambe ritrovano la loro forza e mi permettono di alzarmi, gli occhi vedono distintamente, ora: sopra il mio capo, una danza di fulmini scarlatti e lingue di fuoco si alza dal grande Vesuvio e fende il buio, un boato scuote la terra. Ma non me.
Lasciati andare.
I miei piedi mi guidano verso il canto del mare. È vicino, a qualche passo.
Lasciati cullare.
Avanzo.
Abbandona ogni cosa.
Cecilia, Arianne... non le cerco; così, posso abbracciare la speranza che,
in qualche modo, si siano salvate.
Vento rovente e acqua gelida mi colpiscono il volto; mi lascio cadere.
Le mie mani toccano la pietra: non mi importa del troppo sangue che mi abbandona.
Un
’immensa onda di fumo e tempesta rotola lungo il fianco della montagna, verso di me. Mi alzo in piedi, attendo: un pensiero folle – o forse no – mi fa compagnia. Morire nel giorno della propria nascita non è lecito; ma morire insieme al mondo è diverso.
Questo giorno è diverso dagli altri; forse non sarà mai dimenticato.

Sarà immortale, Marco.
Come
tutti voi.




NOTE


[1] Corrisponde all’ora che va dalle otto alle nove del mattino. I Romani iniziavano a contare le ore dalle sei, denominandole prima, secunda, etc.

[2] I ninfei sono strutture inizialmente dedicate alle ninfe, con molteplici vasche e piante acquatiche, spesso ornate con meravigliosi mosaici. Il peristylium è invece il porticato colonnato che circondava il giardino interno, dove sorgeva il ninfeo.

[3] Questi segni promonitori dell’attività vulcanica sono riportati nelle fonti storiche.

[4] Il giorno del proprio compleanno. Si credeva che in quel giorno gli spiriti maligni potessero colpire con maggior forza: quindi, indossata una veste bianca – che veniva messa solo in quell’occasione, si officiava un rito volto a scongiurare il malaugurio, e veniva fatta una torta tonda sulla quale si accendevano delle candele: il fuoco teneva lontano gli spiriti maligni, il fumo che saliva dopo averle spente li scacciava.

[5] Lo studio del dominus, dove si trattavano gli affari.

[6] Si tratta di una varietà di rosa molto amata dai Romani. È rappresentata in molti affreschi rinvenuti a Pompei ed Ercolano.

[7] Nel 62/63 ci fu un grande terremoto che sconvolse tutta la zona vesuviana, causando ingenti vittime e danni. Tra le città colpite, Pompei, Ercolano, Napoli, Nocera, Stabia.

[8] Verso l’una del pomeriggio (sul finire dell’hora septima), il Vesuvio iniziò ad eruttare: una nube di lapilli e cenere fuoriuscì dal vulcano e, trasportata dal vento, investì Pompei e Stabia, causando molte vittime. Ercolano, invece, in quelle ore fu risparmiata.

[9] Quando nasceva un maschio, a questi veniva donata la bulla, un amuleto. Il bimbo doveva tenerla fino a quando diveniva un cittadino romano (a sedici anni), portandola al collo come un medaglione.

[10] Corrisponde alle ore che vanno dalle sei alle nove di sera. Ercolano fu colpita dalla prima colata piroclastica tra le nove e le undici.




ANGOLO AUTRICE

Salve a tutti :)
Come mostrato nel disclaimer, il prompt assegnatomi era descrivere un compleanno disastroso, e le idee erano tante, anche se non tutte congeniali o fattibili; la recente lettura del bellissimo libro: “Pompei è viva” della Cantarella mi ha dato lo slancio giusto per creare questa storia.
Inizialmente doveva parlare Marco in prima persona, e non Aspasio; poi ho cambiato, lasciando che fosse Aspasio a parlare e lasciando solamente la parte finale al triste e dolce
dominus: un personaggio che definirei tragico, nel suo opporsi ad una sorte inevitabile.
Ho scelto di ambientare la vicenda ad Ercolano perché quando si parla dell’eruzione del Vesuvio si pensa solo a Pompei, dimenticandosi delle altre cittadine che subirono la medesima crudele sorte: Ercolano, appunto, ma anche Stabia.
Ercolano ebbe realmente una sorte diversa da Pompei, perché evitò la pioggia di lapilli, subendo solo quella di cenere, ma fu investita dalla prima colata piroclastica e sepolta (Pompei cessò di esistere alle sei del mattino successivo, quando una seconda e terza colata, una a poca distanza dall’altra, si abbatterono su di lei); ed è anche vero che coloro che non erano scappati prima dell’inizio dell’eruzione – circa trecento persone – tentarono di rifugiarsi sul porto per salpare; e qui trovarono la morte, come ci viene testimoniato dai molti corpi rinvenuti durante gli scavi archeologici.
Alcune fonti ci testimoniano anche
il fatto che molte persone, pochi giorni prima della tragedia, abbandonarono la cittadina per le continue scosse sismiche (e il timore di qualcosa di peggiore).
Il titolo riprende una frase di Plinio il Giovane, che in una lettera, descrivendo l’eruzione, dice che coloro che la subirono credettero che gli Dèi li avessero abbandonati e fosse giunta “l’ultima notte del mondo.”
Ok, credo di aver finito con le note XD
Spero che la storia possa piacervi, e alla prossima :)


Manto


   
 
Leggi le 17 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Manto